Gwen
sporse il naso sullo
scaffale più alto, alzandosi in punta di piedi.
Doveva pur
esserci una confezione di mais che non fosse geneticamente
modificata, non potevano non venderla. Scrutò ancora il
ripiano
colmo di barattoli di qualsiasi forma e colore, con le caviglie che
iniziavano a tremare per lo sforzo prolungato.
Ad un certo punto
il suo viso si illuminò alla vista della scritta "senza OGM"
che risaltava debolmente tra tutta la merce esposta.
Rigirò il
barattolo tra le dita, scorrendone la superficie con la punta delle
dita.
Prima di aggiungerlo al carrello diede un veloce sguardo
allo scaffale, come per memorizzarne la posizione e subito il suo
sguardo soddisfatto sfumò in un'espressione delusa alla
vista del
prezzo.
Una cifra esorbitante per qualche chicco di mais,
decisamente esagerata, troppa per le sue possibilità. Non
poté far
altro che riporre la confezione al suo posto, insieme a tutte le
altre, per poi scambiarla con una delle tante dal patrimonio
genetico ben diverso da quello che in origine doveva avere una
qualsiasi pianta di granoturco.
Continuò ancora a camminare
lentamente tra gli scaffali, osservando con fare disinteressato le
decine di diversi prodotti esposti.
Quando si trovò a passare tra
il reparto delle carni il suo sguardo si posò quasi
involontariamente su uno dei tanti espositori. Ogni volta, passandoci
accanto, non poteva non rimanerne indifferente.
La vista di quegli
strani affettati ed hamburger le causavano ogni volta una strana
sensazione di disgusto, quasi nauseante. Si soffermò a
leggere
l'etichetta applicata sopra l'involucro trasparente di una
“comune”
bistecca.
“La carne prodotta nei laboratori McKennitt
garantisce un gusto saporito, un certificato processo di lavorazione
chimica e la totale assenza di qualsiasi prodotto di origine
animale”.
Con la punta di un dito premette quasi con diffidenza
la sottile pellicola trasparente, constatando la consistenza gommosa
del prodotto. Era sempre stata piuttosto dubbiosa a proposito della
carne prodotta in laboratorio. A dir la verità faticava a
considerare vera e propria carne qualcosa che prima non era mai stato
vivo. Provò ad immaginarsela col suo vero colore, un bianco
lattiginoso, quello che realmente avrebbe avuto se non ci fossero
stati i coloranti a donarle quella scura tonalità vermiglia.
Non
l'aveva mai assaggiata, la schifava il solo pensiero. Automaticamente
la sua mente collegava l'idea di un pasto a base di quella carne con
la sensazione di mangiare un sacchetto di plastica. Eppure, ogni
volta, non poteva non rimanerne incuriosita, nonostante continuasse a
rimanere ferma sull'idea che mai l'avrebbe assaggiata.
Continuò
ancora a scorrere tra gli scaffali, prendendo qualcosa di tanto in
tanto, per poi iniziare ad avvicinarsi alle casse. Pagò ad
una cassa
automatica, maledicendola più volte, dirigendosi infine
verso le
grandi porte di vetro che componevano l'uscita.
Ogni volta che
usciva si sentiva persa, disorientata.
Subito lo sguardo si alzava
automaticamente in direzione del cielo, troppo blu e profondo,
ricordandole quanto tutto fosse diverso. Con la busta stretta in una
mano si avvicinò al ciglio della strada, in attesa del
metrobus che
l'avrebbe ricondotta a casa.
Le macchine ormai erano un mezzo di
trasporto completamente dimenticato, alla base di troppi problemi,
primi tra tutti l'inquinamento ed il traffico.
Ora le strade,
spaziose e molto più pulite, erano sgombre da qualsiasi
mezzo di
trasporto privato, ad eccezione di alcune importanti
personalità che
potevano ancora disporre di alcuni mezzi ad uso esclusivamente
personale.
I metrobus alla fine, nonostante lo sconcerto iniziale,
si erano dimostrati molto comodi ed efficienti. Completamente
automatizzati, viaggiavano su rotaie a qualsiasi ora del giorno.
Gwen
si avvicinò alla fermata, evitando la vista del cielo e
seguendo con
lo sguardo la superficie chiara del marciapiede. Il cartello
elettronico segnava che il suo metrobus sarebbe arrivato tra meno di
tre minuti. Durante l'attesa si fermò ad osservare la gente
scorrerle davanti agli occhi.
Un uomo vestito elegantemente,
probabilmente di ritorno da qualche conferenza di lavoro, due donne
impegnate in un'animata conversazione, una signora impegnata nella
pulizia di un'insegna... La vita, nonostante le difficoltà,
era
andata avanti per tutti. Ci si era dovuti adattare.
Lentamente
tutto stava tornando come prima, o almeno per quanto ciò
fosse
possibile.
Ma come in ogni cambiamento c'era sempre qualcuno che
rimaneva indietro; Gwen si sentiva esattamente così, in
ritardo,
come fosse troppo tardi per poter recuperare.
Lì in piedi, in
attesa di rientrare a casa, si rese conto di essere l'unico punto
fermo in un mondo che continuava a scorrere, a mutare. Era una
sensazione strana, un po' come quando ci si siede sulla panchina di
una stazione e si vedono tutti partire, mentre tu rimani fermo ad
osservare il mondo che va avanti senza aspettarti. Come se la sua
presenza non avesse importanza in mezzo a tutto quel via e vai di
vite.
Nessuno si sarebbe fermata ad attenderla. Tanto valeva
rimanere ferma ad aspettare. Ad aspettare cosa, poi? Si era
già
fatta questa domanda centinaia di volte, eppure la risposta era
così
semplice.
Aspettava lui, Trent. E se non ci avesse impiegato
troppo l'avrebbe probabilmente atteso per tutta la vita. Non se l'era
scordata quella promessa. Non aveva dimenticato i baci, la sensazione
di quelle mani calde accarezzarle la schiena, e mai lo avrebbe
fatto.
Avrebbe potuto convincersi di tante cose, addirittura che
lui l'avesse ingannata, ma non poteva cancellare quei ricordi, ormai
troppo ingombranti per essere rinchiusi in qualche anticamera del
cervello.
Semplicemente aspettava, schiava dell'idea che quel
debole barlume di speranza trovasse la forza di divenire concreto. La
distanza era stata la sua condanna.
Era inutile tentare di non
pensarci, in qualche modo riusciva a ritrovarlo ovunque, nei piccoli
gesti quotidiani. La sua assenza le generava dei vuoti che solo i
pensieri riuscivano a colmare.
Persa in quelle riflessioni, quasi
non si rese conto dell'arrivo del metrobus.
Salì veloce sul mezzo
e questo ripartì subito la sua corsa. Le figure dei grossi
palazzi
del centro della città lentamente sfumarono. Le insegne
luminose si
fecero sempre più piccole, finché le figure delle
case dei
quartieri residenziali presero il loro posto. Lasciò che le
immagini
le scorressero veloci davanti agli occhi, mescolandosi ai pensieri di
sogni impossibili.
Arrivò presto a destinazione. Ricoprì a piedi
quel breve tratto di strada che la separava dalla sua casa, frugando
nelle tasche con le mani alla ricerca della tessera magnetica
necessaria per aprire la porta.
Ricordava ancora la prima volta
che l'aveva fatta scorrere tra quella fessura.
Le tremavano le
dita. Quando aveva spalancato la porta per la prima volta le era
venuta un'immensa voglia di piangere.
La casa era completamente
bianca, sviluppata su un unico piano e collocata in un anonimo
quartiere pieno di altre costruzioni completamente identiche tra di
loro.
Dov'erano le pareti colorate ed i giardini con i loro prati
sempre un po' malmessi? Ed i tetti un po' spioventi con le loro
tipiche tegole rosse? Dove sarebbe salita, la notte, a guardare le
stelle e a dipingere, lontana dagli occhi ignari della gente
tranquillamente addormentata?
Le pareti chiare, il pavimento
lucido e quel semplice ed essenziale mobilio non le
appartenevano.
Una volta entrata abbandonò il sacchetto con la
spesa su una sedia, attirata dalla spia luminosa emessa dal tablet
computer lasciato sul tavolo. Con la punta di un dito sfiorò
lo
schermo che subito si illuminò, mostrando l'arrivo di nuovi
diversi
messaggi. Il cuore di Gwen accelerò i battiti.
Non aveva ancora
trovato lavoro dal suo arrivo e per il momento aveva solo inviato
molti curriculum a diverse aziende. Che qualcuno l'avesse finalmente
assunta?
La paura di un'ennesima delusione si mescolò alla
speranza di aver finalmente trovato un impiego.
Accarezzò
nuovamente il display.
Due nuove risposte. Inizialmente esitò con
il polpastrello a mezz'aria, fermata dal timore di un nuovo
rifiuto.
Con diversi tocchi veloci aprì i messaggi, scorrendoli
uno ad uno.
«Niente...
Niente... Niente», scandivano le sue labbra man
mano che arrivava a
leggere il termine di ogni risposta.
Con un gesto sconsolato
lasciò scivolare sulla superficie liscia del tavolo il
tablet,
dirigendosi verso il bagno. Aprì il rubinetto per lavarsi le
mani,
lasciandosi scaldare la pelle dal flusso d'acqua calda.
Quando
alzò gli occhi in direzione dello specchio posto di fronte a
lei,
rimase a fissare il suo riflesso a lungo. Dovette lottare con tutta
se stessa per cercare di resistere all'impulso di romperlo in tanti
minuscoli frammenti d'argento.
Uscita dalla stanza si diresse nuovamente
verso il sacchetto malamente abbandonato sulla sedia, raccogliendo
una confezione caduta. Si mise a riporre gli acquisti nelle diverse
ante della piccola cucina, ignorando il tremolio alle mani. Mentre
sbatteva con forza i barattoli sui diversi ripiani un suono la
distrasse. Qualcuno aveva suonato alla porta.
Si avvicinò
all'ingresso, riconoscendo l'immagine di sua madre nello schermo a
parete del citofono elettronico. Delusa aprì la porta,
sfoderando un
finto sorriso di sorpresa.
Era stupido pensare che prima o poi a
bussare a quella porta sarebbe stato Trent?
Sua madre entrò
salutandola, ricambiando il sorriso.
Era sempre stata una bella
donna, con quei tratti che ricordavano molto quelli della
figlia.
«Tutto bene?»
chiese.
«Sì,
sì... Grazie» mentì spudoratamente.
Lei sembrò
accorgersene.
«Sicura?»
«Sì, non ti puoi preoccupare sempre
per ogni cosa» sbuffò nel tentativo di apparire
più credibile,
«perché sei qua?» le domandò,
dirigendosi nuovamente in
cucina
«Oh, niente... Così, era da un po' che non passavo
a
trovarti. Non ti fai mai sentire»
«Scusami, non ho avuto tempo
ultimamente. Volevo passare da te più tardi ma mi hai
preceduta...
Sono appena tornata a casa adesso, ero a fare la spesa»
disse, nel
tentativo di cambiare discorso. Inutile dire che, in realtà,
di
tempo libero ne aveva avuto ben molto.
Suo madre fece una smorfia
distratta, accompagnandola poi ad un debole sorriso.
«Non
preoccuparti... Vuoi una mano?» domandò indicando
le confezioni sparse sul tavolo e seguendo Gwen nella piccola cucina.
«Oh, si
grazie! Potresti passarmi quello?»
«Certo! Questo dove vuoi che
lo metta?»
«Posalo pure lì, poi lo sistemo io»
«Sai, stavo
notando» disse passando un barattolo a Gwen, «non
compri neanche un
po' di carne...»
Gwen per un attimo fissò la madre, corrucciando
un sopracciglio.
«Stai scherzando, vero?»
«Cosa ho detto di
male? Sei così pallida, mi sembri dimagrita e...»
«Mamma, sono
sempre stata pallida!» sbuffò, «E poi mi
rifiuto di chiamare
quella cosa prodotta in un laboratorio di chimica
“carne”»
«Non
l'hai mai assaggiata, guarda che non è poi così
male. Non uccidono
neanche un animale per produrla»
«Ecco, è proprio quello il
punto. Come si fa a chiamarla carne? Non penso che morirò
se non
la mangio, non credo proprio di essere l'unica vegetariana sulla
faccia della Terr...
Di questo pianeta»
«Ah, Gwen...», sospirò
«Sei un caso perso»
La ragazza roteò gli occhi, gesto che però
passo inosservato.
«Piuttosto...» proseguì sua madre,
«Il
lavoro? Ne hai trovato uno?»
Perfetto.
Ecco uno di quegli
argomenti che assolutamente non doveva essere nominato.
Con la
coda dell'occhio osservò quasi involontariamente il tablet
lasciato
sul tavolo.
Fece finta di ignorare la domanda, nascosta dietro
l'anta di una mensola e continuando a sistemare le
confezioni.
«Allora?»
Sempre rivolta di spalle Gwen si morse
il labbro, socchiudendo delicatamente le palpebre.
Trattenne il
respiro, prendendo coraggio. Non voleva deluderla, ma mentirle
sarebbe stato inutile.
«Niente...» sussurrò voltandosi.
Sua
madre la guardò negli occhi, sospirando un
“oh” deluso ed
abbassando lo sguardo.
«Ti giuro, ci sto provando...» mormorò,
tentando di controllare il tremolio della voce «Non faccio
altro che
inviare curriculum, ma non mi prende nessuno. Chiedono tutti
personale con qualifiche in chimica, fisica, matematica... Io non ci
capisco niente in quelle materie, non mi piacciono. Eppure io ho
studiato, con tutti i sacrifici che abbiamo fatto per iscrivermi
all'Accademia!»
«Si sistemerà tutto, tranquilla. Troverai
qualcuno che ti assumerà» la consolò,
sfiorandole una mano.
Gwen
sospirò profondamente.
«Sono già sei mesi che siamo qua. Io non
riesco ad adattarmi. Tra poco smetteranno di versarmi quei pochi
soldi che mi danno ogni mese... Ho bisogno di un lavoro»
«Ce la
farai, non tutti hanno bisogno di chimici o matematici.»
Rimasero
in silenzio per qualche secondo, lo sguardo fermo sulle loro mani
intrecciate.
«Voglio tornare sulla Terra» mormorò
Gwen,
rivolgendo lo sguardo verso la finestra dalla quale si poteva
intravedere uno scorcio del blu profondo di quel cielo,
«Anch'io
lo vorrei tanto, Ma dobbiamo adattarci, andare avanti. Qualcosa di
buono prima o poi accadrà, giusto?»
domandò con un sorriso
sincero.
Era incredibile come riuscisse sempre ad essere così
ottimista, contrapponendosi totalmente al carattere della figlia.
«Si,
scusami... Hai ragione. Mi sono lasciata andare e...»
«No, non
ti devi scusare» la rassicurò,
«piuttosto, vediamo un po' di fare
qualcosa. Troviamo questo maledetto lavoro»
«Ma mamma, ci ho già
provato, non si trova niente...»
«Aspetta a dire così. Non sono
venuta qua per niente, era proprio questo il discorso che volevo
farti» rivelò, sorridendo allo sguardo falsamente
esasperato e allo
stesso tempo divertito della figlia. «Ho sentito dire dalla
mia
vicina di casa che suo figlio ha trovato lavoro in una fabbrica al
confine della Bolla. L'hanno aperta da poco, probabilmente staranno
cercando ancora del personale... Perché non provi?»
«Dirmelo
prima?» scherzò Gwen.
«Dovevo farti un po'
reagire, no?» le rispose divertita.
«Me lo sarei dovuto
aspettare da te. Piuttosto...» riprese interessata dal
discorso
precedente, «Che fabbrica è?»
«Oh, un'azienda ortofrutticola,
mi pare...»
Gwen storse il labbro, rivolgendole un'occhiata di
sbieco.
«Io che lavoro con delle piante? Ti ricordo che l'ultimo
cespuglio di rose che avevamo era morto dopo il mio pessimo tentativo
di potatura....»
Sua mamma rise, portandosi una mano alla
bocca,
«Oh, quanto mi ero arrabbiata! Povere le mie
rose...»
disse scuotendo la testa con ancora il sorriso stampato sulle labbra.
«Comunque penso sia tutto automatizzato, non so bene come
funziona.
Imparerai... Non credo troverai rose da potare, no?»
Gwen
sospirò, appoggiandosi al piano della cucina.
«Io, non so...»
mormorò abbassando lo sguardo e passandosi una mano tra i
capelli
«Passare dall'Art Gallery of Ontario a... Delle
piante?»
Ricordava
bene quanto fosse stata veramente felice nel vedersi assunta
all'interno di uno dei musei più importanti del Canada.
Molto
probabilmente era stata la realizzazione di un sogno, uno dei periodi
più belli della sua vita prima del grande trasloco su Marte
che aveva visto
l'abbandono di tutto quel patrimonio artistico nelle mani di
nessuno.
Amava i corridoi illuminati e le grandi vetrate dalle
quali la luce filtrava indisturbata, per non parlare di tutti quei
quadri, capolavori moderni ed antichi. Degas, Matisse, Picasso,
Dalì,
Monet, Goya... Quante volte si era persa tra i colori di quei
dipinti, gli occhi avari di ogni più piccolo particolare. Le
mancava
sentire l'eco debole dei suoi passi risuonare tra le pareti, il
mormorio indiscreto della gente impegnata a discutere e quell'odore
così unico e familiare che aleggiava in ogni stanza.
Senza
rendersene conto lasciò che quelle immagini si
impossessassero di
lei.
Il muro bianco che inconsciamente stava fissando da qualche
secondo stava diventando una tela sulla quale i pensieri iniziarono a
prendere vita. Chissà ora in quali condizioni si trovavano
quelle
opere tanto amate, abbandonate laggiù, sulla Terra.
Le piaceva
così tanto la zona dedicata all'arte rinascimentale, con
tutti quei
soggetti così ben curati, i colori variopinti, le pennellate
dorate
dai toni così caldi...
«...E
quindi io penso che alla fine ti
potrebbero assumere. Magari sarà un impiego temporaneo, ma
nel
mentre potrai lavorare... Allora, mi stai ascoltando?»
Gwen
spalancò gli occhi, osservando la madre.
«Oh, sì sì... Certo!
Hai proprio ragione...» rispose istintivamente Gwen,
ritornando
immediatamente alla realtà. «Insomma, si.. Una cosa
giusto per il
momento, poi magari trovo dell'altro. Beh, certo, ovvio...»
biascicò
nel tentativo di risultare convincente.
«Va bene...» sbuffò
sua madre in risposta con finta esasperazione,
«farò finta che tu
mi abbia ascoltata e che non stavi pensando ad altro. Puoi passarmi
un attimo il tablet? Così vediamo di inviare questo curriculum» chiese indicando l'oggetto sottilissimo
lasciato all'angolo opposto del tavolo.
«Ehm, questo? Si, si...»
risposte incerta alla richiesta, porgendoglielo lentamente.
Ricordava
bene la schermata lasciata prima aperta; quella con tutte le risposte
dagli esiti che, purtroppo, non erano stati positivi.
Quando la
signora Fahlenbock illuminò il display con un tocco di
polpastrello
si ritrovò davanti a tutte quelle decine di rifiuti.
Gwen esitò,
indecisa se provare a giustificarsi. Deludere sua madre era l'ultima
cosa che avrebbe voluto fare.
«Mi spiace...» sussurrò, «non
volevo che le vedessi...»
«Oh, non m'importa, te l'ho già
detto. Non dipende da te, ci hai provato è questo che conta,
no?»
sorrise affettuosamente, incoraggiandola con un abbraccio.
«Questa
volta sarà quella buona, me lo sento» le
sussurrò dolcemente in un
orecchio
Il calore di quel contatto le si diffuse inaspettatamente
in tutto il corpo, scaldandole il petto con un brivido
improvviso.
Quanto tempo era passato dall'ultima volta che si era
lasciata stringere così?
Finalmente, aggrappata a quello scoglio
di salvezza, riassaporò per un attimo la sensazione di
essere a
casa, riscoprendo in quel corpo un piccolo pezzo di Terra che tanto
le era mancato.
In quel momento, senza nessuna paura, lasciò
scorrere libero sulle sue guance l'oceano che in tutti quei giorni le si era segretamente accumulato nel cuore.
«Grazie»
bisbigliò, assaporando con la
lingua i solchi salati delle lacrime, persa tra le braccia della
persona che da sempre l'aveva amata e con gli occhi pieni di una nuova speranza in cui credere.
Segnatevi questa data
sul calendario perchè finalmente ho aggiornato!
Questo capitolo mi ha fatto letteralmente impazzire. Ero stata
così brava da riuscire a scriverlo nel tempo record (?) di
una settimana, ma poi una volta finito ho deciso che non mi piaceva.
Così l'ho riscritto in un modo completamente diverso
rispetto all'originale, mettendoci qualche secolo per terminarlo...
Scusatemi!
E' stato piuttosto difficile da scrivere perché dovevo
riuscire a descrivere un ambiente e delle situazione completamente
nuove senza risultare noiosa. Nel caso ci fosse qualcosa che non si
capisce bene vi prego di dirmelo . Con l'andare della storia
scenderò sempre meglio nei particolari. Per il momento mi
limito a parlare degli aspetti più essenziali per evitare di
basare l'intero capitolo esclusivamente sulle descrizioni.
Non avete idea della cultura che mi stia facendo da quando ho iniziato
questa fanfiction. Mi sono letta praticamente ogni genere di
enciclopedia e articolo che parlasse di Marte! E per quanto riguarda la
carne prodotta in laboratorio esiste davvero.
Se tutto va bene per il prossimo capitolo ho in mente una sorpresa...
Non vedo l'ora di iniziarlo!
Alla prossima :3