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Autore: Nackros    14/03/2012    4 recensioni
Marte, quella era la meta, la sua nuova casa.
Era quel pianeta che osservava quando ancora la sera si poteva sedere tra le tegole ed il comignolo e che pensava fosse così irraggiungibile.
Era stato reso vivibile “apposta per tutti noi esseri umani”, avevano detto.
Avevano costruito sul suolo rosso di quel corpo celeste, lavorato per rendere l'atmosfera vivibile, ma non erano riusciti a salvare la Terra.
Per questo si trovava lì, sul retro di una navicella spaziale, a guardare la Terra allontanarsi sempre di più da lei, troppo immersa nei suoi pensieri per accorgersi della presenza alle sue spalle di un ragazzo che la scrutava meravigliato.

[...]
In un futuro forse neanche troppo lontano la Terra non è più abitabile e gli esseri umani si preparano a compiere la più grande migrazione mai avvenuta.
Ed è proprio sul retro di una navicella in rotta per Marte che due ragazzi, dopo tanto tempo, si rincontrano.
Dal capitolo 5:
Lentamente tutto stava tornando come prima, o almeno per quanto ciò fosse possibile.
Ma come in ogni cambiamento c'era sempre qualcuno che rimaneva indietro; Gwen si sentiva esattamente così, in ritardo, come fosse troppo tardi per poter recuperare.
Lì in piedi, in attesa di rientrare a casa, si rese conto di essere l'unico punto fermo in un mondo che continuava a scorrere, a mutare. Era una sensazione strana, un po' come quando ci si siede sulla panchina di una stazione e si vedono tutti partire, mentre tu rimani fermo ad osservare il mondo che va avanti senza aspettarti. Come se la sua presenza non avesse importanza in mezzo a tutto quel via e vai di vite.
Nessuno si sarebbe fermata ad attenderla. Tanto valeva rimanere ferma ad aspettare. Ad aspettare cosa, poi?
Genere: Romantico, Science-fiction, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Gwen, Trent | Coppie: Trent/Gwen
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Gwen sporse il naso sullo scaffale più alto, alzandosi in punta di piedi.
Doveva pur esserci una confezione di mais che non fosse geneticamente modificata, non potevano non venderla. Scrutò ancora il ripiano colmo di barattoli di qualsiasi forma e colore, con le caviglie che iniziavano a tremare per lo sforzo prolungato.
Ad un certo punto il suo viso si illuminò alla vista della scritta "senza OGM" che risaltava debolmente tra tutta la merce esposta.
Rigirò il barattolo tra le dita, scorrendone la superficie con la punta delle dita.
Prima di aggiungerlo al carrello diede un veloce sguardo allo scaffale, come per memorizzarne la posizione e subito il suo sguardo soddisfatto sfumò in un'espressione delusa alla vista del prezzo.
Una cifra esorbitante per qualche chicco di mais, decisamente esagerata, troppa per le sue possibilità. Non poté far altro che riporre la confezione al suo posto, insieme a tutte le altre, per poi scambiarla con una delle tante dal patrimonio genetico ben diverso da quello che in origine doveva avere una qualsiasi pianta di granoturco.
Continuò ancora a camminare lentamente tra gli scaffali, osservando con fare disinteressato le decine di diversi prodotti esposti.
Quando si trovò a passare tra il reparto delle carni il suo sguardo si posò quasi involontariamente su uno dei tanti espositori. Ogni volta, passandoci accanto, non poteva non rimanerne indifferente.
La vista di quegli strani affettati ed hamburger le causavano ogni volta una strana sensazione di disgusto, quasi nauseante. Si soffermò a leggere l'etichetta applicata sopra l'involucro trasparente di una “comune” bistecca. 
“La carne prodotta nei laboratori McKennitt garantisce un gusto saporito, un certificato processo di lavorazione chimica e la totale assenza di qualsiasi prodotto di origine animale”.

Con la punta di un dito premette quasi con diffidenza la sottile pellicola trasparente, constatando la consistenza gommosa del prodotto. Era sempre stata piuttosto dubbiosa a proposito della carne prodotta in laboratorio. A dir la verità faticava a considerare vera e propria carne qualcosa che prima non era mai stato vivo. Provò ad immaginarsela col suo vero colore, un bianco lattiginoso, quello che realmente avrebbe avuto se non ci fossero stati i coloranti a donarle quella scura tonalità vermiglia. Non l'aveva mai assaggiata, la schifava il solo pensiero. Automaticamente la sua mente collegava l'idea di un pasto a base di quella carne con la sensazione di mangiare un sacchetto di plastica. Eppure, ogni volta, non poteva non rimanerne incuriosita, nonostante continuasse a rimanere ferma sull'idea che mai l'avrebbe assaggiata.
Continuò ancora a scorrere tra gli scaffali, prendendo qualcosa di tanto in tanto, per poi iniziare ad avvicinarsi alle casse. Pagò ad una cassa automatica, maledicendola più volte, dirigendosi infine verso le grandi porte di vetro che componevano l'uscita.
Ogni volta che usciva si sentiva persa, disorientata.
Subito lo sguardo si alzava automaticamente in direzione del cielo, troppo blu e profondo, ricordandole quanto tutto fosse diverso. Con la busta stretta in una mano si avvicinò al ciglio della strada, in attesa del metrobus che l'avrebbe ricondotta a casa.
Le macchine ormai erano un mezzo di trasporto completamente dimenticato, alla base di troppi problemi, primi tra tutti l'inquinamento ed il traffico.
Ora le strade, spaziose e molto più pulite, erano sgombre da qualsiasi mezzo di trasporto privato, ad eccezione di alcune importanti personalità che potevano ancora disporre di alcuni mezzi ad uso esclusivamente personale.
I metrobus alla fine, nonostante lo sconcerto iniziale, si erano dimostrati molto comodi ed efficienti. Completamente automatizzati, viaggiavano su rotaie a qualsiasi ora del giorno.
Gwen si avvicinò alla fermata, evitando la vista del cielo e seguendo con lo sguardo la superficie chiara del marciapiede. Il cartello elettronico segnava che il suo metrobus sarebbe arrivato tra meno di tre minuti. Durante l'attesa si fermò ad osservare la gente scorrerle davanti agli occhi.
Un uomo vestito elegantemente, probabilmente di ritorno da qualche conferenza di lavoro, due donne impegnate in un'animata conversazione, una signora impegnata nella pulizia di un'insegna... La vita, nonostante le difficoltà, era andata avanti per tutti. Ci si era dovuti adattare.
Lentamente tutto stava tornando come prima, o almeno per quanto ciò fosse possibile.
Ma come in ogni cambiamento c'era sempre qualcuno che rimaneva indietro; Gwen si sentiva esattamente così, in ritardo, come fosse troppo tardi per poter recuperare.
Lì in piedi, in attesa di rientrare a casa, si rese conto di essere l'unico punto fermo in un mondo che continuava a scorrere, a mutare. Era una sensazione strana, un po' come quando ci si siede sulla panchina di una stazione e si vedono tutti partire, mentre tu rimani fermo ad osservare il mondo che va avanti senza aspettarti. Come se la sua presenza non avesse importanza in mezzo a tutto quel via e vai di vite.
Nessuno si sarebbe fermata ad attenderla. Tanto valeva rimanere ferma ad aspettare. Ad aspettare cosa, poi? Si era già fatta questa domanda centinaia di volte, eppure la risposta era così semplice.
Aspettava lui, Trent. E se non ci avesse impiegato troppo l'avrebbe probabilmente atteso per tutta la vita. Non se l'era scordata quella promessa. Non aveva dimenticato i baci, la sensazione di quelle mani calde accarezzarle la schiena, e mai lo avrebbe fatto.
Avrebbe potuto convincersi di tante cose, addirittura che lui l'avesse ingannata, ma non poteva cancellare quei ricordi, ormai troppo ingombranti per essere rinchiusi in qualche anticamera del cervello.
Semplicemente aspettava, schiava dell'idea che quel debole barlume di speranza trovasse la forza di divenire concreto. La distanza era stata la sua condanna.
Era inutile tentare di non pensarci, in qualche modo riusciva a ritrovarlo ovunque, nei piccoli gesti quotidiani. La sua assenza le generava dei vuoti che solo i pensieri riuscivano a colmare.
Persa in quelle riflessioni, quasi non si rese conto dell'arrivo del metrobus.
Salì veloce sul mezzo e questo ripartì subito la sua corsa. Le figure dei grossi palazzi del centro della città lentamente sfumarono. Le insegne luminose si fecero sempre più piccole, finché le figure delle case dei quartieri residenziali presero il loro posto. Lasciò che le immagini le scorressero veloci davanti agli occhi, mescolandosi ai pensieri di sogni impossibili.
Arrivò presto a destinazione. Ricoprì a piedi quel breve tratto di strada che la separava dalla sua casa, frugando nelle tasche con le mani alla ricerca della tessera magnetica necessaria per aprire la porta.
Ricordava ancora la prima volta che l'aveva fatta scorrere tra quella fessura.
Le tremavano le dita. Quando aveva spalancato la porta per la prima volta le era venuta un'immensa voglia di piangere.
La casa era completamente bianca, sviluppata su un unico piano e collocata in un anonimo quartiere pieno di altre costruzioni completamente identiche tra di loro.
Dov'erano le pareti colorate ed i giardini con i loro prati sempre un po' malmessi? Ed i tetti un po' spioventi con le loro tipiche tegole rosse? Dove sarebbe salita, la notte, a guardare le stelle e a dipingere, lontana dagli occhi ignari della gente tranquillamente addormentata?
Le pareti chiare, il pavimento lucido e quel semplice ed essenziale mobilio non le appartenevano.
Una volta entrata abbandonò il sacchetto con la spesa su una sedia, attirata dalla spia luminosa emessa dal tablet computer lasciato sul tavolo. Con la punta di un dito sfiorò lo schermo che subito si illuminò, mostrando l'arrivo di nuovi diversi messaggi. Il cuore di Gwen accelerò i battiti.
Non aveva ancora trovato lavoro dal suo arrivo e per il momento aveva solo inviato molti curriculum a diverse aziende. Che qualcuno l'avesse finalmente assunta?
La paura di un'ennesima delusione si mescolò alla speranza di aver finalmente trovato un impiego.
Accarezzò nuovamente il display.
Due nuove risposte. Inizialmente esitò con il polpastrello a mezz'aria, fermata dal timore di un nuovo rifiuto.
Con diversi tocchi veloci aprì i messaggi, scorrendoli uno ad uno.
«Niente... Niente... Niente», scandivano le sue labbra man mano che arrivava a leggere il termine di ogni risposta.
Con un gesto sconsolato lasciò scivolare sulla superficie liscia del tavolo il tablet, dirigendosi verso il bagno. Aprì il rubinetto per lavarsi le mani, lasciandosi scaldare la pelle dal flusso d'acqua calda.
Quando alzò gli occhi in direzione dello specchio posto di fronte a lei, rimase a fissare il suo riflesso a lungo. Dovette lottare con tutta se stessa per cercare di resistere all'impulso di romperlo in tanti minuscoli frammenti d'argento.
Uscita dalla stanza si diresse nuovamente verso il sacchetto malamente abbandonato sulla sedia, raccogliendo una confezione caduta. Si mise a riporre gli acquisti nelle diverse ante della piccola cucina, ignorando il tremolio alle mani. Mentre sbatteva con forza i barattoli sui diversi ripiani un suono la distrasse. Qualcuno aveva suonato alla porta.
Si avvicinò all'ingresso, riconoscendo l'immagine di sua madre nello schermo a parete del citofono elettronico. Delusa aprì la porta, sfoderando un finto sorriso di sorpresa.
Era stupido pensare che prima o poi a bussare a quella porta sarebbe stato Trent?
Sua madre entrò salutandola, ricambiando il sorriso.
Era sempre stata una bella donna, con quei tratti che ricordavano molto quelli della figlia.
«Tutto bene?» chiese.

«Sì, sì... Grazie» mentì spudoratamente.
Lei sembrò accorgersene.
«Sicura?»
«Sì, non ti puoi preoccupare sempre per ogni cosa» sbuffò nel tentativo di apparire più credibile, «perché sei qua?» le domandò, dirigendosi nuovamente in cucina
«Oh, niente... Così, era da un po' che non passavo a trovarti. Non ti fai mai sentire»
«Scusami, non ho avuto tempo ultimamente. Volevo passare da te più tardi ma mi hai preceduta... Sono appena tornata a casa adesso, ero a fare la spesa» disse, nel tentativo di cambiare discorso. Inutile dire che, in realtà, di tempo libero ne aveva avuto ben molto.
Suo madre fece una smorfia distratta, accompagnandola poi ad un debole sorriso.
«Non preoccuparti... Vuoi una mano?» domandò indicando le confezioni sparse sul tavolo e seguendo Gwen nella piccola cucina.
«Oh, si grazie! Potresti passarmi quello?»
«Certo! Questo dove vuoi che lo metta?»
«Posalo pure lì, poi lo sistemo io»
«Sai, stavo notando» disse passando un barattolo a Gwen, «non compri neanche un po' di carne...»
Gwen per un attimo fissò la madre, corrucciando un sopracciglio.
«Stai scherzando, vero?»
«Cosa ho detto di male? Sei così pallida, mi sembri dimagrita e...»
«Mamma, sono sempre stata pallida!» sbuffò, «E poi mi rifiuto di chiamare quella cosa prodotta in un laboratorio di chimica “carne”»
«Non l'hai mai assaggiata, guarda che non è poi così male. Non uccidono neanche un animale per produrla»
«Ecco, è proprio quello il punto. Come si fa a chiamarla carne? Non penso che morirò se non la mangio, non credo proprio di essere l'unica vegetariana sulla faccia della Terr... Di questo pianeta»
«Ah, Gwen...», sospirò «Sei un caso perso»
La ragazza roteò gli occhi, gesto che però passo inosservato.
«Piuttosto...» proseguì sua madre, «Il lavoro? Ne hai trovato uno?»
Perfetto. Ecco uno di quegli argomenti che assolutamente non doveva essere nominato.
Con la coda dell'occhio osservò quasi involontariamente il tablet lasciato sul tavolo.
Fece finta di ignorare la domanda, nascosta dietro l'anta di una mensola e continuando a sistemare le confezioni.
«Allora?»
Sempre rivolta di spalle Gwen si morse il labbro, socchiudendo delicatamente le palpebre.
Trattenne il respiro, prendendo coraggio. Non voleva deluderla, ma mentirle sarebbe stato inutile.
«Niente...» sussurrò voltandosi.
Sua madre la guardò negli occhi, sospirando un “oh” deluso ed abbassando lo sguardo.
«Ti giuro, ci sto provando...» mormorò, tentando di controllare il tremolio della voce «Non faccio altro che inviare curriculum, ma non mi prende nessuno. Chiedono tutti personale con qualifiche in chimica, fisica, matematica... Io non ci capisco niente in quelle materie, non mi piacciono. Eppure io ho studiato, con tutti i sacrifici che abbiamo fatto per iscrivermi all'Accademia!»
«Si sistemerà tutto, tranquilla. Troverai qualcuno che ti assumerà» la consolò, sfiorandole una mano.
Gwen sospirò profondamente.
«Sono già sei mesi che siamo qua. Io non riesco ad adattarmi. Tra poco smetteranno di versarmi quei pochi soldi che mi danno ogni mese... Ho bisogno di un lavoro»
«Ce la farai, non tutti hanno bisogno di chimici o matematici.»
Rimasero in silenzio per qualche secondo, lo sguardo fermo sulle loro mani intrecciate.
«Voglio tornare sulla Terra» mormorò Gwen, rivolgendo lo sguardo verso la finestra dalla quale si poteva intravedere uno scorcio del blu profondo di quel cielo,
«Anch'io lo vorrei tanto, Ma dobbiamo adattarci, andare avanti. Qualcosa di buono prima o poi accadrà, giusto?» domandò con un sorriso sincero.
Era incredibile come riuscisse sempre ad essere così ottimista, contrapponendosi totalmente al carattere della figlia.
«Si, scusami... Hai ragione. Mi sono lasciata andare e...»
«No, non ti devi scusare» la rassicurò, «piuttosto, vediamo un po' di fare qualcosa. Troviamo questo maledetto lavoro»
«Ma mamma, ci ho già provato, non si trova niente...»
«Aspetta a dire così. Non sono venuta qua per niente, era proprio questo il discorso che volevo farti» rivelò, sorridendo allo sguardo falsamente esasperato e allo stesso tempo divertito della figlia. «Ho sentito dire dalla mia vicina di casa che suo figlio ha trovato lavoro in una fabbrica al confine della Bolla. L'hanno aperta da poco, probabilmente staranno cercando ancora del personale... Perché non provi?»
«Dirmelo prima?» scherzò Gwen.
«Dovevo farti un po' reagire, no?» le rispose divertita.
«Me lo sarei dovuto aspettare da te. Piuttosto...» riprese interessata dal discorso precedente, «Che fabbrica è?»
«Oh, un'azienda ortofrutticola, mi pare...»
Gwen storse il labbro, rivolgendole un'occhiata di sbieco.
«Io che lavoro con delle piante? Ti ricordo che l'ultimo cespuglio di rose che avevamo era morto dopo il mio pessimo tentativo di potatura....»
Sua mamma rise, portandosi una mano alla bocca,
«Oh, quanto mi ero arrabbiata! Povere le mie rose...» disse scuotendo la testa con ancora il sorriso stampato sulle labbra. «Comunque penso sia tutto automatizzato, non so bene come funziona. Imparerai... Non credo troverai rose da potare, no?»
Gwen sospirò, appoggiandosi al piano della cucina.
«Io, non so...» mormorò abbassando lo sguardo e passandosi una mano tra i capelli «Passare dall'Art Gallery of Ontario a... Delle piante?»
Ricordava bene quanto fosse stata veramente felice nel vedersi assunta all'interno di uno dei musei più importanti del Canada. Molto probabilmente era stata la realizzazione di un sogno, uno dei periodi più belli della sua vita prima del grande trasloco su Marte che aveva visto l'abbandono di tutto quel patrimonio artistico nelle mani di nessuno.
Amava i corridoi illuminati e le grandi vetrate dalle quali la luce filtrava indisturbata, per non parlare di tutti quei quadri, capolavori moderni ed antichi. Degas, Matisse, Picasso, Dalì, Monet, Goya... Quante volte si era persa tra i colori di quei dipinti, gli occhi avari di ogni più piccolo particolare. Le mancava sentire l'eco debole dei suoi passi risuonare tra le pareti, il mormorio indiscreto della gente impegnata a discutere e quell'odore così unico e familiare che aleggiava in ogni stanza.
Senza rendersene conto lasciò che quelle immagini si impossessassero di lei.
Il muro bianco che inconsciamente stava fissando da qualche secondo stava diventando una tela sulla quale i pensieri iniziarono a prendere vita. Chissà ora in quali condizioni si trovavano quelle opere tanto amate, abbandonate laggiù, sulla Terra.
Le piaceva così tanto la zona dedicata all'arte rinascimentale, con tutti quei soggetti così ben curati, i colori variopinti, le pennellate dorate dai toni così caldi...
«...E quindi io penso che alla fine ti potrebbero assumere. Magari sarà un impiego temporaneo, ma nel mentre potrai lavorare... Allora, mi stai ascoltando?»
Gwen spalancò gli occhi, osservando la madre.
«Oh, sì sì... Certo! Hai proprio ragione...» rispose istintivamente Gwen, ritornando immediatamente alla realtà. «Insomma, si.. Una cosa giusto per il momento, poi magari trovo dell'altro. Beh, certo, ovvio...» biascicò nel tentativo di risultare convincente.
«Va bene...» sbuffò sua madre in risposta con finta esasperazione, «farò finta che tu mi abbia ascoltata e che non stavi pensando ad altro. Puoi passarmi un attimo il tablet? Così vediamo di inviare questo curriculum» chiese indicando l'oggetto sottilissimo lasciato all'angolo opposto del tavolo.
«Ehm, questo? Si, si...» risposte incerta alla richiesta, porgendoglielo lentamente.
Ricordava bene la schermata lasciata prima aperta; quella con tutte le risposte dagli esiti che, purtroppo, non erano stati positivi.
Quando la signora Fahlenbock illuminò il display con un tocco di polpastrello si ritrovò davanti a tutte quelle decine di rifiuti.
Gwen esitò, indecisa se provare a giustificarsi. Deludere sua madre era l'ultima cosa che avrebbe voluto fare.
«Mi spiace...» sussurrò, «non volevo che le vedessi...»
«Oh, non m'importa, te l'ho già detto. Non dipende da te, ci hai provato è questo che conta, no?» sorrise affettuosamente, incoraggiandola con un abbraccio.
«Questa volta sarà quella buona, me lo sento» le sussurrò dolcemente in un orecchio
Il calore di quel contatto le si diffuse inaspettatamente in tutto il corpo, scaldandole il petto con un brivido improvviso.
Quanto tempo era passato dall'ultima volta che si era lasciata stringere così?
Finalmente, aggrappata a quello scoglio di salvezza, riassaporò per un attimo la sensazione di essere a casa, riscoprendo in quel corpo un piccolo pezzo di Terra che tanto le era mancato.
In quel momento, senza nessuna paura, lasciò scorrere libero sulle sue guance l'oceano che in tutti quei giorni le si era segretamente accumulato nel cuore.
«Grazie» bisbigliò, assaporando con la lingua i solchi salati delle lacrime, persa tra le braccia della persona che da sempre l'aveva amata e con gli occhi pieni di una nuova speranza in cui credere.





Segnatevi questa data sul calendario perchè finalmente ho aggiornato!
Questo capitolo mi ha fatto letteralmente impazzire. Ero stata così brava da riuscire a scriverlo nel tempo record (?) di una settimana, ma poi una volta finito ho deciso che non mi piaceva. Così l'ho riscritto in un modo completamente diverso rispetto all'originale, mettendoci qualche secolo per terminarlo... Scusatemi!
E' stato piuttosto difficile da scrivere perché dovevo riuscire a descrivere un ambiente e delle situazione completamente nuove senza risultare noiosa. Nel caso ci fosse qualcosa che non si capisce bene vi prego di dirmelo . Con l'andare della storia scenderò sempre meglio nei particolari. Per il momento mi limito a parlare degli aspetti più essenziali per evitare di basare l'intero capitolo esclusivamente sulle descrizioni.
Non avete idea della cultura che mi stia facendo da quando ho iniziato questa fanfiction. Mi sono letta praticamente ogni genere di enciclopedia e articolo che parlasse di Marte! E per quanto riguarda la carne prodotta in laboratorio esiste davvero.
Se tutto va bene per il prossimo capitolo ho in mente una sorpresa... Non vedo l'ora di iniziarlo!
Alla prossima :3



   
 
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