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Autore: The Glass Girl    26/02/2012    1 recensioni
-Cecilia .-disse lei.
-Marco .-rispose lui.
Un saluto, un nome niente di più.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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*Cecilia.*

 



L’invito a quel matrimonio bussò alla sua porta come una gettata d’acqua gelata.
Lei si sposava, com’era possibile?
Eppure era così, perché sull’invito stampato in nero e perfino in grassetto c’erano nome e cognome.
Lo rilesse più e più volte, cercando di capire se quello che aveva appena letto fosse reale o solamente frutto della sua fantasia.
L’invito stava fra le sue mani, leggero, eppure allo stesso tempo così pesante.
Lo sfiorava appena con i polpastrelli, tenendolo in equilibrio.
Fu una lama conficcata nel petto per lui.
Quanto tempo era passato da quando era scappato? Un anno?
Forse anche di meno.
La storia più vecchia del mondo, il ragazzo che si innamora dell’amica.
Certo, non potevi non amare Cecilia.
Così bella, solare, intelligente, piena di vita ma allo stesso tempo così fragile da aver bisogno di essere salvata, sempre.
E Marco l’aveva fatto tante volte … ma questo non era bastato.
E poi lui se n’era andato.
Aveva preso il primo volo ed era tornato a casa, dai suoi genitori che lo avevano accolto a braccia aperte.
Perché si era innamorato proprio di Cecilia? E non di Anna?
E soprattutto perché lei non lo amava?
Cosa aveva che non andava?
L’invito adesso giaceva sul tavolino dell’ingresso, mentre Marco lo guardava, con attenzione, lasciando riaffiorare i ricordi.

****

-Cecilia .-disse lei.
-Marco .-rispose lui.
Un saluto, un nome niente di più.

 

E intanto gli anni passarono e l’amore di Marco nei confronti di Cecilia aumentò ogni giorno di più, alimentato da quei suoi piccoli gesti così semplici, che però lo fecero sperare.
Con il tempo divenne tutto molto più intenso e lui capì presto che Cecilia non avrebbe potuto essere sua.
Se solo fosse stato diverso, se solo si fosse sviluppato tutto molto più lentamente e i suoi sentimenti non lo avessero investito come un’onda terribile, forse non avrebbe nemmeno sofferto, o perlomeno non avrebbe sentito la sua assenza.

 

-Frequentiamo la stessa facoltà?-chiese lei.
-Sì. Stesso indirizzo per giunta.-confermò lui.
-Mi sembrava di averti già visto..-
Sorrise.

 

La ricordò, esattamente com’era quel giorno, quando per la prima volta vide quel suo bellissimo sorriso carico di luce.
La ricordò ridere, correre, camminare d’inverno per le strade gelate, ricoperte di neve, con una sciarpa che le copriva il viso.
La ricordò semplicemente nel suo essere perfetta, la sua Cecilia.
La tentazione di afferrare il telefono e chiamarla era talmente tanto forte che solamente staccando la spina del cordless riuscì a reprimerla.
Si disse che, se l’avesse chiamata avrebbe sentito la sua voce e questo lo avrebbe ferito terribilmente.
Ricordava una voce carica di entusiasmo, limpida, armonica talmente tanto dolce da poterlo cullare lentamente.
Ricordava le sue labbra così sottili ed aggraziate che quando curvavano leggermente in quel suo bellissimo sorriso erano capaci di lasciarlo letteralmente senza parole.
Ma ricordò anche che lei era stata in grado di lasciarlo senza parole parecchie volte.
A volte si era limitato a contemplarla in silenzio.
In pochi minuti Marco aveva già ricordato tutto.
Dai momenti più stupidi e felici a quelli più difficili, in cui il sorriso era mancato anche per intere settimane.
Sfiorò con le dita quel maledetto foglio di carta e sentì una tremenda stretta allo stomaco.
Serrò gli occhi con forza e ritrasse la mano.

****

 

Cecilia uscì dal camerino dopo una buona manciata di minuti con indosso un vestitino rosso che le arrivava al ginocchio.
Roteò pi ù volte su se stessa, sorridendo sempre di più.
Marco la guardava, affascinato. Era così magnificamente spontanea.
-Come mi sta questo?-chiese lisciando il vestito con le mani.
Era bellissima, ma c’era ancora qualcosa che non andava, un piccolo particolare che non lo convinceva.
Forse era troppo corto, forse troppo acceso, forse troppo poco bello per lei.
Meritava qualcosa che fosse pienamente degno della sua bellezza, niente di meno.
Fece una smorfia e disse:
-Non mi convince.-
Cecilia andò a guardarsi allo specchio.
-Hai ragione … e poi non mi sembra adatto ad un matrimonio.- ammise provando a raccogliersi i capelli in una coda improvvisata che tenne su solamente con le dita.
Rimase ferma così per un po’, guardandosi le gambe i fianchi ed arricciando ogni tanto il naso.
Intanto lui la guardava.
Ma più che guardarla, la analizzava; esplorava piano ogni parte del suo corpo, analizzava ogni singolo particolare.
L’amava, l’amava con tutto se stesso e forse l’avrebbe fatto per sempre.
Perché Cecilia sarebbe rimasta con lui, perché non l’avrebbe dimenticata con molta facilità.

 
Se lo ricordava bene quel giorno: l’aveva accompagnata a scegliere il vestito per il matrimonio di sua sorella più grande, Maria.
 
Poco dopo Cecilia uscì di nuovo dal camerino, mostrandosi in un bellissimo vestito blu leggermente più lungo e aderente.
Era semplicemente radiosa, inondata di luce propria che la investiva completamente.
I lunghi capelli castani ricadevano morbidi sulle spalle.
Si sistemò anche questa volta l’indumento con le mani, lisciandolo per bene dopodiché rivolse il suo sguardo all’amico che la guardava estasiato.
Era semplicemente bellissima.
L’azzurro del vestito richiamava quello degli occhi, che luccicavano come non mai e sorridevano.


Gli occhi di Cecilia erano in grado di farti morire.
Sapevano essere così belli e dolci e allo stesso tempo potevano infliggerti punizioni terribili.
Marco si ricordò delle innumerevoli volte in cui l’aveva vista piangere; lacrime calde che le solcavano il volto uscivano dagli occhi e finivano sulle gote, sul collo, macchiandole il bellissimo viso.
La stringeva fra le braccia e faceva proprio quel pianto straziante, che era in grado di lacerargli il cuore.
Si ricordava di come si sentiva quando lei piangeva.
Quasi come se il pianto di lei potesse in qualche modo diventare il proprio.
Quando lei soffriva, lui soffriva.
E fu lì che Marco capì che Cecilia per lui era più di un’amica.
Cecilia per lui era una ragione di vita, adrenalina pura iniettata in tutto il corpo, una scarica elettrica in grado di paralizzarlo, ma di farlo contemporaneamente vivere come lui non era mai stato capace.
Si ritrovò poco dopo con il foglio di nuovo in mano e lo sguardo letteralmente affondato in esso.
Gli occhi sapevano solamente leggere il nome di lei, quello di lui era quasi invisibile.
Tre giorni di tempo per trovare le forze necessarie per andare in quella dannata chiesa e vedere l’amore passare nelle mani di un altro.
Avrebbe voluto sapere di più, capire che tipo di persona fosse lo sposo, per vedere se meritasse una donna favolosa come del resto era Cecilia, ma davvero non riusciva a leggere quel maledetto nome, nemmeno voleva provarci e si sentiva stretto in una morsa d’acciaio.
Sembrava essere incatenato in un pensiero fisso: lei.
Quanto tempo era che non ci pensava? Mah, abbastanza.
E adesso? Che cosa avrebbe fatto? Che cosa avrebbe dovuto fare?
Si disse che innanzitutto avrebbe dovuto capire che cosa avrebbe dovuto fare prima di poter pensare a cosa fare … spesso ciò che vogliamo non coincide con ciò che ci fa bene.
E lui l’aveva capito.
Voleva Cecilia. Desiderava disperatamente il suo amore, con ardore giorno dopo giorno poteva sentire il suo cuore crescere, alimentato da questo sentimento che piano piano lo avrebbe avvelenato.
Si chiese, a quel punto, se fosse il caso di andarci oppure se, invece, avrebbe fatto meglio a rimanere a casa, celebrando un piccolo funerale privato.
Si sposava.
E così tutti quei messaggi, tutte quelle telefonate senza una risposta non erano servite a niente.
Ricordava che lasciarla era stato terribile.
Partire, così, da un giorno all’altro, senza nemmeno salutarla, senza rispondere nemmeno ad una delle sue innumerevoli telefonate era stato avventato, ma, all’inizio, gli era sembrata la cosa più sensata da fare.
Ma adesso? Gli sembrava ancora così sensata? O gli sembrava piuttosto un gesto avventato e codardo?
Forse era così, forse era semplicemente scappato da una verità che poi, alla fine, era tornata a bussare alla sua porta.
Eppure aveva bussato troppo tardi perché lei stava per andarsene.
Non sarebbe più stata sua, anche se, a dire la verità, non era mai davvero stata sua.
Alla fine, comunque, il passato ritorna sempre.
Anche se quello non era passato, perché Cecilia era il suo presente.
Si guardò le mani e vide che tremavano leggermente.
Troppo stress, si disse, troppi ricordi, troppe grandi novità.
Si alzò e si spostò in cucina, lasciando il foglio sul tavolino.
Pur avendo staccato di fatto gli occhi da esso non fu in grado di toglierselo dalla mente.
‘Annunciano le loro nozze’
Aprì il frigo e tirò fuori una bottiglia, mai aperta, di vino bianco.
La stappò e bevve un lungo sorso direttamente dalla bottiglia.
Non era mai ricorso all’alcool per dimenticare, ma qualche sorso non gli avrebbe fatto male, giusto per annebbiare la mente per un po’ e cancellare dalla sua memoria l’immagine di quell’invito maledetto.
Non riusciva nemmeno a chiudere gli occhi; la sua mente veniva inondata subito da immagini dolorose che lo colpivano dritto al cuore.
Come poteva riflettere con i ricordi che gli annebbiavano la mente?
Doveva rimanere lucido per decidere se andare oppure no, se tirare fuori il suo vestito buono oppure lasciarlo stare lì, nell’armadio insieme agli altri capi d’abbigliamento.
Ma, obiettivamente, secondo quali criteri avrebbe dovuto decidere?
Per quale motivo doveva partecipare a quel matrimonio, oppure, per quale motivo non doveva?
Le domande risuonavano come  bugie nella sua testa.
Se veramente teneva a Cecilia doveva andare e scusarsi per la sua assenza nell’ultimo periodo; ma sarebbe stato abbastanza forte da sopportare di vederla mentre consegnava il suo cuore e tutto il suo amore in esso contenuto ad un uomo che non era lui?
Avrebbe dovuto prenotare un volo, partire, trovare un albergo … ma non ci pensava più di tanto.
Trovata la forza di volontà avrebbe fatto tutto in pochissimo tempo.
Ma ancora era combattuto.
Se avesse deciso di andare avrebbe sofferto, se avesse deciso di non andare avrebbe vissuto con il rimorso, lo sapeva.
Si maledì, addirittura, per essere scappato, per non aver trovato la forza prima di dirle che si era totalmente innamorato di lei e che, a quell’amore incondizionato, non vi era alcun rimedio.
Si batté un pugno sulla fronte e si diede dello stupido.
‘Per forza si sposa con un altro’ pensò ‘Non aveva più nessuno al suo fianco, non aveva nessuno che l’amasse, che la consolasse, che riuscisse a farla sentire viva’
Che poi lui come faceva a sapere che lei non lo amava?
Un anno buttato via per niente, ecco tutto ciò che aveva in mano e la consapevolezza che lei era rimasta da sola per troppo tempo.
Ma quella sensazione, che provava quando stava con lei, quando la consolava, di essere semplicemente una spalla su cui piangere, un buona amico su cui riversare le proprie paure, le proprie sofferenze, una semplice fonte di sfogo, lo aveva spinto ad andarsene.
E forse, alla fine, una volta confessatole il suo amore, lo avrebbe fatto comunque.
Fece un respiro profondo e cercò di controllarsi.
Aveva la mente affollata da più di mille pensieri e non sapeva come ordinarli.
Bevve un altro sorso di vino e cercò di concentrarsi.
Forse aveva sbagliato tutto, forse era ancora in tempo, forse poteva precipitarsi da lei e confessarle tutto e poi avrebbe scelto lei chi fra i due la meritava di più.
O forse … forse era tutto troppo egoistico.
Poteva precipitarsi lì, da lei, e confessarle ogni cosa, senza pretendere assolutamente nulla da lei.
Sarebbe sparito di nuovo una volta svuotato il suo cuore.
Posò la bottiglia sul tavolo e la lasciò stare lì, pulendosi le labbra con il dorso della mano.
Se ne tornò in salotto ed osservò ancora una volta quello stramaledetto invito.
Si immaginava già di stare lì, fra amici e parenti che lo riconoscevano, che gli domandavano dove diavolo fosse stato in tutto quel tempo, di vedere lui, che le sorrideva, che la baciava, che l’amava …
Avrebbe retto? Si, ma poi sarebbe crollato.
Si girò un attimo a guardare l’orologio digitale della scrivania che segnava già le sette.
Si alzò a fatica, con il sangue che pulsava nella testa: l’alcool cominciava a fare effetto.
Aveva bevuto già praticamente metà bottiglia e, per uno che non toccava vino da quasi un anno, risultava quanto mai difficile da reggere.
Chissà perché in quel momento ubriacarsi gli era sembrata l’unica risposta plausibile.
Con la testa fra le mani decise, per completare l’opera, di non cenare affatto; prese la bottiglia e si diresse al piano di sopra, aggrappandosi al corrimano e tentando di non cadere.
Girava tutto.
La stanza, la sua testa, la bottiglia, le scale .. Cecilia.
Oh quanto era bella Cecilia, che volteggiava spensierata con addosso un vestitino azzurro chiaro che l’avvolgeva con morbidezza.
I capelli castani che si muovevano morbidi, come le onde del mare.
Si fermò di colpo, in mezzo alle scale e per poco non cadde, tanto era lo stupore.
Cecilia, a casa sua? Come, quando?
Come aveva potuto arrivare fin lì. Prima non c’era, ne era sicuro, se ne sarebbe accorto se fosse stato altrimenti.
No, Cecilia non era lì. Cecilia era in chiesa a fare le prove, a scegliere il bouquet, a provare il vestito, ad organizzare tutto quanto.
Scosse la testa e riprese a salire. Forse trangugiare metà bottiglia di bianco a stomaco vuoto non era stata l’idea migliore che avesse avuto.
Eppure un attimo fa gli era sembrato così sensato … bevo, mi distraggo, scaccio i brutti pensieri.
“Non tentare di affogare i tuoi dispiaceri nell’alcool, sanno nuotare.”
Si ricordava di aver letto quella frase da qualche parte e si ricordava anche di aver condiviso appieno quel che diceva, eppure in quel momento gli sembrava che niente avesse più un senso.
Stremato e sudato arrivò in cima alle scale e, con molta attenzione, barcollando, riuscì a raggiungere i piedi del suo letto ad una piazza e mezzo, al centro della stanza.
Ci si buttò sopra, facendo cigolare le molle e posò la bottiglia atterra, sul legno lucido del parquet.
Si abbandonò alla sensazione di spensieratezza e intontimento che l’alcool aveva diffuso e, senza nemmeno accorgersene, si addormentò.

*****

-Un biglietto di sola andata per Roma.-
Marco ritirò il suo biglietto ferroviario dallo sportello e si diresse, trascinandosi dietro i bagagli pesanti, al binario otto.Un treno per Roma, aspettava solamente che lo salvasse.
L’aria pungente di metà dicembre gli scalfì il viso, mentre la neve cadeva lenta.Osservò il cielo e si ricordò quanto gli piacesse la neve: il cielo completamente bianco, che ti avvolge; i fiocchi lenti e soffici, freddi ma delicati.Si strinse nel cappotto scuro, sperando che il freddo che gli penetrava le ossa svanisse, che quei brividi che percepiva sulla schiena cessassero.
Ma, forse, non erano brividi di freddo quelli, forse era solo paura.
La paura di partire, la paura di lasciarsi tutto alle spalle e la paura di lasciare Cecilia forse per sempre.
Sarebbe tornato? No, era deciso a non volerlo fare, perché altrimenti non avrebbe avuto il bisogno di partire.
La sera era scesa veloce, attraversando il cielo in un lampo veloce ed aveva avvolto tutto quanto, abbracciando la distesa azzurra con il suo blu cobalto tinto di rosso.
Sembrava quasi che qualcuno avesse giocato con i colori, su una tela infinita.
Il tramonto lo aveva sempre affascinato e vedere il sole tuffarsi e svanire, come se venisse inghiottito dall’enorme distesa azzurra lo rilassava.
Vedeva gente passare, correre, con le valigie al seguito, con bagagli pesanti, mentre  i treni andavano e venivano.
-Il treno per Roma delle cinque arriverà al binario otto tra cinque minuti.-
Il suono metallico della voce che ripeteva meccanicamente gli orari e gli arrivi dei treni rimbombò per un paio di minuti nella sua testa, dove tutto vorticava confuso, in un turbine di insicurezze e paure.
La borsa che si portava appresso era leggera, non c’era quasi niente dentro, ma sentiva che un peso lo opprimeva.
Sentiva che stava trascinando un macigno grosso quanto una casa.
Aveva dei ripensamenti? Sì, nei suoi pensieri c’erano anche quelli.
Se mi vorrà fermare verrà qui, in stazione, altrimenti mi vedrà svanire.
Si ripeté queste parole almeno un centinaio di volte, con la consapevolezza che non sarebbe mai venuta lì, con la consapevolezza che non l’avrebbe più rivista.
D’un tratto lo vide: il treno che giungeva in lontananza, le ruote che sui binari correvano, prima veloce, poi piano, poi si fermavano, per far salire i passeggeri.
Chiuse gli occhi e in una frazione di secondo se lo ritrovò davanti, che aspettava solamente che lui salisse.
Si fece coraggio e si ripeté che, in fondo, era molto meglio così.
Senza nemmeno accorgersene, la sua mano destra tirava su, con un gesto meccanico, il borsone leggero, mentre quel peso continuava ad opprimerlo togliendogli il respiro e i suoi piedi procedevano verso il treno.
Salì senza nemmeno accorgersene, stringendo il biglietto in una mano ed i manici del borsone nell’altra e cominciò piano piano a vedere le persone svanire velocemente.
Il treno si mosse subito e quando uscì dalla stazione lui disse definitivamente addio a Milano e a Cecilia.

 
Si svegliò di soprassalto, con le gocce di sudore che lente scivolavano sulla fronte, e sul resto del corpo, un sudore freddo che lo appesantiva.
Si tirò a sedere e si stropicciò con forza gli occhi.
La bottiglia di vino era ancora sistemata affianco al materasso e quando si voltò per guardare l’ora, notò con sorpresa  che aveva dormito più di dieci ore.
Testando il suo equilibrio tentò di tirarsi su, posando i piedi sul pavimento, tenendo le mani ancora ben ancorate al materasso.
Con gli occhi chiusi si tirò su e si ritrovò in piedi.
Non vacillava, né barcollava, ma stava semplicemente fermo, come se avesse avuto  colla sotto ai piedi.
Si massaggiò le tempie con due dita, guardandosi intorno e ripensando alla sera prima.
Nonostante riuscisse a stare perfettamente in piedi, tutto intorno a lui volteggiava pericolosamente.
Si affacciò alla finestra appoggiò la fronte al vetro, sentendosi sollevato dalla sensazione di fresco che la superficie gli trasmise solo per qualche minuto.
Sentiva inspiegabilmente caldo ed aveva sudato anche durante la nottata passata a sognare il suo passato, ma probabilmente era solamente il vino che ,dopo la dormita, stava avendo le sue ultime ripercussioni.
Decise di scendere al piano di sotto, sbuffando ed inciampando in qualche giornale distrattamente dimenticato per terra, a farsi una tazza di caffè nero fumante.
Bevve con avidità tutta la tazza di caffè che si era preparato e poi la infilò in lavastoviglie, insieme a piatti bicchieri e posate.
Si aspettava che l’effetto della caffeina avrebbe fatto effetto subito, ma per ovvi motivi non fu così.
Decise di sedersi a tavola, lasciando scivolare fuori un po’ di pensieri.
Con i gomiti sulla superficie di legno liscia, tamburellava ossessivamente le dita, cercando di capire che cosa fosse più giusto fare.
Si rese conto, con amarezza, che c’era un’abissale differenza fra ciò che realmente voleva fare e ciò che davvero era giusto.
Ma quando chiudeva gli occhi e vedeva Cecilia, vestita di bianco, ferma all’altare, con un bouquet in mano ed il sorriso stampato sul volto, accanto all’uomo perfetto sentiva un brivido percorrergli la spina dorsale e le mani stringersi a pugno.
Si alzò di scatto, quasi come se fosse stato pronto a prendere a pugni qualcuno, a prendere a pugni lui.
Il caffè aveva finalmente  avuto l’effetto che sperava e adesso stava decisamente meglio.
Ancora una volta si massaggiò le tempie con due dita e fece mente locale.
Si ricordò, all’improvviso, di aver staccato la spina del telefono, in un momento di panico generale.
Mosso dalla caffeina che sul suo organismo aveva sempre avuto effetti forti ed efficaci, corse verso il tavolino dell’ingresso, dove c’era il cordless.
Recuperò la spina e la infilò nella sua presa.
Accanto al telefono, che prese a segnalare messaggi in segreteria e chiamate perse a raffica, stava ancora quel mostro di carta, ma Marco era troppo impegnato a controllare i numeri sul display per poter pensare anche all’invito.
Per un secondo dimenticò Cecilia, per un secondo dimenticò lui e il matrimonio.
Poi, scorrendo l’elenco di chiamate perse, notò il suo nome.
Cecilia si distingueva nella lista, dal nome di sua madre e di Giancarlo, il suo migliore amico.
Aveva perso venti chiamate: diciassette di sua madre, due di Giancarlo e una di Cecilia.
Sgranò gli occhi e senza nemmeno fermarsi a riflettere, premette il tasto verde sul suo cordless.
Portandosi il telefono all’orecchio udì i primi due tu che segnalavano che, grazie a dio, la linea era libera.
I muscoli di Marco erano tutti completamente tesi e lui non si era mosso nemmeno di mezzo millimetro, assolutamente preso da quella telefonata che avrebbe segnato il suo destino.
Al decimo tu, finalmente Cecilia rispose.
-Pronto ..- disse squillante.
Dall’altro capo Marco tacque e si limitò a deglutire nervosamente.
E adesso? Che cosa le avrebbe detto? Che cosa avrebbe fatto?
Ora o mai più, hai scelto tu di chiamarla, per cui ora le dici ogni cosa.
-Pronto.-riuscì infine a sussurrare.
-Marco. E’ un po’ che non ci sentiamo.-commentò Cecilia, lasciando scivolare una mano sul collo.
La sua voce era carica di tensione e di rimpianto.
Marco invece, si sentiva mancare il fiato.
Gli sembrava quasi che le mura fossero in procinto di schiacciarlo, di trascinarlo con sé in un vortice pericoloso.
Non rispose, chiedendosi il perché di quella dannata chiamata.
-Allora .. hai intenzione di venire? Al mio matrimonio?-azzardò Cecilia dopo minuti di silenzio.
Un’altra stilettata al cuore.
Sanguinava, zampillava ormai da ore, ma per qualche strana ragione era ancora vivo e questo, si disse, non era un bene, perché finché si vive si soffre.
Sospirò e tutto ciò che sentì Cecilia fu il suono metallico della voce di Marco che scandiva un NO.
-Perché?-domandò giustamente.
-Non posso, Cecilia.-
Nella sua mente il vuoto, nel suo cuore solo sangue.
-Capisco … -
-Non sposarti Cecilia.-la supplicò stringendo la mascella.
Strinse gli occhi per evitare di farsi prendere dalle lacrime, strinse gli occhi per evitare di farsi ancora del male.
Stavolta fu lui a sentire il silenzio, ed era un silenzio che pesava, che pesava moltissimo.
-Addio Marco.-
Prima che lui potesse anche solo aprire di poco le labbra, la chiamata era già stata chiusa da lei.
Marco rimase immobile, con il telefono in mano per dei minuti, non potendo credere che fosse tutto vero.
Dopo un po’, con fatica, posò il cordless al suo posto, prese l’invito e lo accartocciò con rabbia, gettandolo poi alle sue spalle.
Andò in cucina, alla ricerca disperata di qualcosa che potesse farlo stare meglio. Aprì il frigo e non trovò nessun tipo di consolazione.
Si guardò intorno, spaesato, come se quella non fosse stata più casa sua, ma la casa di un estraneo in cui si ritrovava per caso, dopo una nottata poco tranquilla.
Si ricordò poco dopo di aver ricevuto in regalo una bottiglia di brandy, che non aveva mai nemmeno scartato.
Dopo averla recuperata non ci mise molto ad aprirla e a svuotarla.
Si ritrovò perso in un vortice d’alcool e sofferenze che furono in grado di ucciderlo per i successivi quattro giorni.
Mentre saliva le scale, attaccato alla bottiglia e rivedeva Cecilia ovunque, passargli accanto, sfiorargli i capelli, la pelle, si rendeva conto di aver perso tutto quanto.
Salì le scale e aprì l’armadio, osservando, fra tutti i vestiti, quello buono, da matrimonio, da cerimonia.
Lo osservò con sospetto, quasi come se fosse stato un nemico da cui doveva difendersi e poi richiuse l’armadio.
Quel vestito sarebbe rimasto lì, sempre, e lui, due giorni dopo non si sarebbe presentato al matrimonio, perché vedere l’amore della sua vita morire lentamente lo avrebbe prosciugato e lui lo sapeva, non era abbastanza forte per poterlo sopportare.
 

 -ANGOLO AUTRICE.
Ragazzi eccomi qui :) 
Spero che questa piccola os vi sia piaciuta. Non è niente di che, lo so, però mi piacerebbe tanto tanto sapere che cosa ne pensate voi :)
Lasciate qualche recensione va bene? Altrimenti mi arrabbio :P
Grazie per la pazienza ;)
A presto ...
Laura.


 

 
 

  
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