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Autore: Mizar19    20/03/2012    3 recensioni
Il numero 72 di via De Meis a Torino è uno dei tanti opachi palazzi della zona; costruito negli anni '60, assomiglia molto ai tanto deplorati casermoni di città, con gli infissi marroni un po' scrostati, possenti pilastri a sorreggerne l'androne e uno sprazzo di verde nel cortile comune. La scala D è abitata da famiglie, anziani e, soprattutto, universitari. Saranno proprio gli universitari della scala D a raccontare tra le difficoltà quotidiane il loro rapporto con l'università, gli amici e il futuro.
Genere: Comico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: FemSlash
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Hysteria'
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Se scrivo capitoli più lunghi di sei, sette pagine aggiornerò una volta ogni morte di papa. Dunque sono giunta alla profonda, illuminante conclusione che i capitoli non saranno molto lunghi così potrò aggiornare più rapidamente! 
D'ora in poi inizierà la storia vera e propria, qua abbiamo un primo gruppo di personaggi tra loro sconosciuti che inizia ad interagire tra loro... Buona lettura!


Avvertenze: alcune informazioni circa queste persone non sono esatte, dunque non prestatevi interamente fede! Inoltre, ciò che viene detto dai personaggi non è necessariamente il mio pensiero e non è detto che lo condivida. Le restanti coincidenze con persone, luoghi, fatti esistenti sono puramente casuali.
 

***



Capitolo 2

 

IN ROTTA DI COLLISIONE, parte 1

 
 

8.15 a.m.

 
Se il buongiorno si vede dal mattino, quel giorno sarebbe stato orribile: uno dei criceti di Antonia era fuggito in maniera inspiegabile dalla gabbietta.
«John, dove sei finito? John, vieni fuori!», strepitava Antonia precipitandosi a rotazione nelle tre stanze che componevano il suo appartamento, scivolando sul marmo lucido e mantenendo l’equilibrio sempre per un pelo.
«John?!», si tuffò pancia a terra accanto al letto per ammirare la distesa di palline di polvere che popolava il pavimento sotto il mobile.
«John?!», sollevò il divano stringendo i denti e tendendo i muscoli delle braccia, uno sforzo notevole per lei che aborriva qualsiasi forma di mobilitazione fisica.
«John?!», aprì il frigorifero, contemplando assorta una triste fetta di groviera che giaceva solitaria nella vaschetta dei formaggi. 
John non era un criceto qualsiasi, era il suo adorabile cricetino mannaro, quello che divorava le sbarre della gabbietta costringendola a cambiarla periodicamente, quello che qualche mese fa aveva sventrato il suo sventurato coinquilino, il povero Sherlock. Era un bestiola vivace, come amava definirla Antonia.
«Tesoruccio, vieni dalla mamma!»
La ragazza tornò nell’ingresso, dove rovesciò  il portaombrelli nella speranza di trovarlo lì dentro: ne rotolò fuori una cimice mummificata, ma nessuna traccia del suo adorato animaletto; nella stanza da letto sradicò piumone e coprimaterasso sventolandoli furiosamente per la stanza, senza pensare che se il dolce John si fosse realmente trovato lì dentro sarebbe stato scaraventato e spiaccicato contro il muro; in bagno aprì le porte scorrevoli della doccia e finalmente individuò quella palla di pelo. John si voltò, spalancando i tondi occhi scuri: era seduto su un barattolo di bagnoschiuma, nella cui plastica aveva praticato un foro e si preparava a farlo interamente a pezzi.
«Piccolino, cosa pensavi di combinare? Sei proprio un bricconcello…», gli sussurrò Antonia con tono melenso, sollevando il criceto all’altezza degli occhi. Lo ripose nella gabbia, premurandosi di controllare sbarra per sbarra che non si fosse aperto alcuna via di fuga.
«A causa tua arriverò tardi a lezione», gli disse afferrando la sacca con i quaderni per le materie di quel giorno, analisi matematica I e chimica. Uscì di casa sperando di ritrovarlo ancora lì al suo ritorno.
 

17.30 p.m.

 
Il condominio era silenzioso quando Alda Beccaria mise il naso fuori dalla porta. Quel giorno era rientrata da lezione subito dopo pranzo e aveva deciso che non avrebbe dormito sonni tranquilli finché non avesse acquisito un sufficiente livello di conoscenza di ogni inquilino della scala D, che non significava certamente introdurre la propria persona porta a porta, ma calarsi nei panni della stalker e indagare su ognuno di loro.
Lei viveva al settimo piano, dunque sarebbe stato opportuno iniziare dal nono e procedere in discesa. Stranamente l’ascensore lampeggiava un beffardo segnale di occupato, Alda era sicura che l’avrebbe trovato bloccato all’ottavo piano e infatti non sbagliò. Salì ulteriormente fino al nono e lì iniziò la sua ricerca.
Aveva già pensato ad un’ottima giustificazione nel caso in cui l’avessero trovata a gironzolare come un’untrice per i pianerottoli altrui: scusi il disturbo ma ho urgentemente bisogno di due etti di farina, stavo per suonarle il campanello!
Il teatrino del vicino sprovvisto di generi alimentari funzionava sempre e lei avrebbe guadagnato anche due etti di farina. Non che sapesse realmente cosa farsene ma a caval donato non si guarda in bocca, no?
L’esterno dell’appartamento sulla destra era alquanto ordinario: zerbino marrone monocromatico che metteva tristezza solo a vederlo, cognomi tipicamente torinesi e nessun altro indizio significativo. Alda estrasse il suo taccuino aprendolo ad una pagina bianca: scrisse in stampatello “nono piano”, poi riportò i nomi della coppia probabilmente ultrasettantenne e ritenne che fossero innocui, dunque assegnò loro un rating verde.
Sulla sinistra, invece, vi era uno zerbino multicolore su cui erano disegnate delle musiciste disegnate in stile manga, con tanto di divisa scolastica; ciò le suggerì immediatamente che fosse abitato da studenti, o comunque ragazzi giovani: dunque le due strambe dei dolcetti dovevano vivere lì. Greca, Saponaro, si appuntò con precisione e stabilì per loro un rating arancione: non che le fossero dispiaciute le meringhe, ma erano troppo amiche della sua dirimpettaia pazza.
Ridiscese di un piano e studiò l’appartamento sulla destra: un paio di scarpe da ginnastica abbandonate accanto ad uno zerbino color prato. Il citofono riportava un solo nome, Fumagalli. Si avvicinò in punta di piedi all’altra porta: al posto dello zerbino alcune pagine di cataloghi offerte del Lidl erano state allargate per terra, due cognomi evidentemente stranieri sul campanello. Decise che Anita doveva vivere da sola, dunque appuntò prima i cognomi stranieri contrassegnandoli dal rating verde poi stabilì che accanto a Fumagalli avrebbe dovuto segnarsi un rating arancione, tanto per precauzione.
Sospirando, tornò al settimo piano, da cui era partita.
Anne Quaglia viveva da sola, un paio di sandali giacevano fuori dalla porta e lo zerbino era una di quelle pacchianate con su scritto “Due cuori e una capanna”. Sul taccuino riportò un pericolosissimo rating rosso.
Fuggì rapidamente al sesto piano, dove si limitò ad assegnare due rating verdi: la combinazione di nomi e zerbino non le suggeriva presenza giovanili su quel piano.
Al quinto piano, se un appartamento meritò un rating verde per la sua tranquillità, quando si avvicinò a quello di sinistra rimase pietrificata: gemiti disumani scuotevano la porta d’ingresso. Alda spalancò i grandi occhi scuri indietreggiando. Qualcuno là dietro stava… copulando! E con fin troppa enfasi! Non che Alda fosse un’esperta, ma a livello teorico nessuno la batteva: si era fatta una cultura non indifferente tra una fanfiction e l’altra, per non parlare delle amiche ninfomani che parevano divertirsi molto nel descriverle le loro peripezie sessuali.
Tornò ad avvicinarsi con cautela, quel tanto che le bastava per poter carpire il nome sul campanello: Cannizzaro.  Un nuovo ciclo di urla e gemiti la fece rabbrividire. Fece uscire di scatto la punta della biro e si annotò un rating estremamente rosso accanto a quel nome.
Zampettò fino al quarto piano, felice di essere sopravvissuta fino a quel momento senza intoppi. Riconobbe immediatamente il cognome sulla destra: le pazze dei dolcetti avevano detto che al quarto piano una Sara Pitton si era trasferita il giorno prima di lei, dunque l’aveva individuata. Apparentemente era innocua, dunque le abbuonò un rating verde. Il campanello sulla sinistra riportava un cognome presumibilmente tedesco e uno tipico torinese. Che fosse l’ennesima coppia di vecchi? Stava per annotarsi un rating verde quando la porta si aprì.
«Scusi il disturbo ma ho urgentemente bisogno di due etti di farina, stavo per suonarle il campanello!», esclamò tutto d’un fiato, tentando di infilare a forza il taccuino in una delle finte tasche dei suoi pantaloni. Aveva appena trovato la falla nel suo piano perfetto, dannazione. Sperò che la ragazza sciatta che aveva di fronte non se ne accorgesse.
«Qualcuno è abbastanza autosufficiente da farsi la spesa?», indagò quella sospettosa.
«Prego?», esalò Alda ridacchiando. Non era la reazione che s’era aspettata.
«Vuoi questa farina sì o no?»
«Ehm, sì… due etti», precisò tentando di assumere un cipiglio compunto.
Zoe fece segno alla ragazza di entrare nell’appartamento, scostandosi dall’uscio. L’aveva riconosciuta: era la pazza che sibilava al telefono lamentandosi degli altri inquilini, si erano incrociate sulle scale giusto qualche giorno prima.
«Ti chiedo scusa per il disturbo».
«Nessun problema, non stavo facendo nulla di importante…», borbottò la proprietaria dell’appartamento, chinata su un ripiano della credenza.
«Ti stavi facendo i capelli?», domandò Alda sollevando la piastra che giaceva sul tavolo, il filo srotolato sul pavimento fino alla presa di corrente.
«Attenta, è calda. Stavo cercando di rendermi presentabile per questa sera». Finalmente Zoe riemerse dalla credenza con un pacchetto di farina. «Cerco la bilancia da cucina», disse poi spostandosi verso l’angolo cottura.
«Sì, sono un’esperta nell’arte della piastra», constatò Alda portandosi davanti agli occhi i polsi e le mani decorati da vecchie ustioni.
«Davvero?! Io faccio pietà, sono ontologicamente inetta in queste cose. Facciamo così: io ti do quella farina se tu mi piastri i capelli».
«Ma li hai già lisci…»
«Sono elettrici, storti», precisò Zoe che finalmente aveva recuperato un bilancino.
Alda le osservò i capelli mentre la ragazza faceva cadere la farina nella vaschetta della bilancia. «Se sono elettrici è meglio che non li piastri. Perché non ti fai un treccia?»
«Mmh, potrebbe anche essere un’idea… Ci siamo, due etti!», esultò Zoe. «Te la metto in un sacchetto».
«Però per la treccia non chiedere a me», sospirò sconsolata la ragazza.
«Ah, tranquilla, sono capace da sola».
«Davvero?! Ti piastrerò i capelli ogni volta che vuoi se mi insegni a farmi una treccia!», esclamò con enfasi Alda, lasciando andare la piastra; saltò addosso a Zoe, iniziando a scuoterle le spalle. «Sono un caso disperato, non puoi rendertene conto. Io, che sono così fine e abile nelle arti femminili della vestizione elegante e di classe, del trucco e delle acconciature adeguate per ogni occasione! Devo avere avuto un trauma da piccola, forse una botta in testa… Nemmeno i tutorial su YouTube hanno potuto salvarmi da questa calamità! Tra l’altro quando digiti “come farsi” il primo complemento oggetto che completa la frase è “una ragazza”, che squallore. Dovrei mettere su un’agenzia di appuntamenti per insegnare ai ragazzi a mettersi il deodorante e alle tredicenni a non vestirsi da battone. Sto andando fuori tema, dicevo della treccia? Ah, certo. Il dramma, l’orrore!»
«Farò tutto quello che vuoi, va bene?!» , strepitò Zoe scollandosi la vicina di dosso e ponendo fine al suo folle monologo. Le girava la testa.
«Dimmi che sai fare quella alla francese», sussurrò Alda con voce supplicante.
«Ovviamente…». Zoe non aveva nemmeno finito di parlare con un possente squittio le trapanò il cervello: la ragazza aveva iniziato a saltellare per la sua cucina.
«Okay, ehm… ne hai bisogno… ora?», domandò con molto tatto tentando di liberarsene con mezzi pacifici.
«No, certo che no. Direi in un futuro prossimo»
«Non per altro, ma mi stavo preparando per la serata…»
«Hai davanti a te la migliore consulente di buongusto in fatto di moda. Uscita con gli amici? Appuntamento galante?».
Zoe sospirò rassegnata: aveva ormai realizzato che non si sarebbe liberata dell’invadente ragazza con molta facilità, quindi si rassegnò ad assecondarla; forse avrebbe potuto realmente darle una mano, alla fine la sua visita avrebbe potuto rivelarsi provvidenziale.
«A-appuntamento», tossicchiò imbarazzata.
Un nuovo squittio le ferì i timpani. «Oddio, che bello, che gioia! Delizioso!»
«Eh… sì»
«Mostrami l’armadio», ordinò Alda improvvisamente fattasi serissima e professionale. Alzando gli occhi al cielo, Zoe la condusse nella sua camera da letto.
«Perché c’è una scala in mezzo alla stanza? Fa male al flusso di energia che deve circolare libero per la casa», puntualizzò Alda storcendo il naso accanto all’oggetto.
«È una lunga storia… Senti, questo è l’armadio. Di solito non mi vesto in modo molto elegante, inoltre è un appuntamento abbastanza informale, quindi…»
«Cos’è questa roba?», la interruppe Alda che aveva appena spalancato le ante dell’armadio in legno antico.
«Il mio… guardaroba», mormorò Zoe mortificata.
«Non c’è nulla che faccia pendant!», strillò scandalizzata la ragazza, gli occhi spalancati dal terrore.
«Davvero?», domandò Zoe perplessa, tentando di sbirciare nell’armadio sopra alla spalla di Alda.
«Okay, niente panico. Devo respirare profondamente. Sarà più difficile del previsto».
Zoe sollevò gli occhi al soffitto per l’ennesima volta con una forza tale che temette di non sentirli più tornare giù.
«Io pensavo di mettere quei jeans con la camicetta viola e un pullover nero…»
«Un… appuntamento… con… Oddio, sto iperventilando». Alda si sventolò una mano davanti al viso, gli occhi chiusi e la bocca aperta in una smorfia di sofferenza, mentre Zoe la osservava preoccupata.
«Anzitutto, che scarpe hai?»
«Queste», rispose Zoe indicando un paio di converse color jeans decisamente stazzonate.
«Quelle», ripeté Alda con voce tremante. «Codice rosso…», in quel momento Alda si rese conto di non conoscere nemmeno il nome della ragazza nel cui armadio stava frugando senza pietà.
«Prego?»
«Come ti chiami?»
La proprietaria dell’armadio dal contenuto innominabile tentò di non farsi scappare la mandibola e rispose spremendo quelle tre briciole di cortesia che aveva in corpo: «Zoe Schneckener».
«Molto onorata, io sono Alda Beccaria. Ora capisco molte cose…»
«Cioè?»
«Be’, senza offesa, ma è risaputo che i tedeschi non sanno vestirsi. Detto ciò, hai la fortuna di avere accanto a te la migliore, colei che è in grado di vedere oltre, l’unica, l’impareggiabile…»
«Sì, grazie Wonder Woman, ho delle speranze di uscire di casa questa sera o è meglio che me ne resti rintanata sperando che i miei abiti subiscano autonome metamorfosi?»
«Quanto vuoi far colpo?»
«Non lo so nemmeno io. Cioè, boh… dovrei comunque essere carina, suppongo».
«Mmh, devo riflettere», mormorò Alda continuando a contemplare il contenuto dell’armadio, passando in rassegna i capi di vestiario appesi sulle grucce e quelli piegato con cura sui ripiani.
Zoe sospirò, andando a sedersi sul suo letto. Aveva appena posato il sedere sul materasso che il campanello trillò.
«Vado un momento ad aprire», disse raggiungendo la porta. La sua nuova consulente di buongusto non pareva averla nemmeno sentita.
«Ciao!», trillò Sara Pitton sfoderando un sorriso smagliante.
«Ciao! Ho comprato ortica, timo, basilico, salvia, crescione, menta, rafano, zenzero, erba cipollina e tarassaco, spero di avere ciò di cui hai bisogno», sciorinò Zoe appoggiandosi allo stipite della porta. Sara scoppiò a ridere.
«Vedo che ti sei fatta una cultura».
«Mai più impreparata», sentenziò.
«Veramente volevo chiederti se avevi semplicemente del dado».
«Dado?», esalò sconsolata Zoe.
«Non quello a sei facce, sai… per il brodo», sghignazzò Sara.
«Io… so cos’è il dado!», protestò a gran voce. «No, non ne ho, mi dispiace».
«Zoe, forse ci sono!», strillò Alda dalla camera da letto.
«Oh, hai ospiti, ti chiedo scusa non me n’ero accorta».
«Veramente sono ospiti autoinvitati… vuoi entrare o devi cucinare il tuo brodo?»
«Qualche occasione speciale?», s’informò Sara varcando la soglia.
«Una specie di appuntamento…»
«Oh, be’… buona fortuna», le augurò la dirimpettaia.
Nella camera da letto, Alda aveva adagiato sulla scrivania un paio di jeans chiari e una camicetta bianca.
«Lei è Alda, la mia nuova consulente in fatto di abiti». Le due ragazze si strinsero la mano, presentandosi a vicenda.
«Ma… tu vorresti farle mettere quella roba per un appuntamento?!», esclamò Sara sconvolta.
«Non so se hai visto il suo armadio…», sussurrò Alda con aria addolorata. La dirimpettaia si fiondò tra i suoi vestiti frugando senza tante cerimonie. «Mio Dio…», mormorò dopo esserne riemersa. «Ora capisco».
«Pronto? Io sono ancora qui, neh», s’indispettì Zoe incrociando le braccia.
«Tesoro, tu non preoccuparti, le tue zie ora pensano a tutto quanto», disse Sara costringendola a sedersi nuovamente sul letto. Le diede un buffetto sulla guancia come per rassicurarla, poi tornò all’armadio con Alda.
«Non ha una maglietta un po’… carina, magari blu?»
«Io avevo pensato al grigio chiaro, ma non ha nessuna delle due, almeno non quello che noi intendiamo per maglietta carina».
«Be’ questa non è male, ma va messa con dei pantacollant come minimo e qua non ne vedo».
Entrambe trattennero il fiato alla prospettiva di dover indossare quella maglia senza il sopracitato capo d’abbigliamento.
«Agghiacciante», rabbrividì Sara.
«Mi piace come la pensi».
«Cara, hai fatto un ottimo lavoro», sentenziò infine Sara, concedendo ad Alda di aver trovato un abbigliamento vagamente elegante.
«Lo so, lo so».
Zoe grugnì, osservandole obliquamente.
 

20.00 p.m.

 
Filippo era appena rientrato in casa dopo un lungo pomeriggio trascorso in aula studio gobbo sui libri quando avvertì un rumore strano. Si immobilizzò trattenendo il fiato e tese l’orecchio: di nuovo quel rumore.
«C’è qualcuno?!», esclamò immediatamente sudando freddo; eppure nessuna risposta, il buio della casa taceva. Allungò un braccio strisciandolo contro la parete alla ricerca dell’interruttore, il pulsante sgusciò finalmente tra le sue dita e il corridoio venne inondato dalla luce delle applique. Si richiuse la porta alle spalle, posando lo zaino lì dove si trovava, poi tentò di seguire il rumore fino alla sorgente.
Non capiva da dove provenisse esattamente, pareva ovunque. Quando entrò in cucina però si rese conto che lì era più debole, allora tornò nell’ingresso e si diresse nella stanza che aveva adottato come base. Eccolo, il rumore era più chiaro che mai.
Gironzolò per la stanza, i sensi all’erta, pronto a scattare al primo segnale, ma niente, non riusciva proprio a capire che cosa stesse producendo quel suono.  
Si avvicinò cauto alla scrivania dove il computer portatile rifletteva il suo volto distorto. Spostò il mouse e le casse, scosse la sveglia e alcuni libri, ma nulla. Si chinò sotto la scrivania, dove custodiva il suo gioiellino, la sua bimba – come amava definirla nei loro momenti di massima intimità: l’xbox pareva silenziosa, eppure la fonte del rumore si era fatta improvvisamente più vicina. Le diede alcune pacche affettuose sul rivestimento esterno.
«Piccola, che ti succede?»
La sollevò per portarla accanto all’orecchio: no, non era la console a produrre quel rumore fastidioso. Fu nel riporla che notò qualcosa di tremendamente sbagliato: il cassetto della scrivania dove custodiva i controller wireless, il lettore mp3 e tutti i piccoli oggetti tecnologici di cui aveva bisogno era socchiuso. Lo spalancò di scatto e fece un balzo all’indietro.
«Un topo!», urlò sgranando gli occhi.
La bestiola si voltò a guardarlo con occhi famelici: se ne stava tronfia su uno dei suoi controller e aveva letteralmente divorato tutti i pulsanti, levette analogiche comprese. Filippo stava per avvicinare una mano al cassetto e mettere in salvo quel che restava del suo controller, quando il topo si voltò snudando i dentini sorprendentemente aguzzi. Fu in quel momento che si rese conto che la bestiola non era un topo, ma un criceto!
Non era intenzionato a rischiare un dito, quella bestia pareva fin troppo famelica per essere così piccola. Si allontanò con circospezione, guardandosi attorno: aveva bisogno di qualcosa di pesante per spiaccicarla. Al diavolo il cassetto e il controller, che ormai era da buttare, quella creatura indemoniata doveva andare all’altro mondo.
Aveva appena recuperato un mattarello dalla cucina quando suonarono al citofono.
«Salve… ciao, sono mortificata per il disturbo, vedo che stavi cucinando. Sono l’inquilina del piano di sopra, io dovrei… ehm, ho una richiesta che può parerti assurda ma devi credermi: hai per caso visto un criceto?», la ragazza si esibì in un enorme sorriso di scuse, già pronta a battere in ritarata, quando il guizzo negli occhi del ragazzo la trattenne.
«Stai per caso cercando una bestiola grigia dalle dimensioni di un piccolo pugno?»
«Sì! Sì! Oddio, l’hai trovata?!», strillò Antonia battendo le mani, felice di poter riportare a casa il suo dolce tesorino.
«Si è appena divorata uno dei miei controller dell’xbox», sibilò Filippo facendo cenno alla ragazza di entrare. «Prima porta a destra, cassetto aperto della scrivania. Sei arrivata in tempo, stavo per fargli la pelle», confessò nascondendo il mattarello dietro la schiena. Lei parve non aver udito l’ultima parte del discorso ed era già china sul cassetto: aveva estratto il tenero criceto incurante delle sue piccole zanne snudate pronte a conficcarsi nelle sue mani già martoriate. Se avesse avuto i polmoni e una bocca, il controller avrebbe tirato un profondo sospiro di sollievo.
«Povero il mio piccolo biscottino. Come hai fatto a finire quaggiù? Bricconcello che non sei altro», gongolò vezzeggiandolo e avvicinandoselo pericolosamente al naso.
«Ti ringrazio davvero molto per aver ritrovato John», disse poi regalandogli un enorme sorriso.
«Ehm, di nulla. È stato un… piacere, più o meno»
«Be’, io sono Antonia, vivo proprio sopra di te!», si presentò porgendogli la mano con cui non stava stringendo il criceto.
«Io sono Filippo, e vivo… qui!», rise lui imbarazzato.
«Spero che John non ti importuni più… e fammi sapere per quel controller, te lo ripagherò senz’altro!»
«Va bene, okay…»
«Allora buonanotte!», salutò ancora Antonia, per poi avviarsi verso le scale.
«Buonanotte», salutò a sua volta Filippo, poi ognuno proseguì per la sua strada.
Richiusa la porta alle sue spalle con la chiave e il catenaccio, il ragazzo si fiondò in cucina e si appuntò sulla lista della spesa: veleno per topi.




   
 
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