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Autore: Fusterya    09/03/2012    4 recensioni
E’ successo davvero? John si sveglia e ricorda che sì, ieri è successo qualcosa. L’amore fisico, quello mai cercato veramente, vuoi per pudore, vuoi per paura di perdersi nella complessità di un universo sconosciuto come quello, soprattutto dopo il suo sconvolgente ritorno. E adesso tutto questo lo angoscia. Ma John è solo. Lui dov’è andato, adesso?
Genere: Erotico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Adesso sono sveglio e non so come sia successo. Ma lo è.
Resto immobile, quasi non respiro.
Gli eventi si sono accavallati, ieri sera non ho bevuto niente di alcolico, lo giuro, ma non ricordo bene. Ho delle immagini scomposte negli occhi… pezzi di figure che si sovrappongono, le sue iridi, un angolo nero di camicia, una porzione di pelle.
Non ricordo di essere stato io. Forse sì.

Sento allo stesso modo un collage di odori improvvisi ritornarmi prepotente nelle narici…sensazioni di pochi secondi… il tabacco, un lievissimo accenno di sudore, la fragranza del thè che si sparge nell’aria.
Ho la bocca arida, mi passo la lingua sulle labbra e risento quel sapore.
Sale misto a un vago ritorno di menta, lontana.
Mi aspettavo questo sapore innocente. Non saprei come altro dirlo.
La bocca del mio stomaco ha una contrazione, avvampo. Il battito accelera. Sento caldo. Sento nei palmi delle mani sudate il ricordo di quell’altro calore, la tensione dei nervi, la curvatura del corpo. Chiudo gli occhi, deglutisco. Come può essere possibile? Non avrei mai saputo nemmeno da dove cominciare.
 Invece, ecco.
Il cuore martella forte nel petto, mi sento a disagio, ho sempre più caldo. Ma resto sul fianco sinistro, immobile.
Il caleidoscopio dei ricordi di ieri si fa più veloce, le immagini cominciano a correre e a convergere. Il ritorno a casa, tardissimo, in una notte così fredda da spezzare la spina dorsale, dopo un caso difficile. Che non è ancora chiuso: è una faccenda pericolosa che mi sta tenendo in ansia per chi, come sempre, non ha il minimo senso della misura.
L’odore di casa al rientro, il suo galoppo nervoso su per le scale, il rumore del bollitore… ecco, quello lo ricordo.
Il rumore del bollitore, il mio sospiro stanco quando mi sono tolto la giacca e ho scrollato il freddo dalle ossa, ho sfregato le mani, ho borbottato perché si muoveva per la stanza come un derviscio impazzito, è volato il cappotto, le suole sul pavimento di legno rimbombavano sulla testa della povera Mrs hudson alle 3 del mattino, la voce baritonale che continuava a elencare scientificamente tutte le falle del primo esame della scena da parte dell’ispettore dell’altro turno, Dimmock, un poveretto a cui non era stata risparmiata qualsiasi umiliazione... le solite cose.
 E poi… cosa è successo?
Ecco, sì, avevo mal di testa.
Mi sono seduto sulla poltrona e mi sono chinato in avanti per massaggiarmi le tempie. Lui di là continuava a sproloquiare, pieno di energie come un bimbetto appena sveglio….
Ti prego, taci, ho pensato.
Sentivo il tintinnio delle tazze, era così su di giri che stava perfino versando lui il thè. Un thè che non volevo. Volevo solo andare a dormire, non so perché fossi così stanco, irritato.
Mi sono alzato, lui arrivava col vassoio saldo tra le mani, anni di esperienza con le provette non gli avrebbero fatto versare una goccia nemmeno se avesse ballato. Ma era così innaturale in quel ruolo che mi è venuto da ridere.
- Lo hai servito così a Moriarty? - ho chiesto.
- Si è servito da solo -  ha risposto piccato.
Da quando è tornato non riesco a non fare riferimento a quel giorno, anche se involontariamente. Succede spesso, e a lui non piace. Ma io non ne sono ancora fuori.
Quell'angoscia resiste salda dentro di me, si è solo acciambellata e messa in un angolo, in attesa.
Mi sono stiracchiato un po’. Non voglio del thè, vado a dormire, e ti pregherei di stare finalmente zitto. Ha posato il vassoio, è sprofondato nella sua poltrona, ha accavallato le gambe, ha addrizzato un po’ la schiena, ha incuneato le mani, polpastrelli contro polpastrelli, come fa quando vuole insegnarmi qualcosa.
Ma io stasera non voglio ascoltare.
Non so cos’è quest’ansia, questa irritazione.
Non farlo. Stai zitto.
Non passerò la nottata a sentire i tuoi deliri solo perché non hai sonno. Gli sto puntando un dito contro. Non sono arrabbiato con lui, non più, ma non riesco a starlo a sentire ancora e ancora come una volta. Batte lentamente i polpastrelli gli uni contro gli altri, facendo finta di riflettere su qualcosa che probabilmente avrà già analizzato in un'altra vita.
- John, devi andare oltre, ce l'hai con me da quasi un anno, ormai -
Credo di averlo guardato attonito, poi mi è scappato un sorriso amaro. Anche se avessi voluto dire qualcosa, non avrei saputo cosa.
Lo guardo un po' sconsolato e scrollo le spalle, mi avvio, lui salta in piedi e già questo mi allarma inconsciamente, una volta non l'avrebbe mai fatto. Stringo impercettibilmente i pugni, lui mi si para davanti. Gli occhi lampeggiano, non so come altro spiegarlo... sono nubi scure screziate di luce azzurro-verde.
-John, dobbiamo riparlarne? -
-No - scuoto io la testa. Non dobbiamo, non adesso, non c'è altro da aggiungere a quella sera, quando sei ricomparso all'improvviso in questa stessa stanza, spaventandomi a morte ... e nello stesso tempo riportandomi in vita. Questo lo penso ma non glielo dico, con lui mi fermo alla parola "adesso".
-John, devi riprendere a fidarti di me -
E allora scatto io. Scattano tutti i nervi che ho tenuto insieme per miracolo fino a quel momento.
“E piantala di dire John John John! No, sei tu che non ti sei fidato di me! Avresti potuto dirmi del cecchino, mi sarei riparato, difeso, sono un soldato, ricordi? So usare la pistola, ti ho parato il culo non so quante volte, avrei cercato di aiutarti, insieme avremmo trovato una soluzione, come sempre, ma tu hai deciso anche per me. Come sempre!”
Io non lo guardo e lui stranamente non parla, allora alzo gli occhi e mi accorgo – costernato -  che tra poco piangerò.
Ma non voglio.
Non devo.
Non lo farò.
Devo trovare un diversivo, fare una mossa qualunque, perché sento gli occhi che cominciano a pungermi. Lui sa ESATTAMENTE cosa sto pensando e provando, lo so, lo sento. Mi fissa, deglutisce imbarazzato, sento gli occhi riempirsi e li serro per impedirlo, e allora mi slancio in avanti, lo abbraccio... sento le mie braccia avvolgersi intorno ai suoi fianchi e stringere, stringere, avverto il suo corpo sbilanciarsi in avanti e il suo petto scontrarsi col mio, sembra un movimento violento ma invece tutto avviene molto piano, a rallentatore.
Ho ancora gli occhi chiusi, non so che faccia stia facendo, non mi importa, non so cosa farà dopo, non so cosa sto facendo io, non importa più, lo bacio e basta, devo baciarlo, voglio dire così tutto quello che ho fa dire, e poi che mi prenda anche a pugni... Ma non lo fa.
Non lo fa.
Sale e lontano sapore di menta, mare invernale, foresta sotto la pioggia... e un dolore antico e pesante come la Terra si stacca da me e mi libera con un rombo sordo: ecco quello che sento, ecco cosa vedo quando lui mi prende la faccia tra le mani, febbrile, e capisco che tutto doveva confluire li, tutto doveva andare esattamente così, e che non mi sarei mai aspettato che toccasse a me.
E invece.
Adesso sono qui e ancora non riesco a muovermi. Il cuore martella le costole ma ora percepisco di essere solo, dietro le mie spalle non c'è nessuno, la stanza è immobile come me, non respira, non vive. Sposto lentamente una gamba all'indietro e sento lo spazio spalancarsi dietro la mia schiena nuda come una voragine.
Come quella voragine in cui l'ho visto cadere.
Stringo gli occhi, i miei battiti perdono il ritmo, cadono uno sull'altro senza senso per la paura. E adesso? Dov'è? Dov'è andato? Cosa gli dirò? Come riusciremo a guardarci in faccia? Come riusciremo a tornare quelli di prima?
Mi scuoto e finalmente mi muovo, balzo sul letto e mi giro a guardare ciò che già sapevo: è la sua stanza, il letto è tutto disfatto, sconvolto, vuoto.
La penombra mi opprime, il silenzio della casa mi scivola addosso pesante e viscido come un lenzuolo bagnato.
Tendo le orecchie... niente. Né un suono, un rumore qualsiasi, un colpo di pistola sparato per noia.
Se ne è andato.
Pentito, amareggiato, disgustato.
Se ne è andato di nuovo.
Frugo di fretta tra le lenzuola attorcigliate per terra, tra camicie e calzini, e trovo i miei pantaloni, salto su una gamba sola e me li infilo già correndo verso la porta, rischiando di cadere almeno due volte.
Spalanco la porta, maledetta porta chiusa che stamattina mi hai impedito di ascoltare ogni rumore, ogni suo movimento, e mi precipito nel soggiorno come una furia, disperato come solo quel giorno lo fui.
Lui è nella sua poltrona, seduto esattamente come ieri notte ma stavolta in vestaglia, le gambe nude accavallate, le mani a cuspide, polpastrello contro polpastrello, gli occhi fissi su di me, due tempeste azzurro-verdi, e il vassoio del thè ancora fumante sul tavolino davanti a se'.
Io sono in mezzo alla stanza e mi sento un idiota, un vivo, felice, rinato idiota.
“Ho preparato la colazione” dice.
E poi ride.
 Allora io sospiro, anzi, finalmente respiro, e non riesco a ridere con lui, non subito.
Lo guardo come se non avessi mai visto altro in vita mia.
E riesco solo a dire il suo nome.
Sherlock.

  
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