Anime & Manga > D.Gray Man
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Autore: Kanda_90    09/03/2012    5 recensioni
Il mondo di D.Gray-man...la sua storia...i suoi personaggi...
Ma come si sarebbero svolti gli avvenimenti, come sarebbero cambiati gli equilibri tra i membri dell'Ordine, se fin dall'inizio ci fosse stata un'esorcista in più?
Tutto ha inizio in una calda e limpida mattina, alla alba. Una ragazza e il suo cavallo nero si concedono una lunga cavalcata...
Sostano sulle rive di un piccolo specchio d'acqua....
Lei non ricorda il suo passato...non pensa al suo futuro...ma sta per fare un incontro che le cambierà drasticamente la vita.
Genere: Avventura, Fantasy, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti, Yu Kanda
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ho già più o meno detto tutto nell'introduzione.
Questa è la prima storia che scrivo riguarda a D.Gray-man, quindi spero che vi piaccia.
Scriverò in prima persona, un sistema che secondo me permette di entrare dentro la mente del personaggio e immedesimarsi il più possibile nei suoi sentimenti ed emozioni. Di volta in volta troverete scritto chi è, tra i due personaggi principali, quello che sta agendo.
Non aggiungo altro, se no vi addormentata ancora prima di cominciare.
Buona lettura!!!!!

Second Life

Hikari

1st Night: Sogni

Piccole bolle galleggiano verso l’alto, in lievi e tremule volute...si rompono al contatto con la superficie...
Ma di cosa?
Le guado, rapita, ma mi manca l’aria, non riesco a respirare, i polmoni bruciano...l’istinto mi porta verso l’alto...verso la luce...
Da dove viene?
Sono fuori...sento un vento gelido sferzarmi il corpo...tremo...
Tutto ciò che vedo è rosso...i miei occhi non possono catturare altro colore...riempie tutta la mia visuale...
Cos’è?
Muovo passi incerti, verso l’aria gelida, sperando...
In cosa?
Intorno a me muri....altissimi...
Dove mi trovo?
Continuo a camminare.
Seguendo il vento arrivo ad un uscita...una luce fortissima mi investe...tutto sopra di me è azzurro...

Spalancai gli occhi, svegliandomi di soprassalto.
Ancora quel sogno.
Era passato così tanto tempo dall’ultima volta che mi aveva tormentato, che ormai pensavo di essermene liberata.
Evidentemente sbagliavo.
Dalla finestra filtravano i primi bagliori rosati dell’alba, tutto era immerso nel silenzio irreale che precede il risveglio della natura.
Tanto valeva che mi alzassi. In ogni caso mio padre sarebbe venuto a chiamarmi un’ora dopo. Decisi di approfittarne per fare un giro con Seishin.
Presi dalla sedia i vestiti che avevo preparato la sera prima mi vestii, prima di uscire dalla mia stanza. Con gli stivali in mano, cercai di far cigolare il meno possibile le vecchie assi del pavimento, sperando che mio padre avesse il sonno abbastanza pesante da non svegliarsi. Decisamente non avevo voglia di cominciare la giornata con uno straordinario lavorativo.
Presi una mela dal cesto della frutta sul tavolo della cucina e aprii la porta, richiudendola delicatamente dietro di me. Maledissi i cardini cigolanti e mi avviai sul retro della modesta abitazione.
Agilmente scavalcai i massiccio recinto del paddock, diretta verso la tettoia dall’altra parte. Incrociai subito quei meravigliosi occhi azzurri e sentii il suo caloroso saluto, prima che il suo affetto mi investisse letteralmente.
“Shhh! Così sveglierai il vecchio.”
Sbuffò. Sorridendo gli diedi la sua dose mattutina di carezze, prima di concentrarmi a districare i nodi che affliggevano la sua splendente criniera.
L’avevo trovato quando era ancora solo un puledro, smarrito o abbandonato dal branco. Da quel giorno non ci eravamo mai lasciati. Era l’essere che più di ogni altro era in grado di capirmi e ascoltarmi, una parte di me e della mia anima. Crescendo era diventato un meraviglioso stallone, nero come la pece, eccetto gli occhi, azzurri quanto il cielo delle mattinate più terse. Era unico.
Mi avviai verso la cancellata lignea che chiudeva l’accesso al recinto e l’aprii. Senza nemmeno sellarlo montai in groppa e, con un leggero colpo di talloni, sfrecciammo verso l’alba.
Adoravo quella sensazione. Il vento fresco che mi sferzava il viso, i capelli sciolti che volavano dietro di me, l’odore di rugiada, il respiro profondo di Seishin, il suono degli zoccoli sul terreno....la libertà. L’unico momento in cui mi sentivo davvero in pace con me stessa e quanto mi circondava.
Non ricordavo assolutamente nulla dei miei primi anni di vita. Tutto ciò di cui ero certa era che, in un’estiva giornata dal sole accecante, ero giunta nel villaggio dove attualmente vivevo, vestita solo di una coperta, affamata e stremata. Lì ero stata accolta da colui che avevo imparato a chiamare padre, che mi aveva dato un nome e una famiglia. Tutto ciò che precedeva qual momento, era solo nebbia nella mia mente.
Poi c’erano i sogni. Sempre gli stessi, ogni tanto spuntavano dal mio subconscio per tormentarmi. Ormai ero sicura fossero frammenti di qualche mio passato ricordo, ma non riuscivo a collocarli né nel tempo, né nello spazio...mi lasciavano solo con un vago senso di orrore...
Scossi il capo con rabbia, incitando Seishin ad andare più veloce. Volevo sfogare la mia frustrazione.
Vivevo già un’esistenza abbastanza inusuale, senza che vi mettesse lo zampino anche il mio inconscio.
Ero diversa. Questo lo sapevo. Ma continuava a sfuggirmi il motivo di tale diversità.
Cominciai a vagare tra i ricordi, allo stesso ritmo con cui lo stallone nero divorava il terreno, con grandi falcate.
Molto tempo prima, avevo circa dodici anni, stavo giocando con i miei coetanei nel boschetto ai margini del villaggio. Facevamo a gara su chi fosse riuscito ad arrampicarsi sull’albero più alto. Un gioco davvero stupido e rischioso, ma al momento non pensammo che la cosa potesse riguardarci. Essendo più forte della media dei miei compagni, ero certa che avrei vinto, ma la fretta mi fece mettere un piede in fallo ed ero caduta rovinosamente al suolo, procurandomi un lungo taglio su un braccio e rompendomi una gamba. Immediatamente ero stata portata al paese e medicata, ma sapevo che, vivendo in un villaggio isolato, senza strutture mediche adeguate, probabilmente avrei zoppicato a vita, per via di quella frattura. Non avevo ancora dimenticato la strigliata di mio padre.
Il fatto più assurdo, però, avvenne la mattina dopo. Mi svegliai, mi alzai e andai a fare colazione, di fronte a mio padre che mi fissava basito. Al suo sguardo mi svegliai improvvisamente e, ricordando la disavventura del giorno prima, controllai le parti offese.
Ero guarita completamente. Nemmeno una cicatrice.
Da allora la gente aveva cominciato a guardarmi con un misto di sospetto e timore.
Da allora ero sempre stata molto cauta ed avevo evitato il più possibile di procurarmi qualsiasi tipo di ferita, fosse anche solo un livido.
La verità era che, colei che aveva più paura della sottoscritta, ero proprio io.
Non sapevo spiegarmi questi avvenimenti e la cosa mi metteva in angoscia. Cosa mi rendeva così diversa dagli altri?
Forse la risposta risiedeva nel mio passato...se solo avessi cominciato a ricordare...
Il nitrito di Seishin mi riportò alla realtà.
Eravamo arrivati al lago, anche se chiamarlo tale era un eufemismo. Era un modesto specchio d’acqua limpida, alimentato da uno dei molti ruscelli che scendevano dalle montagne, per poi contribuire all’irrigazione delle nostre risaie. Intorno al laghetto erano cresciuti diversi alberi, che offrivano un riparo dal sole e dal caldo, specialmente nei caldi mesi estivi.
Smontai da cavallo e andai a rinfrescarmi il viso. L’acqua era freschissima.
Come sempre, in occasione di queste nostre piccole fughe dalla realtà, ci mettemmo entrambi sotto un grande ciliegio. A volte restavamo in quel piccolo angolo paradisiaco anche diverse ore, semplicemente immobili, a godere della brezza che soffiava dai monti.
Quella mattina però c’era qualcosa di diverso. Seishin era nervoso e sferzava il terreno con gli zoccoli.
Mi rialzai in piedi, accostandomi a lui e donandogli levi pacche sul collo per tranquillizzarlo. Qualcosa lo disturbava, ma non capii cosa fosse, finchè una piccola scimmietta non scese saltellando da uno degli alberi vicini.
Era piccola, marroncina, con due grandi occhi neri ed espressivi. Compresi cosa avesse irritato il mio amico. Semplicemente quel grazioso animaletto era entrato nel suo territorio e, si sa, gli stalloni sono molto territoriali.
“Non vorrai dirmi che ti infastidisci per un microbo simile?! Ti credevo più tollerante.”
Sbuffo.
“Non è affatto un microbo, è una scimmia. E ha anche un nome, come presumo anche il tuo intransigente equino.”
Mi voltai di scatto al suono di quella voce.
Di fronte a me c’era una donna, sulla cui spalla si era prontamente arrampicato l’animaletto in questione. Non l’avevo affatto sentita arrivare, ma la questione decadde immediatamente. Ero più interessata al suo abbigliamento. Vestiva quella che, a prima vista, sembrava una sorta di uniforme, nera, con inserti dorati, anche se ciò che più di tutto catturò la mia attenzione era la grossa spilla in forma di croce iscritta, che portava all’altezza del petto. Dove avevo già visto quel simbolo?
Mi accorsi di non aver smesso di squadrarla, così mi affrettai a rompere il silenzio.
“Lei chi è?”
“Potrei farti la stessa domanda.”
Già mi stava indisponendo. Decisi di finire la conversazione ancora prima che cominciasse.
“Temo che dovrà cercare da se la risposta.” Ribattei, voltandomi per salire a cavallo...ma mi fermai.
Un suono.
Un lieve scampanellio, il più tenue che avessi mai udito, eppure lo sentivo distintamente.
Mi rigirai verso la sconosciuta, che ora fissava incredula la sua borsa, aperta, dalla quale emanava un debole bagliore azzurrino.
“Che cosa contiene quella borsa?”
Inconsciamente iniziai a muovermi verso di lei, rapita da quel...”qualcosa”. Avvertivo una sensazione strana...mi sembrava di essere in un altro tempo e in un altro luogo...mi pareva di aver già avvertito in passato quella presenza...ma questo non era possibile.
Chiusa la borsa, smorzando completamente quella luce e riportandomi al momento presente. Che mi stava succedendo?
La bionda mi guardava ora con curiosità, come se fosse incredula su qualcosa che io non potevo sapere. Solo allora notai la grossa cicatrice che le sfigurava il volto.
Chi era quella donna?
“Come ti chiami?”
“Kris Hikari”.
Continuò a fissarmi...decisamente qualcosa mi sfuggiva.
“Da dove vieni?”
“Qui i fondo alla collina c’è un villaggio. Abito lì con mio padre.”
Annuì.
Ora non potevo più lasciar cadere la questione. Quella donna sapeva qualcosa sul mio conto, qualcosa che io ignoravo. Glielo leggevo negli occhi.
Inoltre volevo assolutamente sapere cosa fosse ciò che teneva in borsa, ciò che mi aveva così irresistibilmente attratta...
“Ha un luogo dove stare?”
“No, sono in viaggio da diversi giorni.”
“Dov’è diretta?”
“Al momento? Esattamente...qui.”
Che diamine voleva dire?
Da quando era apparso quel bagliore, il suo atteggiamento verso di me era totalmente cambiato. Avevo l’impressione che persino quella scimmietta mi stesse guardando in modo strano...
Decisamente non mi faceva bene alzarmi troppo presto la mattina.
“Se vuole posso offrirle una colazione. Siamo molto ospitali coi forestieri, al villaggio.”
“Volentieri.” Montai a cavallo e le feci strada. Ovviamente impiegammo molto più tempo di quanto ci avessi messo io, quindi arrivai in ritardo da mio padre, che difatti già mi aspettava all’ingresso del paddock.
La sua espressione contrariata dal mio ritardo, si dissolse nella domanda che il suo volto silenziosamente esprimeva, fissando la sconosciuta che mi accompagnava.
Lo bloccai prima che potesse parlare.
“Lo so! Sarei arrivata in tempo, ma ho incontrato questa viaggiatrice. Non ha ancora fatto colazione, così ho pensato...”
“...Che mentre tu recuperi il lavoro perso, io me ne occuperò.”
“Ma...!”
“Fila e non discutere.”
Lasciai con disappunto Seishin a pascolare nel recinto, mentre mio padre accompagnava l’ospite in casa.
Di malavoglia entrai in quel forno che era la fucina di mio padre. Presi grembiule e guanti e mi misi al lavoro.
Mio padre era il miglior fabbro della valle, nonché un autentico esperto nel forgiare spade. Oramai era rimasto uno tra i pochi che ancora erano in grado di creare katane col procedimento più antico e tradizionale, tramandato nella sua famiglia da generazioni. Infatti aveva lontane origini giapponesi, ma i suoi antenati avevano dovuto abbandonare il loro paese natio, per sopravvivere, quando aveva cominciato ad essere invaso dai mostri. Mi raccontava spesso questa storia ed io, sin da bambina, avevo nutrito grande curiosità per le mostruose e sconosciute creature leggendarie di cui narrava.
Con la sua maestria e la raffinatezza che metteva in ogni dettaglio, la nostra bancarella spopolava ad ogni mercato stagionale. Io, ovviamente, lo accompagnavo sempre, facendo dimostrazioni pratiche dei nostri prodotti, per i clienti. Maneggiavo le spade meglio di un uomo. Mio padre sosteneva fosse un fatto innato e quasi prodigioso, io ero molto più convinta che la cosa fosse dovuta al fatto che mi aveva messo in mano piccole armi di legno fin dall’età di nove anni.
Immersa nei miei pensieri non la vidi, appoggiata allo stipite dell’officina.
“Sembri molto brava nel tuo lavoro”.
Mi fece prendere un colpo.
“Si, diciamo che è l’unico che ho imparato.”
Dalla porta spunto anche mio padre, con un’espressione piuttosto allibita e combattuta. Cosa gli aveva detto quella donna?
“Kris...vieni in casa, per favore.”
“Padre...? Stai bene? Hai una faccia che...”
“Credo...credo che tu debba ascoltare quello che questa signora ha da dirti...”
Scomparve, scuotendo la testa.
Vedere mio padre così sconvolto mi fece andare su tutte le furie!
“Che diamine ha detto a mio padre?! Cosa gli ha fatto?!!”
“Nulla più di quanto dirò anche a te. Andiamo”.
La seguii dentro casa. Ci accomodammo tutti e tre intorno al tavolo della cucina. Mio padre mi guardava in un modo che mi fece rabbrividire, sembrava quasi che avesse paura svanissi da un momento all’altro.
“Tuo padre mi ha raccontato un po’ di cose sul tuo conto, alcune parecchio curiose a dir la verità”.
“Padre, era proprio necessario?”
“Kris, ascoltala, per favore. Nemmeno io riesco a capirci qualcosa, ma...”
“Quello che tuo padre sta cercando di dirti...è che io posso spiegarti il perché di tutto quanto di più strano ti è accaduto.”
La fissai ad occhi sbarrati. Come poteva sapere qualcosa sul mio conto, se mai l’avevo vista in vita mia?
“Lui non è il tuo genitore naturale, vero?”
“Padre, le hai detto anche questo?”
“No, me lo ha detto lei.”
“Tuo padre,”mi disse, in modo che rivolgessi la mia attenzione di nuovo su di lei, “mi ha accennato al fatto che, quando tu arrivasti in questo villaggio, l’unica cosa che avevi addosso, oltre ad una coperta, era un segno...un simbolo, proprio sul petto.”
Probabilmente avevo smesso di respirare. Quel tatuaggio era il più grande degli enigmi della mia vita, non ricordavo di essermelo mai fatto fare, ne che qualcuno me lo avesse impresso contro la mia volontà. Era sempre stato osservato in modo strano da tutti, così avevo iniziato a indossare vestiti che riuscissero a celarlo.
“Ti toglieresti la camicia?”
Incapace ormai di intendere e di volere, me la levai, restando in canottiera. Il simbolo era perfettamente visibile, nero e nitido contro la mia carnagione chiara.
La donna spalancò ancora di più gli occhi, annuendo. In qualche modo, sembrava fosse in parte addolorata per quella scoperta, ma, probabilmente, era solo una mia impressione, dettata dalla confusione del momento.
In qualche modo però, riuscii a parlare.
“Come sapeva che non ero la figlia naturale di mio padre? Chi è lei?!”
Ero spaventata e irritata, volevo solo delle risposte...delle certezze. Volevo sapere chi era quella donna che mi stava stravolgendo la giornata.
“Che sbadata, non mi sono nemmeno presentata, avete ragione”.
Si alzò dalla sedia, tendendomi la mano.
“Sono Cloud Nyne, Generale dell’Ordine Oscuro. E sono stata certa del fatto che tu non appartenessi a questo luogo e non fossi sua figlia naturale,” disse, indicando mio padre, “dal momento che tuo padre mi ha parlato di quel simbolo. Ed ora che lo vedo coi miei occhi non ho più dubbi. Sono abbastanza sicura di non sbagliare anche se affermo che non ricordi nulla dei tuoi primi anni di vita.”
“Come può sapere...”
“Perché conosco una persona che ha vissuto e vive la tua stessa situazione. Ed ha lo stesso tuo simbolo sul petto.”

   
 
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