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Autore: Elizabeth_Tempest    15/03/2012    3 recensioni
Un mazzo di fiori bianchi, avvolti in una velina verdina.
Camminava ricurvo, posando il peso sul bastone e fissando davanti a sé. Stringeva i fiori e si guardava attorno, per quella strada che percorreva ogni giorno per andarla a trovare.
Scritta per "L'amore impossibile" contest.
Genere: Malinconico, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: Margherite bianche

Autore: o0°Lucetta_Streghetta°0o/Elizabeth_Tempest

Rating: Verde

Genere: Romantico, Triste

Avvertimenti: One Shot

Note dell’autore: Piccola OS (pseudo?) romantica.

In Francia le margherite sono simbolo dell’addio e per alcune mitologie le farfalle sono le anime dei morti. Scritta per "L'amore impossibile" contest di  Carla Volturi.

 

 

 

Un mazzo di fiori bianchi, avvolti in una velina verdina.

Camminava ricurvo, posando il peso sul bastone e fissando davanti a sé. Stringeva i fiori e si guardava attorno, per quella strada che percorreva ogni giorno per andarla a trovare.

Attorno a lui, altra gente camminava, immersa ognuno nei propri problemi, ignorandolo o guardandolo per qualche istante, prima di puntare gli occhi su qualcos’altro, dimenticandosi subito dell’anziano signore.

Una bambina urlava nel suo passeggino, mentre sua madre la minacciava di dirlo “a papà”; due ragazze camminavano chiacchierando ad alta voce, mentre un’altra adolescente si baciava col suo fidanzatino. Gli sfuggì un sorriso triste, guardandoli.

Un uomo dall’abito di buon taglio parlava ad un auricolare, mentre un ragazzo strillava nel telefonino; due bambini di colore parlavano nella loro lingua concitatamente, una poliziotta osservava in silenzio la folla, come un cane da pastore il suo gregge.

L’anziano entrò in una viuzza meno trafficata, fino ad un grande cancello di ferro battuto aperto, lanciando un cenno di saluto al guardiano incartapecorito che stava nella guardiola. Questo gli fece un cenno, riconoscendolo: del resto, lo vedeva tutti i giorni alla stessa ora da quasi cinquant’anni. Probabilmente quell’uomo veniva lì al cimitero da molto prima, sempre con un mazzo di margherite in pugno.

Non si guardava mai attorno: camminava sicuro verso una lapide e rimaneva lì anche per ore, a parlare, poi puliva la lastra di marmo e se ne andava.

E così fece anche quel giorno, camminando gobbo verso la lapide.

In quella città di morti, il sole batteva sulle lastre di marmo chiaro, gettava strane ombre sugli angeli di pietra e scivolava sui tetti delle cappelle; i fiori avvizzivano lenti sotto i raggi infuocati.

Tutto era ordinato, nell’ordine tipico di un luogo privo di vita, eppure qua e là qualche lucertola s’intravvedeva, tutte prese ad arrampicarsi e scaldarsi. Qualche farfalla svolazzava e un grosso ragno aveva fatto la sua tela tra le grate di una cappella. Qualche ciuffo d’erba cresceva isolato tra le pietre sconnesse del camminamento e, ogni tanto, qualche pigra nube tagliava la strada al sole, oscurando per un momento il mondo.

L’uomo si fermò davanti alla lapide che visitava ogni giorno. Una volta non avrebbe mai pensato di recarsi al cimitero per parlare con un morto: a che pro farlo?

Una volta non avrebbe mai creduto che un trapassato potesse sentirlo, ma ora era certo che così fosse.A volte la sentiva vicina, terribilmente vicina, come tanti anni prima, quando entrambi erano giovani.

La vita della sua Mylène era stata rapida come quella di una rosa, che nasce, fiorisce e appassisce in poco tempo, petalo dopo petalo si sfalda, cadendo a terra, dove la polvere la ricopre. Eppure, anche dopo essere sfiorita, il ricordo della sua bellezza e il suo dolce aroma rimane.

Così era stata Mylène: era sbocciata in fretta, sotto il dolce sole della primavera. Non era bella, eppure nei suoi occhi c’era qualcosa di magico, qualcosa di assolutamente umano e divino allo stesso tempo. Nei suoi occhi verdi c’era la vita che scorreva, c’erano le sue speranze, i suoi sogni. Erano occhi che facevano sognare, che sapevano parlarti di mondi fatati dove non esistevano né dolore né sofferenze.

Nel suo sorriso che tutti definivano un po’ tocco c’era il mondo, c’era l’amore; nella sua voce un po’ rauca quell’inesauribile voglia di vivere che la caratterizzava.

C’era amore e speranza nelle sue dita fragili, che stringevano la sua mano forte. E allora anche l’uomo aveva conosciuto la speranza, lui che pensava di essere disilluso, che pensava di aver visto tutto della vita.

C’era la speranza e l’amore per Mylène e per le margherite che tanto amava. Sognava campi di margherite al posto delle macerie e campanule al posto di fucili e bombe. Sognava farfalle al posto degli aerei e usignoli al posto degli allarmi.

E allora anch’egli aveva sognato di margherite, di campanule, di farfalle e di usignoli. Aveva sognato il sole tiepido sulla loro casetta e le risate di un bambino a cui insegnare la speranza e l’amore.

Però non c’erano farfalle e usignoli, ma aerei e allarmi. E quella casa di mattoni tutta rovinata, sui cui davanzali Mylène aveva posato vasi di fiori, era diventata macerie e polvere bianca.

Sua madre l’aveva trattenuto, perché non andasse a cercare Mylène e i suoi vasetti di margherite.

L’uomo avrebbe desiderato tanto seguirla, ma di sicuro Mylène non voleva, non desiderava questo da lui. Allora aveva piantato tante margherite, per lei. Gliene portava ogni giorni, perché le piacevano tanto e parlava, parlava, parlava.

Parlava del cantiere vicino casa sua, da cui risuonavano i discorsi dei manovali. Parlava del verduraio che litigava del macellaio. Parlava del nuovo libro che aveva letto. Parlava della tazza che si era rotta scivolandogli dalle mani. Parlava della coperta arancione che aveva rammendato col filo verde. Parlava della quiche che la vicina gli aveva portato. Parlava dei due figli del condomino del piano di sopra, che strepitavano tutto il giorno. Parlava del bel tempo o della pioggia che gli faceva scricchiolare le articolazioni.

Sapeva che Mylène l’ascoltava, in religioso silenzio, divertita, rapita, oppure triste e contrita.

Non c’erano foto sulla lapide, perché non ne avevano. Non c’era nemmeno un cognome, perché non lo conosceva. Conosceva il suo volto brutto e i suoi occhi luminosi. Conosceva i suoi vestiti rattoppati e la sua risata felice. Mylène non aveva nulla, eppure era sempre contenta. Egli aveva avuto tutto, eppure era sempre triste. Ma poi ella aveva scacciato l’inverno e gli aveva portato la primavera. Gli aveva portato i colori, i profumi e la gioia. Di Mylène non conosceva nulla, eppure solo Mylène lo conosceva davvero.

In un giorno di estate l’aveva conosciuta e in una notte di autunno se n’era andata. Posò le margherite nelle loro velina verde sulla lapide, mentre una farfalla si posava sulla sua spalla.

   
 
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