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Autore: Blackvirgo    27/02/2012    2 recensioni
Le notti in ospedale sono sempre imprevedibili. Quando squilla il cercapersone, la sorpresa è la regola: può essere qualcuno che non riesce a dormire oppure qualcuno che sta per morire.
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Note iniziali:
questa storia è stata scritta circa un anno fa aderendo all'iniziativa della scrittrice Lara Manni aka rosencrantz: Autori per il Giappone. Era stata una storia scritta in fretta, che oggi ho ripreso in mano e revisionato.
Questa è la prima storia di una raccolta che nasce dalla rielaborazione di esperienze più o meno personali, più o meno vissute, da notti più o meno passate a dormire. O a vegliare. 

Disclaimer:
- la frase che dà il titolo alla raccolta è una citazione di Amleto di William Shakespeare. 
- le situazioni, i personaggi e i luoghi citati nelle storie sono frutto della mia immaginazione. Ogni riferimento a fatti realmente accaduti o a persone realmente esistenti o esistiti è puramente casuale. 



LA STANZA ACCANTO

Le notti in ospedale sono sempre imprevedibili. Quando squilla il cercapersone, la sorpresa è la regola: può essere qualcuno che non riesce a dormire oppure qualcuno che sta per morire.
Questa notte Carla non ci riesce perché la sua compagna di stanza sta morendo. È entrata un’inserviente, ha acceso la luce e ha chiesto cosa succede. Quindi sono arrivati gli infermieri e il medico. Hanno tirato la tenda tra i due letti e Carla si è chiesta se lo hanno fatto per nasconderle cosa stanno facendo oppure perché quel divisorio permette loro di isolarsi e di lavorare meglio. Ma le voci passano e Carla le sente: “Metti il monitor e prendi la pressione.”
“La saturazione cala!”
“Fai un’emogas!”
“Prepara un bolo di...”
Carla odia i nomi dei farmaci: alcuni sono incomprensibili, alcuni divertenti, certi quasi ridicoli. Ma nessuno è stato capace di impedirle di arrivare a quel punto, a quell’ennesimo ricovero. E dovrebbe anche ritenersi fortunata di essere finita in una camerina da due persone, invece che in quegli stanzoni enormi da cinque o sei. Ed è fortunata anche per la sua compagna: una brava signora. Era una brava signora, si dice. Tra poco non sarà più. Carla se lo sente, proprio come se lo sentiva Arcadia quel pomeriggio stesso. Non ho più fiato, diceva. Non ho la forza neanche di respirare.
Carla si infila le cuffie e accende la televisione. Non vuole sentire il medico e gli infermieri parlare, non vuole sentire i rantoli di Arcadia – “come l’astronave di Capitan Harlock!” aveva commentato il suo nipotino quando era venuto a trovarla –, non vuole sentire neppure i suoi pensieri. Non vuole pensare a quando sarà lei a dire questa volta non ce la farò. Perché questa volta lei ci ha messo fin troppo tempo a trovare un motivo che le desse la voglia e la forza di farcela.
Carla ci prova a guardare la televisione, ma poco dopo si trova a premere convulsamente il pulsante rosso che la zittisce. È meglio guardare lo schermo nero piuttosto che quelle immagini di devastazione. È meglio ascoltare frasi secche e concitate e rumori a cui non sa dare un nome dietro una tenda piuttosto che le parole di un cronista che parlano della morte di migliaia di persone e che sopra ci intreccia pure della poesia o della retorica.
Carla osserva la tenda e pensa che Arcadia era una bella persona. Fatta a modo suo, con tutti i suoi anni sulle spalle e la macchina sul comodino che la notte l’aiuta a respirare, ma che non la fa dormire perché gorgoglia e ronza. Anche se Carla sa che non è la macchina, ma è lei che non riesce a dormire bene da anni, ormai. Solleva piano le coperte e osserva le sue gambe: una termina sotto il ginocchio e una arriva poco sotto la coscia. Glielo hanno già detto che con le braccia che si ritrova le protesi sono fuori discussione. Guarda di nuovo lo schermo nero della TV e si toglie le cuffie: non c’è niente di poetico nella morte, si dice pensando ad Arcadia. E neppure nella vita. E questa è rivolta a se stessa. Poi riporta lo sguardo e la mente alla stanza: sono arrivate le figlie.
“Sta morendo, vero?” chiede una delle due. Ha gli occhi arrossati e i capelli scarmigliati. Probabilmente era a letto quando l’hanno chiamata.    
“Sta morendo... non riesco a pensare che non l’avrò più con me…” singhiozza l’altra, disperata.   
Ma Arcadia è vecchia, ha i polmoni malati e il cuore che perde colpi. Hanno provato a riprenderla, dice il medico, ma non ci sono riusciti. E un intervento più invasivo...
“No,” dice Maria. O era Marisa? “Lasciamola andare.” E l’altra piange più forte.
Lasciano le due donne sole con la madre.
Sole con la madre e con Carla, con una tenda in mezzo. Ma anche il medico non è uscito: si è fermato vicino al letto di Carla che è quello più vicino alla porta. Ha lo sguardo fisso verso le ombre e i singhiozzi e i mormorii che la tenda non contiene. Si volta appena, verso Carla che lo sta guardando. Accenna un sorriso che piega appena le labbra, ma che non ce la fa a arrivare agli occhi.
“Anche stanotte non ha dormito,” le mormora avvicinandosi.
“Almeno non è stato il dolore a tenermi sveglia.” Carla si volta appena verso la tenda, dove ormai si sentono solo singhiozzi sommessi e parole di conforto bisbigliate. Le due sorelle sono rimaste sole. Carla vorrebbe chiedere al dottor Ronchi se morire fa male, ma le sembra sciocco. Di sicuro alle figlie di Arcadia – che già sono madri a loro volta – fa male. E fa male anche a lei. Guarda di nuovo il medico e nota che ha le occhiaie grigie e gli occhi lucidi. È ancora giovane, Ronchi, si deve fare le ossa.
“È una brutta notte, dottore?” preferisce chiedergli.
“Sa, Carla,” le risponde il medico, sottovoce. “Il mio maestro sarebbe andato da loro e avrebbe detto: non pensate che è morta, pensate che ora la mamma è nella stanza accanto.” Muove  qualche passo, verso le due donne e  Carla si chiede se gli occhi lucidi sono per Arcadia, per le parole del suo maestro o perché ha toccato con mano i suoi limiti. Il punto in cui nessuno sforzo può cambiare le cose.
Carla lo sente mormorare parole di condoglianze, ma niente poetismi: non sarebbero da Ronchi. Lo osserva, con le mani nelle tasche già piene del camice, mentre le segue fuori dalla stanza. Maria – o era Marisa? – e sua sorella hanno smesso di piangere, ma non di abbracciarsi: camminano e si sorreggono a vicenda.
Hanno quattro gambe per reggere il loro dolore, pensa Carla. Lei invece può contare solo su quelle degli altri.
Accende la televisione, ma non si rimette le cuffie. Non ha più sonno, ormai. E soprattutto non ha voglia di dormire. Sente gli infermieri trafficare attorno al letto di Arcadia, poi la portano fuori con il volto coperto dal lenzuolo. Spengono la luce quando escono e di nuovo è buio e silenzio.
Le immagini della televisione non sono cambiate: la terra, in Giappone, ha tremato e il mare l’ha seguita.
La stanza accanto, pensa Carla. È un inganno, solo uno sciocco inganno. Un’illusione.
Una lacrima le sfugge dalle palpebre e scende lungo le sue rughe. Arriva sulle labbra, appena distese. Piega la testa all’indietro, sul cuscino e lascia che altre lacrime seguano la prima. Lascia andare la tristezza, il dolore. Non singhiozza, non sussulta. È rassicurante quel silenzio, ora, e di nuovo spegne la televisione, perché anche il buio la avvolga.
La stanza accanto, sorride. Deve essere un luogo davvero affollato in questi giorni
   
 
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