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Autore: MadLori_trad_Charlie    28/02/2012    133 recensioni
Sherlock aveva sempre saputo di non avere una vita lunga davanti a sé, ma non credeva che sarebbe finita così.
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Autore:Mad_Lori
traduzione: Charles
Genere: Angst, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: AU, Traduzione | Avvertimenti: nessuno
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[EDIT: Vi sono profondamente grata per le recensioni che state lasciando. Non riesco a rispondere a tutti perchè siete davvero tantissimi, ma grazie di cuore, siete meravigliosi!] ---- Nota: Se siete qui è perchè probabilmente avete visto la serie tv della BBC “Sherlock”, ne avete intuito il (non) sottile sottotesto omoerotico (o platonicamente romantico, come preferite), e qualche vostro amico/a vi ha quindi suggerito di leggere “Alone on The Water”, che è la fiction più famosa e citata di questo fandom. A quanto pare nessuno l’ha ancora tradotta in italiano, e discutendo con amiche e con altre fan che non riuscivano a leggerla con scorrevolezza in inglese, e quindi ad apprezzarla come meriterebbe, mi sono decisa a buttarmi nella traduzione. Se avete una conoscenza medio-alta dell’inglese, chiudete questa pagina e andate a leggere direttamente la versione originale, che è semplicemente un capolavoro. Per quanto mi sia impegnata a fondo nel ricercare termini e frasi che rendessero il senso e il tono dell’originale, è ovvio che parte del fascino e della musicalità che solo gli originali hanno è andata perduta, o quantomeno risulta smorzata. Ho fatto del mio meglio, prendendomi libertà lessicali solo nei casi in cui la traduzione letterale disintegrava la bellezza della frase, ma restando comunque il più fedele possibile al testo. Tuttavia non sono certo un’esperta, quindi se notate errori di significato, se ci sono frasi di cui ho proprio cannato il senso, avvertitemi e provvederò a correggerle (ma anche se avete suggerimenti per migliorare la resa del testo, non esitate a scriverli). Consiglio generale: prima di iniziare, fornitevi di kleenex.
 
Tutti i credits, gli applausi, gli inchini (e anche gli smadonnamenti, “perchèèèè mi hai fatto questo” eccetera) e i complimenti vanno all’autrice della storia, da cui ho avuto il permesso di tradurla (l'ho chiesto dopo ma yay, è stata carina e disponibile :D ) Mad Lori http://madlorific.livejournal.com/22790.html, che ci ha regalato questo piccolo gioiello di amore e disperazione. Se arrivate a fine lettura senza avere più gli occhi, prendetevela con lei.
 
Per finire: una splendida fanart ispirata alla storia http://inklou.deviantart.com/art/Alone-on-the-Water-267983871, e un video altrettanto struggente http://www.youtube.com/watch?v=TEA-B1QNplQ. (Ma apriteli dopo questi link, così non solo evitate spoilers, ma fa anche più male, fidatevi. Tanto lo sappiamo che siamo tutti masochisti qui, pat-pat.)
   

 
Sorrow's my body on the waves
Sorrow's a girl inside my cave
I live in a city sorrow built
It's in my honey, it's in my milk

Don't leave my hyper heart alone on the water
Cover me in rag and bone and sympathy
Cause I don't want to get over you

I don’t want to get over you.
 
(Il dolore è il mio corpo sulle onde
Il dolore è una ragazza dentro la mia caverna
Vivo in una città che il dolore ha costruito
E’ nel mio miele, è nel mio latte

Non lasciare il mio cuore iperattivo da solo sull’acqua
Ricoprimi di stracci e ossa e compassione
Perché non voglio lasciarti andare
Non voglio lasciarti andare.)
- Sorrow, The National
 
 
Sono seduto, e ascolto le parole. Mi sento stordito.
Inoperabile. Profondo. Pressione intracranica. Terribilmente dispiaciuto. Opzioni. Accomodamenti.
Sherlock è seduto vicino a me, le gambe incrociate. E’ calmo. “Quanto mi resta?” è tutto ciò che chiede.
Il neurochirurgo è un mio vecchio compagno del St. Barth. È un brav’uomo. Mi sta guardando con compassione, presumendo quello che tutti quanti presumono. Non mi dà più fastidio di tanto. “Un mese. Al massimo.”
Io avrei altre domande, ma Sherlock è già in piedi. “La ringrazio, dottore. Andiamo, John.” Ed è fuori dalla stanza. Mi accingo a seguirlo.
“John- mi dispiace molto,” dice il mio vecchio amico. “Possiamo metterlo a suo agio, per quanto possibile”
Rido. Mi sorprendo nel sentire quel suono venir fuori dalla mia bocca. “Non è mai stato davvero a suo agio in vita sua. Non c’è bisogno di cominciare adesso.”


Non proferiamo parola nel taxi, sulla via del ritorno. Fisso fuori dal finestrino.Guardalo. Guarda il mondo, sta ancora girando. Mi sembra di essere caduto. Sherlock tamburella con le dita sul ginocchio. È fuori dal taxi prima ancora che si sia fermato, e subito è nell’appartamento, correndo su per le scale. Poi è immerso nei suoi documenti. Li esamina, li butta via, li accatasta. Non ho idea di che cosa stia facendo.
Me ne resto semplicemente lì, in piedi. “Sherlock.” Non risponde. “Sherlock!”
“Non sono interessato ad analizzare il mio stato emotivo in questo momento, John, il che è chiaramente il tuo scopo.”
“E che mi dici del tuo stato fisico allora?”
Sbuffa. “Considerato ciò che mi è stato appena comunicato, cosa potrebbe mai avere importanza adesso?”
“Dobbiamo parlarne.”
“Parlare di cosa?” getta a terra un fascicolo e si volta ad affrontarmi. “Del fatto che mi resta un mese da vivere?” Le sue parole mi colpiscono come il tonfo sordo di una cannonata, alla base della mia spina dorsale. “Ho il sospetto che sia tu quello che ha bisogno di parlarne.”
“Va bene, si, è vero. Sherlock…”
“La mia unica preoccupazione è quanto a lungo potrò continuare con il mio lavoro, prima di non esserne più in grado.”
Sono incredulo. “Il tuo lavoro?”
Si ferma, finalmente, e mi guarda. “Dipendo da te per la verità John. Quindi, dimmi la verità adesso.”
Faccio un respiro profondo.Distacco. Lascia fluttuare via tutto il resto come un palloncino. Legalo a te così puoi riprenderlo più tardi.
“I tuoi mal di testa peggioreranno. Comincerai ad avere episodi di afasìa e difficoltà nel parlare. Il tuo equilibrio ne risentirà, presto non sarai più in grado di camminare o stare in piedi. La tua capacità cognitiva verrà intaccata e la tua vista comincerà ad offuscarsi. Ti assaliranno senso di nausea, vertigini, dolore e debolezza muscolare. Alla fine, perderai conoscenza.”
Lui annuisce. “Sei indubbiamente al corrente del fatto che i problemi di equilibrio e l’afasìa sono già cominciati.” Io annuisco di rimando. “Non ho alcun desiderio di sopportare tutto questo, John.” Il suo sguardo incontra il mio. Sembra calmo, ma io lo conosco come nessun altro, forse come nessuno lo abbia mai conosciuto in vita sua. E riesco a vedere, in questo preciso istante, che Sherlock è spaventato.
“E io non posso guardarti sopportare tutto questo.” Anche peggiore del pensiero di perderlo, è l’idea di restare a osservare mentre la sua mente si deteriora, vagamente cosciente di essere stata, una volta, speciale e incredibile, ma incapace di ricordarsi come e perché. Vedere la sua sconfinata energia intrappolata in un corpo che non può più obbedire ai suoi ordini, messa fuori gioco e ridotta a miseria dal tumore estraneo che continua a logorarlo nel profondo del suo cervello.
So quello che vuole. Dio mi aiuti, è un sollievo. “Mi prenderò cura di te.”
La sua espressione si addolcisce per un attimo. “So che lo farai.” E l’attimo dopo la sua granitica compostezza è tornata. “Niente iniezioni.” Rimango perplesso per un momento. “Ma sarebbe il modo più semplice.”
“Non voglio che ricadano sospetti su di te. Deve essere credibile che abbia fatto tutto da solo. Esistono delle pillole?”
“Si. Ma ci vorrà un po’ più di tempo. Mezz’ora almeno. Ma sarà indolore.”
“Bene. Procurati le pillole, e vedremo il da farsi giorno per giorno. Continuerò con il mio lavoro e tu non dirai a nessuno delle mie condizioni, capito?”
Capisco. Capisco che non posso obbedire a questa richiesta e lui sa che io non posso, ma che tutti preserveremo comunque la delicata finzione del non sapere. “Va bene.”
“Decideremo quando sarà il momento. Chiunque voglia vedermi, suppongo dovrei lasciarlo fare, ma trascorrerò l’ultimo giorno da solo.”
Mi si chiude la gola. “Da solo?”
“Si. Per cui spero che riuscirai a esimerti dall’ambulatorio quel giorno. Anche se con poco preavviso.”
Il sollievo mi inonda. “Ah. Sono certo che capiranno.”
Lui avverte qualcosa nella mia voce, e muove un passo verso di me. “John, quando ho detto ‘da solo’, quello che intendevo era…” Si schiarisce la gola. “Insomma, spero sia accettabile per te.”
Accettabile. Il mio migliore amico mi ha appena informato che vorrebbe trascorrere il suo ultimo giorno sulla terra da solo con me. Non c’è niente in tutto ciò che possa anche lontanamente definirsi accettabile.
 
La mia mente non ha ancora realizzato che lui sta per andarsene. Riesco a malapena a ricordare la mia vita senza di lui. Si è sottilmente inserito in tutti i miei ricordi, come se fosse stato lì tutto il tempo. È lì in Afghanistan, seduto sulla branda accanto, che commenta gli altri soldati, infastidendomi mentre provo a ricucire le ferite di qualcuno. È al St. Barth, interrompendomi mentre studio per trascinarmi all’obitorio, a casa, nel parco in cui ero solito giocare quando ero bambino.
Resto lì, nel nostro soggiorno, e lo osservo tornare ai suoi fascicoli. A un certo punto, durante questi ultimi due anni, lui ed io siamo diventati un ibrido. Sherlock-e-John. L’innesto è stato così totale che persino quando siamo separati, per giorni o settimane come è a volte capitato, io riesco comunque a sentire il filo invisibile che mi unisce a lui. Per un momento, sono arrabbiato. Perché non sarà lui a dover recidere metà di se stesso e tornare ad essere un’entità sola. John-e-[ricorretto]. Il filo rimarrà tuttavia. Io porterò per sempre la cicatrice nel profondo, che mi ricorderà cosa ho perduto.
Ci presentiamo agli altri come coinquilini. Quello che realmente intendiamo è che siamo amici. La gente ogni tanto presume che siamo amanti. Nessuna di queste descrizioni è davvero accurata. Non sono sicuro che esista una parola nella nostra lingua per descrivere ciò che siamo. Harry una volta ci definì “compagni eterosessuali per la vita”. A Sherlock piacque. Lo fece ridere. Io non so se neanche quello riesca a spiegare pienamente cosa siamo. Siamo semplicemente – insomma, siamo semplicemente noi.
Tutto quello che so è che si è spalancata una profonda voragine nel mio petto e sta diventando sempre più grande e cupa e tra un istante mi inghiottirà e io non posso permettere che lui assista a questo.  “Ho bisogno di uscire per un po’,” dico. Il mio senso di colpa nel lasciarlo solo dopo la notizia appena ricevuta è mitigato dalla consapevolezza che lui preferirebbe restare da solo che aver a che fare con qualunque emozione io debba esprimere al momento.
Mi risponde con un breve cenno del capo. “A più tardi”.
Mi volto e mi precipito rumorosamente giù per le scale. Sento lo stomaco che si contrae in una morsa. Sono costretto ad appoggiarmi alla parete per un momento. Non so come riesco a raggiungere la strada e fermare un taxi.
 
Riesco a contenermi fin quando non arrivo a casa di Sarah. Un’altra relazione della mia vita che rifiuta una precisa classificazione. Fidanzata? No. Amica? Si, ma anche qualcosa di più. Compagna di scopate? Di tanto in tanto. Queste definizioni potrebbero essere adatte, se non fosse per il fatto che lei è più al corrente di quello che succede tra me e Sherlock di chiunque altro. Lei sa del filo, del legame. È stato proprio quello a rendere impossibile che tra di noi ci fosse quello per cui avevamo sperato all’inizio, ma allo stesso tempo non siamo riusciti a ripiegare su una semplice classica amicizia. Perciò aleggiamo qui, nella terra dell’indefinito. Lei frequenta altri uomini. Io ho solo Sherlock.
Nota l’ espressione sul mio volto e mi accoglie in casa. “Cos’è successo?”
Sto tremando. “Sherlock.”
“Che ha combinato adesso?”
“Si è ritrovato un maledetto tumore al cervello.”
 

 
Sarah mi stringe a sé mentre ho un serio crollo emotivo e comincio a singhiozzare incontrollabilmente, e probabilmente dovrei esserne imbarazzato, ma in qualche modo vivere a stretto contatto con il perenne distacco di Sherlock mi ha reso notevolmente disinvolto riguardo qualunque cosa io senta dentro. Sono diventato una sorta di veicolo del suo lato umano. Devo esprimere tutte le emozioni che lui reprime, e così finisco per fare il doppio del dovuto.
Le racconto delle pillole che mi servono, e del piano di Sherlock. Quasi mi aspetto che obietti, ma lei si limita ad annuire e ad offrirmi il suo appoggio.
“Quanto tempo pensi che ci vorrà prima che – prima che lui ne abbia abbastanza?” chiede pacatamente.
Io sto tenendo un panno fresco premuto sugli occhi, per attenuarne il gonfiore. Non posso tornare a casa con questo aspetto terribile. “Credo che non ci vorranno più di un paio di settimane. Sta succedendo tutto in modo così maledettamente veloce, Sarah. Mi sono accorto dei suoi strani mal di testa solo la scorsa settimana, cazzo.” Sento la mia voce spezzarsi.
Sarah mi accarezza i capelli, spostandomeli dalla fronte. “Mi dispiace così tanto, John.”
“Non è giusto. Perché proprio lui?”
“Perché chiunque altro?”
“Ma lui è – noi abbiamo bisogno di lui. Le persone non si rendono conto di quello che fa, di quanto fa.” Mi strofino il viso con il panno umido e mi lascio ricadere sconfortato sul divano. “Devo tornare a casa. Ho bisogno di prendermi dei giorni dal lavoro. Lui non dovrebbe restare da solo. Potrebbe aver bisogno di un aiuto medico in qualunque momento.”
Lei scuote la testa. “Certo, certo. Ma non è questo il motivo.” Mi limito a guardarla. “Va bene, sai. Ammetterlo.”
“Cosa?”
“Che vuoi trascorrere più tempo possibile con lui prima della fine.”
Mi trema di nuovo il labbro. La fine. La sua fine. Oh dio, non può essere vero. “Credevo che avrei avuto tutto il tempo del mondo.”
Sarah mi abbraccia e io piango ancora. Mi sento sciocco, ma è meglio tirar tutto fuori adesso. Non posso comportarmi così di fronte a Sherlock.
E lei ha ragione. Appena sarò rientrato a casa, non lascerò più il suo fianco.


Lui lavora. Io non vado in ambulatorio. Ci occupiamo di un caso dopo l’altro. Lui non dorme, e neanche io. Riesco a fare veloci sonnellini mentre lui si fa il bagno, o quando è occupato con qualcosa in cui io non posso essere d’aiuto.
Prendo da parte Lestrade, e spiego con calma la situazione. Sembra davvero atterrito, ma si ricompone velocemente. Gli prometto di informarlo appena la decisione sarà presa. Faccio lo stesso con Angelo. So che lui spargerà la notizia.
Sherlock è inflessibile riguardo al tenere all’oscuro Mrs. Hudson. Per una volta, sono d’accordo. Se glielo dicessimo, non riusciremmo a tenerla fuori dai piedi per due minuti. Aspetteremo finché non sarà più possibile rinviare.
Sarah mi fornisce le pillole. Due pillole, bianche e lisce. Le tengo addosso tutto il tempo. Non lascerò che lui le prenda senza il mio aiuto, altrimenti so che in un momento di frustrazione potrebbe dire “al diavolo”, ingoiarle in uno scatto di irritazione, e la sola idea di tornare dal negozio e trovarlo –no. Tengo le pillole sempre con me.
Per qualche giorno non sembra peggiorare. Poi, la smorfia di tensione che accompagna il mal di testa smette di scomparire quando prende gli antidolorifici che gli do. Ogni tanto inciampa, sempre più spesso. Sto al suo fianco quando siamo su una scena del crimine.
A una settimana dalla diagnosi, lo trovo che vomita in bagno. È pallido e sudato. Gli somministro della compazina e sembra sia d’aiuto.
Quel giorno ha il suo primo significativo episodio di afasia. È lì, pronto a spiegare la sua teoria, e improvvisamente le parole non escono dalla sua bocca. Vedo la sua mandibola muoversi, i suoi occhi, la sua mente pronta a mostrarci come tutti gli indizi combaciano, e le parole semplicemente non gli vengono. Mi cerca con gli occhi, l’ondata di panico appena visibile dietro il velo che cela sempre lo stato emotivo di Sherlock, il velo dietro al quale solo io riesco a vedere, in rari momenti. “John.” Balbetta.
“Cos’è quella?” dico, puntando il dito verso qualcosa, qualunque cosa non collegata a quello di cui stava per discutere.
Distoglie lo sguardo. “E’ una Citroen vecchio modello.” E prende un profondo respiro, torna in sé, di nuovo pronto a esporci la sua deduzione. Sally è accigliata. Lestrade sospira, e ci scambiamo un’occhiata veloce.
È cominciata.


  
Sto rientrando a casa dopo aver fatto la spesa e incontro Mycroft che scende le scale. È pallido e ha l’aria esausta. “Oh, John,” dice, dolcemente. “Mi dispiace non averti trovato in casa.”
“Beh, non avresti dovuto aspettare che uscissi per passare da qui,” ribatto, con astio. Se Mycroft mi crede così stupido allora non ha prestato abbastanza attenzione.
“Sherlock aveva alcune faccende da discutere con me.”
Anniusco. “È meglio che salga.” Non ho tempo per lui in questo momento.
Sherlock è seduto sulla poltrona di pelle, le gambe piegate sotto di lui. Mi fa cenno di prendere posto sull’altra poltrona. “Siediti John, ci sono questioni che dobbiamo affrontare. Detesto sprecare il mio tempo con affari del genere, ma a quanto pare è necessario.”
Mi siedo. “Di che si tratta?”
Mi passa un modulo. Lo riconosco. È un accordo di procura permanente. “Nel caso in cui il nostro piano vada a monte,” dice, “sia che collassi sia che abbia una drammatica regressione, tu avrai pieni poteri di assumere decisioni mediche in mia vece.”
Pensavo che questo mi avrebbe causato una qualche sorta di shock, e invece niente. È come dice lui, sono affari. L’affare del morire. Firmo il modulo. “Ecco.”
Sherlock è perplesso. “Non mi aspettavo che fossi così – ragionevole.”
“Non ne avremo bisogno. Lo farai alle tue condizioni.”
“Spero che tu abbia ragione.” Si schiarisce la gola. “Ho aggiornato le mie volontà. È tutto tuo, salvo pochi oggetti di valore familiare che andranno a Mycroft. Sentiti libero di spartire qualunque mia cosa con chiunque di tua conoscenza, come ritieni più opportuno.”
Sospiro. “Non voglio ciò che è tuo, Sherlock.”
“E allora brucia tutto,” dice, con una nota aspra nella voce. “Che differenza fa? Tutto ciò che ho è tuo comunque, niente ha importanza, e in ogni caso non saprò cosa ne sarà di ciò che possiedo, per cui prendi da me quello che desideri e lascia il resto agli spazzini.”
Mi limito a guardarlo. Lui mi guarda di rimando. Sono assordato dal rumore di tutte le parole che non stiamo pronunciando.


 
Due giorni dopo, Sherlock inciampa due volte e quasi cade. La seconda volta lo conduco a una panchina vicina e lo faccio sedere. È stato molto silenzioso oggi.
“Non riesco a vedere dal mio occhio destro, John, ” mi sussurra. Sento il tremore nella sua voce. “È andata via circa mezz’ora fa.”
Annuisco e basta. “Dovremmo tornare a casa.”
“Questo caso è quasi risolto. Terminiamolo.” Mi guarda, supplicandomi con gli occhi.
“Vorrei poter fermare tutto questo,” sussurro. Si allunga verso di me e afferra la mia mano. La stringo saldamente. Non potrebbe importarmene di meno se qualcuno si facesse un’idea sbagliata.
Portiamo a termine il caso. Sherlock si aggrappa a me mentre ci arrampichiamo su per le scale fino al nostro appartamento. Il suo equilibrio è peggiorato in modo allarmante solo nell’ultimo giorno.
Lo faccio sedere e misuro la sua pressione sanguigna. È troppo alta. Il polso è accelerato. Ha la febbre. La reazione pupillare è irregolare. Lui è in grado di leggermi in volto ciò che succede. Faccio per alzarmi ma lui mi trattiene e mi tira verso di sé. “John,” dice, e so cosa sta per chiedermi.
“Non ancora,” mormoro.
“È il momento.”
Incontro il suo sguardo. “Ti prego, Sherlock.”
“È mercoledì, vero?”
“Si.”
“Venerdì sera, allora.”
Questo è il piano. Due giorni di preavviso. Il primo giorno sarà per tutte le persone che passeranno per caso a fargli una domanda o dargli qualcosa. Il secondo giorno sarà solo per noi.
Le pillole pesano come macigni nella mia tasca.
 


Il mattino dopo, l’emicrania di Sherlock è così lancinante che riesce a malapena a sopportare la luce. Ho tenuto di riserva alcuni analgesici più forti, e fanno effetto. Lui insiste per indossare i suoi soliti vestiti. Si comporta come se non stesse aspettando nessuno in particolare oggi, ma sa esattamente cosa sta per accadere.
La prima faccenda da affrontare è quella che temiamo di più. È il momento di dirlo a Mrs. Hudson. Scendiamo nel suo appartamento e aspettiamo che sia seduta.
Lei piange, e si aggrappa a lui. Sherlock la abbraccia e la rassicura che non sente dolore, che accadrà tutto in modo sereno. Lei abbraccia anche me. Vorrebbe venire di sopra per prendersi cura di noi ma Sherlock è irremovibile. Promettiamo di chiamarla di nuovo l’indomani. Mrs. Hudson merita un’eccezione alla decisione di Sherlock di restare “da solo”.
Molly è il nostro primo visitatore. Si sta sforzando particolarmente di essere allegra e fingere di essere totalmente all’oscuro di tutto ciò che si suppone non debba sapere. “Ho raccolto altri simboli per te,” dice, porgendogli una pila di foto.
“Ti ringrazio,” risponde lui.
“Sul retro ho annotato le informazioni che di solito prendi tu, così puoi classificarli.”
“Sei stata molto premurosa. Sono sicuro che saranno utili.”
Molly si sta mordendo il labbro. “Inoltre – ho un cadavere non identificato. Se nessuno lo reclama, puoi venire a fare quell’esperimento sulle rotule, se ti fa piacere.”
“Magnifico. Quando sarebbe possibile?”
“Dobbiamo aspettare una settimana.” Sa quello che sta dicendo.
Sherlock sorride. “Ci vediamo lì allora.”
Il volto di Molly si contrae in una smorfia, ma lei si riprende in fretta. “Devo andare adesso,” esclama, balzando in piedi. Lo guarda per un momento, poi si china a baciargli la guancia. “Ciao, Sherlock,” è tutto ciò che riesce a dire.
Lui sembra toccato. “Buona fortuna, Molly.”
Lei si volta e fugge via, gettandomi a malapena uno sguardo. Sento che inizia a piangere mentre raggiunge la porta. Sherlock emette a fatica un sospiro profondo. “Spero che gli altri si costruiscano una facciata migliore.”
Sfortunatamente, il nostro visitatore successivo è Sally Donovan, ed è una terribile attrice. È decisamente troppo allegra e non riesce a insultarlo spontaneamente come farebbe di solito. È snervante. Se ne va dopo pochi minuti, con l’aria di chi è disgustato da se stesso. La prendo in disparte alla porta. “Avresti anche potuto sforzarti di più,”, le sibilo.
“Lui non lo merita”, risponde lei.
“Un’altra buona ragione per farlo. Ho detto molto chiaramente che l’avreste tutti trattato in modo normale. Quello che hai fatto non è stato affatto ‘normale’. ”
“Come fai ad aspettarti che lo chiami “strambo” e lo insulti quando so che domani notte…” la sua voce si spezza. “Non so come tu riesca a sopportare tutto questo.”
“Faccio quello che devo.”
Sbuffa. “Certe cose non cambiano mai vedo. Addio, John.”
Anderson fa un salto subito dopo pranzo. “Ecco,” ringhia, lanciando un sacchetto di carta a Sherlock. “I campioni di fibre che avevi chiesto. Sarà meglio che te ne esca con una delle tue solite deduzioni miracolose, perché è tutto quello che abbiamo.”
Sherlock sogghigna. “Sono certo che ci saranno prove abbastanza evidenti persino per te, Anderson.”
“È sbalorditivo il fatto che tu sia autorizzato anche solo ad avvicinarti ad un’indagine ufficiale.”
“Mi hai tolto le parole di bocca.”
“Non me ne starò qui in piedi a farmi insultare da te!” scatta Anderson.
“E allora prendi una sedia, vedrai che starai più comodo!” ribatte Sherlock, con aria quasi divertita.
“Non ho tempo da perdere così”. Si rimette i guanti, indispettito. “Sei un insopportabile bastardo.”
“E tu sei la personificazione dell’ignoranza.”
“Buona vita.” Anderson esce impettito dalla stanza. Lo accompagno alla porta.
“Grazie,” mormoro.
Mi guarda, e potrei giurare che è rimpianto quello che vedo sul suo volto. “Abbi cura di lui.”
“Lo farò.”
Riusciamo a malapena a trovare un momento tranquillo quel giorno. Sherlock è grato di questo. Io non tanto. Sono geloso del tempo che gli rimane, ogni prezioso minuto che passa è un minuto in meno che posso trascorrere con lui, dato il continuo afflusso di persone che si presentano alla porta, una dopo l’altra. Alcune sono persone che ha aiutato in passato, che guarda caso fanno un salto solo per portargli dei dolci, senza alcuna ragione particolare, ho pensato potessero piacerti, oh, stavo giusto passando davanti al fioraio e ho visto questo buquet e ho pensato potesse ravvivare la stanza, oh, questi sciocchi cioccolatini, li stavo portando a mia sorella, ma non è che per caso li vorresti tu, vero?
Cala la notte. Sherlock non si è alzato molto dalla poltrona oggi. Ho bisogno di controllare il suo equilibrio, quindi durante un momento di pausa lo costringo ad alzarsi e lo guardo camminare. Sembra più o meno stabile. Gli preparo del the.
Lestrade si presenta appena dopo le otto. Con lui non possiamo mantenere le apparenze come con gli altri, perché ci sono certe questioni di cui dobbiamo per forza occuparci.
“Farò quello che posso affinché non si apra un’inchiesta.”
“Prenderò io stesso le pillole, per mia libera scelta. Ma John potrebbe comunque venire incolpato per non avermi fermato. È un medico professionista, ha l’obbligo giuridico e morale di impedire agli altri di danneggiare se stessi.”
“Tutto quello che deve fare è dichiarare che non era presente e che non aveva idea che avresti preso qualcosa, finchè non era troppo tardi per intervenire.”
Sherlock annuisce. “Immagino che dovrà per forza funzionare allora.”
“Correrò il rischio, Sherlock.” Buon Dio, mi sono buttato di fronte a bombe e pallottole e Vichinghi infuriati per quest’uomo, e adesso si preoccupa che rischi qualcosa?
“No,” replica bruscamente. “Non intendo che tu rischi assolutamente niente.”
“Ascoltami,” interviene Lestrade, “Sono sicuro al 98% che potrò impedire qualunque tipo di indagine al riguardo. È illegale, d’accordo, ma in casi come questo – la maggior parte di noi guarderebbe comunque dall’altra parte.”
Sherlock non sembra ancora soddisfatto. “Voglio la tua parola che su John non ricadranno sospetti.”
Lestrade annuisce. “Hai la mia parola che farò del mio meglio.” Ci rivolge un sorriso sghembo. “Ti spiace se ti faccio delle domande su alcuni casi?”
Questo sembra tirare Sherlock un po’ su di morale. “Certamente.”
Lestrade trascorre la mezz’ora successiva tracciando le linee generali di indizi, circostanze, situazioni, e annotando i ragionamenti di Sherlock. Io mi siedo sul bracciolo della sua poltrona, intervenendo quando mi si richiede, ma per lo più limitandomi ad ascoltare il suono della sua voce. Ad un certo punto guardo giù e noto che Sherlock si sta appigliando al mio maglione, stringendo delicatamente la mia manica tra due dita della sua mano destra, come per rassicurasi che io sia ancora qui – o forse che lui è ancora qui.
Colgo dal contesto di alcuni indizi che la maggior parte dei casi menzionati da Lestrade sono molto vecchi. Di anni addietro, persino decenni. Realizzo che questa è la sua ultima occasione. Lo è anche per Sherlock. Mi domando se per lui sarà più doloroso lasciare la vita, o il suo lavoro. Esiste una distinzione fra le due cose nella sua mente?
 

 
Aspettiamo Mycroft per le dieci. Sarah sgattaiola dentro alle nove e mezzo. Rimango sorpreso nel vederla. “Non lo sapevi?” mi chiede. “Mi ha mandato un messaggio, chiedendomi di venire.”
Sono confuso. Lei e Sherlock non hanno certamente mai avuto un rapporto che si possa definire “amichevole”. Ci sono stati momenti in cui mi sono sentito come il pezzo di corda al centro di una partita di tiro alla fune. Le mie poche conoscenze maschili mi hanno sempre biasimato perché Sherlock aveva sempre inevitabilmente vinto. Loro non potevano capire, Sherlock avrebbe sempre vinto. È come un corpo celeste con il suo proprio campo gravitazionale, che mi tiene intrappolato nella sua orbita, senza via di scampo.
Sarah sale le scale con me. Sherlock si illumina nel vederla, e le fa cenno di sedergli accanto. Poi si rivolge a me con tono eloquente. “John, potrei avere del the, per piacere?”
Annuisco. Vuole restare da solo con lei.
Indugio in cucina, sbirciandoli furtivamente, vedo i loro volti vicini, concentrati sulla conversazione. Non discutono a lungo, però. Lei si alza e la vedo stringergli la mano. Porto il the a Sherlock e la accompagno alla porta.
Quando si volta a guardarmi ha gli occhi colmi di lacrime. Mi abbraccia con forza. “Che cosa voleva?” le domando.
“Tu cosa credi?” fa un passo indietro. “Vuole che mi prenda cura di te. Mi ha detto ‘John la prenderà male.’ Vuole che mi assicuri che mangi e dormi. Subito dopo, sai.”
“Hmm. Qualcuno è davvero convinto della sua importanza.” Vorrei usare un tono leggero, ma quello che mi esce dalla bocca è estremamente amareggiato.
“Credo che non ci sia più tempo per fingere,” sussurra. Mi guarda dritto negli occhi. “John, tu devi fare quello che ritieni più giusto. Non posso dirti cosa provare. Non posso dirti cosa è vero. Posso solo dirti che sta morendo, e tu sei tutto quello a cui riesce a pensare.”
Sono senza parole.
Sarah va via, e per pochi minuti, io e Sherlock restiamo da soli. “Sei stanco?” gli chiedo, sedendomi di fronte a lui, le nostre ginocchia quasi si sfiorano.
“Sto bene.”
Prendo un lungo respiro. “Sherlock, devo chiedertelo ancora una volta. Sei sicuro riguardo tua madre?”
Mi guarda. “Sono sicuro.”
Lui e Mycroft hanno deciso di tenerla all’oscuro finchè non sarà tutto finito. Secondo Sherlock sarà meno crudele, meno doloroso per lei non sapere niente finchè non succede. Io credo che sia più crudele negarle la possibilità di dire addio. Ma su questo punto sono entrambi irremovibili, e d’accordo come di rado lo sono su qualcosa. Faccio un ultimo tentativo disperato. Sono piuttosto affezionato alla madre di Sherlock, e ho la sensazione che non mi perdonerà mai per questo. Non solo per non averle detto niente, ma per aver avuto un’intera giornata da trascorrere con lui quando lei non ha avuto niente di niente. “Dovrebbe avere la stessa opportunità che stai concedendo a tutte queste altre persone,”gli faccio notare.
“La mamma odia gli addii, è pessima in queste situazioni. Non saprebbe neanche cosa fare. No, è meglio così. E…non è solo per lei,” aggiunge. La sua testa ondeggia un po’. Sono gli antidolorifici. Il suo sguardo incontra il mio. “Non posso, John. Non ce la faccio. Non posso guardarla negli occhi e farle questo.”
D’ istinto, allungo la mano e afferro la sua. Le sue lunghe dita si intrecciano strette intorno alle mie, con gratitudine. “Lo capisco.” Lo capisco davvero, in un certo senso. Sherlock ha due alternative egualmente terribili di fronte a sé. Suppongo abbia il diritto di scegliere quella che gli causerà meno angoscia nelle sue ultime ore di vita.
Poi arriva Mycroft, e io mi faccio da parte per lasciargli spazio. È lo sguardo di Sherlock a chiedermi di restare, quindi ritorno ad appollaiarmi sul bracciolo della sua poltrona.
Sento di nuovo quel lieve strattone all’estremità del mio maglione. È aggrappato con la punta delle dita.



Mycroft sembra stravolto quando se ne va. Non sono sicuro che Sherlock lo noti. Addirittura, abbraccia il fratello prima di salutarlo. Non è del tutto fobico riguardo quel tipo di contatto. Abbraccia Mrs. Hudson continuamente, e abbraccia anche me abbastanza spesso. Ma con Mycroft…semplicemente non è da loro.
Mycroft mi prende in disparte all’ingresso. “Spero che tu sappia che conto su di te,” mi dice.
Annuisco. “Non devi preoccuparti.”
“Stranamente, non mi sono mai preoccupato. Non se eri coinvolto tu. Hmm. Interessante, direi.”
Quando rientro nell’appartamento, Sherlock è in piedi. Sembra relativamente stabile. “Credo che dovrei andare a dormire,” dice.
Io sorrido. “Ecco una frase che non pensavo ti avrei mai sentito pronunciare.”
Mi sorride debolmente di rimando. “Che altro può fare un uomo, quando il suo lavoro è finito?”
Il mio sorriso svanisce nel nulla. Finito.
Lo aiuto a stendersi sul letto, una volta cambiati gli abiti. “John, io…” Si interrompe, la bocca aperta, poi mi fa cenno di lasciar stare e allontanarmi.
“No, dimmi, cosa c’è?”
Sospira. “Credo…credo di non voler restare da solo.”
Lo rassicuro. “Torno subito, d’accordo?” Lui si limita ad alzare lo sguardo e fissarmi con occhi sgranati. Tra la malattia e le medicine, le sue difese stanno cominciando a cedere. È impressionante che abbia comunque preservato così tanto di se stesso. Ciò che sta passando avrebbe ridotto la maggior parte delle persone a spettri, ombre piangenti di ciò che erano state un tempo.
Mi infilo il pigiama e ritorno nella sua stanza. Mi arrampico sul letto, insieme a lui. Non sembra così strano alla fine. Lui scivola velocemente al mio fianco, in modo da poggiare la tempia sulla mia spalla. Restiamo distesi così per un po’, senza dormire. Alla fine, il sonno ha la meglio su Sherlock. Abbasso gli occhi e rimango a fissare il suo volto inerme. Non riesco a distogliere lo sguardo. Non riesco a pensare che tra ventiquattr’ore non vedrò mai più questo viso. È tutto spigoli bizzarri e lineamenti scavati e pallore spettrale, acuiti dalle sue condizioni di salute.
Non dormo. Lo osservo e basta. Osservo il suo petto mentre si alza e si abbassa con il respiro e non riesco a smettere di immaginare il momento di cui tra poco sarò testimone, e intravedo il dolore che è in serbo per me alla fine di tutto questo. Non posso lasciare che mi invada adesso. Devo restare concentrato e forte per lui, per queste ultime ore, devo tenerlo lontano finchè non sarà finita, ma lo so. So cosa mi aspetta.
Odio l’universo. Odio qualunque forza lo governi, che siano gli dei o il fato o le maree del caos. Chiunque o qualunque cosa sia, la odio. La odio per avermi diretto nella sua orbita. Odio Mike Stamford per averci presentati. Odio l’uomo che mi ha sparato e mi ha costretto a rientrare a casa dall’Afghanistan. Odio l’Inghilterra per l’esile pensione statale che mi ha obbligato a cercare un coinquilino. Odio questo appartamento per essere abbastanza confortevole da avermi impedito di voltarmi e andarmene la prima volta che l’ho visitato. Odio Sherlock per essere così dannatamente interessante e avermi risucchiato nella sua vita in modo così intenso e totale da rendermi incapace di mandarlo al diavolo e cercarmi un normalissimo coinquilino noioso.
Un coinquilino noioso. Esiste almeno una cosa del genere? Avrei davvero potuto averne uno? Come sarebbe stata la mia vita negli ultimi due anni in quel caso? Non so se scambierei la mia vita con Sherlock con qualcos’altro.
Anche se significasse non avere il cuore straziato in questo momento.
 

Ha un aspetto migliore la mattina. Una tregua temporanea, ma tempestiva. Non abbiamo fretta. Oggi è il giorno. Il suo ultimo giorno.
“Cosa ti va di fare?” gli domando. L’idea di scegliere come trascorrere il proprio ultimo giorno sulla terra è così agghiacciante e complessa che sono certo mi paralizzerebbe, ma sono altrettanto certo che Sherlock ha già un piano. È alla finestra, già vestito, e per un istante sembra come se non fosse successo nulla. Va tutto bene.
Odio ogni cosa.
“Mi piacerebbe uscire,” dice.
“Uscire? Per andare dove?” percepisco di nuovo il morso della gelosia. Ho bisogno di questo tempo, dannazione. Dove vuole andare?
“Fuori. Al centro.”
Oh. Potrebbe non essere così male come idea. “Vuoi fare un giro della città? I tuoi luoghi preferiti?”
“Esattamente.” Volta le spalle alla finestra. “Ci sono tre cose al mondo che mi stanno veramente a cuore, e vorrei utilizzare il tempo che mi resta per dire addio ad ognuna di loro. La prima è il mio lavoro. Me ne sono occupato ieri sera. La seconda è la mia città. Quindi facciamo questo adesso.”
Conosco già la risposta, ma sento comunque il bisogno di porre la domanda. Dannata insicurezza. “Qual è la terza cosa?”
Mi guarda, quasi con aria di rimprovero. “John. Sono sicuro che non è necessario che te lo dica.”
Usciamo. Prendiamo un taxi per non farlo stancare. Andiamo a Trafalgar Square. Hyde Park. Camminiamo in silenzio. L’equilibrio di Sherlock è discreto oggi, ma si appoggia comunque al mio braccio. Si guarda intorno, come se volesse assorbire ogni cosa che vede e imprimerla nella sua mente per sempre. Ci fermiamo per riposare su una panchina vicino al fiume. Io mi avvicino alla balaustra e il mio sguardo si perde nell’acqua. “Pensi che ne discuteremo?” dico infine.
“A proposito di cosa?”
Rido, con triste ironia nella voce. Come se ci fosse un altro argomento da trattare. “A proposito del fatto che morirai stanotte.”
“Cosa c’è da dire?”
“Che piano grandioso! Sherlock – io....io non…”
Lui mi afferra per la manica e mi attira sulla panchina. “Me ne sono fatto una ragione. Sono sereno.” I suoi occhi incontrano i miei. “Non mi sono mai aspettato di avere una vita lunga davanti a me, John. Ho sempre pensato che avrei trovato la morte in giovane età. Non credevo sarebbe successo così però. Pensavo mi avrebbero sparato, o fatto saltare in aria. Pensavo che avrei portato qualcuno nella fossa con me, qualcuno senza cui il mondo sarebbe stato un posto migliore. L’idea non mi ha mai turbato. È solo di recente che il pensiero di andarmene per sempre è cominciato a diventare…angosciante.”
“Perché?”
“Non avevo mai avuto qualcuno a cui dire addio prima. Qualcuno che avrebbe sentito la mia mancanza.” Mi guarda di nuovo, e c’è qualcosa di dolorosamente indifeso, nudo, in fondo ai suoi occhi. “Ti mancherò, John?”
Un nodo mi serra la gola. Deglutisco a fatica. “Fino alla fine dei miei giorni, Sherlock.”
 


L’appartamento è tranquillo al nostro ritorno. Passiamo da Mrs. Hudson, che mantiene un contegno forzato. Abbraccia di nuovo Sherlock, poi me.
Saliamo al piano di sopra. Chiudo la porta alle mie spalle. È calata la notte ormai, e io mi sento alla deriva. Non so cosa fare, o se c’è un piano preciso. Lui va a sedersi sulla sua poltrona. Io mi aggiro inquieto per la stanza. Poi alza il capo e mi guarda. “Prenderesti le pillole, John?”
Mi si gela il cuore, lo stomaco si chiude. “Adesso? Ma, insomma…adesso?”
Il suo tono è gentile. “Qual è il punto nel rimandare?”
“Il punto? Non lo so, ma io – dev’essere per forza adesso?”
“Prendiamo le pillole e basta per ora. Solo per essere pronti.”
Mi dirigo in cucina, non sento le gambe. Riempio un bicchiere d’acqua. Le pillole sono nella mia tasca. Le sistemo su un piattino e torno in salotto. Lui mi sta guardando. Mi lascio cadere sul pavimento, inginocchiandomi di fronte alla sua poltrona, tra i suoi piedi. Stringo nelle mani il bicchiere e il piatto, ma non accenno a darglieli. Lui si allunga e li sfila dalle mie dita, e li ripone sul tavolino accanto. Poi si sporge di nuovo in avanti, le mani giunte. “No, non mi dovrebbe dispiacere di morire, John. È un debito che prima o poi tutti dobbiamo pagare. E sono contento di poterlo almeno fare alle mie condizioni.” Fa una pausa e aspetta finchè non alzo lo sguardo. “Non mi dispiace, eccetto…” deglutisce a fatica. “Eccetto che per te. Mi rammarico della sofferenza che questo ti causerà. Non pretendo di conoscerne esattamente l’entità. So solo che ho provato a immaginare come mi sentirei se i nostri ruoli fossero invertiti.”
Sto tentando di imprimere ogni singolo dettaglio del suo volto nella mia mente. Non so cosa sto per dire finchè non ascolto la mia voce pronunciare le parole. “Pensavo davvero che avrei passato il resto della mia vita con te.”
Lui accenna un sorriso. “Tutto qui? Piuttosto modesto, non credi?”
“No, intendo – non importa cosa sarebbe successo, chi avrei incontrato, o cos’altro sarei stato, prima di tutto sarei stato – questo,” tento di spiegarmi, gesticolando dell’aria fra me e lui.
Lui annuisce. “In un certo senso, suppongo di essere fortunato allora.”
“Fortunato? Perché?”
“Io passerò davvero il resto della mia vita con te.”
È il colpo di grazia. Sono distrutto.
Sento la sua mano fra i miei capelli mentre piango e mi sgretolo di fronte a lui, la mia fronte poggiata sul suo ginocchio. Sono del tutto impotente. Ho fallito. “Avrei dovuto tenerti al sicuro”, mormoro, fra le lacrime. “Non posso fermarlo, non posso impedirlo. Mi dispiace, mi dispiace, non posso sistemare le cose.”
“Lo hai già fatto John, hai già sistemato le cose. È solo grazie a te che posso uscire di scena in questo modo, come voglio io.” La sua mano scivola sotto il mio mento e mi solleva il capo. Mi stringe il volto fra le dita e appoggia la sua fronte alla mia. Mi aggrappo ai suoi polsi perché devo, devo aggrapparmi a qualcosa. “Non sono un uomo che fa dichiarazioni o confessioni,” mi sussurra.
“Non ne ho bisogno.”
“Bene. Confido che le mie azioni parlino a sufficienza.”
Annuisco. Mi lascia andare, e si ritrae. Prende il piatto e il bicchiere. Io tiro fuori il cellulare dalla tasca e mando due messaggi. Uno a Lestrade, uno a Sarah. È questo l’accordo. Io invio i messaggi quando lui manda giù le pillole. Verranno entrambi nel giro di un’ora. Lestrade verrà per Sherlock. Sarah verrà per me. Sherlock incrocia il mio sguardo ancora una volta, poi ingoia le pillole e beve l’acqua. Mette via il piatto con aria definitiva.
È fatta. Nei prossimi trenta minuti, perderà conoscenza.
Mi alzo in piedi e il suo sguardo mi segue. Gli prendo la mano e faccio alzare anche lui. Mi guarda confuso. Lo guido fino al divano, e mi siedo nell’angolo. Capisce, e si siede accanto a me. Continuo a stringere la sua mano.
Respira lentamente, di proposito. Vorrei parlare ma non so cosa dire, o se può essere d’aiuto. Lui mi guarda. “John…” inizia, e riesco a vedere lo smarrimento nei suoi occhi. “Pensavo di essere pronto per questo.” Gli trema la voce.
“Sono qui, Sherlock.”
“Ho paura, John.” Non ho mai sentito la sua voce tanto esile.
Niente di tutto ciò che farò in futuro sarà mai così importante.
Lo stringo fra le braccia e adagio la sua testa sulla mia spalla. È così fragile. Si ripiega in uno spazio incredibilmente minuscolo, accovacciato sul mio grembo; le mia braccia lo circondano completamente. Si avvinghia al mio maglione e lascia andare un sospiro tremante. “Shhh. Rilassati,” gli sussurro.
“Non voglio lasciarti.”
“Non voglio che tu mi lasci.”
Stiamo camminando in bilico sull’orlo. Un’ondata di orrore mi invade. Con tutto me stesso, non voglio sentirlo. Tanto quanto non voglio dirlo. In questo momento, sto perdendo il mio migliore amico, ed è già un dolore abbastanza lacerante. Non so se riuscirei a sopportare di perdere più di questo. Non posso guardare a quel futuro che ci viene ora negato, e ammettere che avremmo potuto avere qualcos’altro oltre all’amicizia. Se mi guardo indietro, se guardo questa strada ormai chiusa e ci vedo qualcos’altro, qualcosa sempre percepito ma mai pienamente afferrato, mai compreso fino in fondo, questo potrebbe annientarmi.
Ma qui non si tratta di me. Se lui ne ha bisogno, allora sarà detto. E che Dio mi aiuti.
Sento i suoi muscoli distendersi inesorabilmente. “John,” mormora, riuscendo a malapena ad articolare la parola. “Ho bisogno di vederti.”
Lo sposto delicatamente finchè non siamo faccia a faccia. Ha le palpebre semichiuse. Sta tremando. “Sherlock, guardami. Non pensare. Non cercare di resistere. Solo…guardami, va bene?”
Lo fa. Il suo sguardo percorre intensamente il mio volto come se stesse tentando di fare quello che stavo facendo io prima. Sta cercando di memorizzarmi. So che non sarò risparmiato, perché lui non lo è stato.
 
Lo bacio, con delicatezza. Sento la tensione abbandonarlo, e la sua mano sul mio viso. Lo stringo a me, le nostre fronti di nuovo congiunte. Le sue palpebre hanno preso a tremare. Ricambia il mio bacio, sforzandosi di raccogliere le poche forze che gli restano. Le sue mani afferrano saldamente il mio maglione e i suoi occhi scintillano quando mi guarda. “Voglio che tu sia l’ultima cosa che vedo,” rantola.
Sostengo il suo sguardo. Ogni secondo che passa è una lama che mi lacera la carne, ma non cedo. Non distoglierò lo sguardo perché questo istante è sacro, e sono già ben oltre il punto di non ritorno, in ogni caso.
Gli ultimi respiri profondi, e il suo corpo cede. Chiude gli occhi.
Sta dormendo adesso. Non ci vorrà molto.
Lo stringo più vicino, mi avvolgo intorno a lui. Bacio il suo volto ancora e ancora. Mi rendo conto che sto parlando con lui, ma non so cosa sto dicendo. Forse gli sto dicendo che lo amo. Forse gli sto dicendo che non ho mai amato nessun altro e mai lo farò. Forse lo sto maledicendo per avermi abbandonato. Non ne ho davvero idea. Non ha importanza. Tutte queste cose sono comunque vere, che io gliele dica o no.
Esala il suo ultimo respiro pochi minuti dopo. Inspira e poi – più niente.
Fisso il suo viso. Non è reale.
Non può più sentirmi adesso. Quindi gli dico tutto, ancora una volta, e stavolta sono consapevole di farlo. Gli parlo fino a che non ho più voce.
Lestrade e Sarah sono qui. Quando sono arrivati? Torreggiano sopra di noi, i volti tristi. Sarah piange. Lestrade è venuto con gli addetti delle pompe funebri, che porteranno via il suo corpo. Non glielo lascerò fare. Sarah mi cinge con un braccio e alla fine lei e Lestrade mi persuadono a lasciarlo andare. Non posso guardare. Vado alla finestra e Sarah mi abbraccia da dietro. Sento lo scalpiccio e il rumore delle ruote sulle scale e il suono metallico della barella e sono quasi arrivati al portone prima che li fermi.
“Aspettate. Solo un momento.” Devo avere un tono abbastanza calmo da convincerli a fermarsi quando li chiamo. Sherlock è coperto da un lenzuolo. Mi avvicino alla barella, e scosto un lembo di telo.
Resto a guardarlo. Forse volevo dirgli qualcosa, ma non lo so più. È troppo tardi. L’uomo che ho perso non era solo il mio migliore amico, non adesso.
Lo portano via. Lestrade mi abbraccia, ed è un po’ strano, ma ne ho bisogno. Se ne va, e Sarah mi tiene d’occhio come un falco.
Attraverso il salotto e mi dirigo verso il divano. Arrivo a malapena a metà strada. Le mie gambe cedono lentamente e mi ritrovo inginicchiato sul pavimento, a fissare nel vuoto. Lei si siede accanto a me, e mi prende la mano.
Non sento niente.


 Al suo funerale partecipano in tanti. La cosa non mi sorprende. Molte persone ammiravano Sherlock. Molte di più non potevano sopportarlo. Ma nessuno che sia mai venuto in contatto con lui l’ha dimenticato, e sembra che tutti si sentano egualmente in obbligo di essere presenti.
Io vengo trattato come la vedova addolorata. Colui che porta il lutto. Dovrebbe essere sua madre, ma sembra che tutti quanti ritengano che questo ruolo sia più adatto me, inclusa la signora stessa. A dispetto dei miei timori, lei non mi dà colpe. Mycroft ribadisce che sua madre odia gli addii, e non avrebbe saputo come gestire quello di Sherlock, quindi va bene così. Sembra che lo capisca. Mi abbraccia e mi dice che è contenta di sapere che suo figlio mi ha avuto accanto a sé nelle sue ultime ore.
Mi alzo in piedi per pronunciare il suo elogio funebre. Lo faccio semplicemente perché non riesco a immaginare che lo faccia nessun altro. Parlo della sua genialità, della sua dedizione al lavoro. Parlo delle persone che ha aiutato e dei criminali che ha consegnato alla giustizia. Non parlo di come mi ha fatto sentire di nuovo vivo, o del modo in cui i suoi occhi brillavano quando i raggi del sole attraversavano le sue iridi.
A tutta questa gente che lo rimpiange dico che era mio amico, e che è stato un onore averlo conosciuto e aver lavorato con lui. Non dico che lo amavo, che lo amo ancora, e che se avessi la possibilità di esprimere un solo desiderio al mondo, sarebbe quello di far cessare tutto questo.
 


Sherlock mi ha lasciato tutto. Aveva più soldi di quanto credessi. Certamente abbastanza da non avere alcun bisogno di un coinquilino. Ma avevo intuito da un po’ che la mia presenza serviva a molti scopi, l’ultimo dei quali di tipo finanziario. Mi ritrovo ad essere piuttosto benestante per il momento. Mi prendo un po’ di tempo dall’ospedale. Lo trascorro rimettendo in ordine l’appartamento.
Una notte sto rovistando fra i suoi diari. Collezioni di crimini, deduzioni, esempi. Ne apro uno. Le sue annotazioni scarabocchiate ovunque con la sua grafia contorta. Mi siedo e riesco quasi a sentire la sua voce che mi spiega l’intero diario, pagina dopo pagina. Lo leggo tutto. Poi ne leggo un altro, e un altro ancora.
Nell’arco di un mese ho letto tutto ciò che c’è di suo nell’appartamento. Ho comprato schedari per organizzare e archiviare i suoi disordinatissimi ritagli. Adesso riesco a mettere le mani su qualunque pezzo di carta mi serva nel giro di pochi secondi. Non so perché sento il bisogno di avere questa capacità, tuttavia ce l’ho comunque.
Lestrade mi chiama, circa sei settimane dopo il funerale. “Caso insolito,” mi dice. “Un uomo trovato morto, nessun segno sul cadavere. Stanza chiusa dall’interno, senza finestre.”
“E?” replico, perplesso.
“Vieni?”
“Io?”
Sospira. “Sei la seconda scelta migliore, John.”
Quindi ci vado. Tutti quanti mi fissano. Devo sembrare terribilmente fuori luogo senza quell’alta figura vestita di nero al mio fianco. Chiudo gli occhi prima di entrare nella stanza, e quando li riapro, lui è lì con me.
Mi guardo intorno, e vedo cose che non avrei mai notato prima. Non mi illudo di riuscire a vedere tutto quello che lui avrebbe visto. Ma vedo un’incredibile quantità di dettagli in più. A quanto pare, vedo abbastanza.
Mi rivolgo a Lestrade prima di andarmene. “Non sono come lui, Greg. Sono felice di essere d’aiuto, se posso. Ma lavorerò a pagamento.”
Lui mi sorride. “Come vuole, Dottor Watson.”
La volta successiva, sono più veloce. La volta dopo ancora, sono più preciso.
Mi porto a casa i fascicoli dei casi, e li analizziamo insieme. “Cosa puoi dirmi del portafoglio?” mi chiede.
“Che lui si trovava in palestra la sera prima.”
“Da cosa lo deduci?” è dubbioso. Sherlock non ha mai ritenuto affidabili i metodi di indagine tradizionali. Portafogli, agende, registri delle telefonate. Troppo ovvi.
“Ha un bel mucchio di carte qui dentro. Carte di credito, tessere di associazione, carte bancarie. La carta assegno è la seconda dalla fine. È la carta che la maggior parte delle persone usa più frequentemente, quindi quest’uomo deve avere l’abitudine di usare le sue carte e reinfilarle dietro il mazzo. La tessera della palestra è quella più indietro, per cui deve averla usata dopo aver utilizzato quella degli assegni l’ultima volta. La maggior parte delle persone non ci mette molto a usare un assegno, quindi probabilmente si trovava in palestra la sera prima di morire.”
“Hmm. Sono colpito.”
Sorrido. “Non lo diresti mai se fossi davvero qui.”
“La tua insinuazione mi ferisce, John.”
A volte riesco quasi a vederlo. Chiudo gli occhi e lo immagino lì, di fronte a me. “Ti amo.”
Non risponde. Non lo fa mai quando lo dico.
Sei mesi dopo, mi dimetto dal mio lavoro in ospedale. Ho nuovi biglietti da visita. John Watson, M.D. Consulente Investigativo.
Ancora l’unico al mondo.
  
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