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Autore: Quintessence    28/02/2012    6 recensioni
Divided è la storia di Michiru prima di Haruka, di Michiru prima dei suoi incubi, di Michiru prima. Delle sue ribellioni, di un rapporto poco chiaro con Elsa, di segreti inconfessabili. Di quelli che forse nemmeno Haruka potrà mai capire a fondo.
« Pensavo a te e ad Elsa. Mi chiedevo come sono andate davvero le cose. » Passa un momento, e io non rispondo. Probabilmente intuisce che la mia risposta è dolorosa, o riservata, e non insiste quando mi ostino a mantenere il silenzio. Sporgo un gomito fuori dal finestrino e lascio che il vento mi annodi i capelli. Mi piace.
« È una lunga storia. »
Lei annuisce piano. Io soffoco un sospiro, poi una lacrima e infine una risata.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shoujo-ai | Personaggi: Altro Personaggio, Michiru/Milena
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Prima dell'inizio
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Guida la Toyota gt degli anni duemila con una maestria che mi pare sempre senza paragoni. Se ne sta a metà fra le due carreggiate, a cavallo della linea. Mi chiedo se mai smetterà di voler possedere la strada intera e si contenterà di una corsia. Seduta accanto a me, con una sola mano tesa sul volante e i capelli spettinati dal vento, volta la testa e mi fissa. Nessuno mi fissa così. Solo Haruka.

Chiunque la guardi con quel taglio dice che è proprio suo, proprio perfetto. Io lo trovo elegante, quasi. Il sole dorato cala alla nostra sinistra, colorandole la faccia di riflessi sconosciuti. Non smetto mai di imparare particolari di lei. La macchina scintilla nella luce del tramonto, e per un attimo un raggio la colpisce accecandomi. Non è una sensazione spiacevole, solo leggermente pungente.

« Michiru » Mi chiama, e poi si interrompe. Sembra che non sappia bene cosa dire. « A proposito di quel ritratto... » Si interrompe la seconda volta. Non continua.

« Non devi preoccuparti » Intervengo. « Per me solo averti incontrata è stato ispirante. »

« Uh? » Fa lei, un verso sconnesso, ovviamente scombussolata dalla improvvisa confessione che mi è esplosa sulle labbra. Io ridacchio, e lei fa un mezzo sorriso. Mi sembra quasi malsano, e so che quando sorride così sta per fare qualcosa di cattivo. « Posso chiederti una cosa, Michiru? »

« Chiedere è lecito » Dico. « Rispondere, cortesia. »

« Pensavo a te e ad Elsa. Mi chiedevo come sono andate davvero le cose. » Passa un momento, e io non rispondo. Probabilmente intuisce che la mia risposta è dolorosa, o riservata, e non insiste quando mi ostino a mantenere il silenzio. Sporgo un gomito fuori dal finestrino e lascio che il vento mi annodi i capelli. Mi piace.

« È una lunga storia. »

Lei annuisce piano. Io soffoco un sospiro, poi una lacrima e infine una risata.

DIVIDED

 

Era il millenovecentonovantadue e compivo allora il mio tredicesimo anno di vita. Per me non ci fu mai anno più importante, e non solo perché il novantadue fu l'anno delle prime sensazioni e delle primissime visioni. Il novantadue è stato l'anno della svolta. Avevo passato tutta la vita a cercare di comprendere i motivi della mia superiorità in qualsiasi materia scolastica e in qualsiasi disciplina esterna; più spesso che mai mi domandavo i motivi per cui non potevo essere una ragazza normale, ma dovevo essere forzata ad essere una eccellenza. Non dico queste cose con arroganza, ma con una punta di amarezza. L'eccellenza porta una sola cosa, ed è la solitudine. Alle scuole elementari avevo scritto un trattato sulla Seconda Guerra che mi era quasi valso un'espulsione; nessun insegnante sopporta un allievo più brillante di lui. Figurarsi, nel mondo dominato dal maschilismo, un'allieva. D'alta parte, innegabilmente la mia intelligenza spiccava su quella di tutti gli altri brillante, incontrastata e invisa da tutti. Mi distinguevo al punto che chiunque aveva paura anche solo di vedermi alzare la mano. Fui costretta a cominciare a inserire errori casuali nei miei compiti per non essere odiata.

Il novantadue fu l'anno della svolta, comunque, soprattutto perché mia madre acconsentì alla realizzazione del mio più grande capriccio, dopo che mio padre se n'era andato lasciandola per una ricca ereditiera brutta e scialba, mostrando alfine la sua natura di approfittatore e bastardo. Mi comprò un violino con tutti i risparmi che aveva sudato sulle scale da pulire, giorno dopo giorno.

Perché lo avessi chiesto così insistentemente non era chiaro nemmeno a me. A dire il vero penso che sia stata una professoressa a installare nel mio cervello l'idea che dovessi diventare un'artista e non una scienziata quando vide per la prima volta uno dei miei dipinti. Non che in tutto il resto fossi meno brava, ma la dedizione che aveva visto nel mio quadro era chiaramente un talento incomparabile agli altri che avevo. Mi sfiorò la spalla e mi disse « Tu dovresti suonare. »

Non capii perché vedendo il mio quadro avesse deciso che dovessi suonare. Probabilmente perché la figura che avevo voluto rappresentare era un antico violino che avevo veduto in una vetrina qualche tempo prima, e che si era impresso dolorosamente nel mio cuore e nella mia mente per un facile motivo; appena avevo sfiorato il vetro freddo, avevo avuto per la prima volta la sensazione di disagio che mi avrebbe accompagnata per sempre.

Mi bastò toccare il violino, comunque, per capire che sarebbe stata la mia medicina. Un brivido di eccitazione mi attraversò dalla testa ai piedi quando afferrai l'archetto e ne sfiorai le corde. Fu come se il mio corpo volesse accoglierlo come parte di sé, adattandovisi e plasmandosi su di lui.

Dopo poche settimane e nessuna lezione lo padroneggiavo come fosse parte di me. Senza trovare ancora un senso al prodigio che mi possedeva, mi accorsi che il mio corpo si adattava davvero su di lui. Le dita mi si allungarono, e nel poggiare la guancia nella mentoniera ogni immagine malvagia, ogni sensazione sgradevole si allontanava di colpo, e come in una vampata comprendevo il dono meraviglioso che mia madre mi aveva fatto. Di fronte alla musica, ogni altro passatempo diventava infantile gioco da buttare nel dimenticatoio.

Quando suonavo avevo l'impressione che a farlo vibrare fosse un'altra mano, una più forte, un'ondata, che era dentro di me e allo stesso tempo mi conteneva. Come se da quel violino fosse scaturito uno spirito misterioso e potente, rabbioso, collerico, raffigurato dal volto crudele che vedevo ogni volta che provavo a guardare la cassa armonica, riverso come se emergesse boccheggiante dal pelo dell'acqua. Affogai con lui più di una volta. Quando finivo di suonare, quasi sempre dovevo riprendere fiato.

Inutile dire che quel mio strimpellare, come lo chiamava mia madre, divenne per me ossessione in meno di un anno. Nel novantatré chiesi di provare ad essere ammessa al Tokyo College of Music, all'epoca il più prestigioso collegio di musica del Giappone. Se volevi diventare davvero un musicista, il College era, se non una scelta obbligata, la più consigliata. Diplomarsi al College significava posto in orchestra stabile. Una cosa che non potevo perdermi.

Su oltre duemila partecipanti fu chiaro immediatamente che non avevo nessun rivale. Vinsi a pieno merito perfino una borsa di studio. Ammirata da tutti e da tutti osannata, accantonai per un momento il grande desiderio che avevo di essere normale e mi godetti il mio essere speciale. Non sarebbe stata la lontananza e nemmeno gli anni a dividermi dalla musica. Un giorno o l'altro, sapevo che l'avrei raggiunta nella sua forma più piena. Forse un giorno, mi dicevo, avrei suonato di fronte a un pubblico plaudente, o sarei diventata parte di un quartetto d'archi sempre in tournée e avrei visto il mondo. E già mi sentivo volare dietro di lei, seguendo l'onda delle note, affiancandola, lasciando che mi sussurrasse parole d'amore e poi che mi trascinasse nella sua scia.

Già mi vedevo, a concerto finito, tenerla per mano e inchinarmi, dimenticando qualsiasi cosa che non fosse il suono dirompente e incontenibile dell'applauso di una platea.

*

Compresi appena vidi il grande cancello di metallo che da quel luogo non sarei uscita mai più. Il mio cuore e la mia mente ne sarebbero rimasti imprigionati come in una morsa, mutando la mia persona come nulla aveva mai fatto, scuotendola dall'interno come l'elettricità. Arrivava un temporale. Tornare indietro, tuttavia, era impossibile. Avrei finito i miei studi lì dentro, o ci sarei morta.

Avrei dovuto capirlo subito. Sarei dovuta andare via, correre da mia madre a perdifiato e accettare umili lavori, suonare per strada, continuare ad amare la musica così. Non so nemmeno perché mi affanni a pensare a queste cose, in realtà, quando tutti sappiamo che la vita ha una sola strada: quella che scegliamo. Nessuno sapeva che vita si conduceva nelle cupe mura di una casa che loro chiamavano classica ma in realtà era antica, se non vecchia e cadente. L'inferno. E siccome all'inferno una sola cosa è sicura, e cioè che il talento non vi viene premiato, l'unica logica che vigeva e che sempre è stata in vigore nel College era questa: qualsiasi abilità va severamente punita.

Il mio primo giorno ebbi appena il tempo di disfare le valige in una camera che sembrava più una cella di prigione, prima di essere scaraventata in una classe piena di ragazze dallo sguardo basso, tutte perfettamente pettinate e sistemate come se stessero per andare a una festa.

L'unico maestro che abbia mai conosciuto era in cattedra; attesi la sua autorizzazione per andare a sedermi al mio posto, il violino di mia madre stretto sul petto come un cimelio da conservare a vita.

Quella mattina non suonai nemmeno una nota.

Il ritmo di quel luogo mi fu estraneo solo per un paio di giorni, prima che imparassi definitivamente che di una prigione non ne aveva solo l'aspetto.

Alle sei la tromba squillava potente buttando chiunque nel raggio di chilometri giù dal letto; costretti dal suono doloroso a scendere dalle brande, sempre bramosi di un po' più di sonno, avevamo mezz'ora precisa per rifare scrupolosamente il letto, accordare gli strumenti, prepararci e scendere per la colazione.

Inutile specificare che le uniche forme di vita maschili che vedevamo erano gli sbavanti insegnanti di età ben superiore a quella di un buon partito per noi. Un paio di ragazze si davano comunque meticolosamente alla pazza gioia con loro pur di ottenere favori in forma di voti o di gentilezze di tipo orario.

Alle sei e mezza la colazione veniva servita a tutte in porzioni perfettamente identiche fra loro, in forma di Yogurt bianco probabilmente scaduto e proveniente da avanzi altrui e cereali integrali imbevuti nella miscela cremosa. Forse il pasto migliore della giornata. Le più magre di noi ottenevano spesso e volentieri un bis. Ci tenevano in forma perfetta per evitare che fossimo a corto di fiato o di muscoli, sempre. Settimanalmente ciascuna di noi doveva pesarsi e misurare la sua forza. Il fiato per i cantanti e i trombettisti o i flautisti. Esercizi per le dita per i pianisti. Pesi sempre maggiori per le violiniste. Prove di resistenza al dolore per i nuovi direttori. Nessuna di noi sapeva cosa gli facessero perché le donne non sono mai state ammesse a simili mestieri, in quel tempo. Le più vicine all'ala maschile, comunque, sentivano le grida.

Alle sette scattava l'ora della corsa. Messe in strada con qualsiasi tempo, correvamo per chilometri e chilometri intorno a un parco totalmente spoglio di alberi e di erba, orribilmente fangoso quando pioveva e dissestato quando il fango si asciugava. Le marce forzate di due ore per tonificare i polmoni erano all'ordine del giorno. Chi non riusciva a completare almeno sei giri della naturale pista creata dal fango veniva punito.

Alle nove finalmente cominciavano le lezioni. Durature fino a mezzogiorno e mezzo, erano tre ore e mezza di torture insormontabili anche per i più talentuosi. Gli insegnanti altro non erano che le guardie della nostra prigione, reclusi al nostro pari, che altro desiderio non avevano se non di sfogare qualsiasi frustrazione sui loro allievi. E più il talento si mostrava forte, più rabbia impiegavano per farsi ascoltare, per farsi valere.

La maggior parte di loro non era composta d'altro che di musicisti falliti. Qualcosa dietro i loro occhi raccontava un fallimento lontano e bruciante. Qualcuno discriminato per aspetto fisico, altri per chissà quale difetto di capacità o talento. Non avevano voglia di libertà, solo di prolungare la nostra prigionia. Dèi di mediocrità, passavano la vita a scoraggiare, sedare, rallentare ogni progresso pur di non farsi raggiungere e, chissà, superare.

Dovevano inculcarci una sola verità: che alla perfezione ti ci puoi forse avvicinare, ma sicuramente non la raggiungerai mai.

Il mio primo e unico maestro era un uomo di mezza età, brutto al punto da risultare ributtante, arrogante al punto da giustificare qualsiasi angheria, con i capelli ricci, lunghi e unti come se non li lavasse da settimane. Lo chiamavamo prof. “Capriccio”, perché con chiunque del nostro anno si comportava come se avesse sempre qualche capriccio da soddisfare. Non solo, ma pretendeva da chiunque che suonasse Capricci in continuazione, battendo il tempo con il piede camminando per la stanza, perdendo spesso il ritmo con il metronomo e gridando come un disperato in continuazione, per richiamare all'intonazione « Calante! Crescente! Calante! » in modo così brusco ed arbitrario che qualsiasi studentessa, anche la più preparata, cedeva alla totale confusione e sbagliava a piazzare l'archetto. Ma io non ero una qualsiasi studentessa.

Alla seconda lezione, quando, compresa la sua tattica, mi chiese di suonare qualcosa, qualsiasi cosa per mostrare il mio livello di talento, pensai di suonare in onore del suo soprannome un Capriccio di Paganini che conoscevo perfettamente. Dopo poche battute lui mi fermò, senza una ragione. Mi fermò perché non tollerava che potesse esistere l'eccellenza in un'allieva, femmina per di più, entrata lì per imparare da lui.

« Si avvicini. » Obbedii. « Vediamo questo violino. » Me lo prese dalle mani. « Questo violino risulta troppo grande per la sua mano, si vede, si vede, e insomma, è inevitabile che tutte le note sembrino calanti in continuazione. Dovrà esercitarsi, piccioncina, molto. La velocità a scapito dell'intonazione è classica in chi si sente già preparatissima, come lei. Per il prossimo anno riporrà questo violino nella sua custodia, e ne userà un altro fornito dalla nostra scuola. »

Non c'era una sola parola reale in ciò che diceva. Erano solo le parole odiose di un individuo odioso e invidioso, che per di più si permetteva di chiamarmi piccioncina! Non avrei rinunciato al mio violino per nulla al mondo, ma l'ebbe comunque vinta lui, dovetti consegnare il mio violino e così cominciare da capo su un anonimo e nuovissimo strumento luccicante.

E pare ovvio dire che il prof. “Capriccio” non mi chiese mai più di suonare un pezzo, ma mi inchiodò su inutili esercizi da cretini che di musicale non avevano assolutamente nulla. Ci sfidammo ogni giorno, mentre mi costringeva a suonare tortuosi pezzi dissonanti con uno strumento che aveva la voce di un bambino raffreddato; non mi dava tregua. Le lezioni divennero presto per me terreno di guerra.

Alle cinque e mezza, dopo altre cinque ore ininterrotte di lezione, venivamo finalmente spediti nelle nostre stanze dove avevamo mezz'ora di riposo prima della discesa al refettorio. Qui dovevamo sopportare un'ora e più di preghiere e di riti prima di gettarci avidamente sulla minestra della sera. I maestri ci controllavano dall'alto di un palco dove, tutti insieme, si vantavano dei progressi dei loro studenti, senza esagerare e senza contenersi. L'importante era restare sempre più in alto degli altri, ma più in basso del proprio livello.

Alle otto, finalmente ci era concesso tornare alle nostre camere. Qui, per tre ore ci esercitavamo al violino. Era necessario sollevare la branda e attaccarla all'armadio per riuscire ad avere lo spazio necessario a suonare, e quelle erano comunque le condizioni peggiori immaginabili, con un'acustica che in una tomba non sarebbe stata peggiore. Ciascuno eseguiva esercizi in mezzo alla più totale dissonanza, con il mugghio degli altri violini intorno, lo strepitio degli uccelli e il rumore della pioggia, oltre al costante battito del ferro quando il guardiano passava di fronte alle nostre porte e frustava il muro con una mazza per farci sapere che in qualsiasi secondo eravamo sorvegliati. Nessuna si illudeva, nemmeno per un secondo, di poter oziare.

Credo che quel posto fosse la cosa più vicina ad un inferno che io abbia mai visto.

*

Eppure serravo i denti. Eppure continuavo. Più di una notte, chiusa nella mia stanza, sdraiata sulla branda nello sgradevole odore di muffa me ne domandai il motivo. Scavando nelle segrete del mio cuore, mi chiedevo se davvero quegli anni sarebbero serviti a farmi ottenere la vita che volevo.

I miei incubi sempre più frequenti e incalzanti rispondevano di no, ma le suonate serali, le domeniche in cui i grandi artisti del violino venivano a dare dimostrazioni, i momenti in cui appoggiavo il mento docilmente sul mio strumento e lo cullavo, a gran voce strillavano di tenere i denti serrati, perché un giorno tutto sarebbe cambiato davvero, e allora avrei rimpianto di aver mollato la presa sull'unica cosa per cui davvero avevo una passione.

Ma quando una notte di tempesta mi svegliai ancora di soprassalto dopo che la terra si era sgretolata sotto i miei piedi in sogno come mille altre volte, capii anche che non avrei subito per sempre la situazione. Nel silenzio, nella notte della pioggia che filtrava ticchettando dal tetto in un malandato secchio di plastica rossa, decisi che avrei lottato.

Cerco sempre di opporre resistenza quando si tratta di questi ricordi ripugnantemente dolorosi, ma so che è impossibile. Il fiume della memoria mi trascina via, nel buio. Il College è l'unica prigione da cui non riuscirò mai a fuggire. C'è una parte di me che è ancora chiusa lì dentro, e per quanto lontano io corra, senza voltarmi, nell'illusione di lasciarmi alle spalle tutto quel dolore, sono ancora prigioniera.

La cripta, così la chiamavano, era il luogo peggiore dell'ala femminile del College. Una vera e propria cella di isolamento, quasi tre piani sotto il livello del terreno, completa di topi, ragni e una sola panca sporca e mangiata dalle tarme. Ci finivano le ragazze colpevoli di gravi trasgressioni alle regole. Come lo ero stata io una sola volta.

*

« Basta, non ce la faccio più! »

« Cosa? Sei pazza? Devi farcela, Miki, altrimenti ti costringeranno a ricominciare dal primo giro e poi... »

« Silenzio! Risparmiate fiato, che vi conviene! »

Non era mai stato facile nemmeno per le più allenate di noi. Miki era una ragazza buona, fragile. Incespicava in continuazione, non riusciva a tenere il passo quasi con nessuna di noi. Molto spesso l'avevo sostenuta a parole, visto che era vietato aiutarci l'una con l'altra. Un altro di quei veti imposti da un regolamento obbrobrioso e ingiusto a livelli disumani. Quel giorno Miki cadde. E io non riuscii a non fermarmi.

« Il regolamento vieta di fermarsi ad aiutare una compagna in difficoltà. Ciascuna deve riuscire da sola. »

Perfino il modo in cui parlavano di noi, come animali stipati prima di andare al macello, come se chiunque restasse indietro fosse semplicemente da dimenticare non faceva che urtare ogni millimetro del mio sistema nervoso. Quel giorno, semplicemente, qualcosa scattò. Decisi di non piegarmi.

« Il regolamento è stupido e ingiusto! »

« Signorina Kaioh, ha da imparare molto sul silenzio che si addice alle donne di classe. » Decisi che non volevo nemmeno essere una donna di classe. Le sputai addosso. Ottenni in cambio una manganellata memorabile.

« Portatela nella cripta. Ci starà per tre giorni. Avrà modo di riflettere. »

Ebbi davvero modo di riflettere, e presi una decisione. Una definitiva. Non sapevo ancora come, ma mi sarei ripresa tutto quello che per me era importante. Dalla mia umanità al violino di mia madre. Non mi sarei arresa.

“Grandi allievi formati da grandi maestri”, il motto della nostra scuola non faceva che acqua da ogni parte; vedevo solo maiali e aguzzini ovunque mi voltassi. Non solo avrei avuto quel diploma. L'avrei avuto alle mie condizioni.

*

La punizione si concludeva con tre turni nella lavanderia. La lavanderia non era la peggiore delle punizioni, in fondo, visto che quasi sempre non si era sorvegliati molto strettamente. Piuttosto non facevamo altro che evitare di buttare via il tempo, dato che se i panni non fossero stati candidi avremmo avuto una ulteriore punizione. Quel giorno, però, accadde qualcosa di imprevisto.

Cominciò con un rumore, uno scricchiolio discreto dislocato nel muro dalla parte opposta della stanza. Mi avvicinai senza pensarci, e vidi che un pezzo di quella murata si stava spostando. Come se qualcuno stesse spingendo un mattone dall'altra parte del muro, oltre la quale sapevo esserci l'ala maschile del College. Non ci pensai un attimo di più. Ero troppo curiosa. Sfilai il mattone decisa a dare una mano a chiunque fosse dall'altra parte del muro.

La fessura che creai era poco più alta di una decina di centimetri. Non appena ci guardai dentro, vidi un paio di occhi nero pece fissarmi dalla parte opposta.

« Ciao. Come ti chiami? » Respirai forte.

« Michiru... »

« Io sono Hayato... è davvero un piacere conoscerti. » Il tono di voce che usava era caldo e determinato. Mi scaldò le membra, per qualche secondo. « Ho rischiato con questo mattone, ma ero troppo curioso! Mi è andata bene, se fossi stata una delle insegnanti mi sarei guadagnato sicuramente una settimana nella tomba. »

« Ah, noi la chiamiamo cripta... »

Scoprii presto che nell'ala maschile le cose non andavano meglio che in quella femminile. Del resto non era mai stato un mistero, me lo ero immaginato perfettamente. Il cibo faceva schifo come il nostro, ma le proteste non erano ammesse per evitare il digiuno. Gli orari erano massacranti allo stesso modo, le punizioni altrettanto severe.

La mia più grande sorpresa, tuttavia, fu di trovare in lui un amico. Non avevo mai conosciuto nessuno che fosse più simile a me. Che parlasse di non urlare e non supplicare per non dare soddisfazioni ai maestri, che parlasse di eccellenza senza vergogna. Era uguale a me e allo stesso tempo così diverso. Dopo un'ora, ci costringemmo a rimettere a posto il mattone con la promessa di ritrovarci il giorno successivo.

« Batterò due colpi sul muro per darti il via libera. Se risponderai con tre colpi, toglieremo il mattone e saremo sicuri di essere entrambi soli. »

« Sei davvero intelligente, oltre che carina. »

« Grazie. » Il cigolio del mattone che tornava a posto lo informò che la conversazione era finita.

*

Le ventiquattro ore successive sembrarono non passare mai, ma poi, finalmente mi trovai sola in lavanderia. Battei due colpi. Silenzio di tomba. Pensai di essermi illusa che potesse rispondere e lo immaginai lontano. Invece, dopo qualche minuto, i tre colpi di risposta risuonarono con forza. Spostai il mattone, vidi i suoi occhi.

« Perdonami. Volevo assicurarmi di essere solo. »

« Meglio la prudenza che il rimorso. » All'inizio parve che non ci fosse nulla da dire. Poi, però, cominciammo a parlare; e allora fu difficile smettere. Gli raccontai tutto di me, dei miei incubi, e fu la prima volta che mi aprivo così con qualcuno, dopo l'entrata in quel posto infernale. A volte fui sul punto di piangere. Ci fu un altro appuntamento, e poi un terzo. Scoprii di lui che era un flautista del terzo anno, a cui il flauto traverso era stato portato via con la forza come a me. Anche lui desiderava riaverlo. Suo padre era un musicista morto anni fa e glielo aveva tramandato. Mi confidò molto della sua vita come avevo fatto io con la mia, e tra di noi finalmente accadde qualcosa. Mentre raccontavo delle mie paure, del mio terrore e dei miei sogni inquieti, lui allungò una mano attraverso la fessura. Sfiorò la mia. Un brivido caldo mi pervase tutto il corpo, e allora odiai il muro freddo, odiai la pietra, per la prima volta odiai davvero quella che era la mia prigione.

« Maledetto muro che ci divide, e maledetto questo collegio! » Inveii allora. « Vorrei solo andarmene a volte, o almeno riavere il mio violino! »

« Anche io vorrei recuperare il flauto che mi è caro... Ma come? »

Dopo averlo incontrato non facevo che sentirmi più forte. Insieme, forse potevamo farcela. Qualcosa prese forma nella mia testa, e non mi resi conto che era un piano per riprendere ciò che mi apparteneva finché non divenne preciso e delineato. Allora, spiegai tutto ad Hayato.

« Ho un piano. Le ali del College sono simmetriche. Il deposito degli strumenti si trova al centro, perciò ascolta, ci serve solo un diversivo. Anzi, due uguali e simmetrici, uno per parte. Ora ti spiego e … »

« Aspetta! » Mi interruppe, e io lo fissai per un tempo che mi parve infinito, fissando le sue linee nella memoria, le sue rughe nella mente. « Prima che tu prosegua dobbiamo scambiarci qualcosa. »

« Cosa, Hayato? »

« Un giuramento. »

*

Arrivò il giorno in cui ci eravamo ripromessi di agire. Era una serata senza luna, scelta apposta perché quella domenica ci sarebbe stato un concerto dimostrativo al quale nessuna delle ragazze -e nessuno dei ragazzi nell'ala opposta- sarebbe potuta mancare. L'idea era di creare un diversivo con una reazione a catena. Sarebbe bastato incendiare uno dei fiori di un grande vaso che Hayato mi aveva detto esistere identico nell'ala opposta, e aspettare che tutti si precipitassero a spegnerlo. Allora saremmo corsi nel deposito centrale e avremmo recuperato segretamente i due strumenti. Aprire la porta sarebbe stato per me un gioco da ragazze, dopo tutte le volte che avevo aperto la dispensa in cui mia madre riponeva ignara i biscotti.

La cosa procedette bene. Non solo il diversivo funzionò, ma non ci fu bisogno di forzare una porta già aperta. Quando mi trovai in mezzo a immensi scaffali alti fino al soffitto stipati di fiati, di archi e di pianoforti antichi mi resi conto di aver vinto.

« Hayato! » Chiamai velocemente, cercandolo con foga nello scaffale dedicato ai tamburi, in cui dovevamo incontrarci. Il mio cuore batteva veloce, lo sentivo pulsare nelle orecchie zuppo di paura. Non c'era. Non era ancora arrivato. Mi imposi la calma, in poco tempo sarebbe arrivato. Non c'era ragione di preoccuparsi. No. Ma mentre il tempo passava in quell'attesa vana e angosciante, mi resi conto che qualcosa non aveva funzionato a dovere.

Io ce l'avevo fatta e avrei potuto recuperare il violino e fuggire nelle mie stanze, prima che la mia assenza fosse scoperta, ma...

« O entrambi gli strumenti, o nessuno dei due. Se tu non ce la facessi a recuperare il violino, io non prenderei mai il mio flauto. Te lo giuro. »

« Anche io te lo giuro, Hayato. »

Presi fiato e rifeci tutta la corsia dei tamburi di corsa per due volte, verificando che Hayato non avesse frainteso, ma non c'era nulla da fare. Lui non era arrivato. Serrando i pugni rabbiosa, mantenni il mio giuramento dirigendomi verso la porta. Non appena spinsi la maniglia verso il basso, di nuovo il mio istinto mi avvisò che qualcosa era sbagliato. Orribilmente sbagliato.

« ECCOLA! STA RUBANDO! MUOVETEVI, È ANCORA LÀ! »

Ebbi solo il tempo di realizzare che conoscevo troppo bene quella voce per sbagliarmi, che la presa ferrea di uno dei sorveglianti mi scaraventò per terra.

« In piedi, adesso! » Mi gridò mentre mi sollevava. « Avrai una punizione esemplare. Cammina! Stupida e senza speranza, cosa speravi di ottenere? Sei giorni nella cripta, ecco cosa hai ottenuto! »

Aveva ragione. Ero stata una stupida senza speranza, e cominciavo a capirlo. Non so cosa fu a farmi voltare, forse un presentimento, o forse percepii un messaggio del vento, portato dalle mie spalle. Hayato restò per un secondo a fissarmi, gelido, dalla porta, le mani cariche di danaro e di cibo di ogni sorta. Vibrai vedendo gli occhi che avevo conosciuto cambiare così drasticamente. Dunque non desiderava recuperare nessun flauto. E dunque, il suo diversivo ero io, sicuro abbastanza che io tornassi indietro apposta per farmi tradire. Per un secondo, lo fissai a mia volta. E poi, lui corse via sparendo per sempre.

« Che hai da guardare?! » Mi fece subito dopo il mio aguzzino.

« Niente... » Mi uscì dalla gola secca. « Nessuno. »

Non riuscii a tradirlo anche se lui aveva tradito me. Aveva tradito il mio amore, mi aveva sfruttata per crearsi un diversivo e guadagnare favori e cibo, indisturbato. Un piano astuto, coronato da un pieno successo; quella voce era la sua, aveva solo aspettato il momento giusto per gettare tutti gli sguardi, sorveglianti femminili e maschili su di me, mentre la musica classica del salone risuonava come un requiem su tutto il College, allontanandosi sempre di più mentre per la seconda volta venivo condotta sottoterra, nella cripta che compresi essere la tomba del mio cuore.

Gli giurai che non l'avrei ferito mai più, e quando finalmente tutti furono andati via, chiudendomi al buio sola con i miei incubi, piansi fino a quando non ebbi più nemmeno una lacrima. E allora, la rabbia si impossessò di me del tutto, creando una luce, creando un motivo per non uccidermi, creando un appiglio a cui attaccarmi, anche dove non lo avrei mai creduto possibile.

*

Nel corso della vita non si può restare fermi. Bisogna prendere decisioni. Molte. L'unico, minuscolo rimorso che mi resta oggi, è che il destino non le ha mai prese per me. Avrebbe potuto, invece mi ha maledetta con talenti innumerevoli e sentieri infiniti da scoprire e capire da sola. Dal momento in cui ho cominciato a capire e a provare le meraviglie della vita e i suoi orrori conseguenti, sono stata lacerata. Divisa.

Nei tempi che seguirono la mia punizione, imparai molto. Se le prime volte, davanti alle maligne e inopportune osservazioni rispondevo, mi ribellavo, non ero in grado di dominarmi, imparai presto a non rispondere, a non farmi intaccare. Anche alla critica più stupida restavo in silenzio, attaccandomi al mio inattaccabile talento. Con il tempo, mi decisi perfino ad assecondare il maestro.

« Maestro, » Gli dicevo, e bastava questo a farlo arrossire « lei ritiene che queste note vadano eseguite con intensità maggiore? » E lui si lanciava in complesse spiegazioni del tutto slegate dalla mia domanda, ma io lo fissavo e annuivo come se fossi interessata, facendo versetti di approvazione. E alla fine dicevo un perfettamente calibrato « Grazie ».

Presi a sbagliare apposta. Così sapevo che chiunque avrebbe avuto motivo di sgridarmi per quel particolare errore troppo evidente per essere ignorato... E che in tutto il resto nessuno aveva trovato nulla da ridire. Almeno l'errore era vero, non fasullo. Almeno avevano una ragione reale per rimproverare la mia mano, quando la loro non toccava un violino nemmeno per un secondo, spaventata di doversi vergognare di fronte a così tanti talentuose studentesse.

Sfruttai il silenzio che si era creato, quel giorno, per pizzicare una corda con maggior vigore, per dare tono alla battuta finale. Il maestro mi fissò e io non abbassai lo sguardo.

« Gradite ascoltare qualcosa d'altro? » Domandai con un sorriso. Lui si irritò un po' alla mia facile disinvoltura. I suoi occhi chiedevano altra musica, però.

« Cosa vorresti suonare? »

« Quello che desiderate. »

« Qualsiasi cosa? »

« Qualsiasi. »

Una voce sconosciuta ci raggiunse entrambi alle spalle. Non era il maestro, era una voce femminile che avrei imparato ad amare come miele caldo sulle vertebre a breve.

« Capriccio di Paganini, numero ventiquattro. » Elsa Grey.

Per la prima volta da quando ero entrata nel College, ebbi la netta sensazione che qualcosa sarebbe cambiato. Non avevo idea di cosa fosse, delle sue dimensioni mastodontiche. Nessuna idea. Sapevo solo, all'improvviso, che avevo una speranza. Che sarebbe cambiato tutto, tutto. Quella voce mi avrebbe condotta alla salvezza, lo sapevo come se il mio sogno me lo avesse annunciato a parole chiare e linde. Sarebbe stato così, mi ci avrebbe condotta. Ma non nella maniera che speravo, non in quella che in quel momento desideravo. Sotto lo stupito sguardo del maestro sorrisi e annuii.

Conoscevo qualsiasi opera, qualsiasi capriccio, qualsiasi variante, tuttavia mi servì il doppio della normale concentrazione per non guardarla, per tenere gli occhi serrati e, per la prima volta nella mia vita, l'errore sfuggì involontariamente dall'arco serrato dalle dita tremanti, senza bisogno che lo creassi appositamente.

*

Elsa Grey era una di quelle persone di cui non sapevo mai cosa pensare, che non sapevo mai bene come inquadrare. Sembrava sfuggente ma non aveva segreti. Faceva sembrare ogni gesto che compiva estremamente bello e divertente. Quando mangiava lo faceva con un gusto e una contentezza che pareva che stesse gustando il migliore dei pasti della sua vita, e correva più veloce di chiunque senza sudare e senza stancarsi. Ma quando arrivavamo al traguardo a nostra volta si congratulava con sorrisi radiosi, si complimentava fino allo sfinimento riguardo al nostro stile e dava consigli perfetti per ovviare alle nostre pecche.

Qualunque gesto era per lei la naturale prosecuzione di quello precedente, e le sue mani sulla viola creavano in me il desiderio incontrollato di diventare corda solo per poter godere di quel tocco.

Aveva un fisico tonico e due occhi in cui si faticava a non precipitare ogni volta che ti fissava; all'inizio pensavo di provare per lei poco più che una normale ammirazione per una studentessa del penultimo anno, più grande e più esperta, una Sensei da seguire e da imitare. Finché non cominciai a vederla in sogno.

La prima volta che mi successe di vederla nel bel mezzo della fine del mondo cercai di salvarla. La presi per mano e corsi disperatamente via dalle esplosioni di rosso e di grigio cenere. Senza successo, purtroppo. Alla fine il silenzio ci prese, come sempre accadeva nel sogno, ed entrambe ci sgretolammo come tutti gli altri. Il sogno si ripeté molte volte, e anche se il volto che vedevo era confuso e sfocato ero sicura che fosse lei. Che cercavo di salvarla ma non ci riuscivo perché lei era la mia amica, la mia compagna. La metà che mi mancava e che stupidamente avevo cercato di riempire con Hayato.

Ma Elsa era molto di più di Hayato.

Elsa era un'osservatrice, un'atleta e una musicista superlativa, una luce nel buio freddo che avevo sperimentato in tutti quegli anni. Desideravo ardentemente diventare sua amica, entrare nella sua vita, sedermi accanto a lei nel refettorio. Un desiderio fortissimo, quasi un'ossessione, che mutavo in musica ogni notte suonando quel Capriccio numero ventiquattro che mi aveva chiesto e che presto avrei scoperto essere il suo preferito.

Non dovetti desiderare a lungo. Fu lei ad avvicinarmi qualche giorno dopo l'episodio che aveva stupito quasi tutto il College. Ero diventata una sorta di leggenda già dopo che la notizia del mio tentato furto si era diffusa, ma dopo che si seppe che una novellina del prim'anno era riuscita a suonare un Capriccio quasi senza imperfezioni il nome di Michiru Kaioh era sulla bocca di tutti, e si vociferava che fossi una specie di prodigio vivente.

« Allora, Michiru eh? »

« Mh, Elsa eh? » Non che avessi risposto in quella maniera perché non avessi da dire, ma perché in quel momento esatto le mie ossa avevano preso a tremare incontrollate dentro di me e le gambe sotto il tavolo avevano acquisito una vibrazione pari a quella che un freddo improvviso provoca nelle membra. Non ebbi nemmeno il coraggio di alzare lo sguardo dal mio piatto.

« Sì, sì, sono Elsa Grey. Non mangi le carote? »

« Intolleranza. » Non era vero. Odiavo le carote, ma non volevo sembrare tanto arrogante da permettermi di non mangiare qualcosa, quando lì dentro si moriva di fame.

« Le mangio io! » Se le prese senza complimenti e con tanta naturalezza nel violare la regola, che quasi ridacchiai nel constatare che in effetti nessuno si era accorto di ciò che stava facendo. « Allora il violino, eh? Non credo di aver mai visto nulla di così straordinario, credimi. Tu hai talento. »

« Credo che sia una specie di dono. Io ti ho sentita solo due volte... La Viola... » Rimescolai la minestra.

« Voglio diventare un'atleta. » Non trattenni una risata a mezza bocca, questa volta.

« E che diavolo ci fai al Collegio? »

« Mia madre. » Sì, potevo immaginarlo. Trovavo talmente stupido che una madre volesse costringere una figlia a fare quella vita togliendola a talenti reali da sentirmi in colpa per aver pensato male di una donna che nemmeno conoscevo.

« Immagino che sia una specie di cliché, qui dentro. » Elsa mi fissò come se avessi pronunciato una scomoda verità che nessuno si premurava mai di specificare.

« Una specie, sì. »

« Perché non scappi, non ti ribelli? »

« Perché a casa non posso correre. Qui me lo lasciano fare ogni giorno. »

*

Sopportai meglio la solitudine, da quando Elsa cominciò a mangiare le mie carote e a parlare con me a pranzo e a cena. Mi raccontò del passato del College, degli insegnanti che aveva avuto, dell'ala maschile. Mi insegnò anche qualche trucco per la corsa e qualche mossa di ginnastica. Ogni volta che, all'aperto nelle poche ore che potevamo condividere mi mostrava come arrampicarmi o come saltare degli ostacoli più agilmente mi convincevo che volevo diventare come lei.

Agile e scattante, ma allo stesso tempo potente, dai sensi amplificati. Elsa sentiva ogni fruscio, riconosceva tutti gli uccelli, disegnava tutte le foglie la sera, di nascosto, quando avrebbe dovuto dormire. Sapeva i nomi degli alberi e degli insetti, e non aveva paura di nulla.

Nell'unico album da disegno che ci veniva concesso cercai di catturarla più volte. Nell'atto della corsa, nel momento in cui si chinava su di me a cucchiaio spianato per afferrare le carote. Nel momento in cui ingoiava facendo versetti di piacere, oppure nell'attimo in cui imitava qualche maestro. Finivo sempre per stracciare i miei progressi.

Non era disegnabile. Non potevo catturarla. Era Elsa e basta. Potevo solo godermela in ogni particolare. In silenzio, imparai ad amarla.

Sulla mia sessualità c'è poco da dire, mi sono innamorata di Elsa perché Elsa era perfetta per me. Non perché Hayato mi avesse tradito e io avessi deciso di ripiegare sulle donne o perché mio padre era un bastardo, o perché odiavo il maestro o perché odiavo gli uomini. Non è stato un ripiego perché il resto non andava bene per me.

Mi sono innamorata di Elsa perché mi sono innamorata di Elsa. E forse oggi sarebbe bello poterle dire che da qualche parte la amerò sempre per avermi insegnato ad amare anche le mura di una prigione che altrimenti avrei odiato per sempre.

*

Non avevo dimenticato il mio violino. Il mio piano prese forma di nuovo, leggermente diverso, e con una diversa complice. Quando una poveretta dovette subire uno speciale trattamento pubblico, tornammo ad occuparci del deposito, della sua porta e del recupero del mio violino. Elsa si rivelò non solo fedele, ma intelligente e determinata. L'esperienza si dimostrò di nuovo utile, a modo suo. Mi rese più forte, più dura. Alla fine del giorno, mi accorsi di essere diventata un'altra persona.

« Aveva solo dei biscotti sotto il materasso. »

« Lo sai che qui le spie sono bene accette. Coraggio, Michiru dammi una mano e via dalla finestra. Se ti vedono, ti riservano doppia razione e digiuno. »

Gli scaffali e l'odore del legno mi riportarono al pensiero di Hayato. Questa volta, però, il finale sarebbe stato del tutto differente. Sfogliammo tutte le custodie fino a trovare l'etichetta “Kaioh” impressa sulla mia. Sospirai di piacere al caldo contatto della pelle.

« Ascoltami, adesso, Michiru. Tu vai. Io vedo di recuperare una tromba per un'amica. » La fissai intensamente.

« Lascia perdere, Elsa. Dobbiamo filarcela. »

« Comincia ad andare. Ti raggiungo fra un attimo. » Non sarei dovuta andare via. Il triste epilogo è facilmente immaginabile; le spie sono sempre state bene accette, Elsa aveva ragione. Qualcuno ci aveva sentite il giorno prima a cena, o quello prima ancora a pranzo, e aveva pensato bene di avvertire chiunque fosse al comando delle guardie del nostro carcere personale.

Quando sentii le urla ero comunque troppo lontana, e non avrei salvato comunque la mia compagna dal trattamento nella cripta. Ma quando seppi cosa le era successo, a cena e a pranzo, sola, quando le carote finivano sul fondo del piatto e nessuno le mangiava, quando il silenzio mi assordava, ancora una volta lasciai che la rabbia mi afferrasse e decisi che l'avrei vendicata.

*

Si dice a ragione che la vendetta è un piatto che bisogna servire freddo. In quel caso, invece, fu molto caldo. Estremamente caldo. Letteralmente.

I turni in cucina erano sempre stati piuttosto ambiti quando c'era da guadagnare dei crediti. Non solo perché era un lavoro abbastanza divertente, ma si poteva sempre sperare di ottenere cibo extra in un modo o nell'altro, visto quanto era facile rubare qua e là qualche boccone. Grazie alle soffiate, la maggior parte delle spie avevano sempre il privilegio di stare dietro ai fornelli. Non fu difficile ottenere un paio di turni alle cucine. Non fu difficile nemmeno trovare, fra le poche candidate, quella che aveva fatto la soffiata.

Una biondina spocchiosa e irriverente del mio stesso anno e della mia stessa classe di cui conoscevo a malapena il cognome, Mitori. Se ne stava sempre drittissima e non si muoveva nemmeno di un centimetro se non era chiamata. Il perfetto ritratto di una lecchina. Il suo ultimo giorno al College di quell'anno se ne stava dietro al pentolone a girare le patate, controllando che non si sfasciassero nell'acqua bollente. Sì.

Blaterava, accanto a me, di una qualche cosa che il maestro le aveva detto per lodarla. Sospettavo che si inginocchiasse anche, di fronte al maestro, e chi ha orecchie per intendere intenda... Lui di certo non si sarebbe lamentato e non l'avrebbe denunciata, e la sgualdrina aveva tutte le ragioni per continuare ad essere nelle sue grazie. Non avevo di che preoccuparmi di questo, comunque, visto che non l'ho mai verificato e non voglio ricordare cose non vere distorcendo i fatti come mi piace. Ammetto che l'ho pensato molte volte, talmente tante che comincio a darlo per vero comunque.

« Chi mi da' una mano a scolare? » Non ditemi che sono stata cattiva. L'ho fatto per Elsa.

« Te la do io una mano. » Gliel'ho data. L'ho piazzata dritta sulla sua nuca. Ho sentito rizzarsi tutti i suoi capelli, ho sentito l'odore della sua paura. In quel momento mi sono sentita forte. Il mio piano procedeva con me, da sola, funzionava perfettamente e nelle mie vene il sangue correva così veloce che temetti di non farcela, mentre con un grido di battaglia le spingevo la faccia nell'acqua bollente.

Il suo dolore mi riempì di gioia. Quando mi trascinarono via perché la lasciassi ridevo disperatamente, perché il suo naso era già sfigurato. Non è mai tornata a scuola, e credo anche di saperne il motivo.

Bentornata nella cripta. Oramai dovrebbe essere uguale a casa tua, no? Ogni due giorni riceverai cibo. Non piangere e non supplicare. Non ti sente nessuno.

Parole vuote e inutili visto che avevo ottenuto quello che volevo. Ero sicura che quella ragazza, quella Mitori, sentisse tutte le mie grida. Ed erano grida di rabbia. Ed erano grida di battaglia. Erano grida che dicevano che non mi sarei fermata.

Il terrore di fare ancora la spia l'avrebbe inseguita per sempre.

*

Diventai una senshi poco dopo l'episodio che mi portò di nuovo alla ribalta delle cronache del College, quando tutte mi si avvicinavano e, anche se non li conoscevo, mi davano piccole pacche sulla spalla o mi sussurravano grazie, o grande!

Io annuivo e mi godevo il ritorno di Elsa al mio fianco, le carote sparite insieme al loro odore e la straordinaria vitalità che si era impossessata di me. Lei non disse mai niente di quell'episodio. Io non glielo raccontai, lasciai che arrivassero le voci in cui l'avevo spinta nel pentolone per intero e poi l'avevo colpita con il coperchio, e in cui ci volevano quasi venti persone per fermarmi, in cui mi sedavano con una siringa per portarmi via. La prima volta che la vidi dopo che ebbe saputo di quell'episodio, mi sorrise e basta, e disse solo « Non ti montare la testa. » Io risi di gusto.

Più tardi, quella sera, mentre suonavo ancora il Capriccio Ventiquattro, Elsa venne da me. Non le chiesi come avesse eluso la sorveglianza, né perché fosse nella mia stanza, né come facesse a sapere quale fosse. Lasciai solo cadere l'archetto e mi gettai su di lei come se non fosse mai esistito niente d'altro se non noi due, i nostri corpi, le nostre solitudini.

Percepii tutte le sue insicurezze e lasciai che entrasse e che vedesse le mie. Ci raccontammo di due padri simmetrici, uno troppo assente e l'altro troppo presente. Di due madri speculari, una troppo severa e l'altra troppo consenziente. Mi chiese di suonare per lei. Lo feci per tutta la notte, per molte notti, dopo che il silenzio calava e il sonoro rimbombo rendeva il mio violino il suono di mille violini suonati dal vento. Un'orchestra di due.

E sì, lei è stata la prima con cui ho fatto l'amore. Amavo le sue mani prima di conoscerle. Toccandole, le amai ancora di più.

Una di quelle sere, tuttavia, qualcosa di sbagliato nell'aria mi costrinse ad essere tesa. I lancinanti mal di testa e le visioni si facevano più chiare, più vicine, più violente. Mi tormentavano dalla mattina, come se qualcosa fosse in procinto di succedere. Il mare mi parlò della tempesta in arrivo. Non ci feci caso, spensi ogni sensazione con la musica come ero solita fare. Annullai il resto dei miei sensi nell'oblio che Elsa mi portò. E sbagliai, perché la mia vita stava per cambiare di nuovo, e io stavo per diventare un'altra persona. Di nuovo, stavo per essere lacerata.

I mostri dei miei incubi erano grandi e spaventosi, ma la prima volta che ne vidi uno reale non era solo grande e spaventoso. Non era una cosa da film, non era una cosa di quelle che ti spinge ad avere coraggio e affrontarlo. Era oltre qualsiasi fantasia, attingeva direttamente alla parte del mio cervello che controllava la paura, mutandosi nel buio e nella solitudine e nei topi che mi avevano tormentata nella cripta. Sarei scappata a gambe levate, se non fosse stato per Elsa.

Sento ancora quasi il rumore della mia anima che si strappa e che produce una luce accecante, devastante; sento ancora quasi il rumore del mare che mi parla, che mi dice di non avere paura e ricordo, ricordo che non riuscivo a dargli ascolto. Sento Elsa che mi stringe, che grida no! Michiru, no! E io che invece, per quanto cercassi di scappare, intuivo che il mio destino era arrivato a prendermi. Che non avrebbe fatto differenza un giorno o un altro.

Avevo sempre saputo che sarebbe stato così e Hayato, e Mitori, ed Elsa, e il maestro, e il violino erano sempre state solo distrazioni. Deviazioni dalla strada principale.

« Neptune Planet Power, make up! » Elsa ha sempre saputo tutto di me. Mi ha vista trasformarmi, mi ha vista salvarle la vita. Ma non mi ha mai detto che mi reputava un mostro, non mi ha mai lasciato la mano. La compagna dei miei sogni, tuttavia, non era lei.

Quando finalmente il viso della ragazza che avevo pensato e sperato con ogni forza che fosse Elsa mi si palesò, era diverso. Mi ero sbagliata, e per quanto sospirassi di sollievo all'idea che, comunque fossero andate le cose, lei sarebbe stata al sicuro, il seme del dubbio mi si era piantato nel cuore. E mi accorsi, sempre più nitidamente, che non avrei potuto amarla per sempre. Così quando mi domandò se saremmo state insieme anche fuori, anche nel mondo esterno quando fossimo usciti da quella prigione non volli mentire. Un pezzo di me sarebbe sempre stato suo. Ma il resto sicuramente sarebbe fuggito presto.

*

Mi godetti il resto del tempo con lei, comunque. Quello a cui il destino mi aveva assegnata era più grande di Elsa, ed Elsa lo sapeva. Comunque riuscì nel suo intento, diventò un'atleta quando riuscì ad uscire dal College. Seguii le sue gare e continuai a ritrarla per molto tempo. Non smisi mai di ringraziarla.

Da senshi ogni cosa che Elsa mi aveva insegnato fu utile. Correvo più veloce, saltavo più in alto. Nei giorni di pioggia forte, mi appollaiavo sugli alberi a bere la pioggia e a chiedermi il perché.

In fondo, era tutto quello che avrei voluto sapere. Perché? Qual è la meta? Dov'è la fine della strada?

Oggi lo so. La fine della strada è accanto a me, guida una Toyota gt degli anni duemila con una maestria che mi pare sempre senza paragoni. Se ne sta a metà fra le due carreggiate, a cavallo della linea. Mi chiedo se mai smetterà di voler possedere la strada intera e si contenterà di una corsia. Seduta accanto a me, con una sola mano tesa sul volante e i capelli spettinati dal vento, volta la testa e mi fissa. Nessuno mi fissa così. Solo Haruka.

« Pensavo a te e ad Elsa. Mi chiedevo come sono andate davvero le cose. » Passa un momento, e io non rispondo. Probabilmente intuisce che la mia risposta è dolorosa, o riservata, e non insiste quando mi ostino a mantenere il silenzio. Sporgo un gomito fuori dal finestrino e lascio che il vento mi annodi i capelli. Mi piace.

« È una lunga storia. »

Lei annuisce piano. Io soffoco un sospiro, poi una lacrima e infine una risata.

È vero, è una lunga storia. Ma noi abbiamo tempo, giusto?

   
 
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