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Autore: lilly81    29/09/2006    30 recensioni
Trunks ha quattro anni ed è un bambino sveglio e vivace, ma alla Capsule Corp. c’è qualcosa che lo spaventa a morte… Una fanfiction dedicata a quanti amano la coppia Bulma/Vegeta, rappresentati nell’intimità e nella quotidianità della loro casa.
Genere: Romantico, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Bulma, Trunks, Vegeta
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Gravity room”

 

“Gravity room”

 

 

 

Da bambini si ha una diversa percezione degli spazi e delle cose che sono in casa, un modo distorto e del tutto personale di rapportarsi alle loro dimensioni, col metro della statura e della propria fantasia.

Il salone è grande quanto un campo di calcio ed il corridoio è la pista più adatta e meno pericolosa per imparare ad andare su due ruote.

Nella propria stanzetta esistono angoli remoti ed inesplorati che le fantasie notturne popolano di entità dai profili aguzzi e dai ghigni malvagi.

Quando si diventa alti, gli ambienti si fanno angusti, le stanze assumono contorni più netti, le paure commutano in confidenze.

Trunks aveva da poco compiuto quattro anni ed era un bambino sveglio e vivace.

La sua stanzetta era una camera annessa a quella della madre, ma la porta comunicante era stata chiusa a chiave già da un bel pezzo: meglio evitare imbarazzanti invadenze in certi momenti… quando c’era anche Vegeta insieme a lei nel letto.

Dormiva da solo, alla luce verdeggiante di un abatjour a forma di coccinella che la donna gli lasciava acceso accanto al letto dopo il bacio della buona notte, fin da quando era in fasce.

Aveva familiarità con le ombre dei giocattoli proiettate sulle pareti dipinte di giallo e, se qualche volta si era soffermato ad indovinarne la sorgente, era stato solo tra un battito stanco di ciglia ad un passo dalla sonnolenza.

Dormiva profondamente anche quando fuori, nelle notti d’inverno, la tormenta imperversava contro i vetri appannati della finestra.

Poteva stare tranquillo perché il mostro cattivo era in fondo al corridoio, saldato nel muro con le leghe più irriducibili del ferro e del carbonio.

Era una porta d’acciaio più grande di tutte le altre, tetra e sinistra.

A lui pareva alta e massiccia come una montagna.

Al centro aveva per maniglia una manopola a pressione grande quanto lo sterzo di un’auto.

Non sapeva leggere, ma “gravity room” era l’incisione che compariva in alto, al di sotto di una fessura di vetro compatto, larga poco più di un palmo, che affacciava all’interno.

Quando lasciava la sua stanza, gettava un’occhiata in tralice verso quella direzione e poi sgattaiolava intimorito alla volta del salone centrale dove non mancava di trovare sua nonna, intenta, a modo suo, nelle faccende domestiche.

Questa, infatti, agitava il piumino da spolvero con la stessa grazia della bacchetta di una fata, gli porgeva l’eterno sorriso senza rughe e gli faceva tante sdolcinature fastidiose, oscillando la gonna larga e lunga o sfoggiando gli abitini che aveva da ragazza.

I robot costruiti dal nonno accorrevano dalle altre stanze e lustravano a dovere l’impiantito a scacchi.

Al ritorno, la porta era ancora lì con la sua scritta indecifrabile che assomigliava ad un sopracciglio aggrottato e a due occhi spiritati, con la manopola al centro atteggiata in un ululato.

Allora avanzava con flemma rasentando il muro ed intrecciando un dito tra i capelli.

Magari canticchiava anche un ritornello per sentirsi meno solo.

Solo qualche volta si faceva coraggio e si fermava ad osservarla meglio, faccia a faccia, e così da vicino scopriva che non aveva più il sopracciglio arricciato, gli occhi convulsi e che la bocca era soltanto una ruota di ferro tirata a lucido e niente altro.

 

In una mattina d’inverno, di quelle che fanno più umido e grigio l’asfalto, sua madre lo aveva imbacuccato per bene e lo aveva portato con sé ai grandi magazzini.

Trunks non sopportava le sciarpe, i guanti, il berretto di lana e quant’altro lo imbottissero come fosse stato un cuscino.

Nel suo sangue fluiva il calore alieno ereditato dal principe dei saiyan, il quale aveva combattuto nelle lande glaciali della Terra e dello spazio col gelo tagliente che si insinuava tra l’armatura ridotta a brandelli, ma la donna si ostinava a farlo apparire come tutti gli altri comuni terrestri e lo aveva rimbrottato dicendo che uscire quel giorno con una maglietta ed un paio di pantaloncini di cotone, come gli sarebbe piaciuto fare, erano decisamente cose da matti.

Giacché Bulma aveva deciso che quattro passi a piedi sarebbero stati salutari a dispetto della vita sedentaria che faceva, durante il tragitto suo figlio aveva sopportato quei fardelli con quel broncio irriducibile che lo rendeva identico al padre, ed ogni tanto tirava la sciarpa come fosse stata un cappio al collo e lo sbuffo si condensava in una nuvola di fumo bianco.

Solo all’interno dei magazzini, complici i riscaldamenti azionati, lei gli accordò il permesso di togliersi quegli accessori detestati, insieme al piumino a vento.

Con la raccomandazione di non fare danni, lo lasciò a giocare nei box con le palline colorate insieme agli altri bambini.

Il bello di avere un figlio speciale come Trunks era di non soffrire le stesse “patologie” delle mamme terrestri.

Suo figlio non si sarebbe fatto male facilmente né sarebbe finito tra le grinfie di un malintenzionato, perché, anche se non era stato ancora addestrato al combattimento, al momento giusto si sarebbe saputo difendere con l’imposizione efficace di un solo dito.

Era figlio di Vegeta e solo questo bastava ad infonderle sicurezza.

Era uscita da casa con le intenzioni di fare una passeggiata senza acquisti e smaltire la delusione per un progetto di lavoro andato male.

In piena crisi di inventiva, un paio di mesi prima che il freddo stringesse nella sua morsa la Città dell’Ovest, le era venuta l’idea di chiedere a Vegeta cosa di innovativo avrebbe potuto realizzare sul mercato sfruttando la tecnologia che egli adoperava quando era ancora una “furia scatenata a servizio di Freezer”.

Furono esattamente questi i termini che ella adoperò, con quella spontaneità e risolutezza di modi che scandivano le sue movenze ed il suo linguaggio ogni volta che si rivolgeva a lui, fin da quando lo aveva conosciuto.

Al saiyan non piaceva riesumare il suo passato, ma visto che questo non era stato propriamente chiamato in causa, l’unica cosa che gli venne in mente di suggerirle fu quella che pensò in un battito di ciglia, il tempo giusto per risentire quell’odore di metallo del pianeta di Freezer che patinava ogni cosa e penetrava fin nelle ossa come fossero state radiazioni.

La vasca di rianimazione era un aggeggio che gli sarebbe potuto tornare sempre utile.

Bulma ne fu entusiasta, ma oltre una descrizione stringata delle sue caratteristiche strutturali e funzionali, non ottenne da lui altra collaborazione.

Poco importava!

Il progetto originale fu realizzato ugualmente ma la convenzione che sperava di concludere con il servizio sanitario non era andato in porto per mancanza di fondi.

Quindi, per il momento, all’aria tutto!

 

C’erano i saldi di stagione ed i reparti d’abbigliamento erano presi d’assalto.

Non le serviva niente in particolare e nell’armadio era costretta a pigiare i vestiti per farceli entrare.

Ma non si sarebbe chiamata Bulma Brief se non fosse uscita da lì, dopo due ore, con almeno quattro buste di rinomate firme tra le mani.

Le porte automatiche si aprirono al suo passaggio ed una folata di freddo l’investì in pieno allorché si rammentò del figlio e tornò di corsa indietro.

L’altoparlante comunicava che un bambino di nome Trunks era in cerca di sua madre.

Annoiato di scorazzare tra le palline colorate, non aveva avuto altra scelta che tirare per i pantaloni il vigilante che stazionava agli ingressi.

La cassiera dell’annuncio allora rivide che a prelevarlo era la stessa donna che lo aveva dimenticato due settimane prima, con un altro taglio di cappotto ed un baschetto all’ultima moda che le cadeva sulla fronte, ma la riconobbe per la stessa fretta con cui lo prese per mano e se lo tirò indietro senza degnare nessuno di uno sguardo né porgere un grazie, e allora concluse tra sé che era una madre a dir poco snaturata, oltre che una donna cafona ed arrogante.

Strada facendo, Trunks si divertiva a saltare le pozzanghere che si erano raccolte durante la notte.

Bulma camminava con passo spedito, e si faceva spazio tra i passanti con le borse degli acquisti: una gonnellina di renna ecologica, una blusa abbinata, delle creme per il corpo dal sapore fruttato, ed un completino intimo di colore nero.

Quest’ultimo le era piaciuto da morire.

Prorompente com’era, non aveva bisogno di artifizi di pizzo per essere sensuale, ma nel vederlo addosso ad un manichino, era arrossita al pensiero di sedurre il suo uomo così poco agghindata.

Vegeta non avrebbe dato segnale di interessamento, sapeva bene che per lui questi indumenti erano solo un ingombro da strappare con i denti, ma è anche vero che gli occhi reclamano la loro parte e che, ogni tanto, non è sbagliato assecondare le fantasie e la propria vanità per sentirsi più donna.

Tra gli scarichi delle auto accodate nel traffico, la scia di caffè e di dolci provenienti dai locali, con le insegne ancora addobbate delle luci del natale da poco trascorso, Trunks aveva sentito nell’aria odore di caldarroste ed aveva chiesto alla madre di comprarne un sacchetto.

“Ma solo uno, senza esagerare, e non mangiarle in fretta che si fermano in gola” gli aveva detto come le altre volte.

Prese degli spiccioli dalla borsetta e le porse al signore che riscaldava le mani intorno al pentolone rugginoso.

Con le dita inguantate, una delle borse scivolò a terra e la scatolina trasparente con dentro la lingerie finì sulla strada.

Due giovanotti con la cresta colorata ed il ghigno poco promettente lo raccolsero da terra:

“Complimenti signora, scommetto che sei uno schianto con questo addosso!”.

Bulma si fece paonazza, Trunks invece osservava dal basso e continuava a mandare giù le castagne come se niente fosse.

“Perché non lo indossi  e poi facciamo sesso tutti e tre insieme?” fece l’altro avvicinandosi.

La borsetta finì diritta in faccia con inaudita potenza.

Bulma strappò la scatola dalle mani dell’amico rimasto imbambolato:

“Vergognatevi! Vi sedete ancora tra i banchi di scuola!” e sistemato il cappellino, prese il figlio per la mano e si avviò con soddisfazione verso casa.

 

Quando Vegeta uscì dalla stanza gravitazionale all’ora di pranzo e si diresse in cucina, vide che il televisore a plasma nel soggiorno era stato lasciato a vociferare da solo e che la fiamma sotto al brodo di verdure era stata chiusa solo alcuni istanti prima, perché si poteva sentire ancora il suo ribollire.

Spense il televisore e tutto intorno tacque.

I coniugi Brief vivevano nell’appartamento più piccolo al piano superiore.

Bulma aveva avuto la sensatezza di staccarsi dai genitori quando aveva capito che l’invadenza della madre nei confronti di Vegeta avrebbe messo a serio rischio la sua stabilità familiare.

Prima che il saiyan serrasse una mano intorno al vispo collo della “suocera”,  invadente e premurosa fino all’esasperazione, coi suoi modi efficaci e diretti, senza peli sulla lingua, Bulma aveva detto alla madre e al padre che era giunto il momento di emanciparsi e di vivere da sola con Vegeta e suo figlio.

Trunks aveva bisogno di spazi per giocare e la “gravity room” non poteva essere traslocata al piano superiore, pertanto sarebbe toccato a loro vivere in mansarda.

Ma in realtà, la porta di casa continuava a restare aperta e a Bulma non dispiaceva poi tanto che la madre, su sua indicazione, si occupasse di preparare da mangiare o badasse al bambino quando lei era impegnata.

L’importante era che per l’ora di pranzo o di cena, i momenti cioè in cui il principe si degnava di confondersi tra i comuni terrestri, ella si dileguasse.

Così finalmente era riuscita a trovare Vegeta più bendisposto a mangiare a tavola insieme a lei e a suo figlio, come una normalissima famiglia.

 

Il saiyan si avvicinò alla porta-finestra e strofinò la mano sul vetro appannato.

Le pozzanghere nel giardino erano tornate ad agitarsi alle prime gocce di pioggia.

Vide Bulma e Trunks varcare il cancello e correre verso casa.

Poco dopo la porta si aprì e l’aria fredda fece scuotere le tende:

“Giusto in tempo, si prepara un acquazzone, ah… come si sta bene qui!” esclamò la donna entrando e togliendosi il cappotto.

Posò le buste degli acquisti sul divano e si sistemò l’acconciatura scompigliata dal cappello.

Vegeta era rimasto vicino alla porta-finestra senza voltarsi, chiuso nel solito mutismo.

Aveva i piedi ed il torso nudo.

“Trunks ha preso tutto da te, ho dovuto penare per fargli tenere il giubbotto, beati voi che non avete mai freddo!”.

Il bambino si era disfatto degli ingombri di lana e saltellava contento con addosso solo gli indumenti intimi di cotone.

“Vai a mettere quelle buste nella mia stanza” ordinò al figlio “e vieni subito che tra poco si pranza”.

A Trunks piaceva rendersi utile nell’attesa di rimpinzare lo stomaco, afferrò le borse degli acquisti e corse verso il corridoio.

Ma quando in fondo si stagliò l’inquietante acciaio della gravity room, il volto si fece teso, rallentò il passo prima con cautela, poi accelerò la cadenza e, dopo aver gettato le borse degli acquisti sul letto, si chiuse la porta della stanza di sua madre alle spalle e, senza voltarsi a guardare, fece una corsa trafilata e spaventata verso la camera da pranzo.

La madre gli chiese di prendere le posate ed egli obbedì con uno dei suoi saltelli scattanti.

“Gli fai fare cose da donne” mormorò Vegeta, che frattanto aveva poggiato i gomiti sul tavolo e si versava del vino rosso fino all’orlo del bicchiere.

Bulma continuò ad affettare il pane:

“Non si tratta di fargli fare cose da donne, ma insegnargli che in una casa ognuno deve dare il proprio contributo, e mi dispiace dirlo, ma tu non sei affatto un bell’esempio”

“Se non ci fossero tua madre ed i tuoi robot, non sapresti fare granché come casalinga” afferrò alcune fette di pane e se le mise dalla sua parte.

Bulma si scorciò le maniche ed appuntò i gomiti:

“E’ una questione di organizzazione, tutto fa parte di un lavoro di squadra!” poi agitò i fianchi e si piegò verso di lui “inoltre non mi sembra ti manchi niente, il piatto lo hai pronto e servito come sempre, perciò non lamentarti!”.

Trunks portò le posate e si sedette di fronte al padre.

Vegeta gli procurava la stessa soggezione della stanza gravitazionale, ed allora si rivolse alla madre, come per rompere il ghiaccio:

“Mamma, mentre tornavamo a casa, che cosa volevano dire quei ragazzi quando ti hanno detto che volevano fare… ehm… sesso insieme a te?”.

Bulma si strozzò con un pezzo di pane e si versò subito da bere per farlo scendere meglio, colpendosi il petto con la mano.

Il mento di Vegeta, invece, scattò dal piatto degli antipasti in cui era intento ad ingozzarsi e puntò su di lei due occhi sgranati.

“Niente tesoro” recuperò contegno “era un modo come un altro per dire che tua madre è molto bella ed attraente…” ed alzatasi, ancheggiò maliziosa e si mosse per servire la minestra.

 

 

* * *

 

 

Trunks si alzò in punta di piedi ed accese i faretti che illuminavano il corridoio.

Aveva trascorso il pomeriggio a giocare nei laboratori del nonno.

L’attempato scienziato gli permetteva di fare molte cose e nella pause del lavoro lo faceva alzare su una sedia per guardare nel microscopio.

Poi arrivava la madre e, scoprendolo che saltellava incautamente da un prototipo di navicella a quello dell’air-car da ultimare, lo rispediva nella sua stanza e rimproverava il padre, non perché il figlio si facesse male, ma in quanto, per la sua disattenzione, si sarebbe potuto compromettere l’intero lavoro fino a quel momento svolto.

La gravity room lo fissò da lontano con le sue sopracciglia aggrottate, gli occhi spiritati e la bocca protesa in un ululato.

Si fece coraggio ed avanzò lentamente verso la sua camera.

Gli succedeva che le gambe si paralizzavano e per farle muovere doveva convincersi che quella davanti a lui era soltanto una stupida porta di ferro.

Ma quel pomeriggio non fu come tutte le altre volte.

Trunks sentì dei rumori provenire proprio da quella direzione.

Si bloccò e restò con una mano sostenuta al muro e le orecchie tese per ascoltare meglio.

I rumori tornarono a ripetersi e provenivano proprio da dietro quella porta.

Il cuore allora gli tumultuò sotto la maglietta.

Atterrito, non riusciva a staccare gli occhi da quella direzione.

Era come se la porta lo stesse chiamando per nome e lo avesse fatto cadere in trance come in un incubo.

All’improvviso la fessura di vetro compatto che era stata costruita sulla porta per guardare al suo interno prese ad irradiare una luce fortissima.

Trunks lanciò un urlo a squarciagola e corse piangendo verso il salone.

Lì si scontrò con sua madre e finì per terra.

“Ma che cosa ti è successo?” si era stretto alle sue gambe e singhiozzava convulsamente.

“C’è un mostro di là… ho visto un mostro!” e lo diceva battendo i denti.

“I mostri non esistono, almeno non quelli che credi tu, e certamente non vengono in questa casa”

“Ti dico che c’è, è terribile… ahhhh!”

“Allora andiamo insieme a vedere di cosa si tratta”.

Ma il bambino fu irremovibile.

Bulma si accorse che era veramente spaventato.

Gli diede dell’acqua con lo zucchero, gli asciugò gli occhi e gli fece soffiare il naso, poi lo convinse ad andare a vedere insieme, prendendolo per mano.

Lui gliela strinse forte e restò attaccato alla sua gonna.

“Allora, dov’è questo mostro, che giuro lo ammazzo! Come si è permesso di spaventare il mio bambino?” si guardò intorno con fare intimidatorio.

Trunks indicò la stanza gravitazionale con un indice tremante.

I rumori e le luci erano cessate.

“Ma io non vedo niente” innanzi a lei una porta poco più grande delle altre ed una pianta innocua sistemata a riempire un angolo.

“C’era eccome… urlava e lanciava dei raggi di fuoco!”.

Il corpicino fu percosso da un fremito quando sentì un cigolio dietro la porta.

Bulma si accorse che le stava sbriciolando la mano tanto gliela teneva stretta.

Il bambino emise un altro urlo quando l’uscio si aprì all’improvviso automaticamente.

“Smettila, Trunks, calmati!” era in preda ad una crisi di terrore.

Agitava la testa, singhiozzava senza respiro e batteva i piedi per terra.

“Non vedi che è soltanto tuo padre?!” gli afferrò la testa e lo costrinse a guardare in quella direzione.

Allora vide Vegeta avanzare verso di loro.

Sulle spalle teneva gettato un asciugamano di spugna.

I singulti si attutirono e gli restò solo un viso rigato dalle lacrime.

Il saiyan posò su di loro uno sguardo interrogativo.

“Hai visto che non è un mostro? E’ soltanto tuo padre che si stava allenando”.

Trunks aveva sollevato la testa e lo fissava dietro le lacrime rimaste sospese.

Vegeta sogghignò:

“Forse non ha tutti i torti…” ed andò a chiudersi nella sua stanza.

Bulma si chinò e gli strinse le spalle:

“Dietro quella porta c’è soltanto una stanza dove tuo padre si allena, non c’è niente di spaventoso, vuoi venire a vedere?”.

Lui fissava titubante ora la donna ora il pesante acciaio della stanza gravitazionale.

Alla fine le tornò a stringere la mano e fece un timido cenno di assenso col capo.

Le luci dei neon illuminarono una stanza circolare con le pareti di metallo.

Non c’erano mobili, né sedie, né altro, a parte la consolle di un computer proprio all’ingresso.

Trunks si guardò intorno con un movimento circolare e l’impiantito lucido a scacchi gli fece girare la testa.

“Un giorno anche tu ti allenerai qui insieme a tuo padre e diventerai un guerriero fortissimo”

“Ma quando?”

“Non appena sarai un po’ più grande, e non avrai più paura dei mostri” gli arruffò la testa.

Trunks fu contento di quella prospettiva.

La porta della “gravity room” gli feceva già meno paura.

 

 

* * *

 

 

Nel suo soggiorno sulla Terra, Vegeta aveva scoperto come i terrestri avessero sì, a suo dire, una vita insulsa e banale, ma che erano stati furbi a renderla vivibile e più interessante con le comodità e gli agi.

Forse, la sua fortuna era stata quella di essersi ritrovato in una casa lussuosa dove non mancava niente e molte tecnologie all’avanguardia nascevano lì prima di finire sul mercato.

E non era solo la stanza gravitazionale e le capsule spaziali in esclusiva per lui, l’ottimo cibo che non mancava mai nel frigorifero, la piscina in giardino per rinfrescarsi in estate o i robot di Bulma che mandavano avanti la casa.

A poco a poco incominciava a conformarsi in tutto alla vita dei terrestri, a servirsi pure lui delle loro agiatezze.

Nell’ultimo periodo aveva scoperto il beneficio di un accessorio molto semplice e comune: la vasca idromassaggio che Bulma aveva nel suo bagno.

Aveva un effetto tonico e rilassante sui muscoli sfibrati dai quotidiani allenamenti.

Anche quella sera se ne stette a mollo per un bel pezzo, con gli occhi chiusi ed il capo chinato all’indietro, mentre l’acqua gli ribolliva intorno alle cicatrici e cancellava ogni tensione, perché gli allenamenti erano ancora molto duri, dalla mattina alla sera, ogni dannatissimo giorno.

Per lui Kakaroth non era mai morto.

Il suo nome era un veleno inestinguibile che gli circolava nel sangue.

Le arterie sarebbero scoppiate se non fossero incominciate a confluirvi sostanze disintossicanti: Bulma ed il moccioso che cresceva, a piccole dosi, gli iniettavano un siero che procurava sensazioni insolitamente positive.

Quando la porta della stanza annessa si aprì, sollevò soltanto una palpebra e poi la richiuse in una grinza di nuovo irritata.

Bulma era entrata nella sua camera ma non sembrava essersi accorta che Vegeta si stava servendo della sua vasca.

Il saiyan non vide i suoi capelli azzurri fare capolino tra lo stipite e la porta, come faceva sempre quando lo sorprendeva a rilassarsi furtivamente.

Forse la sbraitata che le aveva fatto l’ultima volta che lo aveva disturbato era servita a tenerla lontana.

 

Trunks aveva letteralmente gettato le borse degli acquisti sul letto.

Bulma fece spazio ai nuovi indumenti nell’armadio.

Non le restavano più molte alternative: o liberarsi di quelli più vecchi, ma comunque alla moda, o prendere un armadio più capiente oppure… non fare più spese per i prossimi dieci anni.

Le era rimasta soltanto la lingerie da mettere a posto.

Ai grandi magazzini non concedevano di misurare gli accessori intimi.

Sbirciò l’orologio sul comodino.

Visto che mancava più di mezz’ora all’ora di cena, si sbottonò la camicia e fece cadere giù la gonna.

Dopo qualche minuto la pelle lattescente fu messa in risalto dal pizzo nero, e sorrise contegnosa come se a vederla fosse qualcun’altra davanti a lei.

Quando Vegeta aprì la porta del bagno, la sorprese che esibiva innanzi allo specchio ogni profilo del suo corpo, prima a destra, poi a sinistra, poi di nuovo dall’altro lato, per assicurarsi che le stesse a pennello.

Solo quando si voltò per sincerarsi come il perizoma andasse sul di dietro, vide il saiyan che se ne stava con un braccio sostenuto allo stipite e col solito piglio imperscrutabile già recuperato.

“Non mi ero accorta che c’eri anche tu” mormorò imbarazzata, quasi lui non l’avesse mai vista senza vesti.

Vegeta si andò a sedere dall’altro lato del letto, dove aveva lasciato le scarpe.

“Uffa, non è giusto, mi hai rovinato la sorpresa, volevo tenerla in serbo per più tardi” era la vera ragione del suo disagio.

“E quale sarebbe?” stringò i lacci senza interesse.

Bulma sorrise.

Non si aspettava altra reazione che quella.

“Allora?” volteggiò su sé stessa “ti piaccio?”.

Vegeta non la guardò neanche, ma le sue dita erano già sudate e febbricitanti mentre allacciava l’altra scarpa.

Lei alla fine si arrese con le mani sopra i fianchi:

“E’ possibile tu non mi dia mai un po’ di soddisfazione? Non hai sentito tuo figlio? Ci sono persone che farebbero la fila per vedermi così”.

Lui si alzò in piedi e le puntò gli occhi diritto in faccia.

Dietro la caligine di quello sguardo non era facile indovinarne il pensiero.

Bulma pensò che stesse per dirle qualcosa di molto offensivo ed invece la linea sottile della bocca si atteggiò ad un tratto in un sogghigno:

“Io non ho bisogno di mettermi in coda dietro a nessuno” la tirò per le braccia e la gettò rudemente sul letto.

“Quanta soddisfazione vuoi?” con il ginocchio le aprì le gambe e si sistemò nel mezzo.

“Sei il solito villano, non era a questo che mi riferivo, ma va bene lo stesso” sollevò il capo e catturò la sua bocca con impellenza.

In fondo se lo amava era anche per questa sua rudezza,  a volte così virile ed elettrizzante.

Il saiyan si era eccitato fin da quando l’aveva vista.

Ora, questo era l’unico modo che conosceva per mostrarle compiacenza, non era bravo con le parole, ancor meno con i complimenti.

Era gia pronto a strapparle da dosso quegli ingombri, quando ella lo fermò con risolutezza:

“Eh… no, Vegeta, non puoi neanche immaginare quanto abbia speso per questo completo, non puoi continuare a ridurre a brandelli tutto quello che mi togli da dosso”.

L’uomo fece incombere su di lei uno dei suoi sguardi più risentiti:

“Possibile tu non sappia sbottonare un reggiseno?”

“Se non stai zitta ti strappo con i denti anche la pelle” e scattò a lasciare l’impronta dei suoi canini su un’esile spalla.

Ma lei, allungando le braccia, lo respinse ancora:

“Non riesco a credere che il principe dei saiyan non sia in grado di armeggiare con un piccolo gancetto, anche i ragazzini ci riescono”.

Eccola Bulma Brief.

Maestra esemplare, sapeva pungolarlo in quello che aveva di più caro: l’orgoglio.

Non importava che fosse Kakaroth o uno stupido gancio, quando si tirava in ballo la sua stirpe regale e si mettevano in discussione le sue capacità, si innescava la solita reazione: digrignava torvamente ma alla fine accettava la sfida.

La donna sorrise soddisfatta.

Provava una strana ebbrezza nel pensare di essere l’unica persona in tutto l’universo, senza potenziale combattivo, che ardisse a sfidare il principe dei saiyan.

Si sedette al centro del letto e gli offrì la linea sinuosa della sua schiena:

“C’è un piccolo gancio, devi solo sbottonarlo”.

Vegeta allungò le braccia.

Sulla tempia la contrazione di seccatura era divenuta una ruga più profonda del normale.

Fece come ella gli aveva detto, senza esitazione, e quando l’elastico dell’indumento scattò all’insù, la strinse da dietro con un ansito soddisfatto afferrando i suoi seni appesantiti.

Bulma chiuse gli occhi piena di voglia, ma era ancora presto, voleva divertirsi un altro po’:

“Così è troppo facile, devi riuscire a farlo senza guardare”

“Mi hai cominciato a stancare” si staccò brusco “se non la smetti me ne vado!”.

Ma ella si era già sistemata sulle sue gambe, faccia a faccia, ed aveva riallacciato il reggiseno.

Con la lingua gli andò a lambire un tenero lobo, un modo tutto suo, semplice ed efficace, per domare quella bestia selvatica che si era seduta sul suo letto:

“Quante storie” mormorò roca “prima ci riesci, prima concludiamo”.

Un brivido lo percorse per tutta la schiena, fino a dove la peluria si infoltiva in prossimità di quella che un tempo era stata la sua coda.

Vegeta portò le braccia dietro la sua schiena ed incominciò ad armeggiare con l’indumento.

Non era più facile come la prima volta.

Pareva essersi incastrato.

Che cosa doveva ridursi a fare il principe dei saiyan?

E tutto per il capriccio di una femmina che aveva forza solo nella lingua!

Piuttosto glielo avrebbe annodato in gola!

Sul serio non gli riusciva di sganciarlo.

Possibile che il principe dei saiyan davvero non ne fosse capace?

Doveva riuscirci a costo di scoppiare!

Questi pensieri frullavano in un cervello che non era già più in grado di connettere.

Innanzi ad una vista annebbiata, quei seni debordanti oltre i pizzi ed i ricami respiravano ormai con affanno.

Passò la lingua in quel solco profondo da mozzargli il respiro, mentre le dita combattevano dietro di lei una delle battaglie più esacerbanti che ricordava di aver fatto negli ultimi tempi, con un nemico che si chiamava desiderio e l’unico innanzi al quale si arrendeva senza vergogna né tormento.

Bulma intrecciò le dita tra i suoi capelli.

Il suo corpo era già preda di riflessi incontrollati.

Senza rendersene conto, il bacino si spingeva contro la stoffa ruvida dei suoi pantaloni ed il piacere si propagava da lì fino all’estremità dei piedi.

Il cuore di Vegeta prese la cadenza di una danza tribale e selvaggia, le arterie pulsavano sangue e gli infiammavano il viso:

“Se non la smetti di toccarmi” fece ansante “non ci riuscirò mai”.

Lei si morse le labbra, diventate tumide e rosse ed emise un gemito di disappunto.

Vegeta sogghignò, ma le dita insistevano febbrili:

“Cosa c’è? Non resisti più?”

“Forse non è colpa tua, la chiusura deve essere difettosa…” senza volere era ritornata a spingere contro di lui.

Al saiyan sembrava di impazzire.

Le dita si indebolirono mentre lei gli slacciava i pantaloni.

“Sai che ti dico?” mormorò il saiyan “puoi anche tenertelo se ci tieni tanto, tanto mi prendo lo stesso quello che voglio!” e con uno scatto la sottomise a lui.

Con un gesto semplice, difatti, spostò la stoffa di pizzo e con la bocca afferrò uno dei capezzoli.

Bulma si inarcò dal piacere e proruppe:

“No, ti supplico, strappalo pure…”.

Non voleva avere nessun impedimento tra la sua pelle e quella dell’altro.

Questo piacere valeva molto più di un po’ di trine e di ricami, il suo calore le avrebbe fatto sentire meno freddo e l’avrebbe riscaldata.

Vegeta risalì verso la sua bocca e sorrise vendicativo:

“Come vuoi, ma prima devi soffrire ancora…”.

Un vento gelido intanto scuoteva i rami scarniti degli arbusti.

Nel buio della sera erano scheletri inquieti che bussavano ai vetri appannati della finestra, in cerca di riparo.

Il cielo non aveva stelle, ma un chiarore caliginoso incombeva carico di sorprese.

I primi fiocchi di neve si mescolarono al fango del giardino e lo tinsero di bianco, imprigionarono le cime ribelli degli alberi ed ovattarono i rumori cittadini.

Il vento le trasformò in schegge d’argento, taglienti e penetranti, che piroettavano in vortice alle luci dei lampioni e piegavano gli ultimi passanti di ritorno alle proprie case.

Fuori fu una delle sere più fredde che la città dell’Ovest avesse mai registrato, ma in quella stanza invece arse l’inferno.

 

 

* * *

 

 

Trunks non aveva ancora imparato a leggere.

L’insegna essenziale e severa cesellata sulla porta della gravity room era solo un insieme di lettere senza ordine, ma da quando la madre gli aveva mostrato il suo interno, non gli sembravano più due occhi spiritati sormontati da un paio di sopracciglia corrugate.

L’acciaio non gli faceva più paura, piuttosto era divenuto uno strano magnete che lo teneva incollato con la testa all’insù.

Suo padre non si era allenato quel giorno nella stanza, non gli era ancora ben chiaro che tipo di lavoro facesse, a volte lo vedeva uscire di mattina e ritornare solo alla sera.

Questo pensiero gli suggerì l’idea di avere il tempo a disposizione per ficcarci il naso dentro, giusto un’occhiata, per osservare meglio quel posto in cui, un giorno, suo padre avrebbe fatto di lui un vero guerriero.

Non riusciva a togliersele dalla testa le parole della madre.

Lo avevano elettrizzato più della neve che la sera precedente aveva visto scendere da dietro i vetri della sua cameretta.

La porta aveva al centro soltanto una manopola, quella che a lui da lontano era sempre parsa una bocca spalancata in uno spaventoso ululato.

Quei giorni ora gli sembravano già lontani.

Che femminuccia che era stato!

Con un piccolo balzo riuscì ad afferrarla.

Non era alla portata di un bambino qualunque.

Per ruotarla dovette adoperare quella forza latente, di natura aliena, che gli scorreva nel sangue.

Gli bastò stringere solo un po’ di più i denti e l’uscio si aprì automaticamente.

Quando varcò la stanza i neon si accesero come per prodigio ed il pannello tornò a chiudersi con un tonfo che lo fece sussultare.

Si guardò intorno trasecolato, camminando fino al centro della stanza, accecato dal riflesso dell’impiantito lucido a scacchi e delle pareti di metallo.

Lì si sarebbe allenato insieme a suo padre, il grande principe dei saiyan, come spesso lo definiva la madre quando gli raccontava del suo passato.

Quell’uomo scostante e silenzioso gli era divenuto già più simpatico.

Per la prima volta rifletteva che anche quell’individuo avrebbe avuto un ruolo nella sua vita, oltre quello di essere tirato in causa da sua madre tutte le volte che faceva qualche capriccio.

E ci riusciva eccome!

Bastava che la donna lo minacciasse di correre a chiamare suo padre, che lui diventava un agnellino.

Non ricordava che Vegeta facesse altro per lui oltre questo.

Adesso, invece, incominciava a credere che erano vere tutte le storie che sua madre gli aveva raccontato sul suo conto mentre gli rimboccava le coperte, che per davvero era un principe guerriero giunto sulla Terra anni addietro.

Doveva essere veramente molto forte, pensò lanciando un’occhiata circolare alla stanza.

Chissà come riusciva a lanciare quei raggi che aveva visto balenare il giorno prima dalle fessure della porta.

Si serviva di qualche spada laser o era un trucco che faceva con le sole mani?

La stanza era completamente sgombra.

Solo in un angolo, una bottiglia di plastica vuota era stata schiacciata come sotto ad un rullo.

La sua attenzione fu attirata da una piccola consolle computerizzata, sulla cui schermata compariva un numero a tre cifre che non avrebbe saputo interpretare.

Un indice tremante e colpevole si mosse verso un pannello con alcuni bottoni colorati.

In cuor suo capì che si stava rendendo artefice di un’infrazione che gli sarebbe costata una punizione amara, ma la tentazione di premerne uno, quello di colore rosso, fu più forte dei richiami della sua coscienza.

Alla fine lo spinse, ed intorno a sé all’improvviso calò il buio più profondo.

 

Quando fece ritorno a casa, entrando dall’ingresso principale perché le finestre erano ben serrate, lo accolse un odore stimolante di cioccolato caldo.

Vegeta seguì la scia diritto in cucina.

Sulle spalle la neve che si era portato dalle montagne in cui era stato ad allenarsi si ridusse ad una macchia umidiccia:

“Ah… guarda che roba!” mormorò quando scoprì il cioccolato gorgogliare oltre il pentolino e riversarsi sui fornelli come un fluido fangoso.

Solo una persona poteva combinare un simile disastro e questa comparve alle sue spalle dopo che lui ebbe chiuso il gas:

“Sei la solita sbadata! Dove sei andata a ficcare quella testa?” la rampognò spostandosi per farle vedere il pasticcio che gocciolava pure sul tappetino a terra.

“E’ tutta colpa di Trunks!” si difese arrabbiatissima “lo avevo preparato per lui, sono andata a cercarlo e non sono riuscito a trovarlo da nessuna parte!”.

Disse che aveva passato a setaccio la casa ed i laboratori, che non poteva essere salito sopra dai nonni perché questi avevano chiuso la porta ed erano usciti due ore prima diretti a quel famoso gala di beneficenza, lo stesso che due settimane prima aveva spedito pure a lei l’invito.

Lo aveva rifiutato come ormai disertava gran parte delle feste mondane, da quando aveva scelto come compagno di vita il solitario principe dei saiyan.

Non le si addicevano i panni di vedova allegra, e a portarci Vegeta corrispondeva alla titanica impresa di comandare ad una montagna di spostarsi.

In più questo gala implicava di trascorrere due giorni fuori casa e non si sentiva sicura di lasciare suo figlio da solo con il padre.

La donna non sembrò darsi pensiero del cioccolato che imbrattava i fornelli ed il tappeto.

Si mosse a strofinare la mano contro i vetri appannati della finestra che stava poco più in alto del lavello, dopo aver scostato le tendine con i ricami della frutta e degli ortaggi:

“Non sarà mica fuori a giocare con questo tempaccio?”.

La neve della sera precedente era degradata a pioggia nelle prime ore mattutine ed una fanghiglia mista di ghiaccio e di terriccio ricopriva ora le aiuole ed il ciottolato.

Al risveglio, Trunks era rimasto molto deluso di quello scenario poiché non c’era neve a sufficienza neanche per raccoglierla in un pugno, figurarsi per realizzare un pupazzo!

In più quando aveva sentito sua madre dire che era necessario spalarla almeno dai cancelli, si era dileguato quatto quatto in punta di piedi.

Bulma strofinò ancora e disegnò sul vetro una macchia più estesa che allargò il suo campo visivo, ma senza mutarlo giacché il crepuscolo era prossimo a calare ed i lampioni illuminavano soltanto una pioggia sottile che tornava a mescolarsi al fango e ad insudiciare di più  il suo giardino.

“Ma che fine ha fatto?” mormorò con quel piglio adirato, che restò tale quando si voltò e scoprì che Vegeta aveva riempito una tazza col cioccolato rimasto nel pentolino.

“Ti sembra questo il momento? Non pensi che sarebbe il caso di attivare i tuoi sensi e di darmi una mano a trovare tuo figlio?”

“Rilassati…” la zittì subito col solito cinismo “dove vuoi che sia finito, sarà qui in casa e magari non te ne sei neanche accorta distratta come sei” e lasciò la tazza vuota, ancora fumante, accanto al lavandino.

“Non posso mai contare su di te” grugnì mentre lui andava via “e adesso mi tocca anche mettermi a pulire!”.

Afferrò uno strofinaccio umido e lo intrise col detersivo.

Forse aveva ragione Vegeta: si stava preoccupando per nulla.

Suo figlio non era un bambino qualunque.

Dunque, cosa poteva mai succedergli?

 

Il saiyan si diresse nella sua stanza.

Prese degli abiti puliti da uno dei cassetti e ritornò a percorre il corridoio alla volta della stanza di Bulma e della sua vasca con l’idromassaggio.

Dopo una giornata di estremi allenamenti come quella vissuta tra montagne ostili ed innevate era il minimo che potesse fare per trovare un po’ di benessere.

Ma una ruga di inquietudine saettò all’improvviso sull’ampia fronte.

In effetti non percepiva l’aura di Trunks da nessuna parte.

Trunks non sapeva combattere ma emanava quell’energia spirituale con la stessa naturalezza di un soffio d’aria anche quando era più piccolo.

Se il bambino fosse stato in grado di regolare la propria aura avrebbe pensato che era stata azzerata di proposito.

Non era in casa ma neanche sulla Terra.

Non era da nessuna parte.

Innanzi a lui si stagliò l’acciaio della stanza gravitazionale.

Si fermò a tre metri da essa.

Il cuore accelerò di un battito.

Anche per il principe dei saiyan quella porta grigia assunse le sembianze di un essere mostruoso.

Da dietro la fessura di vetro compatto poteva scorgere l’aria rossa e rarefatta della gravità attivata.

E non era stato lui ad innescarla.

Gridò il nome di suo figlio con un’inflessione di rabbia ed una nota di terrore e corse a spalancare la porta.

Il bambino era riverso a terra schiacciato da una gravità fissa a trecento.

Vegeta si spostò senza avvertirne il peso e dopo pochi istanti l’aria tornò a rischiararsi.

Bulma, la quale aveva sentito l’urlo, accorse per vedere cosa era successo.

Si coprì il volto con le mani quando lo vide esanime a terra e gridò pure lei il nome di suo figlio.

 

 

* * *

 

 

Sentì solo un sibilo nelle orecchie, come un tappo improvviso che non gli fece percepire altro che questo, prima di ritrovarsi schiacciato a terra.

Era come se il soffitto all’improvviso si fosse abbassato e gli stesse triturando le ossa.

Eppure non era crollato, il pavimento era rimasto com’era.

Non c’erano detriti né altro, né uno scotimento della terra che avesse provocato quello, ma una forza sconosciuta e più grande di una catastrofe naturale lo teneva inchiodato senza tregua.

Trunks provò ad urlare.

Per la prima volta non cercò la madre, cosciente che ella non poteva niente contro quello che gli stava succedendo.

Sulle labbra il nome di suo padre fu solo un sussurro impercettibile.

Provò a concentrarsi, a ritrovare quella forza latente che qualche volta si accorgeva di possedere.

Quello sforzo gli fece allungare soltanto un braccio, ma quel bottone che aveva schiacciato era troppo più in alto di lui.

Quando Vegeta e Bulma lo trovarono era rimasto immobile in quella stessa posizione.

Un rigurgito di sangue imbrattava il pavimento su cui giaceva.

Lì la madre si gettò in ginocchio e con due dita tremanti ed esitanti sentì la sua giugulare pulsare:

“Come… come… può essere accaduta… una cosa simile?” uscì dalle sue labbra un mormorio sconnesso.

Quando gli occhi struggenti si alzarono verso Vegeta, vide che era rimasto inerte, ma l’espressione vibrava di quella medesima angoscia ed impotenza che anni indietro aveva avuto per quello stesso figlio, trafitto a morte e crollato su una terra riarsa e desolata dietro di lui.

Ora anche Bulma, per la prima volta, fu testimone di quella fragilità rara ed incredibile, di quel piglio sconvolto e tremebondo, ma meno sorprendente di quanto fu allora per quegli astanti nel deserto, perché ella aveva sempre avuto coscienza, come Re Kaioh fin dalla prima venuta del saiyan sulla Terra, che dietro quell’armatura, oltre i suoi silenzi, il suo distacco, il suo autocontrollo ci fosse qualcosa di umano e di buono.

Bulma sapeva che non sarebbe potuto restare indifferente:

“Dobbiamo muoverci!” proruppe la donna “dobbiamo portarlo in ospedale!”.

Quell’imperativo lo riportò al presente con una scossa che gli percorse tutte le membra e sboccò in un ansito strozzato:

“Sei impazzita?! Che speranze avrebbe ?! Occorre un rimedio più efficace e sbrigativo!".

Bulma non capiva a cosa si stesse riferendo.

Cosa altro potevano fare in quel momento per salvare la vita al loro figlio?

Trovare forse le sfere del drago e chiedere a Shenron di non farlo morire?

“Dannazione! Le costruisci e neanche più le ricordi?!” vociò “sto parlando della vasca di rianimazione!”.

Bulma sgranò gli occhi e scosse la testa.

I capelli si appiccicarono alle lacrime:

“Ma la macchina non è stata mai collaudata, non ci ho messo più le mani”

“E allora cosa stai aspettando? Muoviti! Corri! Penserò io a portarlo nei laboratori! Quella vasca ha salvato me e Kakaroth, salverà anche lui…”.

 

 

* * *

 

 

Sentì le sue ossa scricchiolare quando lo alzò da terra.

Quel rumore lo avvisò che c’era bisogno di più accortezza, che era fragile come cocci di ceramica appena messi insieme.

Era veramente mal ridotto.

Il volto era contratto in una smorfia di patimento atroce, la bocca ridotta ad una piega esangue non aveva più contorni.

Forse era un bene che avesse perso i sensi, che non potesse urlare la sua sofferenza, sentire il freddo del trapasso sfiorato per un pelo.

Il computer che segnava la gravità fissa a trecento rendeva l’idea di cosa avesse dovuto sopportare.

Se non era morto era solo perché in quel corpo scorreva il suo stesso sangue.

Vegeta rabbrividì impercettibilmente.

Era come se intorno aleggiasse ancora lo spettro freddo della morte, che non si fosse dileguato del tutto, che attendesse nascosto dietro l’angolo l’attimo propizio.

Non pensava avrebbe potuto provare di nuovo quella sensazione spiazzante come fu allora nel deserto innanzi a Cell.

Era lo stesso figlio, ma questo ancora un bambino.

Non era in quella stanza per combattere, non era venuto per assicurare un futuro migliore a nessuno.

Era lì soltanto per un fatale errore.

Con quale nemico avrebbe potuto sfogare la sua rabbia?

Con Bulma perché non aveva vigilato abbastanza?

O con sé stesso, che aveva trascorso l’intera giornata fuori e comunque anche in casa, così casuali erano le attenzioni che gli riservava, che forse sarebbe successo ugualmente?

 

Quando Bulma lo vide arrivare, il suo incedere era lento e cauto.

Trunks giaceva tra le sue braccia con la testa all’indietro ed un braccio pendente staccato dal resto del corpo.

Si concesse un istante per fotografare mentalmente quell’immagine, macabra eppure preziosa, ed inserirla tra i ricordi rari di suo figlio tra le braccia paterne.

La prima volta era accaduto dopo un po’ di tempo dal torneo di Cell, quando Vegeta si era piantato stabilmente presso casa sua e lei lo aveva accolto tra le sue lenzuola con qualche speranza in più.

Gli aveva chiesto di togliere Trunks dalla culla e di farlo scendere a terra.

Lei stava seduta sul ciglio del letto e si infilava un paio di calze.

Vegeta lo afferrato non senza imbarazzo, tenendolo a distanza come fosse stato un sacchetto di rifiuti maleodorante fino a quando non lo aveva posato sulla moquette.

Aveva riso a lungo in quell’occasione, fino a gettarsi all’indietro sul materasso e a stringersi la pancia, costringendolo ad uscire dalla stanza e a sbatterle la porta in faccia rabbiosamente: era così maldestro con il bambino e… spaventato.

Da cosa poi?

Che potesse affezionarsi a lui?

Che potesse provare quella stessa cosa che aveva sentito per l’altro figlio?

Che non fosse abbastanza degno per il principe dei saiyan provare dei sentimenti per un bambino?

Ora, a distanza di qualche anno da quella volta, Bulma pensò che se queste erano le occasioni rare perché Vegeta potesse stringerlo di più a sé, era meglio che continuasse ad essergli distante come aveva sempre fatto.

Si scorciò le maniche e tornò a digitare la tastiera del computer.

Sul viso rigato dalle lacrime ormai asciutte pesava l’apprensione di non riuscire ad azionare il macchinario.

Se almeno fosse stato presente suo padre…

A volte la sorte si accaniva per bene: proprio quella sera doveva andarsene via!

Lo scienziato non aveva partecipato alla realizzazione, ma due ingegni messi insieme funzionano sempre meglio di uno.

Vegeta osservava il suo viso in tensione, i suoi occhi che non si staccavano dalla schermata.

Non poteva esserle di aiuto, ma aveva fiducia in lei, e la sua voce non ebbe del tutto un’ inflessione di rimprovero quando le disse:

“Avanti, Bulma, hai fatto cose più difficili!”.

La vasca di rianimazione si accese tra il brusio sonoro e luminoso dei tasti ed incominciò a caricare acqua:

“Ci siamo!” esclamò la scienziata saltando dalla sedia.

Vegeta strappò gli abiti del bambino con una temerità che fece impallidire Bulma e lo calò nudo nella vasca.

Due elettrodi vennero collegati alla tempia, altri due sulla schiena ed il tubo respiratorio alla bocca.

Bulma lo fissò accarezzando il vetro, come se questo gesto potesse trasmettersi attraverso l’acqua  ed arrivare fino a suo figlio:

“Non riesco ancora a capire come sia potuto succedere” aveva sempre creduto che Trunks fosse invulnerabile, che non gli sarebbe mai potuto succedere nulla di grave perché aveva la stessa fibra di Vegeta.

Ed invece aveva rischiato di morire in casa, a pochi metri da lei, lì dove sarebbe dovuto essere più al sicuro.

“Per quale motivo è andato là dentro?! Che interesse poteva mai avere?!” sbottò il saiyan.

Bulma allora ricordò della sera prima:

“Era spaventato, per tranquillizzarlo l’ho fatto entrare, gli ho detto che un giorno si sarebbe allenato lì insieme a te…”

“E non gli hai spiegato a cosa veramente servisse quella stanza?! Che non doveva mai entrarci da solo?!”.

Bulma si morse le unghie, le tormentò almeno quanto il suo sguardo, che vagava irrequieto da un punto all’altro del pavimento, senza il coraggio di alzarsi proprio sul suo interlocutore.

Fu quella la sua risposta.

“Dannazione! Come hai potuto commettere una leggerezza simile?!"

“Come potevo prevedere che Trunks restasse affascinato da quella stanza tanto da decidere di entrarci di nascosto?!” si difese prontamente “la colpa è tua perché te ne sei andato, se ti fossi allenato lì come fai tutti i giorni forse non sarebbe successo!”.

“Questa poi…” scrollò la testa e le diede le spalle, di nuovo chiuso nel solito gesto delle braccia conserte.

Avrebbero potuto recriminare all’infinito, gettandosi le colpe l’uno sull’altra.

Non aveva senso, la vita ha una molteplicità di combinazioni, qualcuna giusta qualcun’altra meno, ed i bambini si inseriscono tra esse e le sconvolgono ancora di più con il loro essere imprevedibili e vivaci.

Lo capirono entrambi.

“Munirò la stanza gravitazionale di un codice d’accesso, lo conosceremo solo noi due” le sentì dire.

Vegeta osservò la vasca di rianimazione.

L’idea gli parve buona.

Sperò solo che restasse in vita la ragione per cui  metterla in pratica.

 

 

* * *

 

 

Vegeta osservò l’orologio appeso alla parete: mancava un quarto alle undici.

Era da quasi cinque ore che Trunks era immerso nella vasca di rianimazione.

Sarebbe dovuto restare così per tutta la notte perché la macchina non era stata sufficientemente potenziata per ridurre il lavoro in poche ore.

Il silenzio era interrotto dal suono intermittente dell’elettrocardiogramma, lento e ripetuto, dall’acquazzone che imperversava fuori e batteva contro i vetri senza sosta.

Se ne stava seduto su una panca di ferro, con una gamba piegata verso il petto e la schiena poggiata contro un muro grigio e asettico.

Non c’era ragione che aspettasse sveglio per tutta la notte, la vasca avrebbe da sola concluso il suo processo.

Tra un po’ se ne sarebbe ritornato nella sua stanza, e anche se sapeva che non avrebbe chiuso occhio, si sarebbe disteso sul letto senza togliersi le scarpe.

Accanto a Trunks bastava Bulma.

L’attesa era fatta per le donne, non per gli uomini, e meno che mai per il principe dei saiyan, pensò.

Riconobbe i passi di lei da dietro l’uscio automatico.

Si era messa sulle spalle uno scialle di lana azzurro, quello che metteva sempre quando aveva freddo, ed avanzò con un vassoio tra le mani: due tazze di the bollente ed un piatto di biscotti.

Quando un tuono rintronò più forte degli altri mancò poco che non lo riversasse a terra.

Lo posò su una cassa di attrezzi che stava vicino a lui e si sedette anche lei sulla panca, stringendo tra le mani la sua tazza di the fumante.

La sentì centellinare e corroborarsi ad ogni sorso che mandava giù.

Il suo the ed i biscotti restarono invece sul vassoio.

Non aveva fame.

In quel laboratorio c’era lo stesso aroma metallico che si respirava negli alloggi di Freezer, quello che impregnava la capsula a bordo della quale aveva scorazzato di galassia in galassia a sterminare popoli e a mercanteggiare pianeti.

Forse era questo tanfo sotterrato nei suoi ricordi ad avergli tolto l’appetito, unitamente alla preoccupazione per tutto quello che era successo.

Incredibile come un odore potesse richiamare alla memoria una vita perduta.

“Pensi che questa vasca sia veramente efficace?” mormorò lei piano, rigirando ancora tra le mani la tazza vuota, per catturare avidamente l’ultimo calore.

Vegeta aveva fiducia nelle potenzialità di quell’apparecchio.

Dopo il combattimento con Kakaroth, la prima volta che era giunto sulla Terra, si era rimesso in piedi solo dopo essere uscito da quella vasca.

Anche l’altro ne aveva fatto un buon uso su Namecc.

Non diversamente doveva essere per Trunks, che nella stanza gravitazionale aveva combattuto una battaglia altrettanto ardua.

“Se non dovesse funzionare…” disse grave “farai quello che hai fatto tutte le altre volte…”.

Bulma sgranò gli occhi, ma non li spostò dalla tazza su cui erano concentrati.

Non voleva ricorrere alle sfere del drago, Trunks non doveva morire.

Non intendeva versare lacrime sul suo cadavere, non così presto, perché la madre di un saiyan sa che questo potrebbe prima o poi succedere.

Inghiottì il nodo che le salì alla gola: non aveva voglia di piangere davanti a lui.

Quando Vegeta tornò a guardare l’orologio era trascorsa un’altra mezz’ora.

Bulma non aveva detto più nulla.

Non c’era più niente da dire o da fare se non aspettare.

Teneva la testa abbassata da un pezzo e respirava profondamente.

Ad un certo punto  la donna si piegò su di un fianco e cadde con la testa sulla sua spalla.

Vegeta non la strinse a sé, ma non la spostò e neanche le disse di svegliarsi.

L’odore di metallo e di Freezer scomparvero: il profumo dei suoi capelli sotto il naso fu come una boccata d’aria fresca.

 

 

* * *

 

 

Dalla vetrata rettangolare proveniva la luce azzurrastra di un’alba ormai vicina.

Aveva smesso di piovere.

Qualche goccia cadeva dalle grondaie  attraverso i canali e produceva un ticchettio metallico.

Vegeta spalancò gli occhi senza preavviso e trovò a sovrastarlo un soffitto diverso da quello di ogni mattino.

Durante il sonno, sopravvenuto a quello di Bulma, la schiena era scivolata lungo la panca.

Quando si mosse vide che una chioma color del cielo stava sparpagliata sul suo petto.

La donna si strinse di più a lui, alla ricerca di altro calore.

Lo scialle che teneva sullo spalle era scivolato a terra durante la notte.

Vegeta le afferrò le spalle rudemente e la scosse senza pensarci due volte:

“Bulma, svegliati!”.

Mentre lei tentava di raddrizzare la schiena indolenzita e di far mente locale, lui era già corso verso la vasca di rianimazione.

“Il processo è terminato” gli sentì dire.

Bulma scattò e lo raggiunse.

Il computer indicava che i valori di Trunks erano rientrati nella norma:

“Siiiiiii!” esclamò lei allungando le braccia, come aveva fatto tutte le volte che la Terra era stata salvata ed il nemico di turno battuto.

Suo figlio era finalmente fuori pericolo.

Quando l’acqua si fu ritirata, raccolse il suo corpo in un telo di spugna.

Trunks aprì gli occhi confuso.

Non ricordava perché avesse dovuto fare un bagno, come non riusciva a capire per quale ragione sua madre stesse piangendo mentre lo asciugava e lo stringeva forte al petto.

Poi ricordò di essere entrato in quella stanza con le pareti di metallo, di aver spinto un bottone e di non essere andato via con i suoi piedi.

Spostò lo sguardo: c’era anche suo padre lì vicino.

Non ebbe il tempo di scorgere quell’espressione distesa che sciolse il suo volto né quella specie di piega ai lati della bocca, che pareva un sorriso.

Quegli occhi lo tornarono subito a fissare con una severità anche più intensa delle altre volte:

“Si può sapere che ti è saltato in mente di fare?! Ti rendi conto che potevi rimetterci la pelle?!”.

Bulma lo strinse di più a sé:

“Non mi sembra questo il momento per fargli una paternale” disse con molta comprensione, sminuendo l’autorità dell’altro “l’importante è che tutto sia finito, ora deve solo pensare a riprendersi, e non dimenticare che è un bambino… ”.

Detto questo, guardò suo figlio con tutt’altro piglio ed appuntò i gomiti:

“Tuo padre ha perfettamente ragione!” gli urlò contro “farebbe proprio bene se te le suonasse di santa ragione, ti rendi conto che sofferenza ho dovuto patire per la sciocchezza che hai commesso?! Non devi mai più entrare in quella stanza da solo! Sei troppo piccolo! Sono stata chiara?!”.

Vegeta, allibito per quel cambio improvviso di posizione, alla fine di quello sfogo, la vide scoppiare a piangere e gettarsi a stringerlo più forte di prima.

 

 

FINE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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