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Autore: Sparrowhawk    06/03/2012    0 recensioni
Erik accese la luce, entrando dentro e guardandosi intorno: nonostante fosse chiaro che nessuno metteva piede lì da ben sette anni, quel posto aveva ancora l’apparenza di essere vissuto con i poster attaccati ai muri, i peluche colorati sugli scaffali assieme ai libri ed il violoncello in un angolo, poco distante dalla scrivania. I mobili erano in tinte tenui, tinte pastello azzurro e bianco, ma il velo di polvere era così alto che a malapena si distinguevano i colori. C’erano persino delle ragnatele sul soffitto e negli spazi fra l’armadio ed il muro.
Più di tutto, però, come era evidente, fu il violoncello a colpirlo.
Aveva cambiato idea, a vederlo, non credeva più che fosse sciocco dire addio alla propria passione per i problemi che essa aveva creato. Lui stesso, pur non avendo provato nulla sulla propria pelle, ad osservare la custodia di quello strumento si sentiva a disagio. Gli venivano in mente gli occhi del Signor Cameron, immaginava le sue sozze mani a toccare la piccola Veronica, la sua bocca a posarsi su quella pelle candida e morbida.
E allora veniva preso d’assalto dalla rabbia.
Quale creatura infame era stata.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: Innocence End.
Fandom: Originale
Personaggi Primari: Erik; Veronica
Rating: Giallo
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale
Altro: Het; One-shot
Note: Questa è una tematica alquanto ostica. La violenza sessuale non è una bella cosa e, posso assicurarlo, non è neanche bello scriverne per quanto io l'abbia trattato l'argomento il più alla larga possibile. Spero possa piacere, nonostante tutto, anche perché il punto focale della storia è tutta un'altra cosa.



Innocence End.






Era sempre stata troppo innocente, lei.
Troppo dolce ed infantile per poter anche solo immaginare che, al mondo, esistessero persone di cui diffidare, persone decise a fare del male a loro stesse ma, soprattutto, al prossimo. Probabilmente, pensava Erik, Veronica era sempre stata convinta che nel cuore di tutti esistesse della bontà. Magari era poca, e faticava a spiccare in mezzo a tutti gli altri sentimenti provati da un singolo individuo, però, posti di fronte a certi bivi, per lei era quasi ovvio il fatto che infine chiunque prendesse la decisione giusta. Ovvero quella di non ferire chi ti stava attorno, di non gioire per la sofferenza di un altro, di essere sempre pronti a tendere la mano piuttosto che a voltare gli occhi altrove.
Lui, osservandola con pacato distacco, aveva compreso che non c’erano falsità negli occhi scuri di quella ragazzina. L’aveva studiata per anni, da quando lei e sua madre si erano trasferite di fianco alla casa che condivideva con il suo vecchio, e siccome i loro genitori si erano subito riconosciuti come amici non aveva avuto altro che tempo da passare assieme a quella piccola bambinetta. Tutto ciò che faceva, fosse semplicemente parlare o sorridere, era sempre genuino.
In principio, Erik aveva pensato che si trattasse del normale stupore insito in ogni bambino, ma con Veronica era totalmente diverso: crescendo insieme, pur avendo sette anni di differenza, era stato facile comprendere che quelle azioni tanto normali per chiunque altro, erano per la piccina una continua sorpresa.
Vederla mentre giocava, scriveva o disegnava era una gioia.
Una vera gioia.
Alle volte persino lui si sentiva tornare piccolo, spensierato e senza pensieri a frullargli nella testa.
Veronica andava a casa sua con gli occhi grandi, a fargli un sacco di domande, e le risposte che le dava – anche se alle volte erano mere menzogne volte solo a prendersi gioco del suo essere tanto credulona – sembravano sempre affascinarla.
«Senti, senti» diceva, agitando le manine candide per attirare la sua attenzione «Sai per caso come mai il cielo è blu?»
«Vuoi la spiegazione difficile e scientifica o ti accontenti di quella semplice e leggermente campata in aria?»
A sentirsi porre una simile domanda, Veronica corrugava la fronte e si metteva a riflettere con estrema attenzione. Non lasciava mai niente al caso, lei.
«…tu quale preferisci, Erik?»
«La seconda.» rispondeva lui, abbozzando un sorriso «Di gran lunga la seconda.»
«Allora voglio sentire quella!»
«Il cielo è blu perché, dentro alle nuvole, ci sono migliaia e migliaia di angioletti che lavorano su delle stranissime macchine volanti – camuffate appunto da nubi – e che se ne vanno in giro per il mondo a sbirciare la vita di noi esseri umani.»
Veronica, arrivata qui, sgranava gli occhi.
«Si mimetizzano, capisci?» continuava Erik, ridendo dentro di sé per l’ennesima frottola che lei certamente avrebbe preso per oro colato «Quelle macchine sbuffano, cigolano e macinano chilometri, e proprio come succede alle nostre automobili dal tubo di scarico esce una sostanza che si appiccica alle pareti del cielo e che si solidifica assumendo quel colore che vedi lassù.»
«Accidenti! Che storia!»
Erik allora le scompigliava i capelli, senza sentirsi in colpa per averle mentito. Era troppo divertente comportarsi così quando si aveva a che fare con personaggi tanto bislacchi. Lui era conosciuto per prendersi gioco di chiunque, la sua vicina di casa, per quanto piccola, non poteva di certo fare eccezione.
 
Quando crebbe e raggiunse la soglia dei diciotto anni, il ragazzo cominciò a passare sempre meno tempo con Veronica e più con i suoi coetanei. Trovava noioso il dover badare ad una undicenne che, per quanto simpatica, non avrebbe mai potuto capire verso quale genere di cose si stava dirigendo la sua attenzione. Oramai era entrato in quel delicato periodo dell’adolescenza maschile in cui non ti basta più guardare le ragazze, ci devi interagire, parlare, uscire…e se possibile approfondire anche di più la conoscenza. Veronica quindi, che ancora si divertiva a rincorrere i gatti randagi che passavano per puro caso nel suo giardino, non era più una compagna tanto apprezzabile.
«Oggi è venuta Vi a trovarti.» gli diceva, spesso e volentieri, suo padre a cena «Le manchi, sai? Non fa altro che chiedere di te e tu non ci sei mai.»
Un poco gli dispiaceva di non essere presente, ma dimenticava quest’emozione non appena riusciva a guadagnarsi la fiducia della sua ennesima preda. Si era tramutato in un donnaiolo e il suo bell’aspetto lo aiutava parecchio, in questo: nessuna gli resisteva per troppo tempo, e quando finalmente riusciva ad ottenere ciò che aveva desiderato scompariva dalla circolazione deciso a farsene un’altra. La sua vita era una giostra, fermarsi per una bambinetta avrebbe significato uscire dai giochi ed Erik aveva intenzione di rimanerci dentro ancora per molto, molto tempo.
Stava appunto chiacchierando con una nuova fiamma quando, neanche a farlo apposta, vide in lontananza la piccola Veronica. Si stava portando sulle spalle un grosso violoncello, tutta da sola, diretta alla scuola di Musica che anche lui frequentava al pomeriggio. Andò ad aiutarla, ridendo della sua goffaggine, e dopo aver placato la sua contentezza nel rivederlo le chiese come mai si trovasse lì.
«Sciocco! Sono qui per imparare a suonare quello strumento, no?»
«Ah, ma dai! E chi sarà il tuo insegnante?»
Veronica si alzò sulle punte, accigliata, cercando con lo sguardo colui che da quel momento in poi la avrebbe aiutata a realizzare uno dei suoi più grandi sogni. A vederlo si illuminò e lo indicò – pur sapendo che non stava bene – ad Erik.
«Eccolo là, il signor Cameron.» gli disse «Quell’uomo alto e dai capelli rossi.»
Erik si girò e lo osservò a lungo, per nulla felice di sapere con chi avrebbe avuto a che fare la sua giovane amica: Daniel Cameron non era conosciuto né per la sua gentilezza, né tanto meno per la sua galanteria, era un uomo antipatico, geloso del proprio talento e fin troppo ambiguo. Portava i capelli sempre raccolti in una piccola coda, vestiti seri ed ingessati, i suoi occhi verdi non lasciavano trasparire mai alcuna emozione se non l’irritabilità, e, come se ciò non bastasse, si considerava il miglior musicista dell’intero Istituto se non addirittura del mondo.
Scuotendo il capo, tornò a dedicare la sua attenzione a Veronica la quale, dondolando sul posto, si stava tormentando con una mano una lunga ciocca dei suoi foltissimi capelli neri. Erik non disse niente, notando solo ora che era molto cambiata nel corso del tempo. Era cresciuta in altezza e, osservandola, si poteva intuire che sarebbe diventata di certo una bellissima ragazza una volta raggiunta l’età che aveva lui ora.
«Sei agitata, immagino.» si sentì dire infine, piegandosi sulle ginocchia per poterla guardare bene negli occhi marroni.
«Un po’.» ammise lei.
«Guarda che è normale. È il tuo primo giorno, questo.»
«Spero solo di non deludere nessuno. Ci tengo davvero, davvero tanto a diventare brava.»
«E come mai?»
Veronica arrossì, guardando subito a terra.
«…è che io vorrei suonare con te, un giorno. O almeno…vorrei capire la musica, la tua musica, più di quanto non riesca a fare adesso.»
 
All’arrivo dell’inverno, Erik seppe che i medici avevano diagnosticato a Veronica una grave forma di asma. Pur stando a riposo, infatti, veniva spesso colpita da insufficienze respiratorie le quali, come chiaro, le impedivano di dormire come si conveniva notte per notte. Non passò molto tempo affinché il mancato sonno le causasse anche ben poca resistenza alle normali febbri stagionali.
Da un momento all’altro, colei che era abituata a correre a destra e a manca come un tornado, venne costretta a letto.
Erik si sentiva in apprensione, ma non abbastanza da spendere più di qualche minuto da lei quando aveva l’idea di starle accanto. Subito perdeva la voglia e anche se le voleva molto bene, riusciva sempre a svignarsela con la scusa che doveva riposare.
Fu comunque durante una di queste visite che vide il Signor Cameron varcare la soglia di casa.
A quanto pareva Veronica era così promettente che lui, in un atto di cieca fede e magnanimità, aveva deciso di continuare le loro lezioni andando a domicilio, cosa che non aveva mai fatto per nessun altro. In molti avevano sempre sostenuto che se la sua stessa madre avesse avuto bisogno di lui, ma Daniel non avesse avuto voglia di andare in suo soccorso, l’avrebbe volentieri lasciata a morire per conto proprio…e ora faceva questo.
“Strano…” pensò Erik.
Strano che sorridesse sempre, quando stava con Veronica.
Strano che la guardasse con quella strana luce negli occhi.
Strano che lei tendesse a zittirsi, non appena arrivava.
 
Un sera venne svegliato dal vociare sommesso di alcune persone sotto casa sua. Alzandosi dal letto, svogliato, si era diretto alla finestra e aveva visto suo padre a parlare con la mamma di Veronica. Stava stringendo fra le braccia la bambina, grosse lacrime a solcarle il viso. Correndo da loro chiese cosa non andasse e, allora, comprese il perché di quell’atmosfera pesante.
«Ieri il suo insegnante di musica ha allungato le mani.» gli spiegò suo padre «Quando Diana è tornata a casa ha trovato Vi nascosta dentro all’armadio. Il letto era disfatto…»
Disfatto? Si disse lui, incredulo, pur sapendo cosa ciò significasse.
«L’ha subito portata in ospedale e ha chiamato la polizia.»
«…e lui
«A quanto pare…non è la prima volta che succede. L’hanno portato al commissariato e probabilmente finirà in prigione. Da lì dubito lo faranno uscire tanto presto.»
Erik non poteva credere ad una cosa del genere o forse non voleva crederci. Fece tanto ti avvicinarsi a lei, per accarezzarla, ma Veronica si ritrasse malamente ed affondò il viso nella spalla della madre.
Diana scosse il capo, come a volergli chiedere scusa.
«Non ce l’ha con te in particolare, Erik…»
No, questo lo sapeva, ma non poteva nascondere che quella reazione lo aveva lasciato sorpreso. Sconvolto, addirittura.
«…le ci vorrà del tempo.»
 
Il giorno in cui vide salire Veronica in macchina, con Diana, Erik seppe che non l’avrebbe rivista tornare qualche ora dopo, magari mentre stringeva fra le braccia un nuovo libro. Sentiva dentro la consapevolezza che non l’avrebbe più rivista. Non subito almeno.
Ciò che le era stato fatto l’aveva segnata così profondamente che non era più stata la stessa. Tutte le volte che andava da loro, accompagnato dal suo vecchio, lei si nascondeva in camera sua o in qualsiasi posto purché fosse lontano da loro. Erano due esponenti della stessa categoria di colui che le aveva fatto tanto male. Due uomini. Le poche volte che era riuscito a vederla, non aveva mai potuto specchiarsi in quegli occhi grandi ed espressivi che, in fondo, aveva sempre apprezzato. Teneva lo sguardo basso, nascondendo il volto dietro alla frangetta scura, le mani strette agli abiti di Diana come ad implorarla di non lasciarla sola con quelle creature immonde e tanto simili al suo mostro personale.
Non l’aveva più sentita suonare, neanche una volta. Aveva abbandonato tutto, ogni cosa che aveva amato.
…perfino lui.
 
Gli anni erano passati e lui era andato avanti, quasi dimentico della sua personalità prorompente e votata alla conquista di nuove donzelle: dentro si sentiva sempre in apprensione, spaventato dall’idea di non essere poi molto differente da Daniel Cameron e dalle sue passioni irruente. Cosa c’era di diverso nel prendersi gioco di una ragazza e portarsela a letto con il preciso intento di lasciarla perdere il giorno dopo, dal prendersi qualcosa subito con chi non aveva modo di replicare? Di certo avevano agito in modi differenti e mossi da differenti scopi, però il risultato era sempre lo stesso. Si  erano presi l’innocenza di qualcuno, appropriandosene compiaciuti, e avevano plasmato quelle persone ora vuote per renderle meno speciali, quasi disonorate.
Ormai venticinquenne, Erik si era dedicato anima e corpo alla sua arte, quella del pianoforte, e non aveva mai smesso un secondo di cercare sempre nuovi limiti. Il suo più grande desiderio era divenuto quello di essere il più grande, il solo a saper mettere in forma di musica i sentimenti più profondi della psiche umana. Voleva esplorare le menti altrui, sondarne i cuori, scrivere melodie capaci di scuotere l’animo e curarlo da ogni male. Anche quello più profondo.
«Papà, ora non posso…davvero, sono occupato.» mormorò un giorno, sepolto vivo dalla miriade di scatoloni pieni di roba che poi, con l’aiuto di alcuni amici, avrebbe portato nel suo nuovo appartamento. Stava cercando di districarsi fra tutti gli spartiti sparsi a terra, riordinandoli, e la presenza del padre lo deconcentrava abbastanza. «Guarda qui in che condizioni sono! Al momento non posso parlare con te del più e del men-»
«Vi è tornata.»
Si fermò all’istante a sentirgli dire questo. Girandosi piano verso di lui, lo scrutò con quelle iridi chiare e glaciali, vinto da una nostalgica zaffata di ricordi. Dopo sette anni che era partita, Veronica tornava a casa come nulla fosse, riaffacciandosi alla sua vita senza pensare a quanto aveva sentito la mancanza dei pomeriggi passati con lei a parlare di sciocchezze, a giocare insieme, ad osservare come le nuvole ed anche le stelle formassero disegni stupendi nel cielo estivo. Quando se ne era andata non lo aveva salutato né aveva lasciato detto qualcosa per lui. Era semplicemente fuggita, e per quanto comprendesse – anche se non completamente – i suoi sentimenti e ciò che la aveva spinta a comportarsi così, gli era cresciuto in petto una piccola nota in stono con l’affetto che provava nei suoi confronti. Risentimento. Ecco cosa.
«Che dici?» continuò Aaron, suo padre, sorridendo «Andiamo a trovarla?»
Erik tornò a dedicarsi ai suoi spartiti, abbassando lo sguardo.
«Te l’ho detto. Adesso ho da fare.»
«Le farebbe piacere vederti…»
«…ah sì?»
Rispose con un tono tanto beffardo ed ironico che, l’altro, non poté fare a meno di sospirare decidendo che quella era una causa persa. Trovava fosse assurdo essere arrabbiati con una ragazza che aveva subito una violenza tanto orribile, ma purtroppo, siccome non gli sfuggiva nulla, Aaron sapeva che non era la rabbia a guidare suo figlio: la verità era che Erik, dopo essere stato rifiutato per paura dall’allora piccola Veronica, non voleva più rivivere l’esperienza di non essere voluto da una persona che considerava molto importante. Al tempo Vi vedeva un potenziale nemico in ogni uomo, giovane o bambino, non lo faceva apposta, però lui ci era rimasto male lo stesso.
C’era da domandarsi quanto avrebbe impiegato Erik ad arrivare ad una simile conclusione.
 
A dire la verità, lo stesso Erik si era reso conto del fatto che l’apprensione che sentiva non era dovuto solo ed esclusivamente dalla voglia di ripagare Veronica con la sua stessa moneta. Il desiderio di rivederla dopo tutto quel tempo stava crescendo a pari passo con la sua già enorme inquietudine. Si domandava come avesse passato quegli anni, quali fossero stati i cambiamenti nel suo aspetto, e se ancora provava il disgusto nell’essere anche solo guardata da un uomo. Affrontarla avrebbe voluto dire trovare una risposta a tutto questo e, purtroppo, non era certo che tali risposte fossero tutte al positivo. Da bravo adulto quale ormai era, avrebbe potuto soprassedere a simili paranoie, mentendo spudoratamente come d’altro canto stava facendo da anni con tutti, fingendosi la persona seria e fredda che in realtà non era, ma in cuor suo sapeva che ciò gli sarebbe stato totalmente impossibile.
Era pur vero che a Vi, sin da quando era piccola, aveva sempre raccontato piccole frottole, ma erano appunto questo: piccole frottole. Osare qualcosa di più, mentirle e magari essere poi scoperto, avrebbe significato incrinare ancora di più la sua fiducia verso il prossimo, costringendola a fare magari dei passi indietro rispetto a tutti quelli in avanti che aveva compiuto durante il suo periodo di terapia lontano da casa.
C’erano dunque solo due possibilità: o la affrontava a testa alta, sicuro, interpretando la parte del giovane indifferente e spassionato; o la affrontava con lo sguardo pieno solo di preoccupazione per lei, per ciò che le era successo e per ciò che, in futuro, le sarebbe potuto succedere nuovamente.
Per giorni Erik si dannò l’anima, cercando dentro di sé la forza per decidere cosa fosse meglio fare – se una o l’altra cosa – ma purtroppo non riuscì in niente se non nell’intento di nascondersi.
Le sue ultime giornate fra le mura che lo avevano visto crescere, passarono all’insegna del distacco più assoluto dal resto del mondo, dal proprio genitore e, ben più importante, dalla casa che stava solo a qualche metro di distanza. Preferiva non rischiare, fingere piuttosto che lei non fosse tornata, immaginando che questo avrebbe giovato ad entrambi e non unicamente al suo orgoglio ferito.
 
«C-Ciao Erik…»
Il giovane corrugò la fronte senza la minima baldanza, il tepore dei raggi sulla pelle a disperdersi mentre cercava di risvegliarsi dalla piccola pennichella che aveva preso fuori in giardino, approfittando del bel tempo che quella Primavera aveva deciso di offrire loro. Sbadigliò, le braccia ad allargarsi quando cominciò a stiracchiarsi distrattamente, il viso ancora coperto dalla rivista che aveva preso e leggiucchiato solo per un brevissimo lasso di tempo.
Lo avevano chiamato, ma la voce che aveva sentito – per quanto assonnato fosse stato nel momento in cui la aveva sentita – non apparteneva di certo al suo vecchio genitore.
Era una voce femminile, debole quanto un sussurro eppure tremendamente dolce.
Si tolse di dosso il giornaletto da quattro soldi e, sbattendo un paio di volte le palpebre, si ritrovò infine davanti alla fonte di ogni suo dubbio.
«Veronica…»
Anche la sua, di voce, sembrò uscire flebile quanto un sussurro. Era scappato da lei e da ciò che significava rivederla per tanto di quel tempo che ormai, visto che la data del trasloco si era fatta così vicina, aveva dato per scontato di riuscire a farla franca e non vederla per davvero.
Beh, aveva perso.
Stava proprio là, le mani minute e candide strette di fronte al petto, gli occhioni marroni a scrutarlo con fare fin troppo imbarazzato.
Aprì ancora la bocca, e poi la richiuse, ripetendo queste due azioni per dei minuti che parvero ore almeno fino a che non venne interrotto dalla sua vecchia amica, nonché ospite.
«Sono…sono venuta a salutarti.» cominciò lei, tormentandosi una ciocca di capelli neri ed abbassando lo sguardo, rossa in volto. Erik sorrise inconsciamente nel riconoscere questa sua piccola abitudine. «Sono tornata, sai? Cioè…è evidente che sono tornata, sto parlando faccia a faccia con te, dopotutto. I-Intendevo dire…»
Prese un respiro profondo e, alla fine, ripeté semplicemente: «Ciao.»
Non c’erano dubbi, faticava a riconoscere la bambina esagitata e con la carica perenne che conosceva qualche anno addietro, però almeno qualcosa della vecchia sé stessa le era rimasta anche dopo ciò che le era stato fatto. Ancora arrossiva quando parlava con lui, quasi come se fosse conscia di non stare dicendo nulla di sensato ma rimanendo incapace di fermarsi; ancora stentava a guardarlo se, in qualche modo, si sentiva colpevole di un grave torto; ancora sapeva infondergli infinita tranquillità a guardarla, studiando ogni sua mossa.
«So perché non sei venuto…da me, da quando sono qui.»
Dicendolo la voce le si era incrinata, e non per via di un leggero balbettio. Aveva perso per un secondo la forza di tirare fuori quelle parole dalle proprie labbra.
«Quella volta non mi sono comportata molto bene…»
«Avevi paura io…io l’ho capito.»
«Sì, ma questo non giustifica il fatto che me ne sono andata senza neanche dirti “arrivederci” o “addio”. Avrei…avrei potuto sforzarmi, ecco, solo un po’. In fondo tu non sapevi se sarei tornata o meno e non oso immaginare…quello che hai sentito.»
Tristezza e rabbia, soprattutto, ma non lo disse. Non osò interromperla neanche con il pensiero per correggerla e darle questo input. Voleva solo ascoltarla, sentire ciò che aveva da dire sino alla fine del discorso. Forse, poi, sarebbe stato capace anche lui di parlarle seriamente.
«Credo però che, in definitiva, non venni a salutarti perché un po’ ti volevo punire.» rivelò «Stavo così vicino, quando…lui mi faceva quelle cose. Ero così vicina, e tu non sentivi niente. Non vedevi niente.»
I loro sguardi si incontrarono e nelle iridi di Vi, Erik scorse delle lacrime. Fece per alzarsi, sconvolto, ma lei non glielo permise: pose una mano fra di loro come se fosse un blocco, a palmo rivolto verso di lui, scuotendo energicamente il capo. Se si fosse avvicinato lei avrebbe ceduto, e da lì in avanti, non sarebbe più riuscita a continuare. E invece doveva farlo.
«Non ho mai incolpato mia madre, ma solo te perché…tu eri il mio cavaliere. Il mio punto fisso. Il ragazzo che avevo sempre amato, anche prima di conoscere il vero significato di un sentimento tanto grande. Pensavo che il nostro rapporto fosse profondo abbastanza da far sì che tu capissi tutto all’istante, quando le cose non andavano bene.»
Di fatti era sempre stato così. Aveva sempre capito tutto, di lei, anche le cose all’apparenza più strane, ma quando si era trattato di decifrare sguardi e silenzi ben più importanti allora aveva miseramente fallito. Non l’aveva salvata, né protetta. La sua vita era continuata come se nulla fosse, ricca di uscite con gli amici e divertimenti con le ragazze, mentre Veronica, poco distante, viveva nell’inferno.
Ora capiva.
Finalmente capiva.
Però, anche ora che sapeva tutto, una sola cosa gli era sembrata la più folle di tutte.
«…eri innamorata…di me?»
Gli sorrise, facendolo sentire uno stupido oltre che ad un cane. L’affezione da lei provata l’aveva sempre tradotta con il legame che si instaurava fra un fratello maggiore e la sorellina più piccola. Mai si sera soffermato ad analizzare nel dettaglio il peso delle sue occhiate o l’intensità dei suoi abbracci.
Era stato cieco fino a quel punto.
«Mi sono pentita subito di averti impedito di salutarmi.» mormorò Veronica «Ma più cercavo di raccogliere il coraggio, chiamandoti o semplicemente scrivendoti una lettera, più il mio timore cresceva. E cresceva ogni giorno, schiacciandomi, dilaniando la mia anima notte dopo notte ricordando ciò che mi avevano strappato con la forza.»
«…non so cosa dire, davvero. Sono senza parole.»
«Non devi dire niente. Volevo solo spiegarmi, farti sapere il mio punto di vista.»
«Ma guarda che qui non sono io la vittima! Sei tu che…» Erik scattò in piedi e cominciò ad agitare le mani, confuso oltre ogni dire «…Veronica, sei tu ad aver subito un trauma orribile, non io! Dovrebbe essere il contrario, sarei io a dovermi preoccupare per te!»
«I-Io…io non riesco a vederti crucciato. Non per una c-come me…»
«Per una come…oh, ma per l’amor del cielo.»
Non disse più niente e, fregandosene di tutta la tensione che gli era corsa nelle vene al pensiero di vederla a ritrarsi da lui, la strinse forte fra le braccia, affondando il viso nella sua esile spalla. Si inebriò del suo profumo, chiudendo gli occhi e raddolcendo quell’abbraccio nel sentirla rigida tanto quanto un pezzo di legno. Per un po’ lei sembrò tremare, anche se pianissimo, e non ricambiò quel segno d’affetto se non dopo molti attimi, passati a ponderare chissà quale pensiero. Lentamente, passando le mani dal suo petto alla schiena, si strinse a lui, affogando un pianto liberatorio sulla sua camicia scura.
Quello era l’abbraccio che non le aveva dato sette anni prima, portandola via dal suo torturatore, in salvo. Era l’abbraccio che avrebbe voluto darle il giorno in cui aveva scoperto tutto, ma che lei, in preda al disprezzo, non gli aveva permesso di donarle. Era l’abbraccio che, in seguito, le avrebbe impedito di partire senza che potessero dirsi ciao un’ultima volta.
 
Mancava poco alla sua partenza, ma entrambi decisero che era meglio non pensare a quanto ancora potessero stare insieme. Farlo avrebbe voluto dire riempirsi nuovamente di tristezza e nessuno dei due, egoisti e gelosi del tempo prezioso che stavano recuperando, aveva intenzione di farlo. Erano solo loro, finalmente, due vecchi amici intenti a riscoprirsi ancora una volta, a conoscersi di nuovo, vinti alle volte dalla timidezza ed altre dalla nostalgia.
Quando ridevano, lo facevano perché uno di loro aveva tirato fuori una storia divertente circa il passato che avevano condiviso, quello ancora distante dalle trame oscure di un mostro senza scrupoli. Si rivedevano per casa con gli occhi della mente, tramutati in bambina e ragazzino, pronti a rivivere avventure che, prima, apparivano straordinarie.
Era bello farlo, tuffarsi a capofitto e senza pensieri in quei ricordi, ma come era vero questo lo era anche il notare con piacere che alcune cose erano cambiate.
Veronica era diventata bellissima, proprio come Erik aveva sempre saputo che sarebbe successo. I suoi capelli lunghi le arrivavano poco sotto le spalle, neri, foltissimi, e le incorniciavano il viso chiaro alla perfezione, coprendo il suo sguardo di tanto in tanto per via della lunga frangetta ribelle; i suoi occhi si erano allungati, e sebbene non fossero più tanto grandi, sapevano esprimere la stessa dolcezza di un tempo, accompagnata dalla stessa genuinità di sentimenti; le sue labbra, infine, erano carnose ed invitanti. Labbra da baciare costantemente, pensava lui, cercando di cancellare il pensiero subito dopo averlo formulato.
Lo metteva a disagio l’idea di trovare simili intenzioni insite nei meandri della sua mente. Non riusciva neanche ad immaginare che genere di reazione avrebbe potuto avere, Veronica, se avesse anche solo saputo cosa gli frullava per la testa quando la guardava. Certo, i suoi pensieri erano del tutto innocenti se paragonati a quelli che un tempo avrebbe potuto fare su una bella ragazza, ma lo stesso avrebbero potuto intimorire una persona come lei.
«Vi, hai ancora lo spartito che ti avevo prestato? Quello di Mozart, per principianti.» Erik le sorrise dolcemente, ben sapendo che la musica era un argomento delicato «Ho promesso al figlio di un’amica di darglielo, se lo avessi ritrovato. L’ho cercato per tutta la mia stanza, e solo quando mi sono ritrovato in cantina ho ricordato di averlo dato a te.»
Abbassò lo sguardo, cercando di ricordare.
«Ah, io…non so, forse è in camera mia.»
«Ti dispiace se te lo richiedo indietro?»
«…il fatto è che io non…» prese un profondo respiro, qui «Io non entro più nella mia stanza da quando sono tornata. Non ci riesco.» alzando le spalle impercettibilmente, Veronica prese a riavviarsi i capelli «Là dentro tutto è rimasto come allora, quindi immagino che il tuo libro sia lì.»
Erik, grattandosi il mento, cercò di non dare a vedere la sua sorpresa. Capiva cosa sentisse, però gli pareva assurdo rinunciare alla musica per qualcosa del genere. Era vero, il suo maestro l’aveva violentata, ma visto il talento che aveva sempre posseduto perché smettere? E poi, non erano forse i sentimenti a rendere la musica quello che era, ovvero magica?
«Non ti chiederò di andare a prendermelo, se non te la senti…» le disse «…però a me serve, quindi se non ti dispiace andrò io di sopra. Ricordo dov’è.»
Incamminandosi a passo svelto, salì al secondo piano e si diresse verso la porta di quella che era stata la camera da letto di Veronica. La aprì piano, con il fiato sospeso, neanche si aspettasse di vedere uscire chissà quale antico spettro dall’entrata. Ma quando si affacciò sulla stanza, non ci fu nulla ad attaccarlo se non l’odore di chiuso ed un leggero accenno di polvere. Le imposte delle finestre erano serrate, tutto era buio e fermo là dentro. Erik accese la luce, entrando dentro e guardandosi intorno: nonostante fosse chiaro che nessuno metteva piede lì da ben sette anni, quel posto aveva ancora l’apparenza di essere vissuto con i poster attaccati ai muri, i peluche colorati sugli scaffali assieme ai libri ed il violoncello in un angolo, poco distante dalla scrivania. I mobili erano in tinte tenui, tinte pastello azzurro e bianco, ma il velo di polvere era così spesso che a malapena si distinguevano i colori. C’erano persino delle ragnatele sul soffitto e negli spazi fra l’armadio ed il muro.
Più di tutto, però, come era evidente, fu il violoncello a colpirlo.
Aveva cambiato idea, a vederlo, non credeva più che fosse sciocco dire addio alla propria passione per i problemi che essa aveva creato. Lui stesso, pur non avendo provato nulla sulla propria pelle, ad osservare la custodia di quello strumento si sentiva a disagio. Gli venivano in mente gli occhi del Signor Cameron, immaginava le sue sozze mani a toccare la piccola Veronica, la sua bocca a posarsi su quella pelle candida e morbida.
E allora veniva preso d’assalto dalla rabbia.
Quale creatura infame era stata.
«Lo hai trovato…?»
La voce di Vi lo riportò alla realtà e, quasi sconvolto, si rese conto di aver estratto il violoncello dalla sua custodia. Guardò lei e poi le sue mani, senza emettere alcun suono all’infuori di qualche gemito sommesso.
«Io…io lo stavo…»
Cercando? No, non era vero. Non aveva neanche cominciato a cercare il suo libro e si era diretto subito verso la scrivania, tendendo le dita verso quello strumento.
Veronica lo osservò un secondo, facendo qualche passo entro la stanza e chiudendosi la porta alle spalle. Erik seppe subito che stava facendo del suo meglio per guardare solo lui e non tutto ciò che la circondava, tutto ciò che una volta era stato il suo piccolo regno ma che poi, purtroppo, era diventato come l’antro in cui i suoi più grandi incubi prendevano forma e vita.
«Ti do una mano.»
L’altro scosse la testa e mise via tutto, andandole incontro agitando le mani, per dissuaderla.
«Non serve, non serve. Faccio da solo.»
«Andiamo, Erik, questa è…questa è la mia stanza, ergo so benissimo dove si trova.»
La vide oltrepassarlo e dirigersi convinta verso lo stesso punto in cui lui era stato sino a quel momento. Frugò un secondo nei cassetti della scrivania, veloce, e quando estrasse la mano quella stringeva il libro tanto agognato. Sorrise, anche se debolmente, tornando al suo cospetto come se nulla fosse. Lui lo prese fra le mani, ma invece di correre fuori assieme all’amica, si prese un secondo per studiare la sua espressione.
Subito sospirò e scacciò le lacrime dai suoi occhi, con tocco gentile, baciandole la fronte e stringendola fra le braccia.
«…è tutto a posto, Vi. È tutto finito ormai.» esordì, accarezzandole i capelli «Lui non ti farà mai più niente.»
«Lo so. Lo so ma non riesco…a smettere di piangere.»
Quelle piccole manine si strinsero sulla sua maglietta nera, sfiorando il suo petto. La sentiva singhiozzare, sospirare, e ad ogni singhiozzo o sospiro un pezzo del suo cuore andava in frantumi. Come avrebbe voluto cancellare tutto, farle dimenticare ogni cosa se fosse servito a farla sorridere di nuovo senza che un’infelice ombra rimanesse comunque impressa nel suo sguardo.
Rivoleva la sua luce, quella cristallina e cieca speranza nel bene del mondo.
Le prese il volto fra le mani e la guardò dritta negli occhi, serio, deciso a non permetterle più di piangersi addosso. Aveva una forza inaudita dentro, doveva solo scoprire come tirarla fuori.
«Pensa a cosa ti rende felice.» disse semplicemente «Di cose brutte ne succedono sempre, giorno dopo giorno, ma non per questo dobbiamo ricordare solo quelle. Sono certo che hai un sacco di bei ricordi a cui aggrapparti, pensieri che ti fanno toccare il cielo con un dito, amici e parenti che ti vogliono bene e che vogliono solo che tu sia felice.»
Sorrise.
«Pensa a loro.»
«A-Alle persone che mi vorranno sempre bene?»
«Esatto.»
«La mia mamma…Aaron…» lo vide mentre lo guardava, quasi arrossendo «…tu.»
Erik deglutì.
«Sì…io ti vorrò sempre bene.»
«E non mi lascerai mai…»
«No perché se non ci sono io, le persone cattive potrebbero portarti via da me ancora una volta.»
«…e tu non…tu non sei cattivo.»
Scosse il capo, scrutando velocemente quelle labbra invitanti prima di posare gli occhi di nuovo sui suoi. No, non era cattivo e non le avrebbe mai fatto del male. Neanche sotto tortura.
…però c’era forse una cosa che voleva fare da morire che avrebbe potuto confonderla.
Accarezzandole la guancia con la mano, le alzò un poco il volto e lo avvicinò al suo, sentendo il cuore a battere sempre più vigorosamente mentre lo spazio fra di loro si accorciava. Posò le labbra su quelle di lei, staccandosi subito anche se solo per riaffondare nuovamente in un altro bacio. Fu dolce, delicato, eppure anche qualcosa di più: c’era amore in quel contatto, un genere di affezione che difficilmente avrebbe creduto di provare per Veronica. Un sentimento che, ora lo sapeva, era rimasto lì sin dal principio. Nascosto, sormontato da tutto il resto. Stava venendo fuori solo adesso, in tutto il suo splendore, e stava rischiarando gli angoli più remoti della sua anima, riscaldandoli.
 
Quando – travolti dalla passione e dall’amore che provavano l’uno per l’altra – si ritrovarono a scivolare sul letto, a bearsi reciprocamente del calore dei loro corpi, Erik non pensò neanche per un secondo al fatto che in quel luogo si era consumata una tragedia. Perfino Veronica, al momento, stava dando la sua totale attenzione a ciò che stavano facendo insieme adesso.
C’erano solo loro due, insieme, stretti in un abbraccio che lasciava ben poco spazio alle parole.
Cuore, anima e corpo, erano uniti e lo sarebbero rimasti per sempre, alla faccia dei fantasmi del passato e alle preoccupazioni per il futuro.
La magia di quel giorno, di quel pomeriggio stranamente caldo per i primi di Marzo, li avrebbe accompagnati per il resto delle loro vite, questo era più che certo. Erik scoprì di non aver mai desiderato altro che lei, che la sua piccola ed innocente Vi, di aver sempre vegliato su quel piccolo angelo non con gli occhi di un fratello, ma con quelli di un futuro amante, un amico, una persona che l’avrebbe di lì in poi protetta da qualsiasi cosa. Le sorrise, quindi, stringendola fra le braccia mentre quell’amore tanto grande si consumava.
 
«Vi…stavo pensando una cosa.» mormorò, passando le dita fra i suoi capelli scuri.
Veronica alzò lo sguardo verso di lui, rimanendo appoggiata al suo petto. Gli dedicò il migliore dei sorrisi prima di alzarsi sui gomiti e baciarlo. Piano. Pianissimo.
«A cosa?»
Erik la guardò, serioso come non mai.
«L’appartamento in cui mi trasferisco…»
«…sì?»
«…credo che sia troppo grande. Devo cercarmi una coinquilina.»
La ragazza si accigliò, perplessa.
Non poteva aver detto ciò che aveva sentito.
«Coinquilina?» ripeté «Coinquilina? Non intendi forse dire coinquilino
L’altro scosse il capo, facendo il finto tonto.
«No no, volevo proprio dire coinquilina
Se possibile, lo sguardo di Veronica divenne truce.
«Bene.» esclamò, girandosi di scatto e nascondendosi sotto alle coperte, distante da lui «Bene!»
Erik scoppiò a ridere e, quatto quatto, nonostante la ragazza cercasse di tenerlo lontano, portò le mani strette attorno alla sua vita e le sussurrò nell’orecchio:
«Non è che tu sei libera…?»
Sotto al suo tocco, il corpo di Vi smise di essere rigido ma, in compenso, cominciò a tremare. Si voltò verso di lui, le lacrime a solcarle il viso, e subito si fiondò ad abbracciarlo affondando il viso nella sua spalla. Lui la coccolò senza dire altro, sapendo che quella non era una reazione dettata dall’infelicità, anzi, era tutto il contrario.
 
  
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