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Autore: BlackLuna    17/02/2012    7 recensioni
Mi sentivo sempre come sull’orlo di un precipizio e non c’era nessuno a trattenermi, nessuno a cui la cosa importasse, o che se ne rendesse almeno conto.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Coppie: Jack Dawson/Rosalinda Dewitt Bukater
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Fu grazie alla mia disperazione che lo vidi. Fu grazie alla mia malinconia, alla mia depressione, al  senso di claustrofobia per la mia intera vita che lo vidi. Era una sera come tante altre, l’unica cosa che c’era di diverso era che non mi trovavo in qualche salotto di alta società, ma nell’area ristorante di prima classe della nave più grande che l’uomo avesse mai visto sulla terra. Stavo li, seduta a un tavolo con delle persone che ridevano di cose secondo me senza senso, senza significato e importanza, prive di qualsiasi interesse. Da un lato mia madre conversava con il suo vicino, di pettegolezzi e piccoli scandali probabilmente, dall’altro c’era il mio promesso sposo, l’uomo più viscido e pomposo che mia madre avrebbe mai potuto scegliermi. Il solo modo con cui appoggiava il suo sguardo su di me mi faceva venire il voltastomaco, con quello sguardo autoritario, come se si aspettasse che chinassi la testa e obbedissi a qualsiasi cosa che lui pronunciava, come se fossi qualcosa di sua proprietà, un gioco, un bel quadro da mostrare per pavoneggiarsi.  Guardavo le persone attorno a me e vedevo soldi, interesse, arroganza, e non potevo sentirmi più lontana da quel mondo. Pur chiudendo gli occhi non riuscivo ad allontanarli dalla mia mente, il suono delle loro risate risuonava nelle mie orecchie come a volermi tenere inchiodata a quella realtà falsa, fredda e gretta, fatta di gesti finti e di etichette. La mia vita era come il corsetto che avevo addosso, mi stringeva facendomi quasi soffocare, senza darmi l’opportunità di fare un solo respiro profondo, costringendomi in una posizione altezzosa, diritta, innaturale. La mia vita era una gabbia, una gabbia che si stringeva sempre di più intorno a m togliendomi il respiro. E le pareti della gabbia si stringevano, e si stringevano, e nella mia gola si creava un grido che non avrei mai potuto emettere.
 
Ed è per questo e mi misi a correre. Fuori dalla sala da pranzo di prima classe, fuori dalla mia camera e dai miei alloggi, correre per quanto il vestito stretto e le scarpe con il tacco mi potessero permettere. Sapevo di essere goffa, forse, ma non mi importava. Non mi importava di andare contro distinti signori in frac, non mi interessava spintonare signore con cappelli improbabili di piume, non mi interessava che sentissero l’affanno che aumentava mentre correvo, come non mi interessava che notassero le mie lacrime. L’urlo che si era formato lungo tutta la mia vita stava per uscire, lo sentivo spingere con forza e si materializzava nella forma di grosse lacrime che mi annebbiavano la vista mentre mi correvo verso la poppa della nave. In realtà non era quella la mia meta, non avevo nessuna meta, lasciavo semplicemente il mio corpo libero di prendersi un briciolo di quella vita vera che mi era sempre stata negata, non mi ricordavo nemmeno quando era stata l’ultima volta che avevo potuto correre indisturbata. Ma questi non erano pensieri a cui badavo mentre in quel preciso istante, la mia mente era sgombra da qualsiasi cosa, era come se non fossi io a vivere la scena, ma come se fossi solo una spettatrice, come accade a volte nei sogni. Solo che il mio non era un sogno, era un incubo.
 
Mi fermai di scatto, qualcosa aveva interrotto la mia corsa, andandomi a finire dritto nello stomaco. Doveva essere un qualche macchinario della nave. Se non altro questo mi fece tornare in me, e mi resi conto di essere arrivata sulla poppa. Il mare scorreva dietro il Titanic lasciando una scia più chiara, la notte era limpida e la luna si rifletteva nell’oceano facendolo scintillare come un diamante. Oltrepassai il mio ostacolo  e ora, camminando lentamente, mi avvicinai alla ringhiera. Ogni passo che facevo rendeva più nitida l’immagine che si stava lentamente formando nella mia mente. Una volta giunta a poggiare le mani sulla ringhiera, quell’immagine era chiarissima. Il vento scompigliava i miei capelli rossi, prima stretti in un acconciatura tenuta ferma da mille forcine, ora lasciati liberi e ribelli. L’odore di salsedine era piacevole e mi chiamava, le onde pronunciavano il mio nome, come per invitarmi a raggiungerle.
…Rose…
 Le lacrime avevano smesso di scendere, ora che avevo deciso cosa fare della mia vita. Con non poca difficoltà scavalcai la ringhiera, lembi del mio vestito si impigliavano in continuo, come se fossero le mani di mia madre e del mondo che lei rappresentava che tentavano di riportarmi indietro. Ma  non c’era nessuno a fermarmi. Nessuno ch mi potesse dire cosa fare. Mentre guardavo l’oceano sotto di me, sapevo che non ci sarebbe stato nessuno a comandarmi di tornare a bordo. Ero libera, libera di saltare, libera di scegliere. E di morire.
Ero pronta, distesi le braccia, mi protesi in avanti, ma qualcosa mi impedì di lasciare la presa. Anzi, più che qualcosa, fu qualcuno.
-Non lo faccia.-

Quelle parole cambiarono tutto. Furono quelle prime parole a salvarmi. Ciò che avvenne dopo, per quanto travolgente  e unico, non potrà mai avere un importanza maggiore di quelle prime tre parole. Fu con quelle prime parole che Jack cominciò lentamente a salvarmi. Non solo dalla mia idea di suicidarmi, ma anche dalla mia stessa vita. Forse anche da me stessa. Per questo posso dire con certezza che lui mi ha salvata, in tutti i modi in cui una persona può essere salvata

  
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