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Autore: Mao_chan91    10/03/2012    1 recensioni
2. Ringo la seguiva camminando regolarmente, ripercorrendo nella sua mente le possibili scene che avrebbero potuto riproporlesi.
Le piacque particolarmente quella in cui Shouma stendeva a terra la giacca per farle evitare una pozzanghera, e poi le cingeva la vita, guardandola profondamente negli occhi.

Spoiler, soprattutto negli ultimi capitoli.
[Mawaru Penguin Drum.] [KanHima con accenni ShoRin.]
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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NdA:
Ho iniziato a scrivere questa storia all’incirca quando è stato trasmesso l’episodio quindici, e l’ho conclusa in breve tempo, per poi doverla riscrivere da metà in poi per adattarla ai nuovi sviluppi narrativi visto che volevo che riuscisse ad essere un minimo abbastanza coerente da potersi ritrovare nella continuity della serie vera e propria.
Saranno dunque presenti degli spoiler, anche se ho cercato di mantenere ove possibile alcune ambiguità, non andando nel dettaglio ove possibile.
Questa storia, ah, che dire di questa storia.
Non pubblicavo qui da tanto, e per convincermi ci è voluto il macigno che Mawaru mi ha lasciato sul cuore…no, non è solo quello.
Questa è una storia egoista, poco più che una medicina o un messaggio carico di rimpianto.
E’ per loro, per me, ma soprattutto per lei, che spero possa un giorno perdonarmi.
Questa storia è importante, la cosa più importante che abbia mai scritto.
Sarei felice se riusciste a ritrovarci quel barlume di speranza che ho cercato di insinuarci, sarei felice se vi facesse provare qualcosa.

 


There’s no such a thing as an end

 


[1. The sun might rise as sometimes does it fall]

Il lieve sollievo che aveva provato sapendola morta.
Niente più proteggere, soffocare, lottare…
“Soffrirò una volta sola, e poi mai più.”
Quello era l’incubo che lo inseguiva ogni notte. Non c’era quiete a occhi chiusi né aperti, non c’era pace per lui in nessun luogo al mondo.
Errori e colpe, lui ne era un concentrato.
La vedeva appena socchiudeva le palpebre, la vedeva mentre schiudeva le labbra per assaggiare quelle di una ragazza qualunque. Cercava in tutto il mondo una nuova realtà, ma quella immagine lo perseguitava.
“Oggi ho cucinato io, spero non vorrai lamentarti. Lo so che Sho è più bravo di me.”
Himari sorrise, gonfiando appena le guance in un finto broncio, e gli spezzò il cuore.
Ah, il terrore di avere l’umore vincolato da quello di qualcun altro.
Ah, il terrore di essere come argilla fra le sue mani, fragile e plasmabile e, chissà, anche facilmente schiantabile al suolo.
Si strinse la mano, Kanba, si artigliò il polso cercando una reazione adeguata e meccanica, ma non gli venne in mente nulla.
Accennò un sorriso involontariamente triste –sì, gli venne fuori triste, e si maledisse per quella inesattezza- e scosse il capo “Sei bravissima anche tu, lo sai.”
Himari si affrettò verso di lui, sollevando la testa e tirandogli le guance “Non serve dire bugie, eh, Kan-chan.”
Che vezzeggiativo ridicolo per un ragazzo, ma così appropriato per un fratello.
Era di uno zucchero disturbante, una gabbia stretta e arida senza finestre per respirare.
“Ma io non ti mentirei mai.” sorrise, questa volta meno malinconicamente.
La ragazzina strinse la presa alla sua pelle, deformandogli di più il viso.
“Giura!” sorrise.
Kanba si portò una mano al cuore, ardente nella stretta della gabbia toracica “Giuro.” disse con una voce un po’ ridicola per via della mascella torturata.
Himari lo lasciò andare gradualmente, e gradualmente un sorriso le sorse in volto.
Sorse come un’alba, l’alba di un giorno che avrebbe voluto non finisse mai.
Devastante –e disgustoso- desiderio di masticare e ingoiare quel sorriso, giocare con quella lingua e agganciarle le braccia al muro.
Visualizzò quella prospettiva con tale chiarezza da dover trattenere un forzatissimo conato di vomito con una mano.
La sorella si accigliò, cingendogli un fianco “Cos’hai, non stai bene? Vuoi tornare a letto?”
Ad Himari piaceva preoccuparsi per i suoi fratelli. Lo trovava l’unico modo di ripagarli per tutta l’ansia che spendevano per lei, e che fingeva sempre d’ignorare, stringendo i denti e mostrandosi energica.
“Sto bene.” abbozzò lui, sfiorandole la testa e incatenando un dito ai suoi capelli.
Himari continuava a osservarlo, cercando quello che gli passava per la testa, senza credergli.
Rimasero in perfetto silenzio a lungo, prima che lei abbassasse lo sguardo, puntandolo ai piedi, e dicesse “Mi fai male.” docilmente.
Quando Kanba srotolò la ciocca, le portò via un capello.
“Scusami.” Disse, distogliendo lo sguardo anche lui.
“Non far raffreddare la colazione. Passa una buona giornata a scuola, Kan-chan.”
“Sì.”
Shouma li raggiunse poco dopo, sbadigliando ampiamente “Come mai mi avete lasciato dormire così tanto?”
Himari si precipitò anche da lui, come un cagnolino scodinzolante “Oggi ho preparato io la colazione! E se non ti piacerà mi arrabbierò tantissimo!”
Lo disse con un’espressione terribilmente graziosa, e Shouma non potette fare a meno di abbracciarla forte “Ma certo che sarà buonissima!”
Perché, si chiedeva Kanba, ingurgitando il cibo e sbirciandoli di sottecchi, perché per lui era tutto così facile?

- 

Senza alcun preavviso, come un albero che ha resistito alle intemperie attaccandosi a radici troppo fragili, crollò.
Non era stato possibile prevederlo.
Non era stato possibile perché lei non parlava, lui non parlava e l’altro neanche.
Non era stato possibile perché smetteva di sorridere solo quando era sola, e avrebbe dovuto essere sola in quel momento.
Eppure Kanba era ancora lì, a osservare gli scossoni  che le agitavano convulsamente la schiena esile, seduta sul letto.
“Scusami.” gli disse all’improvviso, avendo percepito il suo fiato sospeso e il cigolio della porta.
“Scusami.” disse lui, avvicinandola a capo chino.
Protese una mano alla sua spalla, la ritrasse, la protese di nuovo.
“Scusami.” ripeté Himari, come una vibrante cantilena “Scusami ma…”
“Io ho dato tutto il possibile, ho dato tutto quel che avevo e non mi è rimasto più niente.
Sono rimasta solo io, io con niente fra le mani.
E anche a te, non potrò offrire niente.
Sono perfettamente inutile.
Una sorella, una persona come me sarebbe dovuta morire tanto, tanto tempo fa.
Sarebbe stato più misericordioso, più gentile nei miei riguardi soffocarmi nel sonno che lasciarmi vivere un’esistenza del genere.
In quella gabbia chiamata casa – io non posso vedere altri che voi, non posso vivere da sola e probabilmente non ne sarei neanche più in grado.
Un giorno, avrei voluto essere salvata. Avrei voluto essere liberata.”
Da me, è da me che volevi essere liberata, da queste mura chiamate Kanba che ti stringono, godono della tua infermità e pretendono che nessun’altro possa vederti toccarti sentirti?
“Tu, Himari, ti senti vuota?”
Le prese le spalle, abbassandosi alla sua altezza e montando su un sorriso gentile ma genuinamente preoccupato.
“Quando mi chiami con questo nome, non so a chi ti riferisci.
Ho qualche caratteristica, ho qualche pensiero particolare?
Non lo so nemmeno io.
Ho vissuto pregando che facendo del mio meglio andasse tutto bene, che più fossi stata buona e meno problemi avrei creato.
Sai, Kanba, io ho davvero pregato.
Ma ora io quando guardo allo specchio questa persona, magari sì, si chiamerà Himari, ma io non la conosco.
Non è gradevole, non è nessuno.
Non so neanche se è viva o morta.
Nessuno saprà mai chi è Himari, perché l’ho scordato anch’io.”
Nel silenzio più freddo che potesse immaginare, Kanba le strinse il cuore al suo, incavando la testa sulla sua spalla. Scosse il capo senza parole, pronto a piangere se solo non fosse stato così vano.
Himari rimase immobile.
“E’ questa la sorella che ami, Kanba?”
Non un vezzeggiativo zuccheroso, non un velo fra loro.
Si soffermò sui suoi occhi chiari e fermi, senza un fuoco a scuoterli “La tua gentilezza così disperata, io la amo.” disse, posandole un bacio sulla guancia “Il tuo mettere chi ami prima di te è ingiusto, ma amo anche questo.” disse, posandole un bacio sullo zigomo.
“Io amerò tutto di te e accoglierò tutto di te. Svuotati, ricreati daccapo. Qualunque cosa tu voglia essere, io non lascerò la tua mano.” disse, posandole un bacio sulle dita che aveva stretto e accarezzato incoscientemente.
Himari cercò ancora, nei suoi occhi. Cercava sé stessa, una sé stessa bella e preziosa, da poter amare quanto pareva amarla lui.
Non la trovò. Non la trovò, eppure, percepì la sua presenza. “Himari” disse, sollevandogli il volto “ti ringrazia.”
Annullò le distanze fra loro, tastando appena le sue labbra.
Non significava amore. Non significava niente.
Eppure lui, dopo tanto tempo, si sentì più pulito. Si sentì Kanba, senza distanze né pareti.
Fu per questo, che la lasciò andare, senza trattenerla.
Non la seguì con lo sguardo mentre tornava in camera. Decise che era non solo abbastanza, ma troppo.
Decise che l’avrebbe sempre accompagnata, ma a distanze sempre maggiori.
Il tocco delle sue labbra era stato triste.

-

“Allora, a cosa dobbiamo questo sguardo perso nel vuoto? La milionesima ragazza?” sospirò Shouma, sarcastico.
“La tua è solo invidia, fratellino.” ammiccò lui, tentando di allontanare il torpore che l’aveva tradito. Smise di fissare vacuo la finestra, e si rivolse a lui, che stava rassettando il suo futon “Piuttosto, non hai un appuntamento con Ringo da un po’, eh?”
“Cosa stai dicendo? Ma quando mai avremmo avuto un appuntamento, ero solo lì a farle da balia sperando che mollasse quel maledetto diario.”
“Non dovresti essere così duro nei suoi confronti, eppure ti ama così tanto.” Lo schernì, mimando una vocetta femminea e patetica.
Shouma scrollò le spalle, rabbrividendo; decise di ignorarlo, continuando a riordinare la stanza.
Riconobbero in due colpetti educati allo shoji la delicatezza di Himari, e la invitarono subito ad entrare.
“Ragazzi, di lì è pronto!”
“Ma non dovresti stancarti così tanto, avrei potuto preparare io.” si intenerì Shouma, ma Himari scosse la testa prontamente “Voi dovete andare a scuola, io non ho niente da fare, è davvero il minimo.”
Kanba si sentì penetrato dal suo sguardo alle spalle, senza osare voltarsi neanche un istante, ma fingendo un certo interesse per il buco nel suo calzino.
Si concesse un sottile sospiro di sollievo quando sentì lo shoji richiudersi, ma si ritrovò Shouma a pochi centimetri dal viso, occhi sostenuti che non aveva mai indossato.
“Siamo fratelli, capisco quando hai qualcosa che non va.
Questo è quello che abbiamo cercato di ricomporre con tanta fatica, dovresti saperlo.
Incasina tutte le ragazze che vuoi, non importa. Tutte quelle che vuoi.
Ma incasina Himari e io t’ammazzo.”
Kanba si accorse di aver trattenuto il fiato solo dopo che Shouma si fu allontanato, senza più degnarlo di attenzione, raggiungendo Himari in cucina.
Sa tutto, sa tutto.
La sua testa era un disco rotto, pieno di urla ossessive e disperate.
Che vie di fughe aveva? E se ne avesse parlato con lei?
Tentò di riordinare i suoi pensieri, ma poi Himari lo chiamò, dall’altra stanza, interrompendo il vorticare nella sua testa, riempiendolo di nuovo e poi svuotandolo.
“Arrivo!” boccheggiò, tirandosi uno schiaffetto davanti allo specchio e confidando di poter essere naturale come sempre.

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