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Autore: Angy_Valentine    08/03/2012    8 recensioni
«Ah, a proposito, io mi chiamo Lavi Bookman. Piacere di conoscerti!».
Non sembrava esserci modo di metter freno alla sua lingua, decisamente. Accennando un sorriso, allungò la mano verso quella che il giovane le stava tendendo, stringendola e lasciandosi avvolgere il palmo dalle sue dita.
«Rukia Kuchiki. Il piacere è tutto mio.».
[...]
Cominciava a covare il dubbio che i problemi di Lavi fossero, probabilmente, più grandi di quel che temeva. In cuor suo sperava davvero che il ragazzo non si offendesse per i suoi tentativi di aiutarlo. Perché dietro a quelle negazioni, quel nervoso, quegli sguardi frustrati e stizziti, sembrava scorgere solo una muta e disperata richiesta d’aiuto.

**
[Crossover Bleach/D.Gray-man][Crosspairing][LaviRuki][Byakuya x Hisana][Het][!Linguaggio][Angst]
[Sospesa in via definitiva]
Genere: Angst, Drammatico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Byakuya Kuchiki, Hichigo, Hisana Kuchiki, Kuchiki Rukia
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: Incompiuta, Tematiche delicate
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Prima di cominciare la storia, vorrei fare una piccola premessa "esplicativa". In questa AU gli "evil sides" dei protagonisti hanno un corpo proprio, nel senso che non coesistono all'interno del personaggio, ma sono persone a sé stanti. Per fare un esempio, Ichigo e Hollow Ichigo sono due persone differenti, non un'unica cosa, così come Deak e Lavi... giusto per evitare che qualcuno faccia confusione, ecco xD Non mordo se lasciate qualche commento, eh xD Anzi, mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate. Detto questo, vi lascio alla storia =v=


Capitolo 1 - Troublesome Morning


Era in ritardo. Era in ritardo, spaventosamente in ritardo, in ritardissimo. Correva più veloce che poteva, cercando di guadagnare quei minuti persi per colpa dell’autobus che era arrivato con più di mezz’ora di ritardo. La borsa nera che teneva a tracolla, piena di libri, le sbatacchiava violentemente contro il fianco a ritmo con la sua corsa, il fiato le si condensava davanti al viso nonostante il filtro della pesante sciarpa che la copriva fino al naso. Gli occhi lavanda le lacrimavano per il freddo, le gambe le facevano malissimo, l’angolo del libro di neuroscienze le stava ammaccando l’anca, ma poco importava: non poteva permettersi di arrivare in ritardo a lezione, a costo di travolgere innocenti vecchiette che passeggiavano avvolte in pesanti pellicce e passanti che si erano fermati a chiacchierare in mezzo al suo percorso, costringendola a snocciolare “scusate” e “permesso” come pioggia in aprile.
Il ghiaccio per terra di certo non aiutava: era stata costretta a rallentare più volte per evitare di finire col sedere all’aria, cosa che la portava a perdere ulteriormente tempo prezioso. Il cielo era grigio e minacciava altra neve in giornata, come del resto accadeva da una settimana a quella parte. Non fosse stato che non voleva prendersi indietro con le prove di metà trimestre, se ne sarebbe stata volentieri a casa al calduccio, sotto le coperte. Ma dato che per le vacanze aveva ben altri progetti, che stare a ripassare su quei tomi enormi in vista degli esami, si rassegnava ogni mattina ad uscire dall’appartamento che condivideva con la sorella gemella ed un fratello più grande. Ed infatti eccola lì, ad inveire contro il freddo e l’inverno, in quella sua disperata corsa contro il tempo.
Di quando in quando controllava l’ora, sollevando la manica del giubbotto a fatica per colpa del guanto e, soffocando un ringhio frustrato e qualche imprecazione, cercava di andare più veloce. Esultò tra sé quando vide la struttura bianca che costituiva la facoltà, quegli altissimi cinque piani puntellati dalle tapparelle nere delle finestre, ed esultò maggiormente nel notare che, per fortuna, non era poi così in ritardo. Nel cortile c’erano poche anime in tutto, chi fumava gli ultimi aliti di nicotina prima delle ore di lezione, chi invece finiva di trascrivere appunti al portatile.
Rallentò per riprendere fiato, ma la sua epopea non era di certo finita: aveva lezione al quarto piano, e le alternative che le si presentavano davanti non erano molte. O saliva a rotta di collo le scale, arrivando definitivamente senza fiato in classe, oppure prendeva l’ascensore che, però, le avrebbe portato via minuti preziosi per quanto era lento. Ormai che c’era, decise di farsi le quattro rampe di scale con quel poco tempo e fiato che le restavano, così si sistemò meglio la borsa sulla spalla e si avviò verso l’ingresso. Schivò studenti ed insegnanti, elargendo altre scuse mentre tentava di stare in equilibrio e non perdersi la borsa per strada quando, poco prima di svoltare l’angolo, finì addosso a qualcuno, rovinando a terra con un tonfo.
«Ahi… scusa, non t’avevo visto.»  disse, mettendosi in ginocchio per raccogliere i libri e quaderni che, uscendo dalla borsa, si erano sparpagliati sul pavimento.
«Senti, scusa… sapresti dirmi dove posso trovare…».
Non lo lasciò finire, abbracciando la cartella e tirandosi su, stroncando sul nascere ogni tentativo del giovane di chiederle qualcosa.
«Scusami, ma sono in ritardassimo e se non mi sbrigo mi chiudono fuori! Scusami ancora!» fuggì su per le scale senza voltarsi indietro, il rumore dei suoi passi sui gradini di marmo coprì quel “Ehi” stupito del ragazzo contro cui si era schiantata.
Non l’aveva nemmeno guardato in faccia, presa com’era dalla frenesia di arrivare in classe. Altrimenti, se si fosse soffermata solo un istante, si sarebbe accorta che l’agenda che il ragazzo stringeva in mano era proprio la sua.

«Ohilà, Darkie, alla buonora!».
«Zitto, sai. Oggi ho fatto i salti mortali per arrivare puntuale.».
Il giovane albino che l’aveva salutata scoppiò in una fragorosa risata, di fronte alla sua aria scocciata e alla voce ringhiante con cui gli aveva risposto. Levò la giacca e la borsa che aveva appoggiato sulla sedia per tenerle il posto e le gettò con noncuranza sul posto accanto, stravaccandosi ed incrociando le braccia dietro la testa.
«Oggi hai meno voglia del solito, eh, Hichi.».
«Ogni tanto capita anche ai migliori, lo sai.».
Era un tipo fatto un po’ a modo suo, Hichigo Shirosaki, il cui vero cognome sarebbe stato “Kurosaki”. Ma proprio per celebrare il proprio candore aveva preteso quella piccola modifica, e così si faceva chiamare anche dai professori. Al di là dell’aspetto veramente particolare – l’incarnato cadaverico e i capelli bianchissimi gli attiravano sguardi come calamite –, nessuno l’avrebbe mai definito tipo da tenere la testa china sui libri per studiare. Infatti Hichigo era tutto fuorché voglioso d’imparare e laurearsi. Cosa ci facesse in una facoltà come quella restava ancora un mistero senza risposta ma, nonostante la palese inclinazione alla nullafacenza cronica, c’era da dire che riusciva a portarsi a casa dei voti veramente notevoli. Almeno, le tante, troppe volte in cui la scongiurava di fargli copiare le risposte durante i test. Infatti era rarissimo vederlo con il naso in mezzo alle pagine di un libro, il più delle volte lo si poteva trovare ad attaccar briga con quelli più vecchi, scaramucce che talvolta sfociavano in vere e proprie risse da manuale. La maggior parte degli studenti lo evitava come la peste, tutti convinti che fosse una sorta di psicopatico erroneamente lasciato in libertà non vigilata o fuggito da qualche riformatorio.
Che effettivamente avesse un carattere parecchio turbolento era innegabile, però aveva anche quello che amava definire “il suo codice d’onore”. Portava rispetto a chi lo rispettava a propria volta, e il tradimento non rientrava affatto nelle sue inclinazioni morali. Fissato com’era alla morale, lui per primo non perdonava i tradimenti.
L’aveva incontrato poco prima dell’esame di ammissione, e il loro primo approccio non era stato esattamente dei migliori: Hichigo l’aveva derisa per il suo essere così minuta e dall’aspetto adolescenziale, esordendo con un “Ehi, mocciosa, guarda che le medie stanno da un’altra parte!” e lei sarebbe pure potuta passar sopra le sue frecciatine, non fosse stato che poi se lo sarebbe ritrovato accanto anche durante il test. Sperava la smettesse almeno lì di punzecchiarla, e invece no. Se possibile le battutine erano aumentate, finché non l’aveva visto posare la penna concludendo il compito con mezz’ora d’anticipo rispetto alla scadenza, lasciandola a bocca aperta. Erano andati avanti per metà anno a suon di battutine e risposte velenose, rendendosi conto solo in seguito di esser diventati ormai inseparabili.
«Il professor Wenhamm non è ancora arrivato?» chiese, sedendosi accanto all’albino e sospirando per riprendere fiato. Tirò fuori dalla borsa il volume di biologia e il quaderno degli appunti, relegandoli in un angolo del banco.
«Chi, il biondo? Ovvio che no.» rispose lui, sbadigliando con aria svogliata «Con ‘sto tempo del cazzo arriverà in ritardissimo, vedrai. Giusto in tempo per il cambio dell’or-…».
«Scusate il ritardo, ragazzi!» lo interruppe il docente, facendo morire ogni sua speranza di un’ora buca.
«Poteva far con comodo, prof. Sia mai che per la fretta di arrivare a far lezione si schianti da qualche parte!».
«Non menar sfortuna, Shirosaki.» replicò l’altro, con un sorriso ed una sana dose di ironia «Son prudente proprio perché non voglio farti sentire in colpa in caso mi succedesse qualcosa. Ma sai che ci tengo a vederti negli orari di lezione, sennò da questa facoltà non ci uscirai mai senza la laurea in mano.».
«Ehi! Non mi dia del nullafacente, prof! Potrei offendermi, sa?».
«Indubbiamente ognuno ha i suoi tempi, non posso darti torto. E so che talvolta la verità ferisce, Shirosaki, ma è anche bene affrontarla. Soprattutto in vista della prova della settimana prossima.».
Nella classe si levò un soffuso vociare di protesta, condito da una sonora imprecazione da parte di Hichigo, che si beccò una gomitata nelle costole.
«Che cazzo mi picchi, Darkie! Vuole far compito la settimana prossima!».
«Hai sette giorni di tempo, dai… meno scazzottate e più libri per un po’ di giorni.» lo liquidò facendo spallucce, chinandosi per prendere la cartella ed ignorando il fiume di improperi che uscivano dalla bocca del suo amico.
Ci frugò dentro per una manciata di minuti, ficcandoci dentro entrambe le mani per spostare libri e quaderni ma niente, l’agenda non si trovava proprio. Sparita. Persa. Introvabile.
«Che cavolo! Lì dentro mi sono appuntata tutto!» sbottò, ributtando nella borsa tutto il materiale che aveva tirato fuori per quell’inutile ricerca.
Hichigo si guardò bene dal commentare, sapeva che la gomitata gli sarebbe arrivata sui denti se non avesse misurato le parole – anzi, se non avesse tenuto la lingua tra i denti.
«Dai, era solo un’agenda…» si lasciò sfuggire.
«Non era solo un’agenda! Lì dentro mi ero appuntata tutte le date delle prove e gli orari dei corsi extracurriculari!» lo fulminò con lo sguardo, riprendendo la borsa e cercando nuovamente, in caso fosse rispuntata per miracolo.
Ma niente, quella piccola agenda dalla copertina beige e il bordo nero, contenente il suo piccolo tesoro di date e orari, si era volatilizzato nel nulla. Puff, dissoltasi nell’aria come un fantasma.
Afferrò con rabbia la penna per segnarsi la data dell’esame sul quaderno, ignorando Hichigo che, sotto sotto, se la rideva a vederla così disperata per uno stupido quadernino. Per quel che lo riguardava, era già tanto sprecare i soldi per farsi le fotocopie dei suoi appunti, figurarsi spenderne altri per appuntarsi quei diabolici appuntamenti con il 18 risicato.

«Andiamo, ma sei sicura di non averla lasciata a casa?».
«Ti dico di no, Hichi! Al di là che preparo la borsa la sera prima, ma è sempre l’ultima cosa che metto in cartella! Non posso averla dimenticata!».
Seguirono il fiume di gente che usciva dalla classe, sviando appena possibile per avviarsi verso i portoni delle scale. Iniziarono a scendere diretti al piano inferiore, evitando studenti e professori che erano diretti nella direzione opposta, con Hichigo che le faceva da guida per non farla schiantare contro qualcun altro, vista l’aria meditabonda che aveva in volto. Aveva rischiato di inciampare per non aver visto l’ultimo gradino, non fosse stato per lui che l’aveva presa al volo prima che si spalmasse a terra come un tappeto.
«Sta’ a vedere che meni tutte ‘ste storie e poi l’hai lasciata a casa sul serio. E se è così mi paghi pure da bere, porca miseria, ormai mi hai sfracellato le palle con ‘sta cazzo di agenda!».
«Hichigo Shirosaki, piantala subito o le palle te le sfracello anche fisicamente! E sta’ sicuro che per il prossimo test t’arrangi!».
«Cosa?! Che è ‘sto vile ricatto?! È da quando sei arrivata che non fai che parlare di quel maledetto quadernetto!» il ragazzo buttò con malagrazia la cartella su uno dei banchi, facendo sobbalzare praticamente tutta la fila «Magari si è stufato pure lui di farsi bistrattare a suon di date e orari, ha fatto le gambe e se l’è filata dalla tua borsa.».
«Ma piantala di dire cretinat…che hai detto, scusa?».
«Ah?» Hichigo si voltò a guardarla quasi preoccupato, mentre appendeva la giacca ad un appendiabiti «Ho detto che forse hai rotto le balle pure all’agenda e per fuggirti ti è scappata dalla borsa.».
«La borsa, ma certo!» lo afferrò per la maglia con entrambi i pugni, nonostante la considerevole differenza di stazza che li divideva «Hichi, sei un genio!».
«Non dirmi che te ne sei accorta solo adesso, eh.» sbuffò lui, facendo spallucce e sedendosi al posto su cui aveva buttato la borsa «È da due anni che tento di fartelo capire.».
«No, no, le scale!» lo interruppe nuovamente, concitata «Prima di arrivare in classe mi sono scontrata con un tipo, e i libri e quaderni mi sono usciti! È stato allora che l’ho persa, ne son sicura!».
Hichigo si poggiò allo schienale della sedia, scrutandola con aria scettica.
«E chi era quel tizio? Se sai chi è, non dovresti metterci tanto a ritrovarlo, no? Magari l’ha presa e te la vuole restituire.».
«Hai ragione, sì… non fosse che non ho la minima idea di chi fosse quel ragazzo.» sbottò lei tra i denti, sedendosi accanto a lui e tirandosi in grembo la borsa «Avevo troppa fretta di arrivare per fermarmi a guardarlo e non mi ero accorta di aver dimenticato l’agenda.».
L’albino si astenne dal darle dell’idiota, anche se ne avrebbe avuto tutte le ragioni. Se l’era cercata, alla fine, lei e la sua fissa di non poter – dover – arrivare in ritardo a lezione. Da un lato ammirava il suo essere così diligente, così organizzata e comunque sempre disposta ad aiutarlo – nonostante l’avesse minacciato più volte di negargli le ore di ripetizioni e le fotocopie degli appunti. Dall’altra, però, trovava i suoi sforzi assurdi: non perché fosse stupida, ma perché si privava di ore che poteva passare a divertirsi, piuttosto che starsene tappata in camera a consumarsi gli occhi sui libri. D’accordo che proveniva da una famiglia di legali di tradizione e che per questo si sentisse in dovere di non deludere i suoi parenti, però talvolta esagerava davvero, almeno secondo i suoi parametri.
Già se la vedeva a correr fuori dalla classe per cercare il tuo piccolo tesoro di carta e inchiostro, ma l’arrivo del docente la obbligò a mettersi seduta a seguire. Avrebbe dovuto rimandare ancora, dal momento che quel giorno avrebbero iniziato i ripassi prima dell’esame di metà trimestre. Chiunque guardandola avrebbe potuto dire che era tranquilla, ma ormai Hichigo la conosceva troppo bene per non notare il nervoso tamburellare del piede sul pavimento e le occhiate che di quando in quando lanciava all’orologio sopra la cattedra. Quando finalmente arrivò il cambio dell’ora Darukia scattò in piedi come una molla, gettando tutto in borsa con una velocità che aveva dell’incredibile, e si voltò verso il ragazzo come a volergli dire qualcosa.
«Sì, sì, la giacca e la borsa te le prendo io, e ti tengo pure il posto per psicologia dinamica.» la placcò lui, agitando la mano come se stesse scacciando un’idea stupida «Su, muovi il culo e sparisci, nanerottola.».
«Ti sei riguadagnato metà delle risposte per il prossimo test, Hichi, grazie!» rispose lei, facendosi strada tra la gente e scappando fuori.
«E che sia la volta buona…» sbottò l’albino, prendendo sottobraccio entrambi i giacconi e caricandosi in spalla le cartelle, dirigendosi svogliatamente verso la classe accanto.

**

And I still wonder
Why our heaven has died
The skies are all falling
I’m breathing but why?
In silence I hold on
To you and I…


«Mmmh…».
Una mano esile spuntò da sotto il pesante piumone appallottolato, cercando a tentoni il cellulare che vibrava senza sosta sul comodino. Ed intanto la morbida melodia al pianoforte s’era fatta più viva, quando finalmente riuscì a trovarlo e zittirlo. Dalle coperte emerse una scompigliata testa mora, seguita poi da tutto il resto del corpo che, tra uno sbadiglio ed una grattata alla nuca, si stiracchiò pigramente. Facendosi luce con il cellulare cercò l’interruttore dell’abat-jour e l’accese, illuminando la stanza con quella tenue luce, prima di cercare le pantofole a terra. Arraffando una giacca da indossare sopra il pigiama Rukia si diresse alla finestra, scostando la pesante tenda ed alzando la persiana: il paesaggio che le si presentò non era certo un trionfo di natura incontaminata, ma la vista del parco cittadino era sicuramente meglio della zona industriale. Spalancò le ante, lasciando che la fredda aria invernale circolasse liberamente per la stanza, prima di voltarsi e uscire per andare a mangiare.
Attraversò silenziosa il corridoio, usando particolare riguardo quando passò davanti alla camera di suo fratello: Byakuya aveva lavorato fino a tardi ad un caso piuttosto importante, e di certo lei non voleva disturbarlo o svegliarlo. L’aroma dei frutti di bosco l’accolse quando entrò in cucina, fragranza che si levava leggera ed invitante dalla teiera sul tavolo, accanto al pacco di biscotti chiuso alla bell’e meglio e alla sua tazza. Darukia doveva essere uscita da un pezzo, a giudicare dall’ora e dal tempo che imperversava fuori: conoscendo la gemella, sapeva benissimo che non si sarebbe mai e poi mai permessa di arrivare in ritardo, e se per qualche disgraziata coincidenza avesse perso minuti preziosi a causa di terzi, avrebbe rivoltato l’intera città pur di non far tardi a lezione.
Non che lei fosse tanto diversa, però: aveva lezione entro un paio d’ore, ma voleva prendersi il tempo giusto per prepararsi con calma e fare colazione decentemente. Non accese nemmeno la televisione, tanto a quell’ora non davano nulla d’interessante, a parte programmi di varietà dai contenuti rivolti più a casalinghe annoiate che a giovani universitarie. Lasciò la tazza lavata a sgocciolare nel lavello, tornando quindi in camera per prendere i vestiti e rinchiudersi in bagno per lavarsi. Non era mai stata il tipo fissato col trucco, che si sentiva moralmente obbligata a ricoprirsi di fondotinta, cipria e ombretti prima di uscire di casa, e così era pure sua sorella. Nel ripiano a loro dedicato c’era giusto l’essenziale per poter essere in ordine e nascondere i segni delle nottate passate in bianco a studiare, ma nulla più. Il trucco sui loro volti c’era, ma era quasi invisibile. Sorrise al proprio riflesso, prima di darsi un’ultima spazzolata ai capelli e uscire per prendere la borsa in camera, chiudendosi la porta d’ingresso alle spalle e correndo giù per la gradinata coperta del giardino.

 
Non si aspettava certo che l’autobus fosse così pieno. Almeno, di solito a quell’ora c’era sì gente, ma in qualche modo riusciva sempre a trovare un posticino in cui infilarsi per poter fare il tragitto in tranquillità. E invece no. Quel giorno dovevano essersi tutti coalizzati per prendere proprio quell’autobus. Aspettò che qualche pia anima scendesse, per poi aggrapparsi al corrimano e poggiare un piede all’interno del mezzo, cercando un posto abbastanza grande su cui fermarsi, quando una voce palesemente disperata le giunse alle orecchie, facendo voltare anche altri oltre a lei. Un ragazzo correva in direzione dell’autobus, avvolto fino al mento dalla sciarpa, e con ciuffi di capelli rossi che spuntavano da sotto il berretto nero che si era ben calcato in testa e che in quel momento gli ballavano allegramente davanti agli occhi. Teneva la cinghia di una borsa portata a tracolla e rischiava di inciampare da un momento all’altro nella stringa della scarpa che si era slacciata.
«Eeeeeeeeeeeehi! Non chiuda, per favore!» si sbracciò per farsi vedere dall’autista, come se non si fosse già fatto notare a sufficienza «Aspetti solo un minuto!».
Dal suo posto, Rukia notò uno sbuffo a metà tra l’esausto e il divertito del conducente, che però lasciò le porte aperte per permettere a quel giovane ormai sfiatato di salire. Questi quasi si lanciò all’interno del mezzo, aggrappandosi ad uno dei pali più vicini e premendosi una mano all’altezza del cuore, una volta assicuratosi di essere riuscito a non perdere la corsa.
«Grazie mille, sa! Mi ha veramente salvato la mattinata!» esclamò con un sorriso.
«Hai rischiato l’osso del collo, giovanotto, riallacciati la scarpa.» gli fece notare un’anziana, da uno dei posti a sedere, indicandogli la stringa sciolta.
«Uh? Ah, grazie davvero, signora.».
Constatando che era impossibile piegarsi, cercò di tenersi in equilibrio su una sola gamba, mentre procedeva a riannodare il laccio. Non aveva calcolato le svolte del mezzo e la brusca frenata ad un semaforo rosso, che sballottò i passeggeri in piedi verso il muso dell’autobus. Rukia se lo vide praticamente arrivare addosso e, alto com’era rispetto a lei, rischiò seriamente di farsi travolgere. Fortuna volle che il giovane fosse anche piuttosto svelto di riflessi, bloccandosi pochi istanti prima di farla finire a terra.
«Scusami, scusami!» disse, inarcandosi quel tanto che riusciva per non finirle contro «Non pensavo ci fosse così tanto caos a quest’ora, ed oggi è la prima volta che prendo un autobus di qui. Ti sei fatta male?».
«N… no, tutto bene, grazie. Non c’è bisogno di scusarsi.». Rukia si portò nervosamente un ciuffo di capelli dietro l’orecchio, stringendo al petto la cartella e poggiandosi con la schiena al vetro del finestrino.
«Senti, scusa la domanda, ma alle medie le lezioni non sono già cominciate? Non dirmi che stai bigiando, alla tua età!».
Se avesse potuto, Rukia lo avrebbe fatto nero. Ma che faccia tosta! Solo perché era minuta, non significava che fosse per forza una mocciosa delle medie! Ma che poi, chi caspita era quel rosso dalla parlantina sfrenata? Non ricordava di averlo mai visto da quelle parti, nemmeno in passato. Aveva detto che era la prima volta che prendeva l’autobus in città, probabilmente si era appena trasferito. Bel modo di accattivarsi la sua simpatia, davvero!
«Non sto bigiando.» replicò a denti stretti, fulminandolo con lo sguardo «E per tua informazione non sono nemmeno alle medie, frequento il secondo anno di università!».
Resosi conto della gaffe madornale appena commessa, il ragazzo arrossì al punto di far concorrenza ai capelli che spuntavano da sotto il berretto. Si grattò nervosamente la nuca, accennando un sorriso dispiaciuto.
«Sul serio? Scusami, dico davvero. È che… sì, insomma, sei così piccina che… sembri una ragazzina delle medie, ecco.».
Un verso stizzito di Rukia fu tutto ciò che ricevette in risposta, mentre la giovane tirava fuori il libro di letteratura per ripassare.

«Sì può sapere perché mi stai seguendo?» sbottò ad un tratto, voltandosi.
Da quando era scesa dalla fermata dell’autobus, quel ragazzo non aveva smesso un istante di seguirla. La teneva un po’ a distanza, imbarazzato per la figuraccia di poco prima, ma le andava dietro passo passo.
«Senti, mi dispiace per prima, non volevo offenderti! Però, come dire… sai mica dove posso trovare la facoltà di Lettere? Mi sono trasferito qui solo pochi giorni fa e non conosco ancora bene la città, prima ho notato il libro che leggevi, e così…».
«Ah. A che anno sei?» chiese, fermandosi per aspettarlo.
«Al secondo, anche se penso che dovrò ridare qualche esame del primo anno che alla vecchia facoltà non ero riuscito a registrare. La segreteria ha fatto qualche pasticcio coi miei voti durante il trasferimento, purtroppo.» le si accostò, sorridendole. Solo allora Rukia notò la benda che gli copriva l’occhio destro. In mezzo alla calca nell’autobus non ci aveva nemmeno fatto caso. Ed ora che lo guardava bene, era veramente un gigante in confronto a lei… «Ah, a proposito, io mi chiamo Lavi Bookman. Piacere di conoscerti!».
Non sembrava esserci modo di metter freno alla sua lingua, decisamente. Accennando un sorriso, allungò la mano verso quella che il giovane le stava tendendo, stringendola e lasciandosi avvolgere il palmo dalle sue dita.
«Rukia Kuchiki. Il piacere è tutto mio.».

   
 
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