Una storia nuova
nuova,
forse un po’ triste,
forse solo consapevole.
A chiunque si
avventuri, grazie… E Buona lettura!
Involucro
Era affascinata dal cielo
di notte, quello rosa, coperto, striato.
E quella sera pioveva a
dirotto: ne fu felice. La Spenta ne fu felice.
Il tramonto stava
risucchiando inosservato una giornata angustiata da sensi di colpa e di
inettitudine.
Un
altro giorno. Sono sopravvissuta anche oggi. Pensò.
Spolverò il
comò che
troneggiava grasso nel corridoio, vedendo controluce la polvere danzare
divertita.
Non.
Sono. Capace.
Spolverò più
forte.
Sono.
Una. Fallita.
Cadde il primo
soprammobile finto e indesiderato.
Merito.
Solo. Il. Peggio.
Il centrino ingrigito
trascinò giù nella rupe un vasetto di coccio
colorato e un posacenere
d’argento, mai utilizzato.
Con rabbia, iniziò a
calpestare tutto quel ciarpame, grugnendo più che urlando.
Poi iniziò a
strepitare, agitando le braccia, come un’ossessa.
Sono. Pure. Pazza. Farfugliò,
con risatina degenere.
La gola iniziò a far male,
tanto cercava di sopprimere –male- quei latrati.
Molle e debole, come un
biscotto rimasto nel tè bollente per troppo tempo.
Andò ad aprire la porta.
Era sicura che loro fossero là.
Un uomo vestito
d’organza,
maggiordomo silenzioso e raffinato.
Una bambina con la
cravatta gialla.
Un ragazzo coi denti
storti e gli occhi blu.
Entrate.
L’avrebbero fatto
comunque.
La bambina con la cravatta
gialla andò in cucina a prendere una piccola scopa munita di
paletta. Rassettò
il corridoio lastricato di vergogna e se ne stava lì, buona
buona, riavviandosi
la cravatta come una sciarpa, per non farla strusciare per terra.
Il ragazzo invece
abbracciò La Spenta. Le regalò una penna con
l’inchiostro verde e spiritoso.
Dobbiamo
parlare.
Mugugnò serio. La Spenta ne fu atterrita.
Il maggiordomo preparò
in
un baleno dell’ottimo caffè americano. Lo pose in
una bella brocca smaltata e in
un vassoio depose quattro tazze dipinte di fiori e paranoie. Il
centrino finì
in una bacinella con dello sbiancante: la bambina sapeva che solo
l’uomo
vestito d’organza gli avrebbe ridonato l’antico
splendore.
“Hai passato nuovamente
la
tua giornata a farti del male, vero?”
Il ragazzo coi denti
storti lo sussurrò, sibillino.
“Non piangere
più…”
Continuò, affranto.
“Non ho più
lacrime, sai?”
Aveva il colore di un’affermazione travestita da domanda
arrochita.
“Lo dicono tutti, ma non
è
vero per nessuno. Non piangere più! Non farlo!”
La Spenta annuì, debole
come uno scroscio di nevischio, impercettibile.
“Te lo prometto.”
La bambina prese una tazza
di ceramica, che mostrava imperiosa immagini di cartoni animati degli
anni
novanta. La carezzò, con fine delicatezza e poi
s’arrabbiò: non si intonava
affatto alla sua cravatta. Imprecò con un grugnito malmesso,
poi sorrise e si
scusò.
Il maggiordomo ridacchiò,
versando caffè nelle altre tazze. Aspettò che
tutti fossero comodi nel divano e
si sedette anche lui, osservando gli altri sorseggiare la bevanda nera.
“È caldo, e buono.” La
Spenta lo disse di tutto cuore, trovando tutti d’accordo con
lei.
I denti storti del ragazzo
sussultarono al calore del caffè. Mangiò del
ghiaccio per spegnere il dolore e
fissò con amore la bambina e il maggiordomo.
Quest’ultimo prese la
parola, schiarendosi prima la voce, percorrendo il giro di do. Al sol
settima
iniziò a parlare. “Amica, verremo a trovarti
sempre, ma dobbiamo capire se lo
vuoi davvero.”
“No.”
E tutti se ne stupirono.
“No?”
Replicò la bambina,
scolando le ultime gocce e facendo cicalare la tazza sul tavolino di
vetro
opaco.
“Sono un abominio, ma non
una vittima! Andate via!” Urlò.
“Sparite, non voglio la vostra pietà! Faccio
schifo, lo so, sono un involucro di melma bastarda! Non sprecate il
vostro
tempo con me! Non ve l’ho mai chiesto! Sparite! Sparite dalla
mia vista! Fuori
di qui, fuori!”
“Andiamo.” Il
maggiordomo
buttò tutto giù dal tavolino e le tazze e la
caraffa si ruppero malamente.
Riusciva comunque a emanare fastidiosa compostezza, nonostante il
momento poco
elegante.
La Spenta iniziò a provare
a piangere, ma il dolore era troppo e non usciva dai suoi occhi la
minima
lacrima. Niente.
Niente.
L’organza
dell’abito
dell’uomo tintinnò, soffocata.
La bambina si ribellò, in
ansia, stringendosi la cravatta al collo come per ricomporsi e
soffocarsi.
“No! Non capisci che
chiederci d’andar via è la più grande
prova di volerci qui, con lei?”
“È
vero,” aggiunse il
ragazzo, “cosa ti prende? Dai di matto? Abbracciamola e
facciamola finita.”
Il maggiordomo rise sguaiato
e istigatore.
“Fate come volete,
giovinastri. Ma imparerete presto ad andarvene, ve lo assicuro. Poi, il
caffè.
È ora che impariate a farvelo da soli.”
Sbatté la porta e tutti
rimasero a bocca aperta, terrorizzati da tanta malvagia saggezza di
adulto.
La
Spenta iniziò a pulire,
con un secchio blu e uno straccio biancastro.
Passarono i minuti
seguenti a scuotere il capo, non sapendo cosa dire.
“Che condanna tremenda,
questo silenzio.” La Spenta lo pensò greve.
Ad un certo punto
[sembravano passati anni] la bambina schioccò al ragazzo uno
sguardo di
spergiurata intesa. In tutta risposta, lui fece risplendere i dentini
storti.
Si alzarono e andarono
verso la porta.
Chiusero a chiave e
guardarono la padrona di casa, catatonica sul divano.
“Tieni la chiave,
così
saprai che non andremo via.”
La Spenta sorrise, poco
convinta. Poggiò la chiave che le avevano teso sul tavolino
di vetro opaco e
notò che risplendeva come ottone svigorito.
Apprezzò commossa la loro
voglia di esserci, anche se sapeva
che sarebbero cresciuti anche loro, molto presto.
Si accese una sigaretta e
la bambina e il ragazzo le fecero compagnia.
Trovò la nicotina
assassina e affascinante.
Usarono tutti e tre
l’intonso
posacenere d’argento e canzonarono lo sventurato oggetto per
il resto della
serata.
***
Grazie con tutto il cuore
a chiunque sia giunto sin qui.
Fiori,
caffè e gioia a
voi.
Kuroi