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Autore: Ms_MartyReid    07/02/2012    171 recensioni
- «Mamma crede che io stia impazzendo, Niall» bisbiglia Elizabeth, sedendosi a gambe incrociate e fissando la lapide di marmo bianco. Si tende e sfiora con le dita la scritta che ci hanno inciso sopra.
“Niall Horan. 13-09-1993 / 26-04-2012” recita. Sotto, non hanno scritto nient’altro, anche se io avrei voluto una bella frase ad effetto. Voglio dire, mi avrebbe fatto sembrare un tipo intelligente.
Genere: Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Niall Horan
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nota veloce prima che cominciate a leggere:
One-Shot scritta di getto. C'ho tipo semi-pianto mentre la scrivevo xD Ma questo non vi interessa u.u
A me però interessa la vostra opinione e quindi... fatemi sapere che ne pensate con una recensione *-*
Peace, love and listen to "Up All Night".

- Marty;

 







SKYSCRAPER


Sbuffo e passo accanto ai cancelli di ferro. Sfilo fra la gente senza fretta, canticchiando un motivetto che ascolto solo io. Saluto con un cenno Mark Landson e lui ricambia con un sorriso strano, poggiato con le spalle al marmo freddo della lapide e seduto sul mucchietto di fiori lì davanti. Voltandomi un po’, vedo i suoi genitori, stretti nelle spalle, avvicinarsi, e capisco il perché degli occhi velati di angoscia e tristezza del mio vecchio compagno di classe. Nessuno di noi si è ancora rassegnato del tutto.

Continuo a camminare per qualche altro metro, svolto a destra e finalmente la vedo. E’ accovacciata sotto la quercia che sembra fare da guardia al mio corpo, o a quello che ne rimane, sepolto a qualche decina di metri lì sotto. Sta sistemando i girasoli freschi nei vasi. Il giubbotto e la sciarpa non servono a molto, il freddo la fa rabbrividire di continuo.
Sveltisco il passo e la raggiungo. Mi piego sulle ginocchia e la osservo ad un soffio dal viso.
«Ciao, Liz» mormoro, sapendo che lei non può sentirmi, né vedermi.
I capelli neri sono raccolti in una lunga treccia sulla spalla e le guance sono parecchio rosse. Credo che sia dovuto al solito pungente vento gelido londinese che io non riesco più a sentire. Stranamente, mi manca anche quello da morire.
Che poi “da morire” non è proprio la cosa giusta da dire, ma comunque...

«Mamma crede che io stia impazzendo, Niall» bisbiglia Elizabeth, sedendosi a gambe incrociate e fissando la lapide di marmo bianco. Si tende e sfiora con le dita la scritta che ci hanno inciso sopra.
“Niall Horan. 13-09-1993 / 26-04-2012” recita. Sotto, non hanno scritto nient’altro, anche se io avrei voluto una bella frase ad effetto. Voglio dire, mi avrebbe fatto sembrare un tipo intelligente.
Qualcosa del tipo “Qui giace Niall Horan, giovane promettente talento musicale, strappato alla vita da un errore fatale di qualcun altro. Và in Paradiso, Niall, ed insegna agli angeli a cantare!” ci sarebbe stato proprio bene.

«Ogni volta che vengo qui mi dice che parlare con una tomba non ha senso» continua Liz, distogliendomi dai miei pensieri. «Prova a dirlo con tatto, e mi sembra quasi che stia tentando di discutere con una pazza».
Mi accovaccio di fronte a lei, proprio davanti alla lapide, e, anche se lei non lo sa, mi guarda negli occhi. Scruto il suo viso e riesco a percepire un sorriso dipinto sulle sue labbra.
Ha sempre quest’espressione quando viene a trovarmi, e cioè almeno una volta al giorno. Il suo sguardo verde, quasi trasparente, è pulito e felice, come se stesse parlando sul serio con me, e non con un pezzo di marmo. E con un fantasma, ma lei questo non lo sa.
Eppure oggi è un po’ più agitata del solito, si mangiucchia le unghie e si sistema nervosamente il cappello ogni cinque secondi. E so che c’è qualcosa che non va anche perché non mi fa visita da quasi una settimana.
Cazzo, però, quanto è bella.

«Voglio dire, Horan, crede che io non lo sappia? Lo so che sei morto. Lo so che quel cazzo di pullman è finito giù per il burrone. Lo so che venticinque ragazzi innocenti sono sepolti sotto questo terreno. Ma non vedo il motivo per cui io non possa venire qui a sfogarmi» continua imperterrita a bassa voce. Rimane un po’ in silenzio. Abbassa lo sguardo sull’erba davanti alle sue ginocchia e ne strappa qualche filo, lasciandoselo scorrere fra le dita.
«Insomma, cazzo, eri il mio ragazzo!» sbotta, alzando di colpo gli occhi su quella scritta scialba e inutile. Resta con la bocca leggermente aperta e respira affannosamente, come avesse appena finito una corsa.
Mi tendo verso di lei e le sfioro le guance. Ho un nodo in gola e vorrei piangere, ma i fantasmi non possono farlo. Così, mi godo quel contatto caldo e leggero che lei non avverte neanche, e vorrei baciarla e stringerla a me.
«Ha detto che mi porta da uno psicologo se non la smetto» mormora, abbassando di nuovo gli occhi sulle sue scarpe. Le sfioro i capelli.
«Dice sempre le stesse cose! “Sono passati tre anni”, “Amore, dovresti cercare di pensare meno a lui” o stronzate del tipo “Se n’è andato, non piangiamo sul latte versato”. Che poi per quale cazzo di motivo uno dovrebbe piangere se gli cade la bottiglia di latte, Niall? Voglio dire, sarebbe peggio se cadesse, che ne so, la boccetta di profumo!».
Sorrido ascoltando uno dei suoi fantastici discorsi senza senso.

Elizabeth, esattamente due anni prima che morissi, era diventata la mia ragazza. Era un anno più piccola di me e, incrociandola di frequente a mensa e per i corridoi della scuola, avevo finito per innamorarmi di lei senza neanche conoscerla. Quando avevo avuto il coraggio di chiederle di uscire, lei era arrossita e aveva accettato, fissando la punta dei miei capelli biondi.

Quel giovedì mattina, avremmo dovuto, come da rituale, saltare la scuola e festeggiare in giro per Londra il nostro anniversario. Ma io le avevo nascosto, come un cretino, fino all’ultimo minuto che avevo una gita con la mia classe di storia dell’arte per visitare un qualche monumento di cui non importava a nessuno. L’avevo fatto senza un motivo valido, come uno stupido.
Stavamo ancora litigando per telefono quando il colpo di sonno aveva fatto sbandare l’autista del pullman. Liz era riuscita a sentire le urla disperate e spaventate di tutti i passeggeri e il rumore delle lamiere che si piegavano, prima che il mio cellulare finisse catapultato chissà dove e perdesse il segnale.

Ai funerali, quasi tutte le bare erano chiuse, poiché i corpi erano ridotti proprio male. Solo allora ho visto Elizabeth piangere. Non l’ha mai più fatto, non davanti alla mia lapide. Davanti alla cassa di legno bianco, fuori la Chiesa, mi aveva bisbigliato un «perdonami» che mi aveva fatto sentire più in colpa che mai.

I mesi passavano, e mentre lei imparava ad accettare la mia scomparsa, visitandomi per raccontarmi le sue giornate, io ero chiuso fra le mura del cimitero ad aspettare di poter vedere ancora il suo viso.
I fantasmi non avevano lacrime, e rimanevano ancora presenti solo se non si allontanavano molto dal proprio corpo. Nessuno della mia vecchia classe era riuscito ad andare abbastanza lontano da “dissolversi”. Più in là dei cancelli, le anime scomparivano nel nulla. Dopo, non si sapeva cosa potesse esserci, e ne avevamo tutti timore. E poi, eravamo ancora troppo legati agli esseri umani che venivano a ricordarci per trovare il coraggio che serviva per allontanarsi.


«Io non ho bisogno di uno psicologo, Niall. Lo so già qual è il mio problema, e non mi va di sentirmelo ripetere da un tipo con la puzza sotto il naso che si prende un sacco di soldi per farmi sdraiare su un divano e costringermi a raccontargli i fatti miei. Mi manchi, è questo il problema, e te lo dico ogni santo giorno. Solo che tu non puoi sentirmi» riprende con serietà e ovvietà Elizabeth. Sentirla così vicina senza poterla stringere a me fa sempre più male. Respiro leggero e alzo il viso al cielo. E’ il tramonto, e nuvole rosse e rosa si addensano sulle nostre teste.

«Qualche giorno fa è successa una cosa, a danza» aggiunge lei, in tono basso e quasi timoroso.
Ecco. Capisco che stiamo arrivando al nervo scoperto, al motivo per cui non si è fatta vedere in questi giorni. Vorrei incitarla ad andare avanti, ma rimango in religioso silenzio, accarezzandole i capelli.
«E’ venuto il fratello di una mia amica a vederci. Ha ventidue anni, come te. E’ carino. Ha i capelli castano chiaro, non capisco se lisci o ricci, e gli occhi nocciola. Si chiama Liam e fa il barista. E’ simpatico e ci ha fatto un sacco di complimenti a fine lezione, e... e... Mi ha chiesto di uscire con lui. Gli ho detto di no. Lui mi ha chiesto di accettare almeno un cappuccino allo Starbucks accanto alla scuola di danza. Gli ho detto di sì» mormora.
Sono sconvolto. Non tanto per ciò che dice, né per quella sensazione a metà fra la gelosia e il sollievo che sento nello stomaco. Più che altro, mi sconvolge la lacrima che le percorre la guancia, silenziosa e quasi timida.

«Mi ha scombussolata, Niall. E’ stato carino, e simpatico, e dolce, e... E quando mi ha chiesto di rivederci sabato, cioè domani, gli ho detto di sì. Quando mi ha detto che riusciva a vedere quante cicatrici avevo addosso e che mi avrebbe aiutato a guarirle, l’ho baciato. Quando lui ha ricambiato, non mi sono tirata indietro» bisbiglia con voce instabile.
Si mette in ginocchio e, gattonando, si avvicina ulteriormente alla lapide. Ci appoggia piano la testa, quasi come fosse la mia spalla, e, per la prima volta dopo anni, la vedo piangere di nuovo. Un dolore straziante mi blocca sul posto. Ho bisogno di piangere anche io, di sentire la pelle di Liz contro la mia, il suo profumo sui miei vestiti. Mi trascino accanto a lei e poggio il viso nell’incavo del suo collo.

«Voglio solo tornare a vivere, Horan. Mi manchi ogni secondo, la tua assenza brucia come acido nelle vene, ma voglio tornare ad amare. Non farmene una colpa, ti scongiuro. Ho solo realizzato che, se pure ti cercassi per millenni in questo mondo, non ti troverei mai, perché... Perché tu non ci sei più, Niall» sussurra Liz dopo parecchi, troppi singhiozzi.
Tira su col naso e si asciuga le guance. Si alza e si pulisce i jeans dall’erba. Si strofina gli occhi col polsino della felpa, che sbuca dalle maniche del giubbotto, e si piega quel tanto che basta per sfiorare la lapide con le labbra.
«Da oggi faccio come hai sempre detto tu, Niall. Mi tiro su. Non importa quante botte riceverò, arriverò a sfiorare le stelle con un dito, come un grattacielo. E amerò ancora, e sorriderò ancora, e tornerò ad applicarmi sui libri e a rispondere male ai professori che mi stanno antipatici. Tu rimani il mio cuore, ma ora ho anche Liam. Voglio ritrovare la pace» dice risoluta, a voce alta e un pò instabile, incurante delle altre persone lì intorno, indaffarate ognuna col proprio dolore.

La seguo silenziosamente fino al cancello, riflettendo sulle sue parole.
Ha ragione. Si merita di tornare a godersi la vita, e io so di aver sempre sperato che se ne rendesse conto. Mi auguro solo che quel Liam sia davvero l’angelo di cui Liz ha bisogno, anche se credo che lei sappia decidere piuttosto bene a chi dare fiducia e a chi no.

Improvvisamente, Elizabeth si volta e comincia a correre di nuovo verso la quercia. La seguo svelto e mi avvicino abbastanza per vederla mentre, piegata sul terreno, sembra che voglia far sentire al mio corpo, freddo e troppo distante dall’aria fresca e pulita che lei può respirare, le sue parole.
«Ti amo, Niall!» urla, soffocando un singhiozzo, e le persone lì intorno la guardano con occhi pieni di lacrime.
«Ti amo anche io, Liz!» grido in risposta, e i fantasmi si voltano a rivolgermi sguardi colmi di compassione.

Non mi interessa. Ho sentito ciò che avevo bisogno di sentire e, scuotendo la testa, seguo la mia ragazza fino all’uscita dal cimitero. So che non tornerà più tanto spesso, e che quando lo farà mi chiederà perdono, non sapendo che sarei terribilmente felice nel vederla di nuovo sorridere per davvero.
Quando, correndo, attraversa la strada, diretta a casa sua, prendo un grande respiro. Lentamente, mi incammino anche io. Non so verso quale direzione, voglio solo arrivare lontano lontano lontano. Voglio diventare piccolo come un puntino, fino a scomparire e trasformarmi in un soffio di vento.  E’ il momento giusto, e ho trovato il coraggio che mi serve per andare oltre e rinascere, rialzarmi, in qualche modo.
Come un grattacielo.

  
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