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Autore: Sylphs    17/03/2012    4 recensioni
Sei mesi dopo la notte del don Juan, una giovane pianista un po' inopportuna arriva al teatro dell'Opera per seguire delle lezioni...ma un misterioso e ambiguo incidente capitato durante una rappresentazione la porterà ben presto a indagare sull'esistenza del temibile Fantasma dell'Opera e una domanda opprime l'animo di tutta la compagnia: è realmente scomparso, oppure la loro era solo una speranza vana?
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Due esseri umani, migliaia di mostri

 
 
 
 
 
 
 
Il banchetto aveva avuto inizio. Sulla tavola era stato posto un unico pezzo di carne, i mostri affamati e ringhianti che se lo contendevano erano migliaia, e tutti diversi tra di loro. V’erano mostri che nascondevano le loro orrende fattezze sotto stoffe pregiate e luccicanti gioielli, mostri dignitosamente vestiti che si erano fatti da soli, dando vita ad aziende e promuovendo cantieri, e mostri che sguazzavano nel letame e nel sudiciume e che, calpestati dalle prime due categorie in ogni momento della vita, adesso rivendicavano i loro diritti e lottavano con ferocia disumana, in uno spasmodico desiderio di affondare zanne e artigli nella preda inerme. Place de Grève risuonava di ruggiti e di ringhi, di grugniti e di colpi, si era svuotata agli angoli e si era riempita sino all’esasperazione al centro, dove i corpi grotteschi e folli si spintonavano, si mordevano, si strappavano i capelli nel tentativo di raggiungere l’oggetto della loro voracità, pressoché invisibile nella moltitudine. Umili lavandaie cavavano gli occhi a nobildonne agghindate, floridi borghesi si accapigliavano con aristocratici pomposi, graziose fanciulle graffiavano con unghie di gatto macellai, tessitori e verdurai. Il labbro superiore di ognuno si era sollevato a mostrare i denti scintillanti al modo di una scimmia che vuole intimidire l’avversario, le dita erano curvate ad artiglio, la schiena era piegata in posizione d’attacco.
Non erano uomini, ma leoni, tigri, sciacalli, orsi, serpenti, aquile, squali e ogni tipo di predatore esistente nel mondo. Si scannavano tra loro pur di assaporare un morso di quel banchetto insufficiente, di quella giovane e temeraria gazzella arresasi alla propria evidente inferiorità numerica e chinatasi ad offrire alle loro fauci il collo morbido e bianco perché lo squarciassero, lordando il selciato della Grève con il suo dolce sangue di strega. Se non fossero stati così impegnati ad impedirsi di raggiungerla, forse l’avrebbero fatta a pezzi nel giro di una manciata di secondi, ma l’istinto animale non accetta concorrenza né collaborazione e quel loro lottare furibondo si era in realtà rivelato un ostacolo al compimento del linciaggio.
Né il marchese Rappenau né la figlia Colette vi avevano preso parte. No, non erano stati loro, quell’uomo corrotto e mellifluo e quell’arpia malefica, a cercare vendetta per il parente ammazzato a sangue freddo. Colei che si era gettata nella mischia con ferocia incontrollata, l’ultima persona che ci si sarebbe aspettati di veder scendere in campo, era la raffinata ed elegante marchesa Angelique, trasfigurata in una folle posa di brama omicida e avvolta nella nuvola della bionda capigliatura arruffata. I suoi denti affilati di dolore materno penetravano nella carne altrui lacerandola con strappi raggelanti, le sue gonne sventolavano furiosamente intorno al corpo esile, i suoi occhi scintillavano di una smania mostruosa: “È mia!” perfino la voce non aveva più nulla di umano: “Devo essere io ad ucciderla! Ha ammazzato mio figlio, quella puttana diabolica mi ha portato via il mio Antoine!”
Un uomo le impediva di passare. Raccolse da terra il forcone di qualche caduto, lo roteò sopra la testa con l’elegante agilità di una leonessa e glielo conficcò nella giugulare con un ringhio felino. Egli gorgogliò, il sangue vermiglio che usciva a fiotti dalla gola tagliata, e si accasciò pesantemente sul selciato, gli occhi dilatati in un’espressione di terrore e di stupore assoluto. Brandendo la sua rozza arma come un condottiero invincibile, la marchesa lo scavalcò e continuò a farsi avanti in modo inesorabile.
La timida Emma non capiva più nulla. L’improvvisa avanzata della folla l’aveva separata dalla sua famiglia e si era ritrovata sperduta nell’occhio del ciclone, circondata da quelle facce animalesche, da quei combattimenti all’ultimo sangue, da quella corsa che vedeva come traguardo la sua migliore amica. Ovunque si volgesse, non scorgeva altro che unghie, denti e iridi indemoniate, persone che cadevano a terra negli ultimi spasmi dell’agonia, creature dagli abiti lordi di sangue che si facevano strada tra i cadaveri, feriti che si contorcevano implorando aiuto. Il suo piccolo, debole cuore di ragazza di famiglia che non aveva mai visto il mondo e i suoi orrori non sopportò quell’inferno simile ad un rito bacchico e andò in pezzi, riempiendola di un cieco terrore. Ogni cosa era dimenticata, ogni barlume di coscienza era volato via da lei. Urlando tutto il suo tenero terrore di bambina mai divenuta donna, si nascose il volto fra le mani come a proteggerlo e tentò di guadagnare la salvezza, muovendosi con goffaggine fatale controcorrente alla massa di mostri ingordi e invocando, con tono puro, inconsapevole e desolato: “Mamma! Mamma! Papà!”
Uno spintone violento le mozzò il respiro e la proiettò a terra, in mezzo ai cadaveri e ai feriti. Da quella prospettiva, la visuale era ancora più terrificante: le lunghe gambe dei predatori che la sovrastavano assomigliavano a massicci tronchi d’albero, ed ella aveva l’impressione d’essersi smarrita in una foresta di carne e di sangue, in una selva viva che si muoveva selvaggiamente intorno a lei e la soffocava, oscurando la rassicurante solidità dei palazzi di Parigi, possibili rifugi in cui nascondersi. Ansimando rumorosamente, scuotendo il viso rigato di lacrime, strisciò tra i tronchi umani, cercando qualcosa a cui aggrapparsi, un’anima buona disposta ad aiutarla e a portarla via dall’inferno. Ma un ginocchio la colpì alla tempia, una stilettata di dolore esplose nel suo cervello terrorizzato e si ritrovò distesa in posizione fetale, il sangue che le gocciolava sugli occhi e la mente pulsante di sofferenza. Forme e colori in movimento lampeggiavano a destra e a sinistra e le ferivano le pupille.
(…no aiuto non riesco a respirare ho paura mamma papà buon Dio aiutatemi qualcuno mi aiuti vi prego…)
Piedi avvolti in robusti stivali di pelle le calpestarono spietatamente la schiena e urlò, avvertendo le vertebre che scricchiolavano e che cedevano alla pressione. Il corpo non le rispondeva più, era lacerato, spezzato, distrutto. Braccia e gambe si dibattevano convulse nel vano tentativo di risvegliare la spina dorsale fratturata, lo scorrere convulso dei suoi pensieri la assordava. Intravide nella foresta sfocata un lembo marrone che assomigliava alla casacca di suo padre e istintivamente vi avvinghiò le dita, trattenendolo e sforzando disperatamente le labbra per tirar fuori quella poca voce che le restava: “Aiuto…”
Un volto estraneo, la maschera feroce di un lupo, s’abbassò con fastidio verso di lei e le riservò uno sguardo di disgusto. L’uomo al quale si era aggrappata sollevò la mano destra, la calò violentemente sul suo viso e la colpì con un manrovescio che la lasciò senza fiato e ruppe gli ultimi legami. Ebbe la sensazione che tutti i denti le stessero saltando via dalle gengive e percepì il sapore intenso e salato del sangue.
(…no no vi scongiuro qualcuno mamma mi fa tanto mal…)
Il capo le ricadde pesantemente sul selciato. Bastò questo. La luce terrorizzata che le animava le pupille si spense come lo stoppino di una candela e sulle labbra pallide restarono intrappolate suppliche che non avrebbe mai più pronunciato. Qualcuno, un po’ più umano degli altri, provò a sollevarla. Crollò nuovamente a terra. La maggior parte passò sopra al suo corpo esanime con assoluta indifferenza, devastandolo.
Erik, con la sua camicia bianca aperta sul petto, la sua chioma scarmigliata e i suoi occhi fiammeggianti, le corde da cui si era liberato strette tra le mani e pronte a divenire un’arma in suo potere, si gettò tra le bestie senza alcun indugio ed entrò in una realtà che conosceva fin troppo bene, in una lotta per la sopravvivenza che aveva sostenuto per tutta la vita, a livello simbolico, e non fisico come in questa circostanza. Per lui la razza umana era sempre stata questo, un branco di avvoltoi in balia del loro istinto pronti ad avventarsi su chiunque si fosse dimostrato diverso da loro, e sapeva come far fronte alla loro aggressiva ferocia, sapeva come difendersi. In più, stavolta l’oggetto del loro furore non era lui, ma Vivian, e questo solo particolare sarebbe bastato a dargli la forza di mille colossi. L’adrenalina danzava impazzita nelle sue vene e il suo animo ardeva di un fuoco interiore e inestinguibile. Non l’avrebbero divorata. Non gliel’avrebbero portata via. Gli avevano già tolto troppe cose, Vivian non sarebbe divenuta una di queste. Per lei sarebbe stato disposto ad ammazzarli tutti, a dannarsi per l’eternità, a perdere ogni ragione.
La sua voglia di vivere e di combattere, che il presunto tradimento della giovane aveva distrutto, si era ridestata prepotentemente dinnanzi a quel gesto altruista ed encomiabile, a quella commovente e fatale dimostrazione di amore, e niente l’avrebbe fermato, adesso che aveva compreso, senza ombra di incertezza, d’essere stato ingannato dal Marchesino, di aver accusato Vivian di qualcosa di falso. Ella lo amava ed era sincera, e come al solito la sua diffidenza e la sua scarsa autostima per tutto ciò che concerneva l’universo sentimentale avevano rovinato tutto, facendogli perdere quell’occasione di felicità. Ma avrebbe rimesso a posto le cose.    
Si mosse nella fiumana impazzita, uomo tra i mostri, agitando le corde e spingendo violentemente tutti quelli che gli sbarravano la strada, frugando spasmodicamente l’occhio del ciclone con lo sguardo nella speranza di intravedere qualcosa di Vivian. Ma ella non si vedeva da nessuna parte, né si lasciava sfuggire grida o lamenti grazie ai quali lui avrebbe potuto appurare ch’era ancora viva. Ciò aumentò vertiginosamente la sua foga e decuplicò l’occulto potere che gli scorreva nelle membra. Era più forte di un uragano, nulla poteva resistergli. Afferrava mostri sbavanti e voraci, li sollevava senza sforzo e li scagliava contro i loro simili, facendoli cadere, passava le funi con agilità fluida intorno a colli gonfi e rossi e strozzava i proprietari con ridicola facilità. Era divino, inarrestabile. Il suo volto ardente sussultava di una serie di spasmi di frenesia, furore e amore, le piaghe si muovevano con esso dandogli ora un aspetto orribile, ora un aspetto di inumana regalità, le iridi incenerivano i suoi avversari fiammeggiando dietro alla scomposta capigliatura. Era bellissimo, spaventoso, meraviglioso in modo terribile. Le sue mani giudicatrici pescavano nel mare di assassini e li giustiziavano uno dopo l’altro, ammucchiando cadaveri su cadaveri.
Ma essi uccidevano per puro istinto omicida, lui per salvare la sua amata e per sopravvivere. E qui risiedeva la differenza fondamentale.
Non parlava, non gridava, non li malediceva. La sua avanzata era accompagnata da un silenzio duro e determinato e un solo nome echeggiava nel fondo della sua anima nera, laddove risiedeva ciò che di buono era in lui, scandendo i suoi gesti ed iniettandogli dosi di adrenalina: “Vivian Vivian Vivian”.
Non pensava a nient’altro, non vedeva nient’altro, non sentiva nient’altro, non odorava nient’altro. Era ebbro di lei, della sua immagine, ne tracimava dagli occhi, dal naso e dalle orecchie, penetrava la folla con lo sguardo sino al punto in cui giaceva, frantumava gli strati umani che gli impedivano di raggiungerla. I sentimenti di un uomo arrivano a certi livelli, a volte. In quel momento, non esisteva abisso in cui egli non fosse pronto ad immergersi: se l’avesse trovata morta, smembrata dai suoi aguzzini, per Parigi sarebbe stata la fine. Avrebbe creato un congegno talmente potente da distruggerla fino alle fondamenta, e non avrebbe provato rimorso. Ma non avrebbe agito con la vendicativa mostruosità del passato. Avrebbe agito perché senza di lei non valeva la pena di vivere né di essere in pace con gli altri. Sarebbe morto, e avrebbe trascinato tutti con sé nell’abisso.
Ma una forza analoga alla sua aveva raggiunto per prima il premio bramato da entrambi, per motivi totalmente differenti, una calamità ugualmente inarrestabile e distruttiva si era disfatta da tutti i possibili avversari e incombeva adesso sopra la preda, nascondendola con la propria schiena ritta e impugnando alto nell’aria un forcone gocciolante sangue fresco. La marchesa Angelique, un donnino esile, timoroso, sottomesso, una moglie devota e una madre impeccabile, che tuttavia qualcosa doveva aver covato nei suoi anni di femminile sopportazione, aveva il volto, i biondi capelli e l’abito rosa macchiati di vermiglio e contemplava con occhi implacabili il corpo ai suoi piedi. Anche lei aveva avanzato sorretta da un solo nome, da una sola emozione, anche in lei era risuonato l’unico essere che in quel momento contava: “Antoine”.
Il giovane primogenito, insieme a Colette, era stato l’unica luce nell’oscurità dei suoi giorni, l’unico incentivo ad andare avanti, a sopportare i continui tradimenti del marito, le umiliazioni, le segregazioni, i trattamenti sprezzanti e tutt’altro che romantici. Aveva consacrato la sua esistenza alla propria prole, perduta ogni speranza d’un matrimonio appagante, aveva dato ad essi ogni parte di se stessa, e avrebbe preferito un buco nei suoi intestini ad un graffio sui loro corpi che avevano succhiato latte dal suo seno (aveva insistito affinché fosse lei in persona ad allattarli, e il marchese aveva acconsentito con fastidio). Non le importava nulla che fossero malvagi e viziati, che vivessero per la sofferenza degli altri e che agissero in base a principi totalmente ingiusti e incivili, li aveva portati in grembo, li aveva baciati, li aveva allevati, e tanto le bastava. Antoine in particolare, le cui opinioni sulle donne erano assai basse, ne aveva risparmiata una dal suo disprezzo e l’aveva trattata con un rispetto e una devozione pari a quelli che nutriva per la Madonna: sua madre. Spesso, perfino nell’adolescenza, era venuto da lei nei momenti di tribolazione e le aveva appoggiato in grembo il capo dorato, ricercando la sua comprensione e i suoi baci, e più volte aveva affermato che se mai si fosse sposato, sua moglie sarebbe stata una copia perfetta di Angelique. La donna appena trentacinquenne, commossa dalle lusinghe del suo beneamato figlio, si era figurata una vecchiaia tranquilla e felice in cui, finalmente nonna, accudiva e vezzeggiava gli splendidi nipotini biondi che egli le avrebbe dato.
Ma adesso questi sogni erano andati in frantumi, erano stati squarciati, insieme a quella poca felicità che la vita le aveva concesso. Il suo Antoine era morto e non sarebbe mai più andato da lei in cerca di conforto, non avrebbe mai più udito l’adorata voce spavalda che esclamava, con impeto: “Maman!”
Era insopportabile. E la colpa era di quella cagna, di quella sgualdrinella, di quella serpe disgustosa che lo aveva stregato e ridotto ad una poltiglia senza forma umana. Il suo odio aveva un’intensità inconcepibile, il suo desiderio di veder scorrere il sangue della fanciulla pretendeva d’essere soddisfatto. L’avrebbe fatta a pezzi, l’assassina del suo Antoine. Non meritava di meglio. E nessuno avrebbe potuto impedirglielo.
Si rammaricava soltanto che ella non le offrisse una qualche resistenza, che avrebbe reso il suo omicidio un po’ meno efferato. Malgrado tutto, non era una donna cattiva, i figli non avevano ereditato da lei la crudeltà e l’egoismo, aveva una sua solida concezione dell’onore e dei canoni morali ed era in grado di distinguere tra giusto e sbagliato. Di conseguenza, sebbene accecata dal dolore per la perdita del primogenito e dalla sete di vendetta, sarebbe stato per lei più facile calare il forcone se la sua vittima avesse mostrato di volersi difendere. Ma la ragazza accucciata sul selciato non accennava il minimo movimento, la guardava da basso con i suoi grandi e vacui occhi scuri e la invitava silenziosamente a portare a termine quanto aveva cominciato. L’assalto della folla aveva ridotto a brandelli il mantello nero e parte dell’abito verde che indossava e, laddove la stoffa era lacerata, si intravedevano tagli e graffi sanguinanti. Sulla fronte, una ferita umida le impastava i riccioli di sangue e il sopracciglio sinistro era aperto. Le sue condizioni non erano troppo gravi, considerata la portata dell’aggressione, e tutto questo lo doveva allo sciocco accapigliarsi dei linciatori, che si erano uccisi tra di loro e solo raramente avevano avuto occasione di colpirla.
Angelique, respirando forte, sollevò il forcone sopra Vivian. Lei seguì con sguardo assente la lenta salita dell’arma e chinò in avanti la testa, offrendo la nuca delicata alla giustizia della sua aguzzina. Non palesava paura, né rimpianto per la fine che le toccava, piuttosto appariva rassegnata al proprio destino e serena come chi sa di aver fatto la cosa giusta. In qualche modo, quell’arrendevolezza infuse nuove energie alla vendicativa marchesa: l’atteggiamento di Vivian era quello di una donna supplice che la implorava di metter fine alle sue sofferenze, e vederla in tali termini rafforzò la sua vacillante determinazione. Con un grido selvaggio, abbassò il forcone sul collo proteso sotto di lei e si preparò ad udire un rumore liquido e tagliente, la sua vittoria.
Ma la mano grande e vigorosa di un uomo scattò nel bel mezzo di quella parabola mortale e afferrò con una presa tenace il polso sottile della nobildonna, bloccando la traiettoria dell’arma e salvando la vittima da morte certa. Angelique strabuzzò gli occhi, incredula dinnanzi all’ostacolo indesiderato, e Vivian aprì lentamente i suoi, alzandoli con immensa fatica sul suo salvatore.
Erik Destler incombeva accanto alla madre di Antoine, ansimante, insensato, ardente della sua invincibile risoluzione, il volto contratto in una smorfia e la mano avvinghiata con violenza sul rotolo di corde, e le sue dita di fantasma si serravano sulle carni della donna con tale vigore da impedirla totalmente nei movimenti. Le labbra deformi vibrarono, si strinsero un attimo, poi sibilarono, con tono forte e chiaro: “No”.
Ella restò immobile, pietrificata.
L’uomo abbassò lo sguardo, lentamente, sulla figura accovacciata di Vivian. L’espressione feroce e risoluta dei suoi lineamenti si ammorbidì all’istante, le piaghe parvero comporsi in maniera quasi gradevole e la cupa nube che gli gravava sul viso si rischiarò, illuminandogli le iridi fosche e piegando la bocca ad un sorriso caldo, pieno di sollievo e di amore. Vivian rispose a quello sguardo illuminandosi a sua volta e la sua felicità si riflesse negli occhi di lui, rendendoli per un attimo inconsapevoli dello scenario tragico che li circondava. Erano persi nelle pupille dell’altro, increduli di essersi ritrovati vivi e pressoché illesi nel bel mezzo di quell’inferno, sopraffatti dalla forza dei loro sentimenti.
La ragazza, con un sorriso esausto, stremato, ma pieno di pace, si asciugò goffamente le prime lacrime: “Erik”.
Egli si accorse d’avere a sua volta un groppo in gola e un peso che gli gravava sugli occhi e tirò fuori la voce a stento, tutta incerta e tremante: “Vivian”.
“No!”
Lo strillo gli ghiacciò il sangue nelle vene e spezzò brutalmente quel momento di beatitudine trasognata.
Angelique, compreso in un attimo che l’intervento del Fantasma dell’Opera le avrebbe strappato la preda, incapacitata di utilizzare il polso intrappolato nella sua morsa, si impossessò con la mano libera della torcia di uno dei linciatori, trafugandola con mossa fulminea e con un bagliore di follia sul viso, e diresse la fiamma sulla ragazza gridando tutto il suo odio e il suo dolore. Vivian si riscosse con un soprassalto di paura allorché avvertì il calore rovente del fuoco e rotolò su un fianco per schivare l’attacco, ma troppo tardi: la fiamma rosseggiante le sfiorò la rigogliosa massa di riccioli bruni e presero fuoco all’istante, tramutandosi in una corona lucente e letale.
Erik trasalì e un furore sanguinoso gli trasfigurò nuovamente i lineamenti, mentre ruggiva, come se avessero fatto del male a lui: “No!!”
Sbatté con tutte le forze il corpo di Angelique contro la scala su cui tanto rassegnatamente era salito poco tempo prima e la marchesa vi cozzò con forza, lasciandosi sfuggire un fioco grido. Dal naso le uscì un rivolo di sangue e stramazzò, senz’altro priva di sensi.
Ma l’uomo già non le badava più. Si gettò su Vivian, coprendola col proprio corpo, seppellendole la testa in fiamme nei propri vestiti nel disperato tentativo di spegnerlo, boccheggiando, pregando, ardendo, lacerandosi al suono delle sue grida di dolore, e per la prima volta in vita sua rivolse un’implorazione a qualsiasi entità potesse esistere: “Non farla morire, non farla morire! Io l’amo!”
Un tremendo fetore di capelli strinati gli giunse alle narici e si sentì impazzire. Era lui che doveva bruciare, lui che doveva consumarsi, non Vivian! Possibile che il fato fosse così crudele, così mostruoso? Che condannasse lei alla sorte che gli uomini avevano scelto per lui? No, no, no! Non poteva essere, non poteva andare così, lui l’avrebbe salvata, l’avrebbe portata al sicuro, si sarebbero trovati un angolo di mondo in cui vivere il resto delle loro vite e sarebbero stati felici, sarebbero stati in pace! Non avrebbe accettato nulla di diverso!
Mani brutali lo staccarono dalla sua amata. Le lasciò fare, colto per un attimo da un’ondata di disperazione avvilente e mortale. La folla, che aveva seguito in silenzio le ultime evoluzioni delle vicende, era tornata all’attacco coalizzandosi, stavolta, in un battaglione compatto e imbattibile e aveva separato il Fantasma dell’Opera dalla strega, completamente avvolta negli abiti di lui, per vedere quale era stato infine l’esito dell’assalto da parte della marchesa. L’aveva uccisa? Ferita? Danneggiata irreparabilmente?
L’urlo lancinante che ella emise allorché sentì che la dividevano da Erik confermò ai parigini che non era morta, e che egli era riuscito a soffocare le fiamme. Ma la sua riottosa capigliatura era bruciata, solo qualche ciocca fine le spuntava dal cranio coperto di bruciature, e lacrime di dolore rigavano il suo viso illeso, le sue guance risparmiate da un elemento che l’amato era riuscito a domare prima che potesse compiere a fondo la sua opera. Le ciglia corvine vibravano, ombreggiando solo in parte l’immensa rabbia che pervadeva quella piccola creatura determinata, ancora più bizzarra senza i suoi indisciplinati capelli, ed ella ringhiò contro la folla un verso disarticolato, una manifestazione di disgusto, di disprezzo, di orgoglio che li indusse a rabbrividire, ma non a demordere. Chi avesse voluto interpretare quel verso, avrebbe probabilmente pensato ad un: “Che cosa vi abbiamo fatto di male?!”
D’altronde, la sofferenza e lo choc di quell’aggressione erano ancora troppo forti per permetterle di parlare comprensibilmente.
La torcia usata da Angelique come arma era caduta sul selciato e la fiamma aveva perduto intensità e vigore, riducendosi ad un piccolo fuocherello spaventato. Ciononostante, la ragazza la raccolse, brandendola con la stessa selvaggia ferocia con cui aveva impugnato l’attizzatoio, e divenne un tutt’uno con l’elemento che dalla nascita aveva condizionato le sue azioni e che per un attimo le si era ritorto contro. Ma adesso lo aveva nuovamente fatto suo, lo aveva portato dalla sua parte, ed esso non la combatteva più. Scagliò la torcia sui parigini che trattenevano Erik e quelli arretrarono urlando e coprendosi con le braccia, lasciando libero il suo compagno, protettore e protetto. Allora si fece avanti, indifferente allo stato dei suoi capelli e alle pulsazioni sorde che s’irradiavano dalle ferite aperte, e gli afferrò la mano come avrebbe afferrato l’ancora di una nave o una fune in un precipizio, tirandolo con decisione verso il calesse fermo dove lo aveva lasciato.
L’uomo capì all’istante il suo piano. Intrecciò le dita alle sue, incredulo e disarmato di fronte all’incrollabile determinazione di quella ragazza esile come un giunco e dura come l’acciaio, al suo ardore che non moriva mai, e percorse imprimendosela dentro la sua bellezza, che in quel momento le mancava, che il fuoco aveva dimezzato, ma che egli percepiva con la stessa intensità della sera in cui l’aveva portata sulla Senna, forse anche di più. Era radiosa, abbagliante, selvatica. E se le circostanze non fossero state così tragiche, probabilmente glielo avrebbe detto. O l’avrebbe baciata sulle labbra furiose e corrucciate.  
Saltarono a bordo del calesse mentre le guardie, i più temerari e ostinati si riprendevano, e fu Vivian ad accomodarsi al posto di guida, fu Vivian a stringere le redini e a dare un secco strattone alla giumenta perché li conducesse via. L’animale, che aveva scalpitato furiosamente in preda all’agitazione, ma che fedelmente era rimasto al suo posto, finalmente ricevette l’ordine agognato e partì al galoppo con tempismo perfetto, investendo gli esseri umani che si ponevano sciaguratamente sul suo cammino e trascinandosi dietro il traballante mezzo su cui era seduta quella coppia strana, bizzarra, forse folle, ma unita da un sentimento così selvaggio e assoluto, così violento, che nessuno avrebbe potuto comprenderlo. Era quello, il vero amore? Quello che Vivian aveva sognato nel corso del suo soggiorno e in cui Erik aveva perso totalmente fiducia? Quella mescolanza di affetto e pazzia, di sacrificio e di fiamma? Quel duetto in perfetto accordo? Quella cecità ad ogni cosa che non fosse gli occhi e l’animo dell’altro?
Li inseguirono. Erano troppo diversi da quella gente, troppo strani e spaventosi, avevano gettato la maschera e si erano rivelati per quello che erano, e questo costituiva per loro una condanna a vita. Non li avrebbero mai accettati, non avrebbero mai tollerato il loro amore. Li temevano come si può temere qualcosa di enorme e sconosciuto, e li volevano morti per poter dimenticare. Volevano trascinare nell’oblio il Fantasma dell’Opera e la Strega, affinché non li tormentassero più con il loro sguardo limpido e le loro espressioni brucianti. Ed erano tanti, troppi, giungevano da ogni direzione, salivano a cavallo, caricavano i fucili, scoccavano frecce, gridavano, bestemmiavano, li maledicevano, si dividevano per chiuderli in trappola, facevano risuonare dietro e davanti a loro passi e fragore di zoccoli, minacciavano, promettevano morte e tortura, prigione e oscurità, ignari d’essere totalmente invisibili ai due sul calesse, di non rappresentare per loro né un pericolo né una sciagura, sebbene li circondassero da ogni lato e si avvicinassero rapidamente.
Il calesse non sarebbe mai riuscito a dileguarsi per le vie della città, e se avesse cercato rifugio sull’Ile de la Cité, avrebbe fatto la fine del topo in trappola. Perlomeno, approfittandosi del caos, era riuscito a fuggire dalla Grève, a farsi spazio violentemente tra la folla, e si trovava adesso all’imbocco di uno dei marmorei ponti che collegano Parigi all’isola di Notre Dame, accerchiato da gendarmi e da cittadini che arrivavano dalla terraferma e dalla zolla di terra galleggiante, ugualmente bellicosi. Il clamore era assordante, lacerante. Pochi istanti e li avrebbero catturati, li avrebbero mangiati.
Vivian si volse verso Erik ed Erik si volse verso Vivian. Gli occhi d’ambra smeraldina incontrarono quelli di zaffiro e tra di essi passò un messaggio, un tacito accordo, una decisione ferma e incrollabile, determinata dall’orgoglio, dalla fierezza e dall’amore. Non ebbero bisogno di parole, bastò quello sguardo. Egli cercò la mano della fanciulla, la strinse e lei fece altrettanto, un contatto pieno di tenerezza e di affetto. Vivian venne colta da un’esitazione, rafforzò la stretta sulle redini, ma Erik annuì serenamente e l’esitazione si dissolse. Le labbra dell’uomo si mossero e sillabarono, senza dir nulla: “Ti amo”.
E lacrime di vera felicità brillarono negli occhi di Vivian mentre rispondeva, allo stesso modo: “Anch’io ti amo”.  
I gendarmi, i nobili, i borghesi, i popolani, ogni singolo individuo si bloccò al suo posto brandendo armi vere o improvvisate, spalancando la bocca in bestemmie e maledizioni, immaginando già di affondare le unghie nelle due prede. Lo stupore li avvinse tutti, li ipnotizzò, li agguantò in una morsa.
Il calesse volava.
Si lanciò oltre la balaustra del ponte con eleganza quasi magica, con mollezza dolce e fatale, le ruote vorticanti, il telaio gonfiato dal vento, la giumenta costretta a trovare la fine da un colpo di redini, che scioccamente si era fidata della guida dei suoi passeggeri, e restò per un attimo sospeso nell’aria come un enorme uccello, oscurando il sole, diffondendo sbalordimento e choc nella folla, svettando sopra ai tetti e ai lastricati. In cassetta si scorgevano le sagome di due corpi avvinti in un forte abbraccio, le labbra fuse in una soltanto, i capelli castani dell’uomo svolazzanti nel vento terso, ciò che restava dell’abito della donna che li avvolgeva in un verde vortice, un bianco plico di fogli scagliato lontano da loro da un colpo d’aria e proiettato in salvo sul ponte. Non gridavano, non erano impauriti da quel volo mortale. Il volto di lui era sfigurato dalle piaghe, i capelli di lei erano bruciati e pressoché inesistenti, ma erano bellissimi come gli eroi dei poemi epici, come gli innamorati dei drammi teatrali. Bellissimi e perduti.
L’acqua della Senna li avvolse dolcemente, come una madre pietosa e affezionata, circondandoli in un abbraccio azzurro e infinito e inghiottendoli nelle sue profondità, salvandoli dalla crudeltà degli uomini, dai loro intenti di morte, da tortura, prigionia e dolore. Si richiuse sopra al calesse in onde irruente e protettrici e li tenne al sicuro, al caldo…insieme.
E Parigi tacque, ammutolita, sconvolta, finalmente raggiunta da un briciolo di ragione, da un barlume di consapevolezza. Armi sporche di sangue caddero a terra in una cacofonia di clangori metallici, amici che si erano percossi a vicenda per guadagnare una posizione di rilevanza si guardarono strabuzzando gli occhi, famiglie separate si misero subito a cercare ogni membro. In silenzio. Nessuno s’avvicinò al ponte, al fiume, ai cerchi sempre più piccoli che increspavano la superficie.
Soltanto una fanciulla esile e bionda, una ballerina di fila di nome Meg, si avvicinò al plico di fogli che il vento aveva strappato agli amanti abbracciati e lo raccolse, studiandolo con un misto di rispetto e di incredulità.
Era una canzone. Si intitolava “Oltre le ombre”…
Si portò lentamente i fogli pentagrammati al petto e chiuse gli occhi. Il loro messaggio al mondo. Il loro grido all’amore e alla libertà. La sola traccia che restava della loro esistenza sulla terra…del loro sconvolgente e selvaggio rapporto.
È strano come alcune cose rimangano e altre no. Calesse e giumenta furono recuperati nelle ore successive alla caduta, ma non si trovò traccia dei corpi di Erik e di Vivian, in nessuna parte della Senna. Erano svaniti, volatilizzati, evaporati dalla città lasciandosi alle spalle solo la loro canzone, un dono d’addio all’umanità. Forse questo avrebbe sollecitato domande, incertezze, ma fu dimenticato. Erano morti, si erano lasciati precipitare volontariamente verso la fine. E tanto bastava.
Ma Meg, rimasta inginocchiata sul ponte con la canzone stretta al petto, sorrise quando apprese la notizia. Un ricordo danzava nella sua mente, il ricordo della maschera che aveva rinvenuto nella Dimora sul Lago quando la folla di linciatori vi aveva fatto irruzione, il segno della scomparsa del Fantasma dell’Opera. Ma egli era tornato, non s’era arreso, e aveva trovato l’amore. 
Guardò la Senna, le sue acque limpide e benevole, la sua fedeltà ad Erik Destler, il piacere del fiume d’essere stato l’unico testimone di un momento di tenerezza tra lui e Vivian, i volontari che si prodigavano invano nella ricerca degli amanti scomparsi, l’orizzonte tinto dei caldi colori del tramonto. Ripensò alla determinazione assoluta che aveva letto negli occhi di entrambi, allo sguardo che si erano scambiati prima di saltare: forse un addio, ma forse invece qualcosa di diverso, un progetto, una via di fuga, un tragitto che li avrebbe condotti alla felicità e alla pace.
E si sentì invadere da un sentimento che rischiarò il marciume che gravava su Parigi e sui suoi abitanti, da qualcosa che era insito alla natura umana e che per un attimo lavò via il sangue da quella giornata buia e disperata: la speranza.
 
FINE
 
 
 
Note dell’autrice:
 
Eccoci dunque alla fine di questa avventura ;_;
È venuta da sé, si è scritta da sola, non ho programmato nulla, e mentre scrivevo piangevo. Sul serio. So che parecchie di voi si aspettavano un “per sempre felici e contenti” e in effetti è questo il finale che sin dall’inizio ho prescelto per Erik e Vivian. Ma essendo poco incline ad una scena romantica in cui i due veleggiano verso un futuro meraviglioso, dato che la fantastica storia del Fantasma dell’Opera secondo me deve comunque mantenere un velo della sua tragicità, eccovi una conclusione aperta. Io, da parte mia, per quello che vale, so che i miei due pupilli ce l’hanno fatta, che sono insieme, che partono per il loro viaggio e che se lo godranno da soli, senza di me : )
Perciò rinfrancatevi, perché io per prima desidero che abbiano la loro felicità, che trovino una casa, e conoscendoli, ci riusciranno di sicuro!
Voglio ringraziare tutte coloro che mi hanno accompagnato nelle difficili fasi di questa storia con il loro sostegno, la loro gentilezza, i loro consigli e i complimenti, vale a dire Enril, Puliksweet, Kikari, Serenity, Niglia, Moira Riordan eArizona Temnaya (scusate se non mi ricordo i numeri dove ci sono) e anche tutti gli altri gentilissimi recensori. Senza il vostro aiuto non ce l’avrei mai fatta, spero di avervi trasmesso qualcosa perché a parer mio è questo che una vera storia deve fare e che vi ricorderete di me e di Vivian.
Forse tornerò a scrivere qualcosa su questo fandom, forse no, per ora devo ancora riprendermi dalla fine di “Oltre le ombre”, comunque non lo abbandonerò di sicuro e mi calerò con piacere nella veste di lettrice e recensore, qualora aveste lavori in corso o voleste cominciarne uno, ci sarò ;)
Un bacione a tutte quante, ancora grazie,
Ellyra

 
  
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