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Autore: BuFr    08/03/2012    2 recensioni
Storiella un po' demenziale e cross over sul fatidico incontro tra gli Sherlock e John della BBC con Holmes e Watson dei film di Guy Ritchie.
Genere: Comico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: Cross-over, Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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“Che noia.”

Se c’era un’impresa difficile a questo mondo, era scrivere un blog durante uno degli attacchi di inedia molesta di Sherlock.

Quando sei piccolo, le maestre ti consigliano di ignorare il compagno di classe che ti disturba solo per attirare la tua attenzione. Ma se avevi a che fare con Sherlock Holmes, ignorarlo o meno non aveva nessun tipo di presa: era al di sopra di qualunque strategia sociale. Voleva solo che John fosse informato, che fosse pienamente consapevole del suo male di vivere, punto.

Il povero John Watson si arrese allora momentaneamente, abbandonando le mani sulla tastiera e levando gli occhi al soffitto.

“Continuare a ripeterlo ti arreca qualche giovamento?” gli domandò caustico.

In vestaglia, Sherlock si alza dal divano e comincia a camminare nervosamente per la stanza con la sua tipica teatralità. “Sì. Declinare tutte le sfumature della parola noia è comunque meno intollerabile che doverla subire. Dove sono le sigarette?”

“Mi hai espressamente chiesto di farle sparire. Tutte, stavolta” rispose John con lo sforzo di pazienza che si ha con un bambino o un paziente molesto. “Comunque ci sono trentaquattro telefonate in segreteria, tutte offerte di lavoro.”

“Nulla a cui valga la pena di prestare attenzione” risponde Sherlock accigliato “Cos’è quella?”

“Che cosa?” chiese John voltandosi a guardarlo interrogativo.

L’uomo indicò un punto accanto alla sua mano, sulla scrivania. John temette che il picco della pazzia fosse ormai vicino.

“Questa? Una mela, la mia colazione” spiegò John prendendola in mano e rigirandosela. Era una comune mela rossa.

“Chi te l’ha data?”

“Me l’ha regalata il fruttivendolo, qua sotto, ma...”

Non riuscì nemmeno a finire la frase che Sherlock gliela strappa di mano e la porta di fretta al suo scranno, scandagliandola con la lente di ingrandimento. John lo guardò come se fosse totalmente ammattito. Poi, con il senso pratico di un medico legale e una certa aria di sufficienza, Sherlock la scaglia per terra: “Le impronte di Jim Moriarty. Tracce di rame e ruggine, un pizzico di terra rossa.”

Con un brivido, John disse in imbarazzo: “Beh, ok, non l’ho lavata, ma tanto sai che le sbuccio sempre.”

“La società elettrica!” esclamò Sherlock con un’intuizione improvvisa e corse a vestirsi, continuando a parlare: “Solo accanto alla società elettrica c’è quel tipo di terriccio...”

“Sherlock?” fece confuso John, chiedendosi se era arrivato alfine il giorno tanto temuto in cui era necessario chiamare la neuro con camicia di forza e tutto.

In un paio di minuti il suo collega riapparve sulla porta raggiante e vestito di tutto punto, la sciarpa sistemata al collo: “Ma non ci arrivi? Oh, anche una persona ordinaria e ingenua come te dovrebbe arrivarci, John. Una trappola!”

E si diresse spedito verso l’uscita di casa. Con un sospiro, John chiuse il computer e decise di seguirlo. Stavolta, più per essere sicuro che non si facesse male che per trovare una bella storia.

 

La società elettrica di cui parlava Sherlock era ormai abbandonata, soppiantata nel suo scopo da un altro edificio ipermoderno a due incroci di distanza. Le finestre non avevano un vetro integro e ormai la vegetazione selvaggia si era arrampicata su buona parte dei muri. Sherlock si guardò attorno, circospetto, con la certezza che avrebbero trovato qualcosa.

Timidamente, John provò a ragionare: “Forse stavolta hai preso un abbaglio.”

“Puoi tornare a casa” suggerì con noncuranza Sherlock non prestandogli nemmeno un’occhiata. Come al solito, John incassò questo colpo come gli altri. In fondo, lui non gli aveva mai espressamente chiesto di accompagnarlo. Né dichiarato mai che gli facesse piacere. Tra loro erano tutti non-detti, ma a volte John aveva il dubbio molto serio di aver frainteso tutto; di essere solo una qualche specie di sottofondo sfocato, per lui. La maggior parte del tempo andava bene così, ma in momenti come questi John cominciava a perdersi d’animo e a sentirsi stanco di quella distanza che Sherlock teneva sempre, di quelle stilettate fredde e nemmeno intenzionali, di quella urticante mancanza di emozioni.

Avere una qualunque reazione ‘umana’ da te sarebbe come cercare di cavar sangue da una pietra. Se avessi ancora un po’ di sale in zucca dovrei gettare la spugna, mandarti al diavolo e basta.

Invece era lì in un posto pulcioso e umido a reggergli la torcia accesa perché vedesse meglio. Che stupido.

“Buonasera, odiato Sherlock, mia nemesi, con il suo prezioso animale da compagnia” li sorprese una voce sinistra e nota alle loro spalle; la torcia quasi cadde dalla mano di John che sentì la pelle accapponarsi. Quella era la voce che temeva di più. Che detestava di più. James Moriarty.

Sherlock si voltò e vide l’ombra del suo acerrimo nemico, ma non gli diede la soddisfazione di rispondergli, si limitò a guardarlo con sufficienza. Stavolta Moriarty non aveva in pugno niente per ricattarlo.

“Che cosa vuoi?” gridò John impulsivo, puntandogli la torcia contro. Ma il suo volto rimaneva in ombra.

“Vi devo una caduta, ragazzi” ridacchiò lui, come se si trattasse di una battuta divertente: “Noi apparteniamo ad una distorsione dell’universo. Non lo sapete? Qua nessuno conosce Baker Street, o il motivo per cui è celebre.”

“A quanto ricordo, è casa mia” sorrise appena Sherlock sbruffone: “Perciò so bene cos’è.”

“Eppure vi assicuro che è strano. Non siamo noi il mondo di maggioranza, no no. Quindi sparirete per un po’, tanto per chiarirvi le idee.”

John notò solo ora che Moriarty aveva una mela rossa in mano. La gettò, essa fece una lunga parabola fino a cadere alle loro spalle. Non emise nessun rumore e, girandosi, Sherlock e John la videro ingoiata dall’oscurità, in una piega del pavimento. Improvvisamente persero l’equilibrio. Qualcosa li attirava indietro, li faceva cadere.

“Goodbay, amici miei” augurò Moriarty felice, senza muoversi: “Fatevi un bel viaggio!”

 

La sensazione di cadere indietro durò a lungo, parve infinita; si aspettavano prima o poi di toccare il suolo rovinosamente, ma poi senza alcuna logica si ritrovarono in piedi, all’aperto, in mezzo a rumori e tumulti, la testa che ancora girava.

“Attenti, toglietevi di mezzo!” gridò loro qualcuno, e John e Sherlock riuscirono a schivare per poco una macchina che passava a pelo sollevando polvere. No, non era un’automobile, si accorse John sforzandosi di rimettere a fuoco la vista, era una carrozza.

“Una... carrozza? Perché?” mormorò, poi il suo raggio visivo continuò ad espandersi e vide che lui e Sherlock erano effettivamente nel bel mezzo del traffico di una città, solo che si trattava in buona misura di carrozze trainate da cavalli e pochi modelli di macchina risalenti letteralmente all’anteguerra, più lenti delle bestie da traino.

“Carrozze, John, non essere ridicolo!” commentò Sherlock premuto spalla a spalla con lui, come se fossero un unico individuo capace di vedere il mondo a trecentossessanta gradi.

“Che cosa è successo?” chiese John Watson sentendo il cuore accelerare pian piano e andare in tachicardia. “Dove siamo?”

“Siamo in mezzo a una ricostruzione storica, mi sembra chiaro! Guarda, le carrozze non possono essere davvero d’epoca, sono quasi per la maggior parte nuove di zecca, non hanno più di tre o quattro anni!”

“Togliamoci di qui” suggerì John dopo che rischiarono nuovamente di essere travolti dagli zoccoli di un gruppo di cavalli. Si presero ulteriori imprecazioni e camminarono fino al bordo della strada, a sicuro contro le mura di un palazzo.

John conosceva Sherlock ed era certo che in quel momento stava mettendo tutte le sue forze nel tentativo di mostrarsi tranquillo, razionale. Ma stavolta non era proprio possibile. “Dove siamo?” gli chiese.

“Mi hai già fatto questa domanda. Un minuto e mezzo fa, circa” rispose Sherlock di pessimo umore.

“E’ stato Moriarty?”

“Non ha senso.”

“Come, l’abbiamo visto prima... Prima di finire qui...”

“No” corresse Sherlock staccandosi dal muro e iniziando a camminare sul marciapiede: “Non ha senso che noi eravamo lì, in fabbrica, e ora siamo qui. Non ha senso!”

Tenendogli dietro a fatica col passo, John indicò avanti a sé meravigliato e disse: “Guarda!”
Un gruppo di donne imbacuccate in abiti ottocenteschi stava dando la mancia a un accattone cieco che sembrava uscito da un romanzo di Dickens. Tutto questo era troppo. A che razza di gioco stava giocando Moriarty? Che razza di scherzo era?

Sentendosi preso per il naso, Sherlock aumentò l’andatura e cominciò a guardarsi febbrilmente intorno, analizzando tutto ciò che vedeva. Ma gli elementi assurdi erano veramente troppi, stavolta.

“Dev’essere un trucco...”

“Sherlock...”

“Possibile che abbia assoldato tutte queste persone per...”

“Sherlock!” quasi gridò John, fermandosi. Le strade li avevano portati sulle rive del Tamigi e, davanti a loro, senza alcun dubbio, si stagliava il Big Ben e il Parlamento. Stavolta pure il consulente investigativo dovette impallidire.

“Siamo a Londra...” dichiarò John ad alta voce, non capendo più niente. Guardò in giro, e ancora non si vedeva null’altro che gente in costume, carrozze e strade non ancora asfaltate. Nessun autobus, nessun cartellone pubblicitario, nessun taxi. Come messa in scena cominciava a essere troppo estesa.

“Non è possibile” concluse cocciuto Sherlock. La sua mente analitica esulava dall’inspiegabile.

In quel caso anche John non poteva crederci “Siamo a... Londra ma... è come essere nel passato... Una sorta di Londra ottocentesca iperrealista e post-moderna...”

L'aria era densa di polveri, fumi di fabbrica, fuliggini. Sembrava una cartolina color seppia d'epoca, più che un vero viaggio nel passato. Da quel punto di vista Sherlock aveva ragione: aveva tutto l'aspetto di un allestimento scenografico. Ma era davvero troppo esteso perché Moriarty potesse ragionevolmente aver pianificato, da solo, un simile dispiego di forze solo per fare un “dispetto” a Sherlock Holmes.

“Baker Street” disse l'investigatore tra i denti, quasi ipnotizzato da tutto questo.

“Come?”

“Moriarty ha nominato Baker Street, dev'essere un indizio che ha voluto darci... Uno dei suoi rompicapi... Bene.”

“Sherlock, questa cosa è ridicola e assurda...”

“Ragazzo!” gridò però lui rivolto a uno strillone che vendeva i giornali, correndogli incontro: “Ne prendo uno!”

Il bambino mezzo vestito di cenci gli porse una copia del Times fresco di stampa, ricevendo nelle  mani una banconota. Il piccolo venditore non si mostrò affatto contento.

“Ehi, questi non sono soldi veri!” protestò il bambino diventando aggressivo.

“Sono dieci sterline, più di quanto si paghi normalmente per un quotidiano” disse pieno di disappunto Sherlock senza staccare gli occhi dalla prima pagina, su cui viaggiavano veloci.

“Non sono dieci sterline! Io non conosco la tizia stampata qua sopra! Ridammi il mio giornale!”

“Che c'è?” chiese John avvicinandosi a Sherlock. Questi in tutta risposta gli sbatté il quotidiano contro il petto.

“Guarda tu stesso. La data.”

John lesse sulla prima pagina e sbiancò. “13 Marzo 1890, ma... Come... come è possibile?”

“Ridatemi il giornale!” sbraitò lo strillone e afferrò con tutta forza un'estremità del quotidiano che John aveva in mano, finendo per lacerarlo a metà. Arrabbiato per la sua merce perduta, il ragazzino allora si accontentò di tirare calci di sdegno, prendendo solo una volta uno stinco di John il quale incassò il dolore silenziosamente.

“Tutto bene?” chiese Sherlock più per frase fatta che per preoccupazione.

“Direi di no...” rispose John ma non si riferiva allo strillone, che era scappato via dopo la sua birbonata contro un adulto. “Sherlock, abbiamo fatto un viaggio nel tempo?”

“No.”

“L'hai detto tu tante volte: tolto l'impossibile, quel che resta per quanto assurdo deve essere la verità.”

Sherlock lo guardò per la prima volta da quella mattina per più di due secondi negli occhi. Aggrottò la fronte: “Ascolti così attentamente quello che dico?”

L'uomo, dimentico per un attimo della situazione ai limiti in cui si erano cacciati, arrossì. “Beh... Spesse volte mi segno alcune cose che dici... Sai, per il blog...”

“Beh, in ogni caso” tagliò corto Sherlock ricomponendosi dignitosamente: “Dobbiamo andare in Baker Street e capire cosa sta succedendo.”

Non aspettandosi che Sherlock virasse così fortemente il discorso, John nascose la sua delusione osservando senza attenzione il lembo di giornale che gli era rimasto in mano, contenente le pagine dal numero nove in poi. Ma, quasi subito, fu costretto a strabuzzare gli occhi. Indicò un punto della pagina, ma la voce non uscì.

“Che c'è?” chiese l'investigatore notando il suo smaniare afono.

John gli mostrò il titolo che aveva attirato la sua attenzione: Sherlock Holmes coinvolto nell'affare boemo, un articolo di mezza pagina nella cronaca, senza immagini.

Stavolta anche Sherlock fu costretto a congelare ogni altra reazione. Si avvicinò per leggere meglio: l'articolo, in parte strappato, parlava del coinvolgimento di un noto investigatore privato di nome Sherlock Holmes in uno scandalo riguardante i monarchi di Boemia mentre le prime pagine del giornale si concentravano invece sulla guerra in corso, e non certo quella a cui aveva partecipato John.

“Deve essere un trucco” ripeté ancora Sherlock. Un investigatore privato suo omonimo compariva su una copia di giornale del 1890; non poteva che essere un brutto scherzo di Moriarty.

“Non ci capisco più niente, Sherlock...” commentò spaesato John, guardando alternativamente lui, poi il giornale. Si sentiva alla deriva senza punti d'appoggio e tutte le risposte le cercava in lui, lui che sembrava sempre sapere cosa fare. “Chi è quest'altro Sherlock Holmes?”

“Non c'è nessun altro Sherlock Holmes, John” disse fermo lui, non potendo però evitare di fissare quella pagina di carta nuova e fresca ma con caratteri tipografici che non potevano appartenere a un quotidiano stampato dopo il XX secolo. La contraffazione, se c'era, era perfetta.

“Siamo nel 1890. Tu non eri ancora nato” commentò il suo amico tra sé, cercando di riannodare i fili.

“Andiamo” terminò tetro Sherlock.

“In Baker... Street?” chiese il medico apprensivo: “Sei veramente certo che troverai risposte lì?”

“No, però star fermi è inutile. Ho solo una pista” concluse lui. Per la prima volta da che lo conosceva, John aveva l'impressione che questo gioco ordito da Moriarty non lo divertisse affatto.

 

La via, la facciata erano le stesse e al contempo non erano le stesse. Non c'era lo stesso ordine, la stessa quieta compostezza british che aveva Baker Street nel XXI secolo, nel loro mondo. Dalle scale del numero 221 stava uscendo una persona, un uomo non molto alto con barba e bombetta. Sherlock, seguito dal poco convinto John, attirò la sua attenzione prima che se ne andasse.

“Buon pomeriggio, buonuomo. Sa per caso dirmi chi abita in questa casa?” chiese con un'affettata compostezza.

Perplesso, l'uomo sollevò su di lui i suoi piccoli occhi e rispose subito: “Sherlock Holmes, naturalmente.”

A tanta risposta Sherlock assottigliò gli occhi e rimase a studiare l'interlocutore a lungo, non notando però alcun segno di discernimento. “Lei...” provò, guardingo: “Non mi riconosce, vero?”

L'altro sbatté le palpebre due volte: “No, mi sembra proprio di no, Mister! Mi ricorderei senz'altro di un uomo alto come lei. Non se ne vedono parecchi qua in giro...”

“Lei conosce Sherlock Holmes?” chiese ancora: “Sherlock Holmes che abita qui?”

“Certamente, purtroppo!” rispose l'uomo genuino: “Sono della polizia, noi spesso da un po' di tempo ci avvaliamo della collaborazione di Holmes... Una testa matta, difficile da gestire, ma uno degli uomini più geniali che il nostro secolo abbia visto. Se non si passasse metà del tempo ad aver voglia di strangolarlo.”

“Ne ha fatto un quadro perfetto” scherzò John, aggiungendo tra sé se non fossimo nel secolo sbagliato.

Sherlock fulminò appena l'amico con uno sguardo e poi tornò a parlare: “Così, lei è della polizia?”

“Sì” disse l'uomo togliendosi il cappello e porgendo la mano: “Ispettore Lestrade, polizia di Scotland Yard.”

“...”

“Ispettore Lestrade, ha detto?” esclamò John. Sherlock non aveva detto niente, solo le sue pupille si erano contratte per un attimo.

L'uomo era di fretta e li salutò con un sorriso cortese e molti cenni del capo, credendo che il loro stupore fosse merito della propria fama: “Ora devo salutarvi, signori. Non mi sento di consigliarvi la frequentazione di Holmes per i vostri problemi, ma se lui accetta il vostro caso, probabilmente alla fine penserete che non avreste potuto scegliere alleato migliore.”

Potendosi trattenere a stento nella propria pelle, John quasi esplose silenziosamente: “C'è un altro Sherlock Holmes? E un altro Lestrade? Quello non era Lestrade!!”

“C'è un altro Sherlock Holmes ed evidentemente non mi assomiglia” disse Sherlock cercando di mostrarsi impassibile: “Forse un impostore. Forse qualcuno che lavora per Moriarty. In ogni caso, pare sia in casa.”

Bussarono alla porta e ad aprirgli venne loro incontro una signora composta, che li squadrò perplessa ed esordì schietta: “Però, che strani abiti. Benvenuti, signori, in cosa posso esservi utile? Sono la padrona di casa.”

“Vorremmo parlare con... Sherlock Holmes” iniziò il suo omonimo.

“Ha finito l'orario di visite e vi sconsiglio vivamente di andare da lui nei momenti che dedica ai suoi... 'studi'” disse la donna, la bocca che si arricciava in un severo scetticismo.

Sherlock appoggiò una mano sulla porta, insistendo veemente: “Si tratta di una faccenda davvero importante, signora. Se potesse fare un taglio alla regola...”

“Non si tratta di me” disse lei seria, ma gentile: “Voi non avete idea di con chi avrete a che fare, io... Bah, vi ho avvertiti” concluse la padrona di casa aprendo la porta ai due uomini: “Vedrete voi stessi. Vi consiglio di stare attenti alle pallottole.”

“Pallottole. E' proprio Sherlock Holmes!” commentò John ridanciano.

Con un mezzo sorriso di sfida, Sherlock si voltò verso di lui mentre salivano le scale; la signora che aveva aperto loro la porta non aveva nessuna intenzione di far loro strada. “Ti diverti?”

“Quella donna conosce uno Sherlock Holmes, uno Sherlock Holmes che abita qui, ma non conosce te” fece John guardandosi intorno incredulo: “Guarda! L'arredamento è diverso, la struttura è diversa, persino i muri sono diversi, eppure è come casa nostra, è...”

“Zitto” gli intimò Sherlock accostandosi alla porta ben eretto, sfiorandola con i polpastrelli: “Voglio poter sentire ogni rumore. Ascolta: neanche uno scricchiolio, niente. Come se non ci fosse nessuno in casa.”

“Veramente sento un rumore attutito, assomiglia a un respiro” notò John inutilmente pignolo.

“Solo un cane” rispose Sherlock con frettolosa sufficienza: “Un cane, e un ronzio di mosche, se proprio ci tieni a saperlo.”

Mise mano alla maniglia arrugginita ed entrò; la stanza che si apriva davanti a loro era quasi in penombra, ci volle un po' per abituare la vista. John fu aggredito dalla polvere e dall'odore di chiuso di quel luogo, pieno zeppo di cianfrusaglie. Il tipo di ambiente che lui, medico, aveva rilevato solo nelle abitazioni di persone con problemi psicotici molto seri.

Inspirando la polvere sottile, John tossì forte; gli rispose un guaito sommesso e abbassando lo sguardo vide un bulldog stravaccato per terra. Aveva l'aria un po' istupidita e confusa, ma si tirò comunque sulle quattro zampe e si avvicinò a John per annusarlo. Sembrava provare una certa simpatia per lui, mentre ignorò totalmente Sherlock.

“Non c'è nessuno” concluse John badando distrattamente al cane. L'amico si guardava attorno con attenzione. Poi il medico avvertì una fitta al collo e gemette: portandosi una mano al punto colpito, trovò un piccolo ago conficcato nella pelle. Lo estrasse e Sherlock lo prese dalle sue mani.

“Non è avvelenato” disse studiandolo con attenzione. Poi si rivolse sicuro verso un'angolo della stanza, dove John era assolutamente sicuro non ci fosse nessuno: “Vieni fuori, basta giochi!”

“No non è avvelenato, non è mia abitudine avvelenare i miei ospiti, ma ho perfezionato nel mio laboratorio almeno 43 tipi di veleno che se avessi voluto vi avrebbero potuto uccidere sul colpo.”

Era una voce morbida, nervosa, e John trasalì udendola emergere dal nulla, ma poi vide un'ombra – un'ombra che si staccava dalla carta da parati! - e apparve a poco a poco nella sua percezione una sagoma umana, totalmente rivestita di una calzamaglia identica alla fantasia del rivestimento murale. Imbarazzante, pensò John.

“Chi è lei?” chiese Sherlock aguzzando la vista per distinguere quell'uomo nell'ombra.

“Dovreste saperlo, voi, che venite a cercarmi” rispose l'uomo e finalmente emerse in un punto più visibile della stanza. Aveva cominciato a muoversi più spedito, come se quella visita destasse improvvisamente la sua curiosità. Era un uomo sui quarant'anni, giovanile ma trasandato, sul cui volto spiccavano due occhi grandi e scuri che si muovevano con molta vivacità e che avevano l'aria liquida di quando si pensa molto e si dorme poco. Ora li teneva spalancati e attivi, rivolti ai due visitatori, e commentò interdetto colmando la distanza con un agile balzo: “I vostri vestiti... Non riesco a capirne la provenienza, è davvero curioso... Curioso, sì...”

“Conosci un uomo di nome Sherlock Holmes?” lo mise alla prova Sherlock, gli occhi di ghiaccio seri come il marmo. Spilungone com'era guardava il bizzarro inquilino di quel microcosmo dall'alto in basso.

Questi ammiccò, la linea della bocca che si contraeva in una smorfia canzonatoria e internamente divertita, e rispose piegando la testa da un lato con uno scatto nervoso: “Non mi vanto di conoscerlo bene, no, mi sono sempre interessato di altre cose più che a me stesso, tuttavia... Credo che sia me che cercate. Sono Sherlock Holmes, al vostro servizio.”

Stavolta Sherlock – quello del XXI secolo – non poté trattenersi. Emise un verso di scettico scherno e chiarì sogghignando, quasi fosse un dato evidente: “Lei non è affatto Sherlock Holmes.”

L'altro buttò gli occhi al cielo come se compatisse quella risposta e al contempo, interessandogli poco l'argomento, si rassegnasse alla sua stupidità. Si ritirò da loro, dietro un separé cinese, per togliersi la guaina con cui si era mimetizzato con la carta da parati e indossare un abbigliamento più consono.

“Se non credete che sia io Sherlock Holmes, temo di non potervi aiutare in alcun modo” commentò l'uomo rivolto ai due ospiti: “Credo che sia quello che i filosofi amano chiamare paradosso.”

“Sherlock Holmes, l'uomo che collabora con la polizia di Scotland Yard, è un uomo analitico. Geniale” commentò orgogliosamente Sherlock.

“Vero, devo convenirne” replicò pronto l'Holmes del XIX secolo, perfettamente in accordo con lui almeno su questo assioma.

“Lei è veramente Sherlock Holmes?” chiese invece John, basito di fronte a una scena simile: “Lo Sherlock Holmes di questo posto?”

L'uomo riapparve finalmente con abiti d'epoca, camicia, pantaloni di tela con bretelle e un generale aspetto arruffato, che ben poco aveva della austera nobiltà di quello Sherlock a cui John era abituato.

“Di questo posto e di tutti gli altri, spero” rispose questi mettendo le mani nelle tasche dei pantaloni larghi: “Sembrate due tipi curiosi. Forse non siete in grado di capirlo, ma io riesco sempre a intuire quasi tutto delle persone che mi stanno di fronte. Voi invece” indicò con uno sguardo vago entrambi, soffermandosi però di più sull'altro Sherlock: “ai miei occhi siete per metà un enigma. Siete inglesi, questo sì, ma il modo di parlare, gli abiti, gli strani segni che avete sulle mani e sul viso... Mi sono oscuri, lo ammetto, ed è raro per me. Tu per esempio saresti...?”

“Oh, io esercitavo la professione di medico” rispose John di fretta, ancora sotto shock, capendo che quell'ultima domanda era rivolta a lui. Scartò il suo compagno di visita e porse una mano allo sconosciuto: “Mi chiamo John Watson, molto piacere.”

L'Holmes locale stava per stringere la mano del visitatore, ma poi si bloccò. Alzò lo sguardo verso la persona che aveva appena parlato, con l'atteggiamento di chi si sta chiedendo se per caso quello era una sorta di trucco. Pure lui.

“John Watson? Ti chiami John Watson?” iniziò a chiedere incalzante.

“Sì, John Watson.”

“John Watson, medico? Di guerra forse?” fece ancora quell'Holmes, sempre più nevrotico, quasi trovasse quella storiella sia divertente sia urtante.

“G-già... Come... come lo sa?” chiese John. Udendo se stesso porre quella domanda provò una sensazione di deja vù. C'era di nuovo un Holmes che collaborava con la polizia, residente a Baker Street, un Holmes che si vantava di poter dedurre la vita altrui dal più minimo dettaglio; un Holmes che aveva una certa facilità a maneggiare le armi, anche. Eppure più John lo guardava e più nelle somiglianze notava le macroscopiche differenze, quanto nelle differenze trovava inaspettati punti di incontro. Ora quell'uomo si era chiuso a riccio, era ostile.

“Lei non è John Watson. Andiamo, sarebbe ridicolo e alquanto improbabile” concluse il loro ospite con discredito – lo stesso, identico che Sherlock aveva usato prima con lui.

“Beh, sono molto spiacente ma... è il mio nome. Non ne ho altri” replicò lui con pacatezza mettendosi le mani sui fianchi, segno di disagio. Sherlock, il suo Sherlock, ascoltava ora con molta attenzione.

“Io conosco John Watson, che è stato medico di guerra” dichiarò altezzoso l'altro Holmes, punzecchiando quel tipo dall'aria vulnerabile: “E lei non gli somiglia neanche lontanamente. Non è cortese rubare i nomi altrui, sa?”

A quell'affermazione, John rimase a bocca aperta. Certo non aveva argomenti con cui ribattere. Come rasserenato che questo sinistro sdoppiamento non riguardasse solo lui, Sherlock del XXI secolo commentò allietato: “Bene bene... A questo punto sappiamo che, oltre a un'altra Baker Street, un altro Lestrade e un altro Sherlock Holmes, abbiamo pure un altro John Watson. Sarei proprio curioso di conoscerlo!”


 

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