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Autore: DonatellaR    08/02/2012    1 recensioni
- Guarda dentro, ma chère. – le soffiò all’orecchio. Questa non se lo fece ripetere. Piantò l’occhio impaziente nell’occhiello protetto da un vetro.
- E’ un caleidoscopio? – chiese la madre, leggermente corrucciata per aver perso momentaneamente il controllo di sua figlia.
L’imbonitore gli sorrise con fare misterioso.
- We don’t offer the real but the surreal. – disse senza una sfumatura di accento francese.
Genere: Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Che cosa ci sarà in queste tende che non può essere mostrato di giorno?
- Oh, Mister…- si arrestò girandosi per guardarlo negli occhi. Qual era il suo cognome?
- Dobson. – la informò il capo della polizia di Londra lisciandosi un baffo.
- Signor Dobson – riprese la sua camminata accelerata a cui l’uomo faticava a star dietro – Mi creda quando le dico che il suo contenuto è talmente prezioso da dover essere mostrato solo di notte.
Dobson squadrò la sua schiena, scettico. Lo insospettiva che le tende fossero tutte chiuse e non ci si scontrasse con anima viva in giro per l’accampamento. Il silenzio era così assordante che era sicuro non ci fosse nessuno al loro interno.
La donna che lo precedeva aprì la sua tenda distogliendosi per permettergli di entrare per primo.
Lui esitò un attimo a tre metri dalla soglia.
La mora scosse la testa, doveva ringraziare la sua proverbiale pazienza. Se non fosse stato un rappresentante della legge, non gli avrebbe riservato la stessa cortesia.
- Non mi vuole concedere questo onore, Mr. Dobson? – lo incalzò, melliflua. Lui annuì borbottando un “ma certo” e pose lo stivale su uno dei tappeti persiani stesi per l’alloggio. L’interno era ancora da sistemare con i bauli accatastati in un lato e un tavolino scorticato al centro. Per il resto era spoglia, notò con una punta di delusione. Si era atteso un’ambientazione più esotica.
Lei si sedette indicandogli la sedia di fronte invitandolo a fare altrettanto. Tirò fuori dalla tasca un mazzo di carte. La osservò dispiegarle sul legno chiedendosi se non nascondesse altro dietro le pieghe di quell’ordinaria gonna. Fino a quel momento non aveva ottenuto un inconfutabile indizio sulla sua etnia. L’incarnato chiaro fuso in una colorazione tendente all’olivastro gli faceva presupporre fosse un incrocio.
- Non credo a queste fandonie. – la avvertì, burbero. Non si sarebbe lasciato corrompere da una grossolana lettura del futuro.
- Lei è uno di quelli che adesso va di moda chiamare scettici. – piegò la bocca carnosa in un sorriso accondiscendente. Non si poteva non asserire fosse un gran bell’esemplare di femmina. La testa ricciuta era domata in una rispettabile crocchia, il viso rotondo era percorso da morbidi lineamenti e gli occhi erano due buchi neri risucchianti. All’inizio aveva penato nel concentrarsi sullo scopo della sua visita. Era una bellezza esotica rara in quella fredda Londra di fine secolo.
- Senta, non ho tempo da sprecare… - doveva compiere il suo lavoro, non trastullarsi a pescare carte inutili. La regina d’Inghilterra lo aveva espressamente incaricato di verificare la natura del nuovo circo giunto in città. Non l’avrebbe delusa.
- Ne scopra una. – lo invitò, ignorando la sua sterile protesta.
Il poliziotto eseguì meccanicamente per togliersi di torno l’impiccio. Ispezionò accigliato il disegno romantico sulla superficie. Non era il solito mazzo di carte marsigliesi che usavano le zingare lungo le fetide strade dell’East End. Una vegliarda era raffigurata al centro di un crocicchio. Lesse le parole sul bordo in alto. Non capiva il francese. La porse alla giovane donna.
- L’Ermite. L’Eremita. – colse un brillio nelle sue pupille – Lei è in dubbio, Mr. Dobson. Non sa se accordarci il permesso di restare o meno.
Era una nomade astuta. Declinava la situazione a suo vantaggio. C’era cascato come una pera cotta. Si rimproverò mentalmente per essere stato il responsabile di una simile ingenuità.
- Non posso fidarmi di un circo che apre di notte. Lei spinge borghesi per bene all’immoralità. – confessò, esprimendo più le preoccupazioni della Corona che le sue. In realtà era affascinato dal circo sin da bambino. Nella sua famiglia non si erano potuti permettere di vedere uno spettacolo finché lui non era cresciuto e aveva guadagnato qualche soldo. Le sue aspettative non erano state soddisfatte. Il triste tendone in cui si tenevano gli spettacoli era stinto e sdrucito. Dentro regnava la decadenza: clown vecchi e impacciati, acrobati pelle e ossa dalle braccia nervose, animali denutriti e stanchi. Gli era capitata una compagnia sull’orlo del tramonto. Da allora si premurava di mantenere una certa distanza da quegli squallidi posti. Tuttavia nutriva una curiosità insana per il nuovo circo arrivato, sviluppatasi voracemente nel corso della sua visita formale.
La donna rise cristallina. Adesso aveva la conferma che in città non si parlasse d’altro che di loro. Non poteva essere altrimenti. Il mistero attirava come una luce attira le falene. Risvegliava un istinto primordiale nei cuori di questi puritani castigati: conoscere ed esplorare l’enigma.
- Signor Dobson, - si concesse una pausa studiata per catturare la sua attenzione – Solo di notte i sogni possono prendere vita.
Aveva infuso l’enfasi giusta alle parole, dato che l’uomo la fissava stregato, la bocca semisocchiusa.
Si alzò iniziando a riordinare le carte nel mazzo.
- E il mio futuro? – domandò basito. Gli dispiaceva quasi non avere una lettura completa. Era assurdo ma la curiosità aveva prevalso.
- Oh, non voglio imbrogliare una mente intelligente come la sua. – lo lusingò ammiccando. La verità era che pure lei aveva il suo bel daffare e il mettere a posto voleva essere una spinta a concludere il discorso.
- Rinnovo il mio invito a lei e a sua Maestà la Regina nel venire a vedere il nostro spettacolo. – lo informò estremamente cordiale.
- Oh, ma la Regina va a dormire presto la sera. Non credo possa convincerla a … - si scusò a disagio lasciando la frase in sospeso. Il suo era un bizzarro invito. Per lui non esistevano problemi perché i suoi turni al commissariato erano anche notturni.
- Le riferisca che Elisabetta I non si curava di sporcarsi la veste di fango per andare a vedere le opere di Shakespeare nel suo scalcagnato teatro. Spero, a nome di tutta la compagnia, che per una notte segua l’esempio della sua antenata. – sorrise indecifrabilmente. Era uno strano paragone, tanto più si meravigliò della sua cultura, inusuale per una zingara. Aveva riportato l’episodio con la sicurezza con cui gli avrebbe predetto il suo destino. Insolito, davvero insolito.
- Riferirò. – si limitò a borbottare – Con permesso. – si chinò lievemente per educazione ed uscì dalla tenda.
Spero ritrovi la via di casa, sghignazzò nella sua mente divertita. Se aveva ragione, grazie a lui la loro leggenda sarebbe aumentata.
Si stava facendo sera e già giungevano al suo orecchio i bisbigli impazienti delle persone che attendevano davanti ai cancelli della biglietteria.
- Se ne è andato? – gracchiò una vocina proveniente da un punto dietro ai bauli.
- Si. – avvertì.
Un tonfo e il rumore di una sonora stiracchiata. La testa di un nano fece capolino, il sorriso a trentadue denti che gli deformava la faccia dalla fronte gibbosa. Aveva lunghi baffi e un pizzetto a punta di spada neri come il carbone. La chioma oltre le spalle era stretta da un nastro violaceo in un codino. Aveva un ghignetto beffardo sulle labbra come se fosse stato ad ascoltare la conversazione tra lei e il commissario di Scotland Yard.
- Una carta con Ecate, mia Signora? – era un’affermazione sarcastica piuttosto che una domanda.
Lei si sbottonò la giacca di foggia inglese, rivelando una fine camicetta bianca imbustata in un corsetto. Non le garbavano gli indumenti delle donne occidentali. Erano costrittivi e toglievano al corpo ogni attrattiva. Se pensava che avrebbe dovuto portare una tale prigione per le rimanenti ore notturne, le saliva la nausea.
- Si. Bizzarro, no? La Dea delle Scelte. – strizzò un occhio. Sapevano entrambi che non era l’unico significato dell’arcano maggiore. Romero, il nano, si immaginò con gran divertimento la faccia di Mr. Dobson se avesse scoperto che la loro signora non gli avrebbe potuto comunque fare nessuna lettura delle carte. Difatti queste dovevano sempre essere mischiate dall’interessato. Povero ignorante.
- E’ tutto pronto?
Annuì sorridente in un esagerato ed ampio inchino. Stava per rotolare via in una delle sue specialità, quando si batté una mano sulla fronte. Si stava quasi per dimenticare. Effettuò dietrofront e si arrampicò agilmente sulla sedia del tavolo, sostandovi in piedi. Pescò dalla tasca interna della sua giacchetta di panno una lettera sgualcita.
- Questo è per lei, Madame.
Lei fissò l’involucro come se contenesse del veleno.
- Appoggiala qui e vatti a preparare, Romero.  Gli ordinò, assorta nei suoi pensieri. Il nano obbedì rapido, caracollando sotto i lembi della tenda e sparendo.
Accese con lo sguardo un mozzicone di candela sul bordo del tavolo. Sulla busta era vergato in una scrittura fluttuante il luogo di provenienza: New York.
Fuori il marchingegno somigliante ad un orologio scoccò la mezzanotte. Il notturno in Do minore di Chopin si diffuse nell’aria.
 
*
 
Da quando era arrivata Celia non parlava. L’illusionista non aveva impiegato notevoli sforzi nel far si che avvenisse.
La bambina era indisciplinata e doveva tenerla costantemente d’occhio. Era dispettosa. Una delle sue frequenti marachelle consisteva nell’avviare ad intermittenza i lampioni a gas nelle strade della città americana. Un’altra nel far volare i documenti nel suo studio come impazziti. Immaginava non fosse abituata ad essere rimproverata. Le aveva riservato dei ceffoni quando lo esasperava ma non aveva ottenuto grandi risultati. Era una peste muta.
Un giorno aveva finalmente scoperto la causa del suo silenzio.
Era entrato spazientito nella sua camera perché non era scesa a fare colazione. L’aveva beccata in sottoveste e ancora sonnolenta.
Si era stropicciata gli occhi scrutandolo china su un cassettone aperto. Le pendeva qualcosa dal collo.
Si era avvicinato.
Celia l’aveva squadrato interrogativa e si era ritratta. Prospero fissava l’oggetto come se il malocchio avesse acquisito consistenza.
Aveva afferrato il sacchettino tirando la catenella d’oro a cui era appeso. La piccola aveva mostrato una smorfia di dolore. Dannatissima donna.
Era un amuleto zingaro.
Aveva sciolto il filo che chiudeva il sacchetto. Celia tentava di bloccargli le mani ma lui la ammonì con uno sguardo micidiale.
Lei aveva lasciato cadere con riluttanza le braccia lungo i fianchi.
Aveva svuotato il misterioso contenuto sul palmo sinistro ed estratto il monocolo dal taschino dato che il talismano era minuscolo. Lingua di maiale essiccata. E strappata, altrimenti sua figlia avrebbe parlato normalmente. Maledetta strega!
Secondo i suoi piani, l’avrebbe rimandata indietro senza sapere nulla di lei. Se credeva ancora che fosse l’ingenuo ragazzo di dieci anni prima era completamente fuori strada. Ripose l’inquietante amuleto nel pacchettino, stringendo il filo e riannodandolo. Gli sarebbe stata riservata una brutta fine se si fosse azzardato a distruggerlo. Trattenne il respiro, livido per il raggiro appena subìto.
- Vestiti. – le ordinò sibilando. Sarebbero partiti seduta stante con la prima nave per il vecchio continente.
Mireille era una donna melodrammatica. Non aveva dato credito alla lettera dove proclamava di suicidarsi. Una gitana troppo cattolica, suo malgrado, per commettere un tale reato contro Dio. Voleva essere sicura che la figlia tornasse con la prima nave da New York senza fare domande al suo padre naturale e senza che lui ne ponesse a lei.
Non aveva perso il vizio del segreto come quando si erano conosciuti anni prima a Parigi. Lui pittore squattrinato, lei modella per il nudo meno cara delle altre. Avrebbe dovuto cacciarla la prima volta che si era affacciata alla soglia della sua modesta casetta di Rue du Mont Cenis. La sua chioma inchiostrata di un nero astrale, gli occhi verde cristallo e il seno rigoglioso che occhieggiava dalla camiciola semiaperta cosparsa di monili valeva la pena di essere ritratta.
Notte dopo notte aveva chiesto il significato di ognuno dei suoi ninnoli. Si perdeva nei loro oscuri utilizzi illustrati sotto l’aspetto di racconti favolosi.
- Se io te lo svelo, tu cosa mi dai in cambio?
Era un giovane inesperto del mondo e aveva risposto di slancio:
- Il mio amore.
Lei l’aveva esaminato guardinga.
Non si era attesa una risposta del genere ma riflettendoci era l’unica che le poteva fornire un uomo nullatenente. Aveva acconsentito con un vivace sorriso.
I suoi quadri avevano iniziato a vendere molto. Era una bellezza esotica e i signorotti che passavano per Montmartre pagavano sonanti monete per abbellirci i loro salotti.
Mireille aveva preteso una percentuale. Gli era sembrato equo visto che era sua l’immagine che compravano. Peccato che crescesse mano a mano che diventava famoso. Ad un certo punto la somma da versarle non fu più proporzionale al gruzzolo che aveva accumulato. Si era indebitato con lei.
Il rapporto tra loro si incrinò. Litigavano come ossessi quando lei posava. Arrivò a tirargli un vaso cinese dai raffinati disegni azzurri che si schiantò rovinosamente contro la parete dietro di lui. Era biliosa e vendicativa. Aveva allevato una serpe in seno. Era probabile che l’oppiaceo dell’amore avesse smesso di profondere il suo effetto.
La sua ispirazione finì.
Monsieur Amalric, un commerciante appassionato della sua arte, fu dispiaciuto della notizia una fredda sera in cui il fiato si condensava in nuvolette di fumo. Aveva chiesto se fosse stato possibile vederlo per l’ultima volta all’opera dal vivo. Aggiunse che gli avrebbe elargito una lauta cifra per il disturbo. Prospero aveva sorriso, compiaciuto di quell’extra inaspettato. Chissà che non fosse riuscito a saldare il conto con Mireille?
Aveva sganciato una testa laureata al ragazzino che gli puliva i pennelli per andare a chiamare la zingara alla sua carovana.
Lei venne, il mento elevato in maniera altezzosa. Sapeva di essere merce preziosa in quel momento e questo non faceva che accrescere il suo ego di precoce quindicenne. Si inchinò devotamente al ricco signore mentre lui impastava i pennelli, diffidente. Avrebbe recitato fino in fondo il suo ruolo di professionista?
Monsieur Amalric si era carezzato i baffi perplesso, seduto sulla sedia in buono stato della sua modesta casetta. L’amante si era accomodata su uno sgabello e si era scoperta una spalla. Credeva di dover fare un semplice ritratto.
- MessieurRinaudo, cosa sta facendo la mademoiselle?
- Si prepara per un ritratto. – aveva piazzato una tela quadrata sul suo cavalletto. Era l’unico tipo di quadro che non prevedeva una lunga esposizione.
- Mais non, mais non! Voglio il genere che vi ha portato al successo: un nu!
Prospero era rimasto impietrito a fissarlo. Un nudo.
Non era una richiesta stramba per l’epoca. Diversi pittori permettevano di assistere nelle accademie e nei loro studi alla composizione di un tale genere.
Eppure un fremito gli percorse la spina dorsale. La sua pretesa lo aveva indisposto.
Prospero era stato un ragazzo romantico. Era convinto di essere stato il solo ad avere avuto il privilegio di ammirare il corpo di Mireille. Le mani gli sudavano nel frattempo che sostituiva la tela piccola con una rettangolare medio-grande. In quel esatto istante realizzò che la sua donna era stata in balia degli sguardi avidi della borghesia cittadina grazie alle sue creazioni.
Parallelamente si rese conto che fosse stolto illudersi della sua primogenitura su di lei. La monogamia non era una prerogativa di quella gente.
- S-si, come volete, monsieur. – acconsentì, soggiogato dalla sua realizzazione.
La gitana lo aveva fulminato con un’occhiata terrorizzata. La incitò con un gesto impaziente.
La ragazza si spogliò lentamente, le dita scosse da tremiti ogni volta che raggiungeva l’ultimo bottone di un indumento.
Un dubbio era serpentinato nella mente di Prospero. Possibile che lei…?
Aveva scacciato questo pensiero allarmante e aveva intinto le setole del pennello sforzandosi di non far intuire il suo disagio.
Stava per domandare ad Amalric come volesse il nudo, se frontale o di schiena, ma alzando gli occhi su di lui aveva capito dalla sua espressione quale desiderasse. Era arrossito dal fastidio. Gli occhi di un altro uomo che esploravano avidi le fattezze della sua amata. Perché lui era ancora innamorato di lei. Oh, si.
Mireille stava scrutando altrove imbarazzata all’inverosimile, imponendosi di risultare naturale e resistere all’impulso di riempire di graffi la faccia estasiata di quel mercante d’arte. Pensa ai soldi. Ai soldi. Si era concentrata nel figurarsi una borsa di monete al posto del viso compiaciuto del signore. Il pensiero di potersi sfogare su Prospero quando avessero finito non la stava esaltando. Aveva compreso lo facesse soltanto per ripagarla.
Non poteva sapere che la gola del ragazzo stesse bruciando proprio in quel momento di pura gelosia. Le sue pennellate erano violente e pesanti, come mai aveva dipinto. Il suo manierismo si era trasformato in un primitivismo dai tratti barbarici. Il suo cliente non gliel’avrebbe mai acquistato.
Mireille si accorse dalle sue pupille dardeggianti che qualcosa non andava. Non le era possibile muoversi ne placare con lo sguardo l’ira funesta di Prospero. In una circostanza differente avrebbe riso della sua repentina manifestazione di possesso ma lo conosceva abbastanza da temere la sua esplosione di rabbia. Assomigliava ai cieli della sua terra natia che volgevano dal tranquillo al minaccioso nel giro di una manciata di secondi.
Successe tutto troppo in fretta per avere la prontezza di reagire.
Il pittore sollevò la sua tela e la spaccò in testa a Monsieur Amalric.
Ripetutamente.
Quando lo fermò trattenendo un grido di sgomento l’uomo era già morto.
Lei l’abbracciò per calmarlo, il respiro affannato e rantolante di chi aveva avuto un accesso di follia.
Avevano trasportato il corpo giù per la collina. Come avessero evitato la vigilanza notturna era stato un mistero per lui. In parte era dovuto al fatto che la sua compagna conosceva meglio delle sue tasche vie traverse e scorciatoie per arrivare al lungo Senna. Avevano sceso le scale e avevano buttato il cadavere nell’acqua del fiume.
Si erano allontanati senza destare nell’occhio come se avessero a disposizione tutto il tempo del mondo.
Tornati nella sua casetta, Mireille aveva tolto dal portafoglio prelevato dal taschino dell’uomo gli spiccioli dell’affitto per la proprietaria e l’aveva cosparsi sul tavolinetto vicino alla porta. Prospero avrebbe voluto portarsi qualcosa con sé, ma lei gli aveva ingiunto irremovibile:
- Lascia tutto.
La  seguì facendo la scelta più maldestra che potesse fare.
Privo di nome e patria, dato per scomparso dopo settimane, fu costretto a reinventarsi una vita.
Ora era un Manouche. Si era dovuto abituare per sopravvivenza al pittoresco ambiente in cui era scivolato.
Era completamente smarrito. Aver chiuso la sua esistenza precedente con un assassinio non era stato l’ideale. Stranamente non era pentito del misfatto. L’essere ignaro della sfera privata del suo defunto cliente lo aveva soccorso. Era uno sconosciuto e il senso di colpa era stato caldo da digerire.
Celia sgusciò infine dalla sua camera, pronta col cappotto e il cappello per la partenza.
- E la valigia?
Scrollò la testa facendo intendere fosse a posto così.
Tale madre, tale figlia.
Come aveva compreso la sera del delitto, lui era veramente stato il primo uomo di Mireille e il padre Joseph aveva insistito affinché la sposasse. Lui aveva tergiversato obiettando che non aveva un lavoro e nessun soldo da parte. Il vecchio dai capelli lunghi e ondulati gli aveva assicurato che non fosse un problema. Lui era il capo della carovana e aveva accumulato una buona dote per sua figlia.
Dopo il matrimonio aveva scoperto che la metà della dote includeva un carro, quattro cavalli, tre galline e un cane scarno. I soldi li custodiva la moglie in un posto a lui ignoto.
Bella truffa.
Era in una condizione molto simile a quella di un prigioniero tra i selvaggi. Aveva rimpianto spesso la sua vita civile nella Ville Lumière. Compiangersi era servito a poco. Aveva bramato cambiare modo di vivere e l’aveva ottenuto.
Attento a ciò che desideri, Prospero, potrebbe avverarsi.
Anche Celia aveva desiderato vederla e le si era presentata davanti nella peggiore delle maniere. Sembrava essere una costante della sua esistenza. Ruotava tutto a quella donna famelica.
Salirono sulla carrozza, direzione porto di New York.
Quando gli fu chiaro che non poteva tornare al suo antico mestiere, provò un tipo differente di magia. Sul tragitto per Avignone si erano imbattuti in un mago che faceva raffinati giochi di prestigio. Questi era un signore distinto di notevole fama che viaggiava di teatro in teatro a mostrare i suoi prodigi. Si esibì ai bambini della loro cerchia con trucchi elementari ma in cambio di oscuri favori a Joseph, accettò di dare uno spettacolo per soli adulti.
I suoi trucchi avevano mutato registro rispetto a quelli del pomeriggio. Suscitavano una seria punta d’inquietudine. Qualche donna si era allontanata facendosi convulsamente il segno della croce. Spariva e appariva da posti impensati, spaventandoli e strabiliandoli ogni volta. Il trucco più orripilante fu quello in cui Prospero vide il fantasma di Monsieur Amalric che puntava gli occhi vacui su di lui. La sua apparizione assomigliava ad un dagherrotipo sbiadito. Ma le sue pupille erano pozze nere vivide con un sinistro scintillio nei recessi delle loro profondità. Aveva incominciato a tremare incontrollabile. Mireille aveva esclamato: - Bakt! – massaggiando con le dita una pietra legata al collo, incredula.
Per loro fortuna la figura non aveva il dono della parola. Se possibile, però, ciò la rendeva ancora più terrificante.
Questa pratica invece di allontanarlo come il resto dei maschi zigani, da occidentale curioso quale era, lo intrigò.
La mattina seguente aveva pregato Monsieur Houdin di insegnargli i suoi stratagemmi. Lui lo aveva gelato affermando che non lo fossero. La morbosità di sapere era stata centuplicata, tuttavia pareva che l’uomo si rifiutasse di rivelarli a tutti i costi.
Prospero confessava in cuor suo che all’inizio era stato spinto dalla brama di scoprire come avesse richiamato il suo mercante ucciso. Aveva osservato le anziane della tribù rovistare tra le immondizie  per predire la mano agli abitanti dei villaggi in cui passavano. Houdin non forniva per nulla l’impressione di setacciare in fetidi vicoli.
Lo assillò fino allo sfinimento. Gli offrì gli animali e gli oggetti più assurdi che possedesse, ben sapendo comunque che non avrebbero riscontrato l’interesse del borghese. Ricorse addirittura all’aiuto del suocero l’ultima sera di permanenza dell’uomo. Il vecchio era convinto che una canzone malinconica avrebbe smosso anche il più rigido degli uomini. Prospero aveva negato, rassegnato, con il capo. Non avrebbero cavato un ragno dal buco. Joseph avrebbe voluto portare con sé pure la figlia però il genero si oppose energicamente. Non per gelosia ma per la fastidiosa caratteristica di Mireille di voler volgere le cose a suo personale beneficio. Joseph aveva messo sul tavolo dell’illusionista due bottiglie di Porto e aveva accordato il suo strumento, una mandola. Prospero pensava a versare i bicchieri, stando attento a non nominare lo scopo della sua visita. Come se l’altro non se lo immaginasse!
La nenia dell’anziano gitano era malinconica. Raccontava di speranze deluse e di un amore finito male. Non proprio la classica canzone allegra popolare.
Non aveva contato quanti gocci avesse bevuto Houdin, ma lui aveva incominciato ad avvertire un leggero mal di testa. Non era il solito vino annacquato di Joseph.
Finita la canzone, l’uomo lo guardò e gli domandò in francese forbito, così che il capo della carovana non intendesse:
- Anche voi siete un uomo dalle speranze deluse?
Prospero non aveva mai nutrito particolari speranze. Si era sempre augurato di guadagnare quel tanto per sopravvivere. Intravedendo una possibilità, tuttavia, per il compimento del suo fine decise di rispondere sì recitando un’aria affranta. Gli zingari erano maestri di recitazione provetta e lui aveva appreso il fondamentale.
- Siete un uomo pronto a tutto? – gli chiese scrutandolo a fondo negli occhi. Le sue iridi ardevano come i tizzoni di un fuoco da campo.
Ebbe un attimo di panico.
Pensava di dover imparare dei trucchetti da baraccone non di farne una questione di vita o di morte.
Aveva assentito in una sorta di trance ipnotica.
L’illusionista aveva congedato suo suocero ringraziandolo. Prospero l’aveva visto uscire quasi rimpiangendo la sua azione avventata. Una sensazione di angoscia gli aveva attanagliato la gola quando aveva udito il tonfo della porta richiusa.
Aveva riconcentrato il suo sguardo su Houdin e quello che ci aveva trovato gli aveva fatto desiderare di essere nel suo carro sotto le coperte con la sua sposa.
 
*
 
La gente sui marciapiedi rallentava il passo alla vista di quel singolare carretto nero dipinto sul lato destro di farfalle violacee. Non erano presenti scritte che denotassero cosa fosse. C’erano solo un ometto che lo trainava per mezzo di un pony e un uomo altissimo con il cilindro che imboniva il pubblico occasionale.
Pareva impossibile per i bambini non bloccarsi davanti alla sua figura in frac e pantaloni stretti a righe bianche e nere. Era truccato in faccia come un Pierrot. Un picche nero  troneggiava sulla sua fronte e il taglio dei suoi bulbi oculari aveva un che di luciferino.
Si toglieva la tuba a più riprese indicando con la punta argentata di un bastone uno spioncino rotondo al centro del carretto.
- Venite a sbirciare le meraviglie della Magic Box de le Cirque des Rêves! Boîte Magique!
I bimbi battevano le mani eccitati, tirando le vesti delle mamme perplesse. Una di queste indugiò verso l’uomo.
- Parfait! – esclamò quello, entusiasta. Si issò la bambina in braccio e la accompagnò accanto alla fessura.
- Guarda dentro, ma chère. – le soffiò all’orecchio. Questa non se lo fece ripetere. Piantò l’occhio impaziente nell’occhiello protetto da un vetro.
- E’ un caleidoscopio? – chiese la madre, leggermente corrucciata per aver perso momentaneamente il controllo di sua figlia.
L’imbonitore gli sorrise con fare misterioso.
- We don’t offer the real but the surreal.– disse senza una sfumatura di accento francese.
La bimba sferrava gridolini di giubilo come quando correva d’estate per la campagna inglese. Un miracolo in quella Londra di cieli grigi e facce appese.
- Siete meglio dell’Egyptian Hall. – commentò stupita la signora. Lui le porse la sua bimba con flemma delicata. I suoi movimenti erano gentili ed eleganti, meglio di quelli di un gentiluomo.
- Egyptian Hall? Non c’è nulla di più triste di un tempio egiziano eretto in una terra che non gli appartiene, Madame. – dichiarò con una nota melanconica nella voce.
Si fecero avanti altri bambini e persone adulte stregate da quella scatola nera.
La signora chiese alla figlia cosa aveva visto da generarle una tale felicità. Ella sorrise caldamente ripensando alla piacevole visione. Incontrò l’occhiata interrogativa della madre e si attorcigliò una ciocca intimidita.
- Ho visto Cleo. Mi abbaiava e si rotolava sull’erba. – indugiò insicura – Sembrava stesse dentro alla Magic Box!
La mamma arrestò la sua camminata tremendamente smarrita.
- E’ la verità, Mary? – la ammonì con severo cipiglio.
Lei annuì, impaurita dallo spauracchio di un ceffone.
Increspò le sopracciglia reprimendo a stento lo shock.
Cleo era il loro cane deceduto l’anno precedente.
 
*
 
Celia aveva provato a buttarlo in mare aperto in varie occasioni durante la traversata. Lui però conosceva dove nascondersi e non era spaventato dai goffi tentativi di una ragazzina di nove anni. Non aveva il minimo senso della famiglia. Palesemente nessuno si era preoccupato di impartirglielo. Paragonava il padre ad un nemico che gli era d’intralcio. La sua presenza non era stata programmata nel viaggio di ritorno. Più i giorni correvano, più i suoi tentativi si facevano insistenti. Aveva paura della punizione che le avrebbe riservato la madre?
Se avesse avuto ancora qualcosa da temere, era probabile che non si sarebbe avviato tranquillo verso la sua antica sposa.
La notte in cui Houdin gli aveva svelato i suoi segreti aveva dovuto affrontare le sue paure sepolte. Una specie di percorso iniziatico che gli era sembrato protrarsi anni e invece erano trascorse solo nove ore quando si svegliò il mattino nudo per metà nel campo di sterpaglie dietro ai carri zigani.
Era come se avesse vissuto un sogno lungo un’intera notte.
Aveva sete e la prima cosa che aveva fatto era abbeverarsi alla fonte delle bestie in prossimità di dove era disteso.
Al ritorno all’accampamento aveva scoperto che l’illusionista era partito senza salutare alcuno.
Mireille era balzata giù dalla loro abitazione con le ruote per precipitarsi ad abbracciarlo. Stava bene? Cosa gli era capitato? I suoi occhi astuti urlavano: ci sei riuscito?
Lui fece finta di non averne afferrato il senso.
Rimase per qualche settimana a fissare le stoffe decorate di perline alla parete di legno della loro casa. Era combattuto ma capiva che ormai era saltato su un treno in corsa che era impossibile fermare.
- Non dovresti cercarti un lavoro, mh? Io ce l’ho da un pezzo! – lo punzecchiò la moglie mollandogli delle monete sul banchetto. Il tintinnio lo distrasse dalle sue riflessioni.
Era invidiosa  della sua conoscenza acquisita. Frequentava le anziane della tribù per assorbire la loro sapienza magica. Aveva intuito qualcosa di nuovo in lui e si era premunita. Sarebbero stati in competizione. Pareva essere quello il loro destino.
Si focalizzò sulle monete. Una vibrazione le fece tremolare. Cozzarono tra di loro e alla fine si sollevarono rotando nell’aria.
Mireille indietreggiò per il gesto magico inatteso.
- Lo sapevo! – sputò inviperita, come se le avesse inferto il peggiore dei torti.
Stranamente il loro odio reciproco, essendo pur sempre un sentimento, aveva giovato alla loro relazione. Di giorno si sfidavano e di notte si univano in preda alla passione. La rivalità era la linfa vitale del loro nuovo rapporto.
Celia fu concepita nella tenebra di una notte di Luna Nera, dopo i bagordi per la festa di Saintes Maries de la mer.
L’arrivo della figlia aveva rischiarato la sua anima. Girava per Avignone in cerca di un qualche teatro di terzo ordine che lo ingaggiasse per delle serate di illusionismo. Le porte gli erano sbattute in faccia. Le espressioni erano quelle inorridite di chi si fosse imbattuto in un ratto schifoso.
La sua fisionomia era cambiata dai tempi di Parigi. I capelli e le basette allungati, la barba folta. Non era un’immagine rassicurante in un’epoca di colletti bianchi e inamidati. Se non fosse risultato rispettabile, non sarebbe andato da nessuna parte.
Lavò il vestito della festa, si immerse in una tinozza, si rasò la barba con dolore per disabitudine, si vestì e si chiuse in un mantello scuro che aveva sgraffignato in un caffè alla moda in città.
La sua carriera non decollò subito. Doveva levarsela a gambe al passaggio della polizia perché il suo pubblico era lo stesso che attendeva la prima di una tragedia davanti al teatro principale. Una sera il direttore uscì per intimargli di togliersi dai piedi. Rimase incantato dal suo spettacolo di palline che salivano e scendevano prive dell’ausilio di un filo che le legasse. Dopo avergli assicurato che avesse in serbo una parure di trucchi validi, riuscì ad ottenere un contratto per una stagione.
Mireille gli aveva fatto da assistente finché aveva potuto. Conseguentemente il pancione l’aveva impedita nei movimenti e aveva necessità di restare a riposo in maniera tassativa.
Assunse una ragazza, dato che un ragazzo sarebbe stato problematico. Di sicuro avrebbe scalpitato per conoscere il dietro le quinte ed era un rischio che non si poteva permettere. Augustine era  l’opposto di Mireille. Diafana, bionda, occhi azzurri. Bastò un mese per trasformarla in una sua devota seguace. Eseguiva ogni direttiva al massimo della meticolosità. Aveva sviluppato una deferenza malata nei suoi confronti. In una circostanza l’aveva sorpresa mentre affondava il naso nel suo cappotto inebriandosi del suo profumo.
Prospero la licenziò in tronco. Aveva già una pazza che lo aspettava a casa.
Augustine non demorse. Si presentava al campo in orari impensati, spaventando a morte Mireille che non era una fragile di cuore. La ragazza aveva lo sguardo fisso di una persona tormentata dall’ossessione.
Prospero dubitava che gli sbirri ascoltassero le lamentele di uno zingaro. Si risolse di impaurirla con il vecchio sistema di Houdin che aveva affinato nelle sue performance. Mireille, tuttavia, sosteneva fosse una questione tra donne e le andò a parlare. Quando rientrò si mise a sedere lentamente, gli occhi sbarrati.
- Quella donna è stregata. – disse sussurrando flebilmente come se avesse incontrato un mostro a tre teste. Si voltò, attonita.
- Cosa le hai fatto?
Lui si discolpò immediatamente, asserendo che non l’aveva sfiorata con un dito.
Lei lo contemplò sospettosa e per nulla dissuasa. Era conscia del fatto che suo marito non fosse più lo stesso da quella fatidica notte con l’illusionista. Secondo quanto l’avevano istruita, un individuo di magia o uno sciamano emanavano un’essenza incantatrice che era capace di stordire le persone deboli. Invece di meditare su un metodo per liberare la povera ragazza da una simile possessione, si arrovellò per usarla a proprio vantaggio.
Divenne la loro schiavetta.
Era incaricata delle faccende che un tempo erano a suo appannaggio.
Forse chiamò la figlia Celia perché stava vivendo una condizione celestiale in quel periodo, non poteva saperlo.
Sul tardi di un pomeriggio la nave attraccò a Londra. Impiegò trenta minuti esatti per uscire dall’imbarcazione perché Celia era come di consueto introvabile. Allorché capì che era già sgattaiolata via dal porto montò su tutte le furie. La sua ricerca della madre sarebbe stata difficoltosa senza una guida.
Un volantino trasportato dal vento si spiaccicò sulla sua faccia. Stava stracciandolo infastidito dal suo viso bagnato dalla carta umida  ma notò una scritta svolazzante come ali di farfalla. Era il carattere di stampa inconfondibile del circo che aveva fondato.
Le Cirque des Rêves.
 
*
 
Le persone entrarono con bisbigli eccitati nel tendone.
L’interno era buio. Solo le file delle scalinate erano illuminate da fiaccole a gruppi di tre. La gente reggeva delle candele che gli erano state distribuite all’ingresso da un tizio di cui nessuno aveva scorto nitidamente il volto.
Il sonno era svanito per la trepidazione di uno spettacolo singolare.
Non si erano attesi quel silenzio spettrale. Di norma un circo era celebre per il chiasso che provocava in città e molti di loro erano oltremodo sollevati quando le varie  compagnie ripartivano per respirare nuovamente la pace.
Ci fu un mormorio improvviso. Si diceva che Sua Maestà la Regina Vittoria fosse tra di loro sotto mentite spoglie. Per un quarto d’ora ci fu un inutile voltarsi di teste per distinguere nel buio l’ospite regale. Qualcuno obiettò che di certo Sua Altezza preferiva rimanere nell’anonimato e di rispettare questa scelta.
L’attenzione si assiepò in un punto davanti a loro in cui potenzialmente lo spettacolo sarebbe dovuto avvenire.
- Stanotte vogliamo avvicinarvi alle stelle. – dichiarò una voce fuoricampo.
Si meravigliarono per l’assenza di parole di presentazione del circo e del suo programma. Difatti non era stato consegnato nessun foglietto.
Due lanterne di riso cinesi si accesero ai margini di quella che sembrava una normale arena di sabbia e fluttuarono dolcemente nell’aria.
- Non saremo noi ad intrattenervi ma voi ad intrattenerci. – continuò la voce con un sottile tono deliziato.
Lo sfrigolio di una lampadina elettrica in basso ai loro piedi. La fragile luce evidenziò le scarpe di un uomo in tight, mantello e tuba. Erano farfalle viola quelle disegnate sulla sua guancia? Si inchinò e guardò il pubblico. Profonde occhiaie nere gli solcavano il viso. Nonostante il largo sorriso, la sua aura non era confortante.
Batté le mani grassocce inguantate: - Che lo spettacolo abbia inizio, Mesdames et Messieurs!
Le lanterne sparirono nell’oscurità del tendone.
I cuori pulsavano accelerati nei petti per la frase insolita dell’uomo. Come dovevano fare? Dovevano alzarsi e recarsi nell’arena? Il presentatore non aveva fatto riferimento a niente di quel senso.
Un ringhio sommesso li fece sobbalzare all’unisono sugli spalti. La tensione era palpabile. Le lampadine si attivarono ad una ad una.
Una giungla si stendeva davanti ai loro occhi basiti. A coloro che c’erano stati ricordò subito l’India. Il verde smeraldo delle foglie e la tigre che trotterellava tra la vegetazione era un paesaggio eloquente. Un esploratore sbucò correndo da un cespuglio chiamando: - John?
Qualcuno rise.
- John, se è uno scherzo, esci fuori. Ho una tigre alle mie costole e mi serve una mano. – era sbrigativo ma si avvertiva la paura nascosta nella sua intonazione.
Un signore tra la folla stava sudando visibilmente. Si tolse il cappello e si sbottonò il gilet grigio satin. Non aveva la più pallida idea di che cosa stesse succedendo però lui era John. E quello giù nella radura indiana era il suo migliore amico Percy. Era morto mentre erano in esplorazione. Per il morso di una tigre.
- Jooohn!
Sussurrii preoccupati. Il pubblico era insicuro. Era vero o era un attore? Il nome John era piuttosto comune, tuttavia coloro che vi si chiamavano non avevano il sentore di conoscere quell’uomo laggiù.
Il John in questione respirava affannosamente. Era un sogno ricorrente delle sue notti. Lo cercava disperatamente per la giungla e quando era ad un passo dal salvarlo si destava. Era uno strazio rivivere quegli istanti saggiando la propria impotenza.
Si sfilò i guanti di pelle e la giacca, lasciandola cadere con negligenza sul suo posto.
- Arrivo! – gridò esasperato. Questa volta l’avrebbe soccorso in tempo. Corse a perdifiato sulle scalette per sconfiggere l’incubo che lo inseguiva di notte.
Prospero sbirciava la scena straziante da uno spiraglio semiaperto del tendone. Era stata un’idea della sua soave moglie quell’evoluzione della sua arte illusionistica. Non era così spietato.
Mireille e la sua truppa erano stati ardui da scovare. Il circo si rivelava soltanto a chi lo voleva trovare. Il suo animo invece era sempre combattuto.
Aveva scavalcato la cancellata con difficoltà, non era più il giovane di un tempo.
Non c’era una stretta sorveglianza in un luogo che non temeva nulla.
Una sagoma avanzò verso di lui elevando la lanterna per scoprirgli il volto.
- Abbassati il bavero, Prospero, ti ho riconosciuto. – gli annunciò con stanchezza – Immaginavo saresti venuto.
-  Mi fai addestrare nostra figlia per farla diventare una di noi? – chiese a bruciapelo.
- La curiosità uccise il gatto. – rise vacuamente. Per quello che era in grado di scorgere, la sua bellezza era rimasta intatta. I suoi occhi, tuttavia, fremevano d’inquietudine.
- Che c’è, Mireille? – non gli importava. Si convinse che era solo per il bene di Celia che le porgeva una domanda del genere.
La zingara fissò la punta dei suoi stivaletti per un minuto, pensierosa.
Gli indicò di seguirla in una tenda vuota. Lei gli passò la lanterna e si slacciò il corsetto.
- Mireille, che diamine… - quali erano le sue intenzioni?
- Taci e solleva la lanterna verso il mio fianco. – lo incitò quasi strillando. Lui eseguì controvoglia.
Osservò uno squarcio di carne putrefatta, vermi vivi che la bucherellavano come una mela succosa. Dovette coprirsi le narici con un fazzoletto per il lezzo delle esalazioni.
- Come…? – era esterrefatto.
Capiva che non era un morbo qualunque. Era come se il corpo stesse marcendo dall’interno.
Lei era mortificata per aver rivelato la sua debolezza a qualcuno. Ma lui era l’unico che era capace di comprendere.
- Sarai contento ora. Le vecchie Manouche me l’hanno fatta scontare.
La loro ricchezza era accresciuta e nell’accampamento ciò non era stato inosservato. In principio alcuni uomini bussavano alla porta di Prospero per dei prestiti. Poi Augustine era stata “assunta” come serva nel loro carro. Si mormorava non avesse la facoltà di intendere e di volere.
Le anziane avevano inquadrato la situazione prima di tutti e avevano sconsigliato agli altri di fare visita o appropinquarsi alla coppia. Gli affibbiarono l’appellativo di Maledetti.
Le comunità dei villaggi nei quali sostavano però erano affascinate dai due ed era un continuo viavai nella loro casa mobile di persone che li volevano intervistare e imparare i trucchi di Prospero.
Lui attribuiva l’ostilità della tribù all’invidia. Mireille d’altro canto era martellata dal fatto che dovessero andarsene al più presto. Era intimorita dalla probabilità che se fossero rimasti ci sarebbe scappato il morto. Il marito aveva giudicato come esagerate le sue supposizioni, in fondo non avevano commesso nulla di male. Le sue magie erano innocue e solo in casi speciali inscenava lo stesso numero di Houdin con i fantasmi.
Partirono per precauzione. Fu un problema arrabattarsi privi del sostegno della famiglia di Mireille.
Si dice che i tempi difficili aiutino ad aguzzare l’ingegno.
Mettere su un circo sarebbe stata la soluzione alle loro asperità finanziarie. Non erano più abituati a risparmiare e la vita normale senza una carovana alle spalle era dura.
L’intrattenimento circense era un genere di spettacolo molto in voga all’epoca e i circhi spuntavano a centinaia. Occorreva distinguersi in quel mare in fermento.
Prospero ebbe l’idea di basare il suo circo sulle illusioni. Né animali veri né acrobati né giocolieri. Solamente sogni. Persone clown di se stesse.
Reclutavano individui durante i suoi show nei teatri e per strada. Gli insegnava trucchetti e magie minuscole per intrattenere gli spettatori negli intervalli ma il fulcro dello spettacolo lo conduceva lui.
Si accorse che rievocare i bei sogni non elettrizzava particolarmente il pubblico. Lo imbarazzava e lo faceva alzare sdegnate reclamando i soldi del biglietto.
Fu sua moglie a suggerirgli di concentrarsi sui sogni ricorrenti. Rammentava di uno zio che non si era dato pace per tutta la vita per non aver detto la verità ad un suo amico. Era morto nel sonno per il tormento.
Provarono e la gente fu rapita.
L’aria di mistero che avevano pennellato intorno al loro tendone attirava come le api dal nettare.
I componenti della loro compagnia erano rinnegati della natura: nani, zoppi, ciechi che non avevano nulla da perdere. L’esercizio delle magie li nobilitava per qualche ora all’occhio dello sprezzante borghese che li condannava di giorno.
La loro cassa era sempre piena e pareva che nulla sarebbe andato storto.
Accadde un incidente.
I sogni riprodotti non erano reali, soltanto la persona che li viveva lo era.
Una signora ansiosa fu colpita da infarto nel mezzo dell’illusione. Il sogno era svanito e un gruppetto di uomini era balzato giù per accertarsi delle sue condizioni.
I sogni si erano trasformati in incubi.
Fu una disgrazia. Si gridò allo scandalo e il governo francese gli spedì un loro funzionario con un’ordinanza di chiusura immediata.
Una sera in cui Prospero si era ubriacato pesantemente per attutire il suono degli strepiti di Mireille che lo accusava di continuo, vide Houdin che gli sorrideva placido sulla soglia della sua tenda. Ancora adesso non sapeva valutare se fosse stata un’apparizione o meno.
- Hai spinto troppo in là le tue illusioni.
- Tu mi avevi garantito che la tua magia non avrebbe fatto male a nessuno.
Lui scrollò il capo. Lo compativa.
- Io non ti ho garantito niente. Avresti dovuto capire i tuoi limiti e fermarti in tempo. – lo rimproverò.
- E’ colpa di quella donna. – scaricò la colpa, avvelenato.
- E’ di entrambi. – gli si avvicinò, le iridi scintillanti. Aveva qualcosa in mente. D’istinto si tirò indietro sulla sedia.
- Potresti trasformarlo in un circo notturno irrintracciabile e proseguire a guadagnare soldi. -  gli propose di slancio. Perché glielo diceva?
- Ho pagato già con due vite la mia cupidigia. Ho chiuso.
Il mago aveva piegato la bocca in una u rovesciata, deluso.
- Capisco. – ed era scomparso così come era apparso.
La zingara fasciò con una benda pulita l’infezione sul fianco. Raccolse il corsetto.
- E’ venuto da te. – realizzò – Ecco perché hai deciso infine di non raggiungermi con Celia in America e portare avanti questa pazzia.
- Non mi dispiaceva come vita. – si difese, allacciandosi energicamente il bustier – Ho mandato Celia da te perché non volevo usasse i suoi poteri innati in maniera sconsiderata come abbiamo fatto noi. E inoltre non volevo ti informasse del mio stato.
Respirava faticosamente. Prospero lottò con le sue dita nervose per allentare quella costrizione.
- Il circo finirà con me, Prospero. – sentenziò.
- Perché le anziane ti avrebbero fatto questo? Non sono state le tue maestre? – Mireille arresa, era un evento di rarità unica ma ora che gli era accanto si era accorto di rughe che non aveva notato in precedenza. Aveva lottato ed era stremata.
- Mi hanno voluta punire per aver disobbedito ai loro moniti. Una delle leggi base della vita è di non andare contronatura. E io non me ne sono affatto curata. – si sedette per terra. Il bruciore era lancinante. Prospero si accovacciò cercando ancora con lo sguardo delle risposte.
- Perché maledire te se non l’hanno fatto con Houdin? E per quale motivo questa maledizione – additò il suo fianco – non l’hanno scagliata pure a me?
Lei gli carezzò una guancia. La sua mano era gelida come il marmo. Se fosse stata un’infezione ordinaria avrebbe dovuto avere la febbre.
Stava scivolando così rapidamente nelle braccia della morte che stentava a crederci.
- Il mio interrogativo al contrario è perché tu sia venuto.
Lui non rispose.
Già. A distanza di anni ricadeva nelle debolezze del passato. Una porzione di lui amava ancora la ragazzina che era stata un tempo.
Lei sorrise, presagendo dalla sua espressione turbata la risposta.
- Le anziane non si sono sbagliate. A quanto pare, soffrirai per la mia perdita. Per loro sarà sufficiente. – si schiarì la gola rantolante invano. Tossì convulsamente.
Lui la cinse tra le braccia puntando la schiena contro la struttura della tenda.
- Perché non Houdin? – ripeté, assorto.
- Prospero, veramente non hai capito chi fosse? – lo osservò dal basso, sorridendogli come quando aveva un’intuizione prima di lui.
Lui corrugò la fronte, spaesato. C’era sempre stato qualcosa che gli era sfuggito nelle pupille di quell’illusionista.
Gli fece cenno di protendere l’orecchio verso la sua bocca viola per l’ombra incombente della Nera Signora.
- Era il diavolo.

 
 
 
 
 
 
 
   
 
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