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Autore: GirlWithTheGun    08/02/2012    3 recensioni
Il primo incontro è stato nel Giardino di Ghiaccio. Nel tempo non-tempo che regna lì è certa che i salici piangano ancora, come avevano fatto allora, mentre lui li scuoteva e lei credeva di essere speciale perché riusciva a non tremare. Le lacrime erano rotolate giù dalle chiome degli alberi come perle di vetro, come cadono adesso dalle sue guance.
Celia e Marco evadono dal Circo dei Sogni che si amano già. Ma basterà questo, per essere liberi?
Genere: Angst, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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“It’s you, it’s you,

it’s all for you

Everything I do

I tell you all the time

Heaven is a place on earth with you”

Lana Del Rey, Video Games

 

New Orleans, ottobre 1889

 

Negli anni, Celia ha imparato a governare magie terribili e meravigliose, incantesimi che l’hanno ingoiata, ferita, mutilata. Tutto si è piegato, nelle sue mani. Un giorno, forse a Londra – o Basilea? i ricordi sono diventati così sfuggenti – aveva catturato un lembo di cielo notturno, l’aveva liberato nell’Occhio delle Stelle. Quel giorno, non importa dove, Marco si era arreso, e avevano ammirato insieme il cielo imprigionato nel tendone, proprio come loro due. È stato quello, il momento? Guardandolo dormire, pensa che non le interessa scoprirlo. Magie terribili e meravigliose, sì. Celia Bowen è capace di prodigi straordinari, ma non saprebbe creare nulla che possa competere con quest’incanto: un respiro profondo e quell’istante impossibile, sospeso, in attesa di un altro e di un altro, e di un altro; le ciglia serrate sul viso – quando riaprirà gli occhi? –; il modo in cui il suo corpo gonfia le lenzuola e il calore che irradia tutt’intorno, oltre, dentro di lei, nel mondo. Quando Celia guarda Marco pensa a come finirà, adesso, e ha sempre più paura ogni ora che passa. Ogni ora che passa e che li porterà via, loro, l’alba che diventerà tramonto, l’autunno che diventerà inverno.

Era già tempo di fuggire, quando lui le ha piantato uno sguardo profondissimo addosso: Celia non si azzarda a guardare in basso, teme di trovarselo ancora lì, infilzato nel petto come la bandiera di chi ha vinto la battaglia. ‘Al tuo cappotto manca un bottone’, le ha detto. Solo questo. Celia avrebbe voluto rispondergli che le manca anche un bel pezzo di cuore, un’infanzia, un padre e una madre, ma non ne ha avuto il tempo. Sono partiti prima che scendesse la sera.

 

dicembre 1889

 

La troverà ad attenderlo seduta nella solita poltrona un po’ sfondata. A guardarla ci si aspetterebbe che prima o poi scivoli nella gola dei grandi cuscini verdi, sparendo negli abissi delle federe sgualcite.

“Niente?” chiede, appena sente aprirsi la porta.

Sa già chi è. A Marco piace pensare che usi la magia, per scoprirlo.

“Niente” risponde, già sorride.

E’ così bianca che le sue speranze si infrangono quando riesce a vederla in faccia. Celia non usa la magia, non più. Sa sempre chi è perché l’unico a varcare quella soglia è lui e nessun altro.

L’ingresso è talmente piccolo che per riuscire a salutarla con un bacio occorrono a malapena due passi.

“Hai controllato dappertutto?” insiste lei.

“Sì”.

Le tira indietro i capelli.

“Sei bellissima” le dice.

“Forse dovremmo spostarci in una città più piccola. Sarebbe più facile tenere le cose sotto controllo”.

“Forse dovresti darmi un altro bacio”.

Lei si rabbuia e abbassa lo sguardo. Gli sfugge dalle braccia come acqua. La guarda agitarsi, vicina alla finestra ma non troppo: quel tanto che le permette di vedere fuori senza essere vista.

“Celia?” lei non si volta.

“In una città più piccola non faresti così fatica” dice, continuando a scrutare nella sera.

“In una città più piccola ci troverebbero subito”.

Marco sa che nei silenzi di Celia si può annegare, ma tace ugualmente. Quando finalmente solleva gli occhi su di lui, sospira.

“Usciamo? Facciamo una passeggiata. Lo sai che è quasi Natale?”.

Lei scuote la testa.

“Non ce la faccio. Non riesco nemmeno ad accendere il fuoco senza…”.

“Sono due mesi che non esci da qui. Non ti ho portata fuori da una prigione per rinchiuderti in un’altra”.

“Questa non è una prigione. Sono con te”.

 

Sono con te.

Sono con te.

 

Nel buio, Marco ha la pelle di Celia sotto le dita, e sa già che se premerà sentirà ossa. Sentirà lei che si consuma e non saprà cosa fare. Niente può spaventarlo più di questo, nessun nemico, nessun luogo. Celia è già tutto: ogni vero terrore, ogni cosa persa e ogni cosa ritrovata.

“Non dormi?”.

Neanche lei dorme. Lei non dorme mai.

“Domani mattina verrai con me”.

Dopo un lungo momento, Celia gli posa un bacio arreso sul petto.

 

“Sediamoci qui”.

Qui è un giardino disordinato vicino al quartiere francese. Così le spiega lui, perdendosi nelle parole, nei ragionamenti cuciti uno in fila all’altro. Ha i capelli spettinati, troppo lunghi, si muovono insieme a foglie e brezza; il resto sta ai margini della cornice: l’orlo della gonna di una passante, un ombrellino da sole caduto nella polvere, scarpe nuove e luce. Dove sono? Potrebbero essere in qualunque angolo dell’universo, insicuri proprio come sono ora.

“Un uomo, stamattina, ha detto che il mondo finirà nel 1900”.

Celia allunga le mani a stendere le pieghe della gonna, in un gesto che non le appartiene.

“Nel 1900 avremo quasi trent’anni, giusto?” dice.

“Sì” Marco le prende una mano “Abbiamo ancora tantissimo tempo”.

“Per fare cosa?”.

“Quello che desideri. Farmi crescere i baffi, ad esempio. Pare sia disdicevole non averne”.

“E chi dice che lo è?”.

“Non lo so, credo uno degli innumerevoli uomini con i baffi di New Orleans”.

La risata di Celia è lenta, si spegne piano.

“Fra quanto credi che dovremo andarcene?” domanda, senza guardarlo.

“Potremmo mangiare fuori, ho scovato un posto carino” risponde lui, giocherellando con il pizzo del suo cappellino “Ti ho fatto un regalo troppo ridicolo. Puoi toglierlo, se vuoi”.

“Intendo da questa città” gli occhi di Marco si faranno tristi, Celia lo sa, e per questo proprio non può rinunciare alla vista della siepe fiorita “Perché dovremo. Dovremo sempre lasciare qualche posto per un altro”.

“Due mesi basteranno. Ci annoieremo prima, forse” dice lui.

“O forse no. Forse ci piacerà stare qui. Forse succederà qualcosa e dovremo andare via comunque”.

La sua mano rimane orfana, abbandonata sul vestito.

“Perché fai così?”.

Perché ci affacceremo giù da questo cielo e precipiteremo.

“Perché io perderò il controllo. Ti vedrò inciampare in un gradino, e non vorrò farti cadere. Ti taglierai con un coltello e vorrò medicarti” il freddo scende inatteso “E’ quasi successo, oggi. E ieri, e ogni dannato giorno di questi due mesi. Io sto esplodendo, non vedi?”.

A chi appartiene questa voce, Celia non lo sa. Sa che presto perderà la guerra e non ci sarà modo di tornare indietro.

Marco si fa più vicino, le sprofonderebbe dentro, se potesse.

“Non è così. Ascoltami, non è così”.

“Tu non puoi capire. La sento sempre. Non riesco più a dormire, a muovermi. Ho paura”.

“Ne hai troppa. Cosa potrebbe succederci? Cosa ti spaventa più di quello che abbiamo già fatto, più di questo?”.

Più dell’essere davvero vivi, per la prima volta in un’era? Più di potersi tenere le mani senza tremare?

“Arriverà il giorno in cui vorrai essere più felice di così. Vorrai avere una vita normale” gli occhi  abbracciano i confini luminosi del viale, tutti gli sconosciuti che lo attraversano, ignari “Guardali. Ho passato la mia vita a guardarli, mentre loro guardavano me. Sono creature stupende: abbandonate ai loro comuni terrori diventano capaci di distruggersi, ma basta loro un sogno, uno solo, per dimenticare. Li ho visti sgranare gli occhi, li ho sentiti trattenere il fiato più a lungo di quanto credevo fosse possibile. Guardali: si portano il loro miracolo addosso, la loro magia sta in un mattino di sole, in un figlio, in un amante. Loro possono essere felici, se vogliono. Tu, puoi essere felice”.

“Io sono già felice”.

Un dito a serrargli le labbra basterà, basterà…

“Io non potrò mai darti una vita normale. Non potrò mai essere tua moglie, non avrai mai un figlio da me, e credo che non riuscirò nemmeno a stare al tuo fianco per tutto il tempo che vorrei. Io non sarò mai come loro: non ho sogni. Ho solo trucchi” lui è così bello e pieno di dolore che la ucciderà, ancora un attimo, e lo farà “Ma tu no. Hai solo imparato a essere come me, ma non lo sei. Tu potresti lasciarti tutto alle spalle. Potresti lasciarmi qui, su questa panchina, e io non ti seguirei. Te lo giuro, sparirei”.

E morirei.

Il primo incontro è stato nel Giardino di Ghiaccio. Nel tempo non-tempo che regna lì è certa che i salici piangano ancora, come avevano fatto allora, mentre lui li scuoteva e lei credeva di essere speciale perché riusciva a non tremare. Le lacrime erano rotolate giù dalle chiome degli alberi come perle di vetro, come cadono adesso dalle sue guance.

“Non farlo mai più, hai capito?” dice, immobile “Non pensare mai più di poter decidere cosa è meglio per me. Scelgo io, per me. Non voglio una vita normale, non voglio una moglie, non voglio un figlio. Voglio te. Azzardati a… e io… Io…”.

Anche sul prato gelato si muoveva quell’aria candida, ed era dolce proprio così, come gli occhi chiusi sulla sua pelle, come un abbraccio chiuso sul resto del mondo.

 

“They say that the world was built for two

Only worth living if somebody is loving you

Baby, now you do

Swinging with the old stars

Kissing in the blue dark”

Lana Del Rey, Video Games

 

San Francisco, maggio 1890

 

È piovuto. Le strade sono madide d’acqua e nel bagnato si riflettono le luci morbide delle case. Il pomeriggio va sfumando in una serata umida, nel cielo della baia le nuvole del temporale assediano Alcatraz. A Celia piace stare in piedi nel tram a guardare fuori dal finestrino. L’aria è fresca, lembi di nebbia si arrotolano lungo i viali, scivolano lenti fino alle case. San Francisco è bella e, in momenti come questo, immagina di poterci restare per sempre. Su e giù lungo le sue discese come in un’altalena, dentro e fuori dai suoi tramonti come in quadro. Marco dice che ci saranno città che amerà ancora di più, posti dove potranno vivere come vivono ora, senza nessuno che li conosca, senza nessuno che chieda loro perché, come in una lunghissima vacanza.

“Non ti piacerebbe avere una casa? Intendo un luogo nel quale sai che, se volessi, potresti tornare. Che conosci tanto bene da poterlo attraversare a occhi chiusi” ha chiesto a Marco, questa mattina, mentre le infilava un fiore dietro l’orecchio.

“Certo. Ce l’ho già” ha risposto lui, labbra sulle labbra.

E se la casa di Marco è in un bacio, la sua dov’è? Si è forse nascosta in quelle braccia, in quel cuore, che ha attraversato a occhi chiusi, ma dal quale, poi, non è più stata capace di uscire?

Alla fermata di Fisherman’s Wharf il tram si svuota, Celia scende sorridendo. Prima di tornare a casa, comprerà le fragole: a lui piacciono da impazzire e a lei piace da impazzire guardarlo mentre le mangia, una per una. Il porto sembra sempre più illuminato del resto della città, e più pieno, più vivo, anche dopo la pioggia.  

Vede il bambino quasi subito, sfuggire alla stretta della madre, inseguire la palla in strada con uno strillo. Il tram che risale, dall’altra parte, è già troppo veloce perché possa fermarsi in tempo. È un momento. Celia butta via San Francisco, otto mesi di autentica esistenza, otto mesi di fragile, disarmante felicità. Lo salva.

 

Il tram si è inchiodato con uno schianto e nessuno si è accorto di lei. Celia resta ferma nel trambusto, sa che il sole è quasi scomparso e che tutto sta precipitando. Corre.

 

“Sai qual è la cosa più straordinaria?”.

Celia tace, la mano di Prospero l’Incantatore è fredda, la tiene stretta.

Loro non vedono quello che vediamo noi. Loro vedono quello che noi vogliamo fargli vedere. Perché certo sai, bambina mia, che tutto questo è una significativa illusione, e che ogni statua, anche l’imperatrice, e il pirata, la regina, gli amanti, e gli acrobati chiusi nelle loro gabbie, e ogni mostro, sono opera nostra. Sono vivi perché noi decidiamo che lo siano. Il Circo esiste perché noi esistiamo”.

È troppo piccola per capire. Prospero la porta in alto, sempre più in alto, nella Torre delle Nubi.

“Come pensavi di poter scappare, da qui? Come hai potuto credere di poter abbandonare il Circo?”.

La sua voce è una lancia, Celia si sente così inerme e sconfitta che vorrebbe lasciarsi cadere. Come ha potuto pensarlo? Come ha potuto crederlo?

“Il Circo non esiste” la getta sulla cima della Torre, si allontana “Noi siamo il Circo”.

Scompare.

 

Noi siamo il Circo.

 

In strada e poi su per le scale, Celia cade e si rialza come se non sentisse il dolore. Ma il dolore c’è, è nelle ginocchia tagliate, nel vestito leggero sporco di sangue, nelle mani sbucciate. Il dolore è paura e Celia scoppia dalla paura, ma non trema.

La porta d’ingresso si apre con un colpo, fa in tempo a vedere il sorriso di Marco spegnersi e vorrebbe urlare. Non c’è tempo. Non c’è più tempo.

“Arrivano”.

Lui non parla, afferra la sua mano tesa. I loro soldi li ha addosso,  la loro casa sono i loro corpi e non c’è nient’altro da portar via.

 

Quando salpano dal porto è il crepuscolo. Dal ponte della nave, lo vedono. È bianco e nero, ed è enorme, vicino. Dal molo un’ombra saluta agitando la mano.

Più tardi, nel calore spesso della stiva, in mezzo a marinai e viaggiatori disperati, Celia cerca il cuore di Marco.

“Mi dispiace”.

Lui le accarezza i capelli e Celia piange, ma non trema.

 

Cape Town, agosto 1890

 

Al piano di sopra qualcuno ascolta un valzer lento. Giù dalla finestra i facchini ubriachi cantano alla luna.

“Ho così caldo che potrei svenire”.

Marco non fa altro che rotolare da un fianco sull’altro: non ha ancora capito che il trucco è stare fermi.

“Perché ti agiti. Avrai sempre più caldo, così”.

Celia allunga un braccio sul letto. Lui le morde le dita.

“È la stessa cosa”.

“No, non è vero”.

“Non ho voglia di stare fermo, allora”.

“Preparami qualcosa da mangiare, allora”.

È solo un pretesto per guardarlo mentre si alza, coi movimenti pigri di un gatto al risveglio. Si stiracchia, riempie tutta la stanza, riempie il suo sguardo. Ancora spogliato, accende il fornello. Canticchia a mezza voce. Chissà da che pianeta è caduto, con quell’esplosione di capelli rossi a incorniciargli il viso. Deve essere un pianeta lontano, di fuoco.

“Voglio qualcosa di dolce”.

Lui annuisce senza alzare la testa. Celia sa già che prima cercherà il loro prezioso cioccolato, poi lo scioglierà, e basterà un ricciolo di burro per farlo diventare lucido. Sa che sbaglierà credenza, che le chiederà dove e perché. Sa che lei risponderà, lo guarderà a lungo e lui non capirà.

“Ti amo”.

Anche i suoi occhi vengono da un altro pianeta, una stella.

Marco sorride e Celia sa che porterà quel sorriso con sé, quando sarà il momento.

 

“In realtà, potremmo sposarci”.

Tutt’un tratto, la sete si spegne. Immersi tra gli avventori allegri della sala da tè, sembrano quasi essere uguali a tutti gli altri. Ma non è così, e Celia lo sa bene.

“Perché dici questo?”.

Marco sembra nervoso, mentre sorseggia dalla sua tazza. Quando ha finito la posa nel piattino e la porcellana tintinna gioiosa.

“Perché non c’è niente, intendo niente di concreto, che ce lo impedisce” risponde.

Celia affoga lo sguardo nel suo tè nero ancora immobile.

“Che cosa cambierebbe? Viviamo già insieme”.

“Sì, ma non è la stessa cosa”.

“Cos’è, inizi a sentirti in colpa verso Dio?”.

“Celia, ti prego…”.

 “Per favore, usciamo”.

Celia si alza prima che Marco dica di sì. Nel gazebo bianco l’estate sembra poter durare in eterno, e anche fuori il sole non lascia scampo.

“Perché devi reagire così? Stavamo solo parlando”.

La voce di Marco è vicina, adesso. Si incamminano in Constantia Road, tra le ville inglesi e i vigneti.

“Il matrimonio non è un anello al dito, è una promessa”.

“So cos’è, grazie. Quello che non capisco è perché ti ostini a non volerne nemmeno discutere”.

“È una discussione che non ci porterebbe da nessuna parte”.

“Questo lo dici tu”.

Marco la ferma prendendola per un braccio.

“Celia…”.

Celia, Celia. Celia segata in due.

“Cosa vuoi di più da me? Io non posso prometterti niente. Perché non capisci. Io non so se domani sarò ancora qui e nemmeno tu lo sai. Nemmeno tu sai se potrai amarmi per sempre. Perché vuoi da me l’unica cosa che non ti posso dare?”.

Celia corre ancora, scappa.

 

Marco torna con l’alba, la crede addormentata. Ma Celia è sveglia e lo sente crollare sul letto con un sospiro. Sa che esiste una magia, una facile, per un sonno immediato. Sa che non potrà usarla. Come fanno, loro, quando il dolore è tanto profondo da toglierti il fiato?

 

Dover, settembre 1890

 

Dalla finestra affacciata sul mare si vedono le bianche scogliere di Dover. Un pescatore le ha detto che sono più belle così, da lontano, perché il sale le corrode ogni giorno che passa ed è pericoloso andarci vicino. Da lì, si vede anche il molo. E anche Marco che compra un mazzo di fiori. Lo guarda allungare le monete alla ragazza allegra che glieli ha incartati. È giovane e ha i capelli biondissimi raccolti in una treccia che le scende sulla schiena. Li guarda parlare. Forse lei gli chiederà da dove viene, se ripartirà presto, gli dirà che la città è meravigliosa e accogliente, che quattro mesi non basteranno per conoscerla tutta. Marco annuisce, scrolla le spalle e saluta con un sorriso. La ragazza lo guarda a lungo, poi accoglie un altro cliente con la stessa allegria.

Celia guarda il mare infrangersi sulle scogliere.

 

“Sono bellissimi”.

Marco ha in bocca un cucchiaio di porridge e le accarezza goffamente una guancia.

“Sono contento” dice, dopo aver ingoiato.

I fiori stanno in un vaso di vetro in mezzo al tavolo, hanno colori violenti.

“Ho abortito”.

Il cucchiaio precipita nella ciotola, gocce di porridge si schiantano sul tavolo zoppo.

“Cosa?”.

“Ieri, al mercato. Tutto sistemato, però. Mi ha soccorsa un signore molto gentile”.

“Eri incinta?”.

Marco non respira più.

“Di pochissimo. Non te l’ho detto perché sapevo che sarebbe finita così”.

“Ma come…”.

“Me l’ha detto Poppet, qualche anno fa. Non posso avere figli, è qualcosa che ha a che fare con quello che sono”.

In un angolo assurdo dei suoi pensieri Celia spera che lui smetta di sembrare così affranto, perché altrimenti non ce la farà mai, a dirgli che non importa, che va bene così.

“Mi hanno pulita, ha fatto un po’ male”.

Lo guarda alzarsi, lo vede sollevarla dalla sedia come se non stesse accadendo a lei. Lui la stringe così forte da farle male. È così vicino che le fa del male.

“Non importa” mormora, e chissà se lui l’ha sentita.

Celia non trema.

 

“Avete delle rose?”.

La ragazza le sorride, china su un vaso da riempire.

“Certo. Le nostre sono le più belle. Di che colore?”.

“Bianche”.

Celia la guarda pulirsi le mani abbronzate sul grembiule, scivolare di vaso in vaso come in una danza, fino alle rose bianche. Sono belle davvero.

“E quante ne vuole?”.

Continua a sorridere, come se fosse veramente felice.

“Tre, grazie”.

La osserva incartarle con cura, amore. Paga guardandola negli occhi. Sono verdissimi, come il mare a mezzogiorno.

“Come ti chiami?” le chiede, prima di andare.

“Beth”.

“Grazie, Beth”.

 

Il tramonto è sempre stato un momento di paura. Marco la riscalda con un abbraccio stretto. Non la lascerebbe mai andare, Celia ne è certa. Contro ogni ragionevolezza, contro il suo stesso bene, continuerebbe a volerla con lui. Anche piegata com’è, stanca com’è. Se la inchioderebbe addosso, se potesse.

I giorni in cui temevano entrambi di dover continuare a scontrarsi fino a uccidersi, non torneranno più. Ma questo non basta. Il loro mondo è stato costruito in modo che si distruggano: l’uno con l’altro, l’uno per l’altro. Non c’è differenza. Forse Celia l’ha sempre saputo.

“Ti amo”.

Il sussurro si perde nel vento e chissà a quali orecchie giungerà, poi.

Ti amo.

 

Cancellare. È una cosa che loro non potranno mai fare, anche se volessero. Scomparire.

Celia rimuove ogni cosa. Il Giardino, il primo sguardo, la furia, l’amore nell’Albero dei Desideri, il Labirinto. Il Marco di domani non sarà più Marco Alisdair, non saprà più cosa vuol dire magia, e non ricorderà. Il Circo. Lei.

 

*

 

Il Circo è lo stesso. L’odore è lo stesso. La paura è la stessa.

Celia non trema.

Lui arriva in silenzio, il mantello scosso dall’aria notturna.

Non è mai riuscita a stupirlo, ma questa volta, ah, questa volta nemmeno Prospero l’Incantatore può immaginare…

“Bentornata, bambina mia”.

Celia stringe i pugni nelle tasche del suo soprabito dal bottone mancante.

“Ti sono mancato?”.

“No”.

“E a me non hai mai pensato?”.

“A voi non penso affatto”.

Prospero ammira la sua creazione.

“E Alisdair?”.

Celia guarda dritto, dentro quegli occhi che sono il suo specchio.

“L’ho sconfitto. Il Circo è mio”.

 

Londra, ottobre 1891

 

“Tu sei Bailey, vero?”.

“Sì” risponde lui.

Possibile che nel circo tutti conoscano il suo nome? si domanda.

“Sei in ritardo”.

“In ritardo per cosa?” mormora confuso.

“Non resisterà ancora per molto”.

Il Circo della Notte, Erin Morgenstern

 

Il Circo sta morendo.

Gli acrobati cadono giù dai loro trespoli dorati come foglie, le statue si sgretolano, gli specchi si incrinano. Celia li sente. Non è colpa sua. La malattia è iniziata in silenzio, e non c’è stato modo di fermarla. Ha tentato. Anche Prospero, ha tentato. Non c’è cura.

Al crepuscolo il Circo apre e muore piano, un pezzo per volta.

Non c’è più nessuno.

Ai piedi dell’Albero dei Desideri, Celia guarda le fiamme delle candele ardere nel buio.

Prendi una candela e la accendi con una che sta già ardendo sull’albero. Il tuo desiderio viene alimentato da quello di qualcun altro.

Esistono anche, Celia lo sa, desideri che bruciano.

Quando la sua candela si accende, la fiamma è una colonna di fuoco.

Celia brucia.

Non trema.

 

Gli occhi chiusi sulla sua pelle, un abbraccio chiuso sul resto del mondo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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