Film > Il Gladiatore
Ricorda la storia  |      
Autore: Phoenixstein    07/03/2012    6 recensioni
–Anche tu? – Commodo tremò di rabbia per un istante, e lo tirò per il polso, costringendolo a guardarlo negli occhi – Anche tu, come mio padre, ritieni che potrei mai fare qualcosa di… sbagliato?
Massimo non rispose, perché sapeva che qualsiasi cosa avesse detto, si sarebbe rivoltata contro di lui. Conosceva bene Commodo e il barlume di malsana esaltazione che si accendeva nei suoi occhi all’idea di dover detenere un potere più grande di lui in un futuro ancora lontano. L’amico era autoritario, impaziente, beffardo, troppo vanitoso e suscettibile. Insomma, ad ammetterlo, andava forse bene come amante, ma l’ispanico dubitava fortemente che incarnasse le perfette fattezze di un oculato imperatore.
Genere: Erotico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

 

 

 

Piccola noticina prima di lasciarvi alla lettura.

Se non vi piace lo slash o comunque pensate sia altamente folle concepirlo fra Massimo e Commodo, tornate indietro.

Se invece siete delle pazze come me, proseguite pure.

Nella mia fic, Massimo trascorre il periodo estivo nella villa rustica imperiale, da qualche parte nella campagna laziale.

I due hanno una differenza d’età di quattro anni, quindi Massimo ne ha [quasi] venti, Commodo sedici.

 

 

 

 

 

 

 

 

Sub umbrosa siliqua

 

 

 

–Hai riposto la bulla* da tempo, stai per compiere vent’anni… Tuo padre ti ha già trovato una promessa sposa, vero, Massimo? – domandò il ragazzo dagli occhi d’un verde ghiacciato, mentre s’incamminava con l’amico più grande nei dintorni del terreno coltivato a ulivi. Era un’estate placida e scanzonata per il figlio dell’Imperatore, e ne stava trascorrendo le ultime settimane nella cordiale campagna laziale insieme al compagno d’infanzia, il cui padre era affezionato al suo da tempo immemorabile. Erano gente ispanica, fedelissimi all’Impero e dalle maniere schiette ma posate.

–Sì. Perché la cosa ti sta tanto a cuore?

–Quando sarò a Roma vederci sarà un diletto meno frequente.

–Vero, io sarò presto impegnato con l’esercito e tu a frequentare quegli ambienti di cui un giorno dovrai occuparti come Imperatore.

–Oh, sì! – disse Commodo, alzando gli occhi verso il sole all’orizzonte in cerca della sua futura luce di gloria – Sarai mio devoto compagno allora, così come hai promesso di essere per mio padre?

–Tu fa’ solo in modo che io non debba avversarti. – sospirò l’altro, raccogliendo un sasso e scagliandolo contro un tronco con un tonfo secco.

–Anche tu? – Commodo tremò di rabbia per un istante, e lo tirò per il polso, costringendolo a guardarlo negli occhi – Anche tu, come mio padre, ritieni che potrei mai fare qualcosa di… sbagliato?

Massimo non rispose, perché sapeva che qualsiasi cosa avesse detto, si sarebbe rivoltata contro di lui. Conosceva bene Commodo e il barlume di malsana esaltazione che si accendeva nei suoi occhi all’idea di dover detenere un potere più grande di lui in un futuro ancora lontano. L’amico era autoritario, impaziente, beffardo, troppo vanitoso e suscettibile. Insomma, ad ammetterlo, andava forse bene come amante, ma l’ispanico dubitava fortemente che incarnasse le perfette fattezze di un oculato imperatore.

–Rispondimi! – sibilò il più piccolo, deluso. Come poteva una delle persone che più ammirava al mondo, trattarlo in quel modo, fissandolo con quello sguardo di sufficienza?

–Perchè non ti godi questa camminata? L’estate sta finendo, e sarà l’ultima che passeremo insieme. – borbottò Massimo, sciogliendosi con delicatezza dalla presa dell’altro. Continuò a camminare senza dire nulla, saltando oltre il muretto a secco che segnava il confine dell’agro. Si arrampicò oltre il piccolo crinale sentendo Commodo che arrancava dietro di lui, più perché era infastidito dalla loro conversazione che dalla fatica.

Il futuro Imperatore s’arrestò all’improvviso al suo fianco, incrociando le braccia in un cenno di stizza. –La tua insolenza mi offende!

Davanti a loro si apriva una valletta invasa di sterpaglie, accarezzata dal rosseggiante sole del tardo pomeriggio, e immersa in un venerabile silenzio.

–Vediamo chi arriva prima a quell’albero laggiù! – Massimo lanciò la sfida e si gettò slealmente già giù per la discesa. Commodo si scagliò subito al suo inseguimento, sfrecciando dietro di lui senza mai riuscire a superarlo. Corsero con quanta più forza avevano nelle gambe, con schiaffi d’aria tiepida in faccia e fruscii d’erba calpestata in tutta fretta a ronzargli nelle orecchie. Massimo frenò per primo la sua corsa appoggiandosi al tronco nodoso e saldo del vecchio carrubo con un sorriso soddisfatto. Boccheggiavano entrambi, forte.

–Maledizione a te e a queste erbacce! – Commodo col fiato corto zoppicò accanto a lui, sedendosi fra due radici che spuntavano dal terreno battuto. Si scrutava seccato le gambe graffiate e brontolava come un vecchio retore* in congedo. – Stai lì a guardare?

–Cosa vuoi che faccia? – domandò Massimo, strizzando gli occhi e strofinandosi i palmi sudati delle mani contro la tunica tutta impolverata e corta sulle cosce.

–Ad esempio, aiutare il tuo Imperatore…

–Uhm, non lo sei ancora, sono spiacente! – si schernì l’ispanico, ma nel momento in cui parlava, già si stava chinando verso le piccole ferite dell’altro. Commodo lo guardò con approvazione, muovendo impercettibilmente la testa in segno d’assenso. Spinto da un fare premuroso e innocente, il più grande gli sfiorò con le dita i graffietti gonfi e arrossati prima di detergerli con dei colpetti umidi, delicati e lenti della lingua. Fu dolce e salato insieme, era sangue, polvere e sudore… poi posò un bacio delicatissimo sul ginocchio di Commodo, e il giovinetto gli afferrò il mento fra le mani, teneramente.

–Bravo, Massimo… Sei prezioso. – mormorò, leccandosi le labbra secche. Le meravigliose labbra dal disegno impreciso e la misteriosa cicatrice che portava fin da nascituro. Massimo doveva smettere di guardarle, o sarebbe impazzito, o sarebbe accaduto ciò che accadeva sempre, all’improvviso.

–E tu sei una donnicciola! – scherzò quello, deglutendo nervoso.

–Ti senti tanto in vena di facezie? – ribatté Commodo, scagliandosi contro di lui. Animarono la soporifera quiete della valletta con una zuffa goliardica dal sapore teso e intimo al tempo stesso. Si voltolarono fra gli sterpi e la polvere, affannandosi a prevalere l’uno sull’altro, minacciandosi in maniera poco credibile con qualche vituperio ghignato fra un colpo e una risata. Le loro gambe s’intrecciavano, le braccia tentavano di soverchiarsi e loro non smettevano un solo istante di guardarsi negli occhi, con tacito e tangibile desiderio. Fu Commodo ad accendere la solita miccia quando, atterrati con decisione i polsi dell’altro, gli strappò un bacio virile, fatto di morsi, violento e proibito.

Massimo lasciò che il più piccolo si spingesse a leccargli il mento appena ruvido di barba, mentre pensava che ancora una volta si stavano abbandonando a un piacere poco consono, vergognoso e da tenere assolutamente nascosto. Molte volte il cuore gli era quasi scoppiato in petto per la paura rovente che qualcuno li scoprisse mentre si concedevano a quegli strani impeti di Venere. Eppure, Massimo non aveva alcuna pallida voglia di essere altrove, né in altra compagnia. Si chiedeva cosa sarebbe accaduto quando avrebbero smesso di poter fare tutto quello, ma ogni volta gli interrogativi cadevano senza importanza in un pozzo di cieca e sanissima bramosia.

Erano due giovani vigorosi, e altrettanto vigorosi erano i loro furtivi amplessi, anche se acerbi. Cosa ne potevano sapere dell’arte della delicatezza, dell’attesa, delle infinite delizie celate nei meccanismi naturali dei loro corpi? S’avviluppavano alla bell’e meglio, con foga e poca grazia, ma a loro sembrava andar bene così.

Commodo ansimò all’orecchio di Massimo, quando, facendo sgusciare la mano sotto la tunica, incontrò il fallo turgido dell’altro. L’ispanico sentiva quello dell’amico premergli addosso, e quel vizioso si divertiva a strofinarsi contro di lui come una gatta accalorata. Aveva imparato presto!

–Prendimi, Massimo, qui… sotto l’ombroso carrubo.

Evidentemente il giovane aveva lo speciale dono di mormorare parole da meretrice senza cadere nel femmineo. Erano già due uomini, due maschi alfa che insieme suggellavano un’alfa doppia, qualcosa che non capita spesso d’incontrare, forse come gli epici Achille e Patroclo. Come si sarebbe potuto dire che l’uno o l’altro fosse meno uomo solo perché giacevano insieme fra le braccia di Venere? Sarebbe stato folle non vedere il sacro fuoco mascolino nei loro sguardi, nei loro lombi, nel battito furioso del loro cuore.

L’ispanico fu scosso da un’ondata impetuosa di desiderio che travolse e spazzò via la sua indole razionale. Ribaltò le posizioni alzando altra polvere intorno, e strusciarono entrambi alle radici del carrubo con la coscienza in fiamme, annebbiati dalla libidine incalzante. Massimo agguantò l’altro per le spalle, respirando convulsamente contro la sua bocca quanto lo desiderasse. Commodo fu subito carponi, ad inarcare ferinamente la schiena all’intrusione delle dita ruvide dell’ispanico. Gemette di dolore, l’attrito era difficoltoso con quelle dita aride e, sbuffando un’imprecazione, girò la testa di scatto quel che bastava per fulminare l’altro con lo sguardo. Serrando saldamente le labbra, Massimo trattenne le scuse e si limitò a bagnarsi le mani di sputo –rude, ma d’altronde non avevano altro a disposizione– prima di accarezzarsi in fretta il membro bollente. Tentennò un istante ma alla fine decise di umettare anche la piccola fessura che l’attendeva per portarlo all’estasi, perché Commodo avesse il meno possibile di che lamentarsi. Tenendo allargate le natiche dell’amante, l’ispanico cercò di non perdersi nei capogiri e diede un deciso affondo che tolse ad entrambi il respiro nel petto. Rimase immobile in lui giusto il tempo di abituarsi e abituarlo alla ancestrale fusione corporea, e quando la parte animale di sé lo chiamò fortemente al dovere, fu meglio di ogni altra volta. Forse perché sapevano che sarebbe stata l’ultima, poi le loro vite li avrebbero separati, e quei pomeriggi d’estate avrebbero sbiadito il ricordo come lavati dalle acque verdastre del Tevere. Commodo sentì le lacrime pizzicargli i bellissimi occhi, un po’ per il dolore acre che non smetteva ancora, un po’ per il timore di dover smarrire presto quella sensazione di completezza, quel sentimento così simile all’amore ma di cui non era sicuro nessuno dei due. Lui era il figlio dell’Imperatore, futuro Cesare, avrebbe dovuto immaginare la sua esistenza come la quintessenza della magnificenza, degli onori e delle vittorie… ma sentiva invece che non c’era persona al mondo che l’amasse come lui sognava. Non c’era persona al mondo che l’apprezzasse, che applaudisse la sua sfacciata intraprendenza, che gli dicesse che sarebbe stato magnifico un giorno, che sarebbe stato grande e il popolo l’avrebbe acclamato. Lo trattavano tutti come un bambino e no, non era perché portava ancora per poco la bulla aurea appesa al collo.

Perfino Massimo non era mai chiaro su quello che li univa, sembrava accontentarsi del silenzio, delle sfide a chi correva più veloce, tutt’al più qualche verso e poi la brama cocente…

Ma ora, si convinse Commodo, ora nulla aveva importanza quanto la potente frustata che subivano i suoi sensi sotto le spinte vivaci dell’altro, sempre più ardite, ad ogni modo perfette. Era come stordito dal delirante appressarsi del picco altissimo di immenso piacere che si sarebbe riversato sui suoi affanni da cuore ferito.

E mentre gli ansimi, ormai slegati da ogni pudore, osceni e strozzati, scaldavano l’aria nei loro polmoni, il furore carnale li rendeva del tutto ciechi agli affari terreni. Scorse poi il munifico seme, con empia soddisfazione e grida elevate ai piedi del carrubo. Riposarono sotto le fronde cariche di frutti immaturi, sudati, accovacciati l’uno sul petto dell’altro, tolti i gravosi indumenti di dosso. Nessuno dei due poteva lontanamente immaginare quello che sarebbe accaduto un giorno, come il destino li avrebbe avvinghiati con un nastro colore del sangue, sangue delittuoso, sangue macchiato dall’odio più oscuro…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

*Bulla: Ciondolo di metallo e cuoio contenente un amuleto, che i fanciulli romani portavano appeso al collo fino all'età della toga virile.

*Retore: Presso gli antichi Greci e Romani, nome con cui si indicavano gli oratori e i maestri di eloquenza.

   
 
Leggi le 6 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Film > Il Gladiatore / Vai alla pagina dell'autore: Phoenixstein