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Autore: BuFr    08/03/2012    2 recensioni
Storiella un po' demenziale e cross over sul fatidico incontro tra gli Sherlock e John della BBC con Holmes e Watson dei film di Guy Ritchie.
Genere: Comico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: Cross-over, Movieverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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“Si può sapere chi siete?” domandò l'Holmes del passato, già distratto dal gruppo di mosche che aveva intrappolato in un alambicco.

“Conosci un uomo di nome Moriarty?” replicò a sua volta lo Sherlock del XXI secolo.

“Non personalmente, no” rispose l'altro: “Ma compare spesso sui giornali, il professor Moriarty.”

“Bene” disse Sherlock sottovoce a John, senza però apparire realmente soddisfatto: “Pare che tutti abbiano un doppio in questo mondo. Veramente assurdo, non trovi?”

“Io trovo assurdo che ci sia un altro Sherlock Holmes che non ti assomiglia per niente e che pure riesce ad essere completamente fuori di testa anche lui!”

L'amico lo fulminò un'altra volta ancora con lo sguardo: “Come sarebbe a dire anche lui? Mi vuoi paragonare a questa specie di accattone?”

“Non sono un accattone, sono uno spirito libero” rispose Holmes con il suo udito fino, voltandosi verso di loro come se si ricordasse solo adesso della loro presenza “Parlavate di un altro Sherlock Holmes, fate discorsi ben stravaganti, che io sappia c'è un unico Holmes in tutta Londra.”

“Già” rispose Sherlock infastidito: “Beh, pare che io e il mio compare qui siamo finiti in una Londra sbagliata, in cui la polizia si tiene in contatto con uno psicopatico fuori di testa.”

John si accostò al suo orecchio divertito: “Vedi che cosa significa avere a che fare con te?”

“Io non sono affatto così!” tuonò Sherlock offeso, a bassa voce.

“Mi state annoiando, siete qui da venti minuti e ancora non mi avete spiegato il motivo della vostra visita” fece Holmes camminando verso la porta; una volta uscito sulle scale diede un grido: “Mrs Hudson, tè per gli ospiti!”

“Dobbiamo uscire di qui” disse Sherlock che si sentiva sempre più un pesce fuor d'acqua.

“Hai qualche idea?” chiese John.

“Bene” disse Holmes rientrando, sforzando un sorriso falso: “Forse ora vorrete accomodarvi e dirmi come posso aiutarvi, altro Watson e amico dell'altro Watson.”

“Lei fa il pugile?” chiese Sherlock, che aveva già notato i segni sulle mani e il volto del suo omonimo.

“Acuta osservazione” assentì l'uomo fingendo di riordinare le sue cianfrusaglie.

“Ieri sera ha perso.”

Stavolta con sincera ammirazione, Holmes si bloccò e senza voltarsi chiese all'altro: “Da cosa lo hai capito?”

“Le pupille dilatate. Fa uso di cocaina” rispose Sherlock calmo: “Ieri pomeriggio, forse in preda a una crisi, ne deve aver assunto una dose maggiore. Forse non gli importava di perdere, si è lasciato andare. Non le capita spesso.”

“Di perdere? No, quasi mai” rispose Holmes prestando attenzione al suo interlocutore; finalmente questi era riuscito a risvegliare la sua curiosità. All'improvviso afferrò un attizzatoio di ferro da un mucchio di aggeggi e scattò in avanti per colpire Sherlock, che però schivò il colpo. Ci furono una serie di scambi strani in cui entrambi cercarono di sfiorare l'altro prendendolo di sorpresa, ma venivano prevenuti dall'avversario sempre un istante prima. Alla fine non si toccavano mai. Dopo qualche minuto, mentre il cane Gladstone fuggiva da quella mischia guaendo, un apprensivo e impotente John vide che Sherlock riusciva a colpire l'altro Holmes con un gomito.

“Lo sai, sei più impulsivo di me” disse Sherlock al suo omonimo: “Ma pensi in modo simile.”

“Impulsivo” ripeté Holmes non perdendosi d'animo; afferrò un lembo di un tappeto vicino a lui e un attaccapanni carico franò addosso a Sherlock, senza ferirlo ma causandogli una perdita di equilibrio. “So improvvisare, vuoi dire. Sei tu che sei troppo statico.”

“Sono analitico, non statico” si difese il permaloso Sherlock, ricomponendosi.

“E allora io sono geniale” fece Holmes facendosi leva con l'attizzatoio per tirare a sé un ombrello dal manico ricurvo. Sostituì l'arma e usò l'ombrello per appendersi a una trave del soffitto e sferrare un calcio a Sherlock, che indietreggiò appena in tempo per non beccarsi il colpo in pieno stomaco.

“Che cosa state facendo? Finitela!” protestò John che avrebbe voluto trovare il modo di dividerli.

“Ragazzino brillante e, nondimeno, insopportabile” scherzò Holmes ignorando il terzo.

“Impostore” lo rimbeccò Sherlock, impassibile. L'altro provò a colpirlo di nuovo ma lui decise di sfruttare quei riflessi rallentati dai postumi della cocaina e lo scartò all'ultimo. Holmes, in maniera poco decorosa, perse stabilità sulle gambe e rovinò a terra su un mucchio di stracci di varia natura. Pochi secondi prima, la porta della stanza si era spalancata e aveva fatto il suo ingresso un uomo a bocca aperta.

“Si può sapere che cosa sta succedendo qui?” esclamò l'ultimo arrivato esasperato, facendosi largo a fatica tra gli oggetti caduti per terra. Era un uomo alto, giovanile, con baffi, cappello e due scandalizzati occhi celesti che veleggiavano per la stanza. Il suo sguardo si posò prima su Holmes, a terra, poi sull'uomo che quest'ultimo aveva tutta l'aria di stare affrontando, l'altissimo giovane dagli occhi di ghiaccio e l'espressione truce. Invece di prestare soccorso al primo, accorse verso l'ospite.

“Lo scusi, signore, a volte Holmes è una persona totalmente inopportuna. Porgo il mio sentito dispiacere a suo nome se vi ha arrecato disturbo” disse l'uomo coi baffi, affannato.

“E' sempre un piacere ricevere una sua visita, Watson” borbottò Holmes tirandosi su in piedi da solo. In disparte, John strabuzzò gli occhi e guardò immediatamente l'uomo che era stato chiamato col suo stesso nome. Non poteva crederci.

Accanto a uno Sherlock Holmes, c'era un altro John Watson, quasi che le due entità fossero indissolubili. Per un breve momento, formulando questo pensiero, John arrossì e abbassò lo sguardo.

Anche Sherlock non riuscì a mascherare uno stupore speculare, sebbene trattenuto. Sbatté più volte le palpebre osservando l'uomo cortese che l'altro Holmes aveva chiamato Watson, ravvisando ancora una volta che non assomigliava proprio per niente al suo omonimo.

Tanto per cominciare, questo Watson sovrastava in altezza il suo Sherlock Holmes di diversi centimetri e al consulente investigativo l'idea appariva quasi blasfema nel proprio pantheon mentale.

“Lei dunque è un medico?” chiese circospetto rivolto all'ultimo arrivato.

Questi si tolse il cappello e rispose in una maniera calorosa e affabile che poco aveva a che spartire con l'incapacità sociale del suo compare: “Dottor John Watson, è un piacere per me, signor... Mi scusi?”

Stavolta decise in modo folle di far cadere ogni filtro, e rispose netto: “Sherlock Holmes, e l'uomo con me si chiama John Watson. Il piacere di conoscervi è tutto nostro.”

Un silenzio pesante calò su tutta la stanza e John pensò che Sherlock fosse seriamente ammattito.

“Noi non siamo di questo mondo” continuò però lui molto serio, mentre gli altri due lo fissavano sbalorditi: “Voi vivete nell'anno 1890, io e quest'altro John veniamo invece dal 2010. Siamo finiti qui a causa di un brutto tiro mancino. Non so perché ma viviamo nella stessa città, nella stessa via, abbiamo gli stessi nomi, facciamo le stesse cose – consulente investigativo e medico legale. Non capisco come, in tutte queste somiglianze incredibili, possiamo essere così dannatamente diversi. L'unica cosa che so è che vorremmo tornare indietro.”

Ora Watson, quello del passato, sembrò riprendere il controllo delle membra e si voltò verso il quarto uomo nella stanza, che ancora non aveva notato. Con una smorfia scettica ma disposto ad ascoltare, fece: “Lei sarebbe...?”

John compì qualche passo in avanti, deciso a farsi credere giacché ormai Sherlock aveva vuotato il sacco. Gentile e cercando aiuto, rispose: “Il mio nome è John Watson e assisto Sherlock nei suoi casi. Questo Sherlock, intendo.”

“Mi state prendendo in giro?” rispose Watson sempre più convinto di essere finito in una gabbia di matti. Alle sue spalle, contento di non essere per una volta il centro del disappunto del collega, Holmes incrociò le braccia e se ne stette ad ascoltare beato.

A quel punto Sherlock, per fornire una dimostrazione pratica, partì in quarta: “Ha una moglie, è sposato da poco, la vostra domestica è poco accurata e pensate di licenziarla, forse l'avete già fatto. In passato è stato in paesi più caldi dell'Inghilterra, conosceva questo Holmes da più di tre anni e una volta vivevate assieme, prima del suo matrimonio. Ogni dettaglio di questa casa dice che ci avete trascorso molto tempo entrambi ma la totale mancanza di indizi che suggeriscano il suo matrimonio fa pensare che il suo Holmes, molto legato a lei, non sia affatto contento del cambiamento” concluse snocciolando tutto in maniera monotona e impassibile. Holmes si era rabbuiato ad ogni parola e aveva cominciato a far finta di non prestare attenzione, andando a cercare il bulldog Gladstone che durante la colluttazione si era nascosto chissà dove. Al contrario Watson rimase immobile, colpito anche lui come il suo doppio prima da un deja vu difficile da reprimere. Solo un'altra persona al mondo aveva fatto quel tipo di equilibrismi con lui. Quest'altro, sedicente Holmes era andato persino troppo a fondo.

“E' un trucco?” chiese Watson alla fine, scioccato.

“Non lo è. Anche noi siamo Holmes e Watson, in modo diverso dal vostro” ribadì Sherlock. La maniera in cui lo disse, quei due nomi che suonavano come una diade indissolubile, fece fremere un'altra volta John.

“Loro non sono né Sherlock Holmes né John Watson” disse però infantile l'altro Holmes, cercando Gladstone sotto un divano: “Crede alle favole, Dottore? Questa sarebbe molto più che omonimia e siamo nell'ambito dell'impossibile. Sono due impostori e nient'altro, li metta alla porta!”

“Le ricordo ancora una volta che non sono il suo maggiordomo!” sottolineò irritato l'altro.

“Quindi lei...” iniziò John titubante, facendosi avanti e bevendosi con gli occhi quella persona che aveva il suo stesso nome: “Lei è sposato?”

L'uomo annuì: “Sì, mia moglie si chiama Mary, siamo sposati da pochi mesi. Fino ad allora, è vero, ho vissuto in questa stessa casa in compagnia... di uno squilibrato” aggiunse fulminando Holmes bonariamente con lo sguardo, che adesso cercava di attirare Gladstone suonando della musica con un flauto. “Uno squilibrato che riteneva, per qualche strana ragione, che io fossi già sposato con lui.”

“Sarei stato un'ottima moglie, se è per questo, Watson” scherzò acido e incurante Holmes, smettendo di suonare ma non desistendo ancora nel suo proposito. Quei battibecchi, notò John, avevano tutto l'aspetto di essere una prassi consueta e sembravano davvero punzecchiature da marito e moglie.

“Già, le ricordo però che a due uomini non è permesso sposarsi” rispose Watson un po' rabbioso, sottolineando l'ultima parte bene sperando che l'interlocutore la comprendesse una volta per tutte: “Io ho la mia vita, adesso, sarebbe bene che lei se ne facesse una sua smettendo di attaccarsi ai miei pantaloni.”

Senza alcuna ragione apparente, Sherlock si intromise impassibile: “Nell'Inghilterra del 2010, la nostra epoca, due uomini se lo desiderano possono sposarsi. Non è così strano.”

Stavolta riuscì ad attirare l'attenzione di entrambi, in particolare dell'altro Holmes che smise quello che stava facendo e si avvicinò a lui, fissandolo eccitato con occhi grandi e scuri e stringendo forte il flauto in mano: “Stai dicendo sul serio? Nel futuro gli uomini potranno sposarsi con altri uomini?”

“Holmes!” lo apostrofò il suo Watson, arrossendo.

Ora improvvisamente Holmes sembrava più bendisposto a credere alla storia assurda dei due visitatori. Li squadrò entrambi con entusiasmo e chiese: “Quindi voi due sareste sposati?”

Interdetti, Sherlock e John si scambiarono un'occhiata interrogativa e poi parlarono in sincrono.

“N-no, non siamo sposati!” disse John.

“Non precisamente, no” disse Sherlock.

Mostrando teatrale delusione, Holmes commentò: “Oh, peccato, Holmes e Watson del futuro. Futuro curioso, il vostro” aggiunse accompagnandosi a tratti col flauto, e scoccando un'occhiata eloquente a Watson: “Di certo non considera così strano quello che lei trova abominevole, eh?”

Con una manata secca il dottor Watson colpì il flauto di Holmes, scagliandolo a terra solo per il gusto di farlo smettere. Poi, tagliandolo fuori, rivolse tutta la sua attenzione ai due ospiti, in particolare a John.

“Così voi... Davvero... Vi chiamate Sherlock Holmes e John Watson, e venite dal futuro?”

In tutta risposta i due mostrarono a Watson i loro documenti d'identità. Questi, anche se non riconosceva quel genere di tessera magnetica, non ebbe alcun dubbio che fossero autentici, e straordinari. Glieli restituì: “Incredibile, siete così diversi da... noi. E... che... che cosa fate?”

“Io sono un consulente investigativo, il mio amico è un dottore. E' stato dottore di guerra, in Afghanistan.”

“Incredibile” commentò Watson pieno di meraviglia.

“Tolto l'impossibile l'ipotesi che rimane, per quanto assurda, deve essere la verità” commentò Holmes con un sorriso obliquo: “Molti luminari hanno teorizzato l'esistenza di mondi paralleli.”

“Visto, che ti dicevo?” fece John a Sherlock, beccandosi un'altra espressione gelida.

“Ora dobbiamo trovare un modo per farvi tornare a casa, però, nel vostro bel mondo dove io e Watson potremmo sposarci tranquillamente e risolvere un mucchio di problemi” rifletté Holmes, cominciando a camminare nervosamente per la stanza.

Il dottore arrossì, sbraitando: “Holmes, la vuole smettere di scherzare?”

“Sono simpatici, non credi?” disse John sottovoce a Sherlock dandogli di gomito, ma poi quando lo vide tanto truce lo osservò stranito: “Sei irritato?”

“Direi. Il mio alter ego di questo mondo è un totale idiota, e nonostante viva nell'Ottocento non deve nemmeno indossare un assurdo cappello da cacciatore per i fan” commentò superbo Sherlock.

“A me sembrate sempre più due gocce d'acqua invece” scherzò John, anche se era come paragonare cielo e terra: “E, come hai potuto vedere, c'è sempre un Watson che vi fa da balia.”

Sdegnoso, Sherlock non gli rispose, meditando tra sé una possibile soluzione al pantano in cui erano finiti. Venire in Baker Street non aveva fornito indizi, solo la possibilità di incontrare i loro doppi. Ovviamente era ciò che Moriarty voleva.

“Devo andare a fare delle ricerche in giro per la città, ma ho bisogno che tu rimanga qui” disse ad un tratto rivolto a John: “Qualcosa troverò.”

“Un caso!” esclamò Holmes che aveva seguito la conversazione privata nonostante i bisticci con Watson. Prese la giacca e se la infilò raggiante: “Finalmente qualcosa da fare!”

Innervosito, Sherlock protestò: “Non ho detto che abbiamo bisogno del tuo aiuto, tantomeno che ti voglio con me.”

“Con quel cervello arido e statico che ti ritrovi non combinerai niente” rispose Holmes competitivo: “Vedremo chi dei due Sherlock Holmes arriverà prima alla soluzione.”

Prese la porta incurante e li lasciò lì tutti e tre, aggiungendo con voce attutita dal muro che ormai li separava: “I due Watson possono rimanere qui, il tè della signora Hudson è pronto!”

Pieno di fastidio, Sherlock roteò gli occhi poi si scrollò di dosso quella preoccupazione. Disse a John: “Va bene, rimani qui. Guarda se noti qualcosa di strano.”

Un po' a disagio, l'amico rispose: “Sicuro che non vuoi che ti segua?”

Sapeva benissimo che, anche se per orgoglio lui non lo ammetteva, la sfida dell'altro Holmes aveva acceso la competitività di Sherlock.

“No, rimani qui con il dottor Watson a parlare delle vostre questioni da medici e deuteragonisti, avrete molto da dirvi” lo schernì Sherlock, ormai con la mente già fuori dalla camera: “Conto di tornare entro tre ore.”

Non attese che John gli rispondesse e lo lasciò lì, a Baker Street, in compagnia del Dottor Watson del 1890.

 

“E' paradossale che non vadano d'accordo, non trova? Due vere primedonne” commentò John tanto per rompere il ghiaccio, provocando la risata del dottore che gli stava servendo il tè.

“Se sono davvero due Sherlock Holmes, non lo trovo affatto paradossale, mi creda” rispose Watson gentile: “Gradisce dello zucchero?”

“No grazie, lo prenda pure lei.”

“Se non lo prende lei io non posso essere da meno” rispose sagacemente Watson, accomodandosi sulla poltrona e intanto sorseggiando il tè. Fissava il suo altro sé con molto interesse e curiosità, tanto che John si sentiva un po' a disagio e si muoveva, a differenza dell'altro, goffamente.

“Così c'è un altro Holmes e un altro Watson” disse quello del passato dopo una lunga pausa: “E vivete in un'epoca completamente diversa dalla nostra. Bizzarro.”

“Già.”

“Qualche novità importante, oltre ai matrimoni tra uomini?”

Credendo che fosse meglio lasciarlo all'oscuro di due guerre mondiali, due bombe atomiche, un olocausto, John si strinse nelle spalle: “Mah, il solito. Macchine, treni, telefoni.”

“E lei lavora con Holmes, pur essendo un medico?” chiese Watson socchiudendo le palpebre.

“Ormai esercito solo per lui” disse John guardando il pavimento. Pensoso, aggiunse: “Credo che incontrarlo mi abbia dato una ragione di vita, ero diventato l'ombra di me stesso.”

Più inquieto, nascondendosi in parte dietro la tazza da tè, Watson commentò: “Non si lasci trascinare, è un consiglio... All'inizio può sembrare fantastico, emozionante, una valida alternativa alla monotonia per chi come noi si era abituato alla guerra. Ma poi... ti soffoca, non ti lascia spazio. Ti trascina con sé.”

“Oh, i-io...” balbettò John confuso, poi si schiarì la voce a disagio: “Lei non... non va d'accordo con Holmes?”

Lo sguardo di Watson si fece opaco e rispose con una smorfia amara: “Non so come si possa andare d'accordo con lui. E' una persona geniale in modo affascinante, ho tenuto dei diari delle sue imprese... delle nostre imprese fin dal principio della nostra conoscenza; sono state pure un successo editoriale.”

“Ha tenuto dei... diari?” sorrise John addolcito dall'evidente parallelismo.

“Già. Però vede, Holmes...” indugiò su quella parola, sempre più cupo: “Lui non è una persona in grado di relazionarsi agli altri in maniera normale. Non ha quasi legami con la sua famiglia, non ha...”

“Amici” concluse la frase John, poi parafrasando quello che gli aveva detto una volta Sherlock commentò scherzosamente: “Però ne ha uno, vero?”

L'altro abbozzò un ulteriore sorriso, ancora più triste: “Vero. Ma l'ha visto con i suoi occhi, Holmes vive fuori dalla realtà... Non conosce i rapporti umani, è come un bambino egoista. Io ho fatto l'errore di diventare un punto fermo nella sua vita ed è un errore che non ti puoi permettere con una persona del genere. Non mi ha mai perdonato di essermene andato, non...” la voce si incrinò e i modi eleganti di Watson divennero d'improvviso nervosi: “Non ha mai voluto mostrare nemmeno un po' di solidarietà per il mio matrimonio. Lui mi vuole tutto per sé perché è convinto di non avere altra persona al mondo, e io...”

“Lei si sente in colpa per questo?” chiese John aiutandolo. Sapeva che Watson non stava per dire questo, però era evidente che fosse così da ogni sua parola.

Questi appoggiò la tazza sul tavolino e intrecciò le dita, limitandosi ad annuire: “Speravo che, col tempo... Tutto sarebbe tornato normale. Non era sano, il rapporto tra noi. Non era giusto che si attaccasse a me come un bambino alle gonne della madre. Mi... mi metteva a disagio, non aveva senso, eppure io...” esitò, sofferente: “Io non mi perdono di averlo lasciato, di essere stato intenzionalmente crudele con lui...”

Un vibrante silenzio colse i due Watson. John, comprensivo e malinconico, rimase in silenzio.

“Beh” disse infine, tanto per togliere Watson dall'impaccio: “Comunque non credo che io corra un rischio del genere. Lo Sherlock che conosco io vive benissimo per se stesso, non credo che cambierebbe molto nella sua vita se io, un giorno, mi sposassi o mi trasferissi...”

“Buon per lei” affermò Watson gentile: “Almeno non avete il nostro stesso rapporto malato.”

Il dottore si alzò dalla poltrona, mettendo in ordine il tavolino; erano nel suo vecchio studio, ormai preso d'assalto dal disordine di Holmes. Per educazione, John volle aiutarlo. Si sentiva un po' a disagio accanto a quell'altro Watson tanto più aitante di lui, non aveva minimamente l'aria di un dottore, e il disagio era solo che aumentato dall'accorgersi che questi dimostrava un'accesa simpatia nei suoi confronti.

Mentre sbaraccavano il tavolo, Watson gli chiese ancora, guardandolo da troppo vicino e con quell'azzurro sguardo limpido e sorridente che aveva: “Sul serio nel vostro secolo due maschi possono sposarsi? O stavate solo prendendoci in giro?”

Il cuore di John cominciò ad accelerare stupidamente e si accorse di essere arrossito.

 Grandioso John, ti ci manca giusto il prenderti una sbandata per l'altro John Watson e poi siamo davvero alla frutta. Certo avrebbe potuto evitare di essere così bello, affabile e affascinante. In confronto a lui il John del 2000 si sentiva un bambolotto di pezza cucito malamente.

“Beh, sì, in Inghilterra e in molti altri paesi sì” disse in fretta, facendo cadere per disattenzione un po' d'acqua dalla teiera con scarsa manualità.

Watson aggrottò la fronte incredulo: “Mi scusi, ma... non ne capisco il senso. Due uomini non possono avere figli o famiglia, dunque a cosa serve che si sposino?”

“Oh, beh, in alcuni paesi possono allevare figli insieme e adottarne, ma...” rispose John in fretta raddrizzando la schiena e asciugandosi frettolosamente le mani sul maglione di lana: “Credo che soprattutto il matrimonio nel nostro secolo si faccia per espressione d'amore, ormai, più che per ogni altra ragione pratica. Per celebrare la vita in comune di due persone che si scelgono.”

“Oh...” fece Watson perdendo il sorriso, le pupille che si contraevano visibilmente. A disagio, commentò quasi tra sé amaro: “Allora forse ero proprio io lo stupido... Beh, non si può più tornare indietro ormai...”

Fece per portare il vassoio dalla signora Hudson. “Aspetti, faccio io!” si affrettò a dire John.

“Non sia ridicolo” scherzò Watson scoccandogli un'occhiata cameratesca, senza lasciargli margine d'azione. Aveva dei modi fin troppo squisiti, John si sentì di nuovo piccolo piccolo e pure totalmente succube della sua eleganza innata. 

Non avrebbe voluto dire più nulla, ma la tristezza che aveva aggredito Watson da parecchi minuti era ancora percepibile, ingombrava la stanza; fu per questo che poco prima che l'altro attraversasse la soglia in un ultimo slancio gli chiese: “Lei è... felice, ora? Con sua moglie, la sua vita, oppure era più felice prima quando viveva qui?”

Watson si bloccò, ma non si voltò per rispondere. La sua espressione si era appesantita di almeno dieci anni e non voleva che John se ne accorgesse. Quasi in un sussurro, replicò: “Se rispondessi a questa domanda farei male a troppe persone. Preferisco continuare sulla strada che ho scelto di intraprendere. Non posso cambiare le cose.”

John rimase solo nella stanza, pensando all'altro Holmes. Avvertì un nodo di compassione nel riconsiderare quella personalità problematica e difficile non per sua colpa, e a come dovesse interiormente soffrire la separazione dall'unica persona a cui era riuscita a legarsi. John aveva avuto a che fare nella sua carriera con individui affetti da sociopatia, autismo e sindrome di Asperger, uno su tutti lo Sherlock che conosceva. Pensò che se avesse mai visto il suo amico arrivare a tenere profondamente a qualcosa o qualcuno avrebbe fatto di tutto perché quest'unica sicurezza non gli venisse portata via. Anche se si fosse trattato di un capriccio infantile, una persona straordinaria come Sherlock meritava questo ed altro. Perciò John arrivava a provare tenerezza per Holmes e Watson, in quali sembravano rincorrersi all'infinito in cerchio senza mai arrivare a stare fermi, insieme, in un unico punto.

 

“Si può sapere come pensi di condurre le indagini, se non hai elementi?” sbottò Sherlock con l'altro Holmes, non potendosi impedire di tenergli dietro. Non riusciva in alcun modo a sopportare che un individuo così gretto competesse con lui nella fama e nel nome.

“Voi due intrusi siete una stranezza: cerchiamo altre stranezze” rispose questi, fermandosi a uno svincolo per decidere dove andare. “Elementare, Holmes-statico.”

“...posso dire con ragionevole margine di esattezza di odiarti con tutte le mie forze” gli rispose asciutto Sherlock.

“L'odio è un sentimento del tutto sopravvalutato” ribatté Holmes che a differenza di Sherlock pareva amare ogni genere di botta e risposta. “Ora, riflettiamo su ciò che possediamo: voi avete viaggiato nel tempo, o in alternativa come è più plausibile qualcuno di noi ha battuto la testa. Conosci un posto dove ci si occupa del tempo e si può battere la testa?” chiese voltandosi verso di lui con aria affettata.

“Non stai prendendo questa cosa sul serio, vero?” commentò Sherlock guardandolo in cagnesco e con le mani in tasca.

“Certo, non potrei fare altro che burlarmi di voi. Ci sono!” esclamò, continuando con la recita improvvisata: “Che ne dite del Big Ben? E' sempre la risposta per tutto. Lì ci si occupa del tempo e beh, certo, se si cade si può prendere pure una bella botta in testa. Giusto stamattina un uomo si è lanciato dalla sommità dell'orologio per testare un nuovo deltaplano e si è spiaccicato a terra. Stanno ancora raccogliendo le frattaglie, brutta storia. Ed è anche una cosa bizzarra, non trova?”

“Il Big Ben...” ripeté Sherlock soprappensiero; si voltò, poiché da quell'angolazione della città la torre era visibile: “Vi devo una caduta...”

Cercò nelle tasche il cellulare e scrisse veloce un messaggio a John. Poi, dopo una lunga pausa, esclamò stizzito: “Ah, che secolo senza senso! Non c'è campo, accidenti!!”

“Cos'è quell'oggetto?” domandò Holmes febbrile guardando il trabiccolo che Sherlock teneva tra le mani con la bramosia con cui un bambino osserva i pacchetti sotto l'albero di Natale. Riuscì a prenderglielo senza sforzo perché, trovandolo al momento un oggetto inutile, Sherlock glielo cedette sprezzante mentre cercava un'altra veloce soluzione per convocare John. Niente da fare, doveva per forza tornare lui a Baker Street.

“Come funziona? Oh, è una tecnologia incredibile!” commentò Holmes rigirandosi il cellulare tra le mani senza capirne la funzione, ma vedendo quanto il dispositivo fosse diverso da tutto ciò che conosceva. Poi esclamò quasi spaventato: “Oh, si è mosso, si è illuminato e sono apparse delle parole sul vetro! Buon tuffo, dice...”

“Cosa?” gridò ansioso Sherlock, strappandogli di nuovo il telefono dalle mani. Era vero: anche in assenza di campo, aveva ricevuto un messaggio senza numero. Moriarty.

“Il vostro professore vuole attirare l'attenzione, a quanto mi sembra” commentò Holmes con semplice divertimento.

“Devo tornare da John” disse Sherlock in fretta: “Dobbiamo essere insieme se vogliamo andare via.”


 

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