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Autore: A li    03/02/2012    5 recensioni
Nei giorni in cui mi perdevo correndo per la foresta, mi era capitato di ripensare a quel momento.
Al volto di Ino che si illuminava sorridendo, alle sue sopracciglia aggrottate, fin troppo – esagerava sempre con le espressioni facciali.
Mi ero detto che ero felice di essere in squadra con una come lei, così espansiva, così entusiasta: era il perfetto contrappeso per bilanciare una persona come me. (...)
Chissà perché, mi ero sentito rabbrividire.
Mi sarebbe piaciuto sposare Ino.
[ShikaIno]
[Shikamaru's POV]
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Asuma Sarutobi, Choji Akimichi, Ino Yamanaka, Shikamaru Nara | Coppie: Shikamaru/Ino
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Naruto prima serie
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Il cervo che afferrava le nuvole

Il cervo che afferrava le nuvole

 

Note:

Il cervo che afferrava le nuvole è una piccola creazione ispirata dall’immagine che vedete sotto, e che appunto è diventata l’immagine della storia. Inizialmente volevo solo inserirla perché la trovo meravigliosa, ma alla fine è diventata il filo conduttore di tutta la vicenda.

   L’ambientazione potrà sembrarvi un po’ vecchia, ma il fatto è che sto leggendo il manga dall’inizio e sono arrivata appena al numero 16, per cui tutti gli avvenimenti successivi mi sono sconosciuti. Dunque, il tutto si svolge intorno all’Esame di selezione dei chunin.

   Il mio intento era quello di indagare a fondo il personaggio di Shikamaru, ricamarci un po’ sopra, scavare all’interno della suo cervello così particolare. In questo senso, il pairing ShikaIno probabilmente è solo accessorio.

Buona lettura!

 

 

 

 

Cervo.

A volte mi capitava di pensarci, specialmente nei giorni in cui il sole brillava in modo accecante e fastidioso, ferendo gli occhi che si distraevano incauti ad osservarlo. Erano giorni in cui mi ritrovavo sempre, senza motivo, a camminare nella foresta, oppure su per le colline. Spesso correvo veloce, velocissimo, seguendo la direzione capricciosa del vento, allargando le braccia per sollevarmi in volo – senza riuscirci – fino a stancare tutti i muscoli del mio corpo, anche quelli più piccoli e nascosti, apparentemente inutili.

A quel punto, mi sentivo pieno.

Il fiato mi sfuggiva dalla gola mentre ansimavo rauco, i capelli si slegavano dalla coda in cui li costringevo ogni giorno, il petto si alzava a singhiozzi. Mi gettavo a terra in un prato cosparso di sottilissimi fili d’erba, guardavo il cielo, mi ferivo volontariamente gli occhi con i raggi del sole che penetravano la pelle. E sorridevo. Allungavo la mano e afferravo le nuvole – non ci voleva poi tanto sforzo, nemmeno da laggiù; ma erano tanto inconsistenti e imprevedibili che mi scappavano subito, e non tornavano più indietro.

Mi sentivo pieno perché mi ero svuotato.

Vuoto di ogni pensiero, ogni forza, ogni riflesso. Se in quel momento un nemico mi avesse attaccato o il ramo di un albero mi fosse caduto addosso, io non avrei reagito. Nemmeno la forza di volontà mi sarebbe corsa in aiuto, perché non avevo più energie. E soprattutto, non mi sarei chiesto perché. Avrei accettato la morte a braccia aperte, avrei addirittura sorriso.

Ecco perché amavo tanto quei momenti.

Perché per una volta nella mia vita non pensavo a nulla e lasciavo la mente sgombra libera di correre dietro alle nuvole, libera di staccarsi dal mondo e volare via.

Quei momenti, ovviamente, non duravano che alcuni istanti.

Poi la mia mente instancabile ritornava a funzionare, a girare come una manovella sempre pronta ad azionare i marchingegni.

Così, guardando il cielo e il profilo nodoso degli alberi dietro di me, appena oltre la radura, mi capitava di domandarmelo. Cervo. Perché i miei genitori avessero deciso di chiamarmi cervo, davvero non lo sapevo. Quando mi guardavo allo specchio mi dicevo che era perché sapevano che avrei scelto di legarmi i capelli così, tutti i giorni, dritti sulla testa come un palco di corna. Ma subito dopo facevo una smorfia, e mi sentivo ridicolo.

 

Non era raro che concedessi del tempo a me stesso, come nei giorni di sole.

Scappavo di casa senza domandare il permesso, a volte saltavo anche gli allenamenti con Asuma, ignoravo le occhiatacce di Ino, sempre a pochi passi da dove mi trovavo, che si lamentava perché diceva che era colpa mia se continuavamo ad essere la squadra di esordienti più debole. Choji era l’unico che non mi dicesse nulla, come se non gli importasse o come se capisse la mia scelta e la accettasse, mi faceva soltanto l’occhiolino e mi salutava con la mano. A volte aggiungeva: «Ci vediamo domani mattina, ninja». Sapeva sempre quando mi sarei presentato da Asuma e quando non l’avrei fatto e ancora non capivo come facesse.

Un giorno Ino si mise ad aspettarmi davanti alla porta di casa e, a gambe larghe e braccia conserte, mi sbarrò il passaggio.

«Shikamaru Nara, assumiti le tue responsabilità. Fra pochi giorni inizia l’esame di selezione dei chunin, non vorrai farci perdere subito?»

Non avevo avuto nemmeno il tempo di replicare, perché aveva continuato per la tangente.

«Se non mi ascolti, ti costringerò con la forza».

Il pensiero di dover combattere contro di lei – per di più inutilmente – mi aveva fatto salire la nausea. L’avevo guardata un momento, con quel suo cipiglio severo, estremamente seria, e alla fine avevo semplicemente sbuffato.

«Odio combattere contro le ragazze».

Ino aveva sorriso spingendo gli angoli della bocca ai limiti del possibile e mi aveva preso per un braccio, saltellando felice verso il campo degli allenamenti. «Asuma sarà felicissimo!», cinguettava.

 

Nei giorni in cui mi perdevo correndo per la foresta, mi era capitato di ripensare a quel momento. Al volto di Ino che si illuminava sorridendo, alle sue sopracciglia aggrottate, fin troppo – esagerava sempre con le espressioni facciali. Mi ero detto che ero felice di essere in squadra con una come lei, così espansiva, così entusiasta: era il perfetto contrappeso per bilanciare una persona come me. Non mi ritenevo esattamente un peso, perché altrimenti avrei abbandonato all’istante la squadra, ma a volte mi sembrava che, senza di lei, tutto il percorso che Choji, lei ed io stavamo facendo avrebbe perso colore, sfumature, quasi un po’ di senso.

Chissà perché, mi ero sentito rabbrividire.

Mi sarebbe piaciuto sposare Ino.

Sarebbe stata un’ottima moglie, un po’ burrascosa, ma perfettamente combaciante, come se io e lei fossimo i due pezzi di un filo d’erba strappato. Di riflesso, afferrai uno di quei fili d’erba e lo spezzai, ma invece di ridursi a due pezzi, quello si smembrò in tre parti.

Lasciai che le mie labbra sorridessero. Lanciai il filo d’erba lontano.

Era impossibile. Ino era innamorata di Sasuke Uchiha e ci sarebbe stato sempre e solo lui nella sua testa. Se c’era una cosa che sapevo di lei – e ormai la conoscevo bene – era che, una volta presa una decisione, non tornava sui suoi passi.

Era decisa, era forte. Era incontrastabile. E non l’avevo mai vista perdere davvero.

Risi, di una risata amara e leggera allo stesso tempo.

Sì, mi sarebbe piaciuto sposarla.

 

« Io volevo diventare un ninja qualsiasi e guadagnare normalmente. Volevo sposarmi con una donna né bella né brutta, avere due figli, prima una bimba e poi un maschietto e infine ritirarmi dall’attività quando la figlia si fosse sposata e il figlio fosse diventato adulto. Avrei desiderato trascorrere con mia moglie una vita tranquilla (…) per poi morire di vecchiaia prima di lei.

Volevo una vita così».

 

Invece, andò diversamente.

 

Fu una strada a senso unico e a fondo cieco, senza possibili deviazioni né scorciatoie. Ma di questo mi resi conto soltanto alla fine del percorso. Sul momento, mi sembrò di trascorrere la mia esistenza nella solita nebbia grigiastra da cui mi sentivo abitualmente circondato. Capitava che delle mani bianche, a volte magre e sottili, a volte paffute e potenti, mi raggiungessero, ma era molto raro e anche in quei momenti mi ritraevo. Non che il loro tocco mi desse fastidio, ma amavo la mia nebbia e mi sarebbe piaciuto rimanerci fino alla fine.

Imboccai la strada a senso unico quando, in uno di quei giorni di sole accecante, mi attraversò la mente quello strano e abbagliante pensiero. Mi piacerebbe sposarla.

Inconsciamente, il mio corpo e il mio cervello scattarono. Asuma diceva che avevo una mente superiore alla norma e fu in quell’occasione che me ne resi conto: il mio cervello aveva intuito le mie intenzioni prima che la mia coscienza le capisse e le accettasse, per questo decise spontaneamente di imboccare la strada a senso unico.

 

Il primo passo non fu mio e accadde in una notte soffocante di calura estiva.

Ero salito sul tetto della mia casa e mi ero sdraiato sulla pietra, benché fosse calda per tutto il sole ricevuto durante il giorno. Il tepore riusciva ad assopirmi molto di più del dondolio dell’amaca in cui dormivo.

Improvvisamente, percepii un fruscio accanto a me. Scattai sull’attenti, aprendo gli occhi che avevo chiuso e afferrando d’istinto un kunai. Prima che me ne rendessi conto, avevo puntato l’arma alla gola di Ino, scossa dai tremiti.

«Ino?»

La guardai sorpreso, confuso e un po’ risentito, anche se solo più tardi capii che era perché mi sentivo invaso nella mia sfera personale. La notte era ombra e come ombra apparteneva a me soltanto.

Ma Ino mi puntava addosso i suoi occhi impauriti e spalancati, perciò non potei fare altro che tacere. Le sue labbra, rosse, leggermente dischiuse, tremavano insieme alle sue guance.

Mi domandai perché.

Dopo qualche attimo di silenzio, abbassò lo sguardo.

«Posso restare qui?»

Non disse con te, non disse aiutami.

«Certo», replicai, prima di rendermene conto.

Ormai ero abituato e lasciavo che fosse il mio cervello a decidere per me. Era sempre il più veloce e non sbagliava mai direzione.

Per questo quando, più tardi quella notte, il mio cervello mi ordinò di abbracciare Ino, di stringerla, di non lasciare che fuggisse via la mattina dopo, spaventata e delusa dalla mia freddezza, lo ascoltai senza oppormi.

Allungai le braccia verso di lei e la circondai, sentendo i suoi muscoli tesi e un sudore freddo impercettibile sulla pelle. Mi avvicinai e le passai un braccio dietro la nuca.

Subito non fece nulla, ma non passò che un attimo e aveva afferrato le mie spalle, affondato il viso nel mio petto e aveva cominciato a singhiozzare. Ero sicuro di aver sentito la sua gola mandar giù nodi e nodi per trattenersi, ma sapevo che era inutile. Era giusto così, era giusto che si sfogasse.

La tenni stretta per tutta la notte e lasciai che piangesse. Quando alla mattina si alzò e saltò giù dal tetto senza una parola, non mi risentii del suo gesto.

Guardai il sole, allungai la mano per afferrare le nuvole, ma questa volta non ne fui capace. Avevo imboccato la strada a senso unico.

 

«Non devi affaticarti troppo».

Ma Asuma sprecava fiato inutilmente, perché quel giorno Ino sembrava sorda. Continuava a sferrare pugni nel vuoto, ad incrociare le mani e ad impastare chakra, a tentare la tecnica del capovolgimento spirituale anche con piante e pietre. Non capivo cosa stesse facendo, nessuno di noi lo capiva. Choji si agitava inquieto sulle gambe e sbocconcellava più cibo del solito – se capiva me, lo stesso non valeva per Ino. Asuma si limitava a lanciarle occhiate preoccupate e poi mi guardava, ma io alzavo le spalle: bloccarla era inutile, lo sapevamo tutti, l’avremmo solamente fatta arrabbiare.

Perciò la lasciammo fare, almeno finché non fu chiaro che davvero c’era qualcosa che non andava. Ino crollò improvvisamente a terra dopo aver tentato di impastare altro chakra e rimase ansimante con una guancia schiacciata contro il terreno. Asuma corse subito da lei e tentò di sollevarla, ma Ino si ribellò con tanta forza che riuscì ad allontanarlo da lei.

«Ino!»

Asuma gridò. Non l’aveva mai fatto prima. Choji e io restammo immobili, nessuno fiatò. Alla fine Asuma si avvicinò ad Ino e posizionò un suo braccio sulle proprie spalle, in modo da rimetterla in piedi; Ino tentò ancora di ribellarsi, ma con meno forza. Aveva il volto pallido, le guance scavate, il sudore che le imperlava la fronte. Da quando era così stanca?

Quando Ino fu di nuovo in piedi, ancora non riusciva a reggersi sulle gambe e Asuma doveva sostenere il suo peso o sarebbe crollata a terra come un sacco vuoto. Le mancava l’energia, si vedeva chiaramente, era probabile che avesse mangiato poco o niente negli ultimi giorni. E noi non ce n’eravamo accorti. Non ce n’eravamo accorti?

«Ma che cavolo…?»

Prima che potessi terminare la domanda, Ino si voltò verso di me. I suoi occhi cominciavano a venarsi di minuscoli capillari rossi e aveva uno sguardo che non le avevo mai visto addosso. Rabbia, una forte e insensata rabbia le si era condensata nelle pupille.

Prima che Asuma potesse impedirle di farlo, Ino unì le mani nella solita posizione e gridò, cogliendomi completamente impreparato. Sentii le gambe farsi improvvisamente molli e la testa pesante; istintivamente lottai contro la coscienza estranea che si faceva spazio in me, dimenticandomi che era Ino, che era la mia compagna di squadra, che non dovevo combattere contro di lei. Che il mio compito era proteggerla. La necessità arcaica della sopravvivenza mi afferrò prima che il mio cervello potesse reagire, sforzai la mia energia al massimo, la respinsi – e fu semplice, perché era disperata, perché era allo stremo. La disperazione pervadeva il suo spirito violento come quello di un animale braccato. Lo sentii distintamente prima che Ino fosse respinta nel suo corpo e cadesse a terra, tossendo sangue.

«Shikamaru!»

Choji mi guardò sconvolto per la prima volta da quando l’avevo conosciuto. Io stesso per un momento non riuscii a respirare: non capivo cosa fosse successo.

Asuma afferrò Ino prima che crollasse sul terreno. Un momento dopo erano spariti entrambi.

Mancavano tre giorni all’inizio dell’esame di selezione dei chunin.

Non capivo cosa fosse successo.

Era la prima volta nella mia intera vita: non capivo.

 

«Dovresti entrare, ninja».

Questo vizio di chiamarmi ninja era nato e sarebbe morto nel giro di poco tempo, ma sul momento Choji riusciva comunque ad infastidirmi. Il mio nervosismo aumentò. La targhetta accanto alla porta della stanza d’ospedale era inquietante, leggermente screpolata dove riportava il numero. Mi chiedevo come fosse successo tutto, come fosse possibile che mi trovassi davvero lì.

«Vai prima tu», borbottai. «Le ragazze sono impossibili quando sono malate».

«Per questo ti cedo volentieri il posto. E poi, è giusto così».

Non disse è colpa tua. Apprezzai che non l’avesse fatto, non ad alta voce almeno.

Sospirai profondamente, chiudendo gli occhi, e bussai alla porta. Sul momento non rispose nessuno, poi la voce di Ino, anche se singolarmente tenue e atona, rispose un semplice «Avanti».

Abbassai la maniglia ed entrai. La stanza era bianca, del tutto. Non c’erano quadri alle pareti, non c’erano scritte, fogli, disegni. Qualunque cosa sarebbe stata meglio di tutto quel bianco, pensai. Provai un’immediata repulsione. Il letto di Ino era a destra rispetto alla porta, accanto ad una piccola finestra che dava su un giardino verde che mi rilassò subito.

Quando riuscii a guardare in faccia Ino, scivolai d’istinto con gli occhi sulle sue labbra. Semichiuse. Come quella volta sul tetto.

«Ciao», mormorai.

Ino non rispose. I suoi occhi chiari erano fissi su di me, ma non aveva espressione. Quello sguardo mi inquietò più di quanto avesse fatto la sua rabbia.

«Come stai?»

Anche questa volta non disse nulla. Il silenzio fu spezzato soltanto dalla porta, che si chiuse improvvisamente alle mie spalle. Choji doveva aver pensato che fosse meglio così – mi domandai se per me o per Ino.

Il fiore che avevo tra le mani cominciò a darmi fastidio, così mi avvicinai al letto e lo infilai nel vaso appoggiato sul comodino. La rosa bianca che avevo portato, inadatta secondo Choji, faceva uno strano effetto accanto allo sconosciuto fiore rosso che già era immerso nell’acqua del vaso. Mi ricordava una vergine violata; ma era un’immagine che mi provocava un immenso fastidio e la scacciai subito.

Ino insisteva nel suo silenzio. Non avevo intenzione di andarmene prima di aver capito almeno qualcosa, perciò mi lasciai cadere sulla sedia posta accanto alla sponda del letto e appoggiai una mano sullo schienale, accavallando le gambe. Ino adesso era intenta ad osservare i due fiori che componevano quello strano quadro sul suo comodino, ma sembrava che il suo sguardo potesse bucarli e fuggire lontano. Era ancora spenta, vuota.

«Asuma dice che se ti riprendi possiamo ancora partecipare».

Il suono delle mie parole raggiunse tutti gli angoli della stanza prima che Ino reagisse. Alzò di un poco gli occhi e li puntò nei miei. Un brivido caldo mi percorse la schiena. Non disse nulla.

Era come osservare una statua bellissima a cui lo spettatore vorrebbe parlare. Ma per quanto tenti di raggiungerla rimane irraggiungibile, muta, così splendida proprio perché intoccabile.

Ma l’illusione si sgretolò quando Ino pronunciò poche parole.

«Sasuke dice che non migliorerò mai».

Non cercò di spiegarsi, senza dubbio lo sussurrò più a se stessa che a me.

«Non riuscivo più a completare la tecnica del capovolgimento spirituale. Ci provavo ma era inutile», aggiunse. «Non so perché».

Provai un misto di rabbia e tristezza che il mio cervello attutì al mio posto. Non risposi, perché non avrei saputo cosa dire e senz’altro avrei sbagliato.

«Dovresti mangiare e riprenderti», dissi invece. «Tra due giorni ci aspetta un esame e Choji e io abbiamo bisogno di te. Asuma ci ha iscritti perché sa che possiamo farcela».

Mi alzai e le diedi le spalle; non riuscivo più a guardarla negli occhi.

«Shikamaru?»

«Dimmi».

«Mi dispiace».

Rilassai le spalle e solo in quel momento mi resi conto che erano rimaste contratte, tese e che i muscoli di tutto il corpo le avevano imitate.

«Scusami tu», risposi. «E se mi capiterà di incontrare Sasuke, gli dirò che la tua tecnica lo farà fuori».

Sentii Ino ridere con lo sguardo sulla mia schiena.

«Che scemenze dici».

Alzai le spalle e non contestai le sue parole. La luce del giorno stava scemando e in qualche modo sentivo che Ino doveva rimanere sola. Per pensare o piangere, sarebbe stata una sua scelta.

Quando uscii dalla stanza, mi ritrovai Choji ad un palmo dal naso. Senza fare rumore richiusi la porta alle mie spalle e lo feci scansare per poter passare e andare via. Prima di lasciare l’ospedale, sospirai.

«Che c’è?», domandai.

Choji rise. Si stupiva sempre della mia capacità di percepire lo sguardo altrui sulle mie spalle. Prima che parlasse però era tornato serio.

«Rosa bianca, che stupidaggine. Non sai cosa significa?»

Quando non replicai, si sentì libero di continuare.

«Amore puro e spirituale», disse.

 

Nel momento in cui passai davanti alla finestra della stanza di Ino, allungando di un poco la strada verso casa, la osservai seduta sul suo letto. Non piangeva. Piuttosto, aveva un’espressione serena.

Stava inspirando il profumo della rosa bianca.

 

Dopo l’esame di selezione dei chunin Ino tornò quella di prima. Ricominciò a mangiare normalmente, a credere in se stessa, a ridere, ad essere il perfetto entusiasta contrappeso che serviva a bilanciare la mia mancanza di vitalità. Choji riacquistò la serenità perduta, perse qualche chilo. Asuma non gridò più nemmeno una volta – del resto, nessuno gli diede più motivo di farlo.

Durante il funerale del terzo hokage Ino mi prese la mano e la strinse. Una lacrime le scese sulla guancia, una sola, e sparì nel collo largo della sua maglia. Fu un gesto istintivo e inconsapevole, la lasciai fare. Non accadde più.

Sasuke tornò ad essere il suo centro. Lo nominava almeno tre o quattro volte al giorno e di seguito alla sua dichiarazione d’amore seguiva una sfilza di insulti rivolti a Sakura e al fatto che era finita in squadra con lui. Io non ci facevo caso: era tutto talmente normale da essere quasi piacevole.

 

Un giorno mi chiese di allenarmi con lei. Disse che voleva provare a migliorare la sua tecnica e io accettai senza farmi problemi. Ci recammo al campo di addestramento la sera tardi, dopo gli allenamenti con Asuma, ma prima che facesse buio: era estate, per cui il sole ci lasciava ancora un buon margine di tempo.

Ci posizionammo l’uno di fronte all’altra e Ino incrociò le dita per impastare il chakra. Io la imitai, preparandomi ad utilizzare la tecnica del controllo dell’ombra. Era una gara a chi sarebbe stato più veloce e gli alberi si ergevano dietro di me a supportare la mia rapidità. Ero sicuro che avrei vinto: mi sarebbe bastato schivare la sua tecnica e bloccare le sue braccia in modo che non potesse più provarci.

Quando vidi che Ino si concentrava per lanciare la sua tecnica, liberai l’ombra per indirizzarla ai suoi piedi. Stavo per raggiungerla quando mi accorsi che il suo corpo aveva un’ombra troppo sottile. Mi voltai, ma era tardi. Senza che me ne rendessi conto, Ino aveva creato una copia perfetta di sé, che sparì non appena fu raggiunta dalla mia ombra. Non riuscii a reagire in tempo, dalla mia sinistra la coscienza di Ino mi invase completamente.

Non c’era paragone rispetto alla prima volta in cui aveva tentato l’attacco.

Il dolore alla testa ora era almeno decuplicato, le gambe mi cedettero e sentii le ginocchia toccare terra. Sapevo di essere bravo, ma non ero progredito quanto lei. La coscienza di Ino era forte e tutta quella forza si basava essenzialmente su una nuova e indiscutibile fiducia in se stessa. Nonostante il dolore, riuscii a sorridere. La sua coscienza smise di premere un attimo dopo, divenne tiepida e morbida, come se invece di attaccarmi volesse cullare la mia mente. Pensai che aveva una mente accogliente, e dei pensieri dolci.

Mi piacerebbe sposarla.

Prima che potessi trattenermi, il pensiero sgusciò fuori dal mio controllo e si insinuò all’interno di entrambe le coscienze. Sperai che non ci facesse caso, sperai che non lo notasse. Un improvviso panico mi attanagliò lo stomaco. Non volevo che lo sapesse. Non volevo, perché era innamorata di Sasuke. Non volevo, perché…avevo paura.

La realizzazione mi paralizzò nel momento in cui Ino scivolò al di fuori della mia mente. Senza il suo sostegno il corpo divenne pesante, non me la sentii di sorreggermi e lasciai che la forza di gravità mi facesse scivolare a terra, con la schiena contro un albero che aveva raccolto il mio peso.

Non aprii gli occhi. Sperai che Ino andasse via lasciandomi lì, dove sarei rimasto finalmente solo con me stesso, come sempre. Solo Shikamaru Nara.

Solamente il cervo e i suoi stupidi desideri di normalità.

Invece non fu così.

La mano di Ino mi schiaffeggiò su una guancia pochi secondi dopo.

«Ahia!»

La risata di Ino fu inequivocabile, anche se tentò di nasconderla.

«Tutto bene?», chiese.

«Sì, certo. Prima del tuo schiaffo».

Ino alzò le mani in segno di scuse, sorridendo. Non aggiunse altro.

«Sei migliorata», dissi. Non c’era lode né invidia nelle mie parole, soltanto constatazione.

«Lo so». La sua voce era piena d’orgoglio. «Adesso sono pronta a far fuori Sasuke».

Ci guardammo e poi lei scoppiò a ridere, ricordandomi la stessa situazione, mesi prima, in ospedale. Era tornata davvero quella di prima.

«Magari invece potresti decidere di risparmiarlo e farlo diventare tuo schiavo», proposi.

Ino si voltò verso di me e scrutò alla radice del mio sguardo. Non mi piaceva che cercasse di leggere al di là delle mie parole, perciò spostai gli occhi sul campo alle sue spalle.

«Non ti dispiacerebbe?», mi chiese.

Non replicai, come molte volte aveva fatto lei. Alzai semplicemente le spalle. Sentivo l’impulso della fuga prendermi tutto il corpo, come quando nel bel mezzo dell’esame di selezione dei chunin mi ero dovuto scontrare con Temari. Le ragazze avevano il vizio di farmi quest’effetto.

«Non preferiresti invece che ti sposassi?»

Lo chiese candidamente e senza inflessioni. Non riuscii a guardarla negli occhi. Ma quel candore, quella purezza mi ricordarono la rosa bianca che le avevo portato quel giorno in ospedale. Amore puro e spirituale, aveva detto Choji.

Lo stava chiedendo perché voleva farlo? O per prendersi gioco dei pensieri strappati dalla mia mente? La sua voce non tradiva alcuna emozione. Ma gli occhi: sapevo che gli occhi di Ino avevano sempre detto quello che non era in grado di pronunciare a parole.

Alzai il viso e incrociai il suo sguardo.

Era puro, limpido, innocente, come quando l’avevo conosciuta. Non c’era derisione, non c’era scherno nei suoi occhi. In quel momento era esattamente come me: si stava facendo una domanda, tentava di afferrare le nuvole che le sfuggivano di mano, si chiedeva perché l’avessero chiamata Ino. E poi si chiedeva se sarebbe stata felice sposandomi.

Non c’era grande passione. C’era una semplice grande commozione. La strada a senso unico, priva di scorciatoie, era una promessa di stabilità e sicurezza. E poi, forse, di amore.

Ma eravamo ancora troppo giovani per dirlo.

«Sì», risposi.

«Cosa?», chiese lei, impreparata.

«Sì. Preferirei che mi sposassi».

Ino dischiuse le labbra, come quella volta sul tetto, come in ospedale. Anche questa volta la bocca le tremava leggermente. Le sue guance erano arrossate e il contrasto con gli occhi e i capelli chiari era evidente. Anche con il buio che stava scendendo, riuscivo a distinguere i suoi occhi lucidi.

«Allora sposami», mormorò.

Si avvicinò senza esitazione e non fu come mi ero immaginato il bacio di una donna: non delicato e dolce, ma piuttosto forte e aggressivo. Premette le labbra sulle mie con foga e attese una risposta che il mio cervello decise di dare prima ancora che capissi quello che stava succedendo.

Ci baciammo così, senza preavvisi né previsioni future, a metà tra la luce del tramonto estivo e l’ombra degli alberi, stringendoci.

Pensai che se avevo voluto una vita nella normalità avevo fallito. Eravamo ninja e i ninja sono in balia dei venti – favorevoli e sfavorevoli – come le foglie della foresta. Ma le avrei dato sicurezza, le avrei costruito un posto in cui tornare, e quando fossimo diventati vecchi sarei stato ancora lì ad aspettarla. Non me ne sarei andato, non era da me.

Ino piangeva. E lo capivo, perché non era quello che si era aspettata, non era quello che aveva creduto di cercare. Ma saremmo stati abbastanza l’uno per l’altra.

Quando si staccò la abbracciai forte, lasciando che piangesse sulla mia spalla, lasciando che singhiozzasse.

Sul terreno, nelle ultime luci, la mia ombra e la sua si mescolavano svanendo dove la luce del tramonto era ancora potente. Me ne resi conto in quel momento.

L’ombra non era mai appartenuta davvero soltanto a me.

   
 
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