That
Love is All There is
Terre_del_Nord
Slytherin's Blood
Chains - IV.018
- Aquile e Lupi
Alshain Sherton
Morvah, Cornwall - sab. 15 gennaio 1972
«Dov'è nascosto tuo figlio? Dove avete portato la
Fiamma?»
«È tutto inutile,
questo cane bastardo non ti risponderà mai!»
«CRUCIO!»
«De... i... ra... »
«Che cosa ha detto?»
«Nulla... Una delle sue solite
stronzate del Nord... »
«CRUCIO!»
«Mi... r... za... »
«CRUCIO!»
«Ri... gh... M...
e... is... »
«PARLA! PER SALAZAR,
PARLA!»
«CRUCIO!»
«…We... z...
n... Ad... ar... »
«Per l'ultima volta, dove si
trova Mirzam?»
«CRUCIO!»
«Smettetela, così
rischiate solo di ammazzarlo! Milord ha detto... »
«CRUCIO!»
«SMETTETELA!»
«D’accordo,
fifone… ma tu non t’illudere, bastardo,
perché tra noi, non finisce qui... »
Il calcio alle costole arrivò all'improvviso, poi un altro e
un altro ancora. Tremai, la coscienza ormai vacillava, la bocca era
impregnata di sangue. Cercai di resistere, con le mie ultime forze.
Nella
mente... i volti dei miei cari... sulle labbra... i loro nomi...
Attorno a me... freddo e oscurità... urla e
silenzio... Dentro di me, fin nel profondo del mio essere... solo
dolore...
Sentii i passi dei tre carcerieri allontanarsi, poi più
nulla. Avevo resistito, non gli avevo dato la soddisfazione di un solo
lamento. Ora potevo lasciarmi andare: la poca aria rimasta nei polmoni
mi uscì in un unico rantolo. Il corpo continuò a
tremare. Le lacrime mi bagnarono le guance scavate.
È
finita... per questa volta è finita... sono ancora
vivo... amore mio… per te... sono vivo…
*
Quando ripresi conoscenza, ero bocconi, immobile, un groviglio
scomposto di carne e ossa, un sacco vuoto gettato a terra, da qualche
parte, la stanza delle torture di Lestrange, forse, o uno scantinato,
una topaia, una prigione, una grotta, una fossa sottoterra... un
“dove” che non riuscivo a definire, collocare... un
“dove” fatto di gelo e silenzio... E del tanfo acre
di sangue. Il mio sangue.
Ero cieco e sordo per i colpi e la Magia subiti: non percepivo suoni,
ma non m'illudevo di essere solo, forse ero ancora accerchiato dai miei
nemici, in attesa, pronti a umiliarmi, torturarmi e solo alla fine,
quando si fossero stancati o avessero ottenuto ciò che
volevano... Ricordavo il racconto di Mirzam sulla caccia al Babbano,
cui aveva assistito, e sul genere di morte inflitta dagli uomini del
Lord ai prigionieri: non m'illudevo che mi avrebbero riservato una
sorte diversa.
Tremavo, di freddo e di dolore... forse anche per la febbre…
ma non avevo paura.
Provai ad affondare le dita nel terriccio che sentivo umido e salmastro
sotto di me, per darmi una piccola spinta e sollevarmi, alla ricerca di
una superficie più asciutta, ma come le mie dita sfiorarono
la terra, il dolore andò a incunearsi atroce nel mio
cervello: non era stato un incubo, no, Rodolphus Lestrange si era
divertito con le mie mani, ero uscito dallo stato
d’incoscienza, ascoltando il suono sordo di ogni singola
falange che veniva spezzata... provando un dolore
inenarrabile… Avevo dato fondo a tutta la mia resistenza per
non dargli la soddisfazione di sentirmi urlare... implorare…
per sfregio, alla fine, si era pulito gli stivali dalla melma,
schiacciando i tacchi contro le mie mani martoriate... Non sarebbe
stata una bella morte, se le ferite si fossero infettate…
Il buio che percepivo attraverso le palpebre socchiuse, ora, era
così compatto e impenetrabile da sembrare innaturale, mi
metteva ansia non sapere, non capire, provai ad aprire gli occhi, ma il
dolore alla testa era troppo forte, per questo desistetti subito: se
quello era un momento di lucidità spontaneo e non un
delirio, non volevo perdere di nuovo conoscenza, dovevo riuscire a
pensare, valutare, trovare una soluzione. Capire cosa fosse andato
storto.
Qual è il senso di
tutto questo? Perché mi pestano fin quasi a uccidermi, ma
non vanno fino in fondo? E perché Rodolphus Lestrange ripete
sempre “Questo è per mio padre?” quando
mi riempie le costole di calci?
***
Rodolphus Lestrange
Morvah, Cornwall - sab. 15 gennaio 1972
Eravamo in attesa di ordini e di notizie, tra i resti fatiscenti di un
antico convento medievale, abbarbicato su una roccia a strapiombo sul
mare del Cornwall: metà del tetto e parte delle mura della
foresteria erano crollati da chissà quanto tempo, noi
c’eravamo raccolti sul lato quasi integro, pieno, anch'esso,
di macerie, muschi, piante rampicanti, tane di ratto; non sapevo
perché fossimo lì, Milord teneva in grande
considerazione quel luogo devastato dal tempo. Era ancora pomeriggio ma
tutto era già immerso nel buio: solo dal fianco franato
della foresteria, quello che dalle rocce si protendeva sulle onde
mugghianti, penetrava a ritmo irregolare una luce livida che
squarciava, improvvisa, l’oscurità per poi
ripiombarci nelle tenebre. Cercavo di restare vigile, in allerta, ma i
miei pensieri correvano alla camera di Mirzam e quando, su di noi,
esplodevano i fulmini, cercavo me stesso nelle figure scolpite nella
pietra degli antichi capitelli, i ghigni demoniaci esaltati dalla luce
radente che affilava forme e ombre. Mi sentivo così, come
loro, un lupo uscito dalle tenebre.
Voglio tornare di sotto. Voglio sfogare la mia furia, permearmi del
tanfo acre del sangue.
Pucey mi teneva d'occhio, temeva ammazzassi il prigioniero, la sua
solerzia mi era insopportabile.
Milord aveva voluto che accendessimo un solo braciere, da cui mi ero
tenuto fin da subito a debita distanza: nascosti com'eravamo,
circondati solo dalla desolazione per chilometri, non c'era il rischio
concreto che la nostra presenza fosse notata, ma il Signore Oscuro
teneva molto a quella missione, una missione che meritava tutta la
calma, la pazienza, il tempo necessari, per questo aveva preso ogni
accorgimento magico e non, per far sì che passassimo
inosservati e nessuno ci disturbasse. Al contrario degli altri, che non
facevano che lamentarsi, io ero grato di quell'oscurità che
mi permetteva di ripiegarmi su me stesso, nonostante il freddo mi
facesse battere i denti.
Avevo affondato le mani martoriate nelle tasche del mantello, con la
scusa del freddo, in realtà lasciavo che le dita cercassero
e stringessero il metallo gelido delle tre verghette che giacevano sul
fondo. Nella mente riecheggiava come un tuono continuo il suono secco
delle dita di mio padre che si rompevano, una dopo l'altra, nelle mie
mani, era l'unica musica che avesse mai permeato realmente il mio
spirito. Non m’importava di nulla, né del brusio
degli altri, che parlottavano, chiedendosi che cosa fosse successo in
quella casa e che cosa stesse accadendo, ora, tra il nostro Maestro e
quell'arpia di Abraxas, né del calore di Bellatrix che, come
una gatta, si stringeva a me.
La conoscevo, riconoscevo quello sguardo, desiderava appartarsi, senza
curarsi della presenza degli altri, sfogare nel sesso l'adrenalina che
la caccia le aveva iniettato nelle vene... io lentamente mi allontanai
da lei sempre più, cercando la solitudine completa,
arrivando fino alla parte scoperta dei ruderi, protesa sull'abisso,
resa viscida dai pesanti cumuli di neve, caduti la notte precedente.
Sono Lord Lestrange... da oggi... sono io Lord Lestrange...
Quella realtà tanto agognata mi colpì improvvisa,
ma non ebbi il tempo di capire che valore avesse per me in quel
momento, sentii un brusio alle mie spalle, mi ritrassi e tornai
indietro, gli altri si stavano radunando attorno all'Elfo di Malfoy per
avere notizie di Milord: voleva che alcuni di noi scovassero la Strega,
io mi offrii, ma a Bellatrix e a me fu ordinato di restare di guardia.
Soffocai il desiderio di prendermela con quel patetico Elfo, poi,
però, sentii la bocca riempirsi di saliva, i peli della
schiena rizzarsi per l'eccitazione, quando vidi che, al contrario di
noi, Pucey doveva partire.
Non c'è nessuno che possa trattenermi, che veda e riferisca.
Tornerò di sotto… Di nuovo…
Appena gli altri si Smaterializzarono, mi bastò un solo
sguardo: Bellatrix comprese. E mi seguì.
***
Alshain Sherton
Morvah, Cornwall - sab. 15 gennaio 1972
Ero cosciente da un po', da più tempo delle altre volte. E
non arrivava nessuno, non si sentiva niente, a parte quella voce in
testa che mi diceva che stavolta era finita, che dopo i calci che mi
aveva dato Lestrange l'ultima volta, mi davano sicuramente per morto,
perciò il loro compito era finito e mi avevano lasciato
lì, sottoterra, in agonia, inerme, cieco e sordo, in attesa
della morte che sarebbe giunta per fame e sete, di tutte la
più atroce... E tutto questo mentre da qualche parte mia
moglie e i miei figli erano in balia di quegli animali e pregavano
invano che io arrivassi a salvarli.
È solo una tortura, Alshain… Abraxas sa che da
piccolo Ronald ti ha chiuso nei sotterrai e tu, per cercare una via
d'uscita, sei scivolato in uno dei pozzi e hai rischiato di morirci
dentro; ti hanno trovato dopo un giorno, semi assiderato, e da allora
sei claustrofobico, lui questo lo sa...
Sì, faceva tutto parte del piano, spezzarmi nel fisico e
nella mente, ma io avevo qualcosa che loro non capivano, avevo uno
scopo, la mia famiglia: se mi fossi aggrappato a esso, ne sarei
uscito...
Cercai di muovere la testa e il dolore s’irradiò
in ogni particella di me: un dolore di pelle, di carne, di sangue
raggrumato in gola, di sangue che ostruisce le narici, di carne
spappolata e ossa rotte, di organi devastati. Iniziavo a riconoscere le
differenze, non era l'effetto di una delle Cruciatus di Bellatrix, che
causavano un dolore capace di infilarsi nel cervello e far perdere il
senno, no, questo era l'effetto del pestaggio a morte di Lestrange, mi
prendeva a calci nelle costole, o a pugni, come fossi feccia... Non
capivo come mai un Purosangue come lui si comportasse in quella
maniera, ma non ebbi il tempo di farmi altre domande: all'improvviso
entrarono, il buio che percepivo sotto le palpebre sigillate dal dolore
si rischiarò della luce di un paio di fiaccole; mi sentii
afferrare per i capelli, schiacciare contro una parete gelida e
scivolosa, tempestare di colpi, poi, privo quasi di fiato, le mie
cellule si contrassero preda di una sorda Cruciatus. Scivolai di spalle
sulla fredda pietra, i pensieri si fecero sfuggenti, travolto
com’ero da un'onda di piena di dolore e paura.
«CRUCIO!»
La voce cantilenante di Bellatrix pervadeva l'aria, non caddi solo
perché già ero steso a terra, il mio corpo si
contrasse, preda di nuovo delle convulsioni, non potevo evitarlo in
nessun modo, ma restai muto, non le concessi nemmeno un grido, un
respiro affannato, un rantolo, il mio corpo piagato sembrava esplodermi
in mille pezzi, proprio come la prima volta, come le infinite altre
volte che quell'inferno si era già ripetuto, ma stringevo i
denti e tentavo di resistere, scavavo nei ricordi, negli antichi
insegnamenti, per trovare in me la forza di sopportare, di non
impazzire. Sapevo come fare...
Nella mia testa rivedevo i volti che mi davano coraggio, i volti che
costituivano la mia sola ragione di vita... sulle labbra, come una
litania continua, come la più potente delle Magie, uno dopo
l'altro, ripetevo i loro nomi... ripetevo le mie promesse…
Per
te... amore mio... e per il nostro Mirzam... e per Sile e il
bambino che nascerà...
… per Rigel... e per Meissa... e per
Wezen... e per Adhara...
Torneremo... a casa... Dei... TUTTI… te lo giuro, a ogni
costo…
Ti amo... Dei… ti amo... ti… amo...
«CRUCIO!»
La voce di Bellatrix, lo sentivo, tradiva rabbia ed esasperazione,
dalla mia bocca piagata gorgogliò una risata stentata, che
si fece via via, sempre più alta e sicura... la Strega
colpì di nuovo, con più odio, io continuai a
ridere, finché il colpo alla testa di Lestrange, alla nuca,
mi mozzò il respiro...
Fu solo il primo colpo di una lunga, nuova, devastante, serie: quando
sentii le costole spezzarsi sotto l'ennesimo calcio persi il conto...
avevo difficoltà a respirare, boccheggiavo, a terra,
tremante di freddo e di dolore, il sangue rigurgitato
m’impastava la bocca e la pelle, i volti e i nomi, nella mia
mente si fecero via via più sfocati... e alla fine, a parte
il freddo, non sentii più niente.
***
Deidra Sherton
Amesbury, Wiltshire - sab. 15 gennaio 1972
Sospirai… il
respiro già corto... Le sue mani mi percorrevano lente la
schiena, attraverso la seta sottile, vertebra dopo vertebra, le labbra
mordicchiavano le mie, aprii gli occhi e m’immersi
nell'acciaio dei suoi, ridenti. Alshain amava giocare...
sempre… io no, non in quel momento. Scivolai con le dita tra
i suoi capelli, mentre la mia bocca si faceva più vorace e
le mie gambe s’intrecciavano provocatorie alle sue.
Continuò a sorridere e a baciarmi, malizioso, mentre mi
sollevava da terra... a me non interessava vincere quel gioco, quella
sfida, no, io volevo lui, subito, solo lui. Smisi di baciarlo e lo
fissai, inequivocabile, gli mordicchiai il lobo e baciai, umida, la
Runa sotto il suo orecchio, seguendo con la lingua i sottili ricami,
compiacendomi nel sentire il suo respiro farsi all'istante
più profondo, la sua presa più rapace, i suoi
movimenti più urgenti, prepotenti, mentre si stendeva sopra
di me, m’imprigionava tra le sue braccia, sul letto, e le sue
dita scivolavano tra la seta e la carne, inesorabili, a percorrere ogni
centimetro delle mie cosce. Amavo quando la sua bocca si sfamava della
mia, quando lasciava umide, eterne, inesorabili Rune di baci sul mio
collo e nell'incavo del mio seno. Sul mio seno…e scivolavano
giù, sul mio ventre, nel mio ventre. Mi morsi le labbra,
graffiai la sua pelle, non riuscii a trattenere un gemito, quando
finalmente lo sentii dentro di me. Si staccò appena dal mio
collo, per guardarmi, sapeva quanto amassi perdermi nei suoi occhi
mentre ero aggrappata a lui… carne, mente,
spirito… appartenevo a lui... tutta…
Vibravo pervasa dalla
sua passione, mentre la sua mano forte mi accarezzava gentile la
guancia e la sua bocca si depositava in teneri baci sugli
occhi… e sul collo, e un soffio roco e delicato al mio
orecchio… Ti amo… ... Ti amo, Dei... ti amo... ti
amo...
*
Avevamo appena fatto l'amore, non sapevo se fosse un sogno o la
realtà, mi sembrava di galleggiare tra le nuvole, immersa in
qualcosa d’impalpabile, soffice, bianco; c'era calore attorno
a me, un diffuso senso di benessere mi pervadeva, non vedevo nulla, a
parte il suo volto, ma ciò mi bastava… Non
riuscivo a muovermi, ma non importava, perché lui era
accanto a me, mi stringeva, mi baciava... chiusi gli occhi e mi
abbandonai fiduciosa al suo abbraccio... sorridevo...
Alshain…
All'improvviso un brivido… sentivo freddo. Aprii gli occhi:
Alshain era a qualche passo da me, in piedi, deciso ad andare via. Io
chiamavo il suo nome, ma la voce non usciva dalla mia bocca.
All’inizio ero incredula, poi, poco a poco… Cercai
di alzarmi e fare un passo, ma qualcosa mi tirava giù,
m’impediva di andare da lui, Alshain si
voltò… il suo viso era diafano, una coltre di
nebbia ci separava: non sorrideva più, il suo volto era
triste, spento. Le sue labbra mi dicevano addio…
Alshain…
Non c'era più, l'uomo che amavo, il padre dei miei figli,
non c'era più… Tutto attorno a me non c'erano
più pace e silenzio, tepore e benessere, era tutto buio,
freddo, pervaso da strani, terribili sussurri, lamenti, gemiti propri
dell'agonia. Tremavo… Poi il nulla.
Avevo paura, paura di quel sinistro, improvviso silenzio...
Alshain!
***
Rigel Sherton
Hogwarts, Highlands - sab. 15 gennaio 1972
«Te lo dico brutalmente,
Sherton, non ti offendere, ma... sei un idiota!»
«Ahahahah, ben detto
Lestrange!»
Si erano piantati sul sentiero che portava al campo da Quidditch,
decisi a non fare un altro passo, dovevo immaginarlo che si sarebbero
tirati indietro, che cosa potevo aspettarmi da quella manica di
sbruffoni buoni a nulla? Non si poteva mai fare affidamento su di loro!
Avanzai ancora, senza farmi condizionare dalle loro risate, la scopa in
spalla e l'aria esasperata di chi non ne può più:
prima McNair mi aveva spedito in infermeria, poi quella piaga vivente
di Kendra Campbell non mi aveva lasciato in pace... e gli ammonimenti
di Lucius... e Narcissa nei panni della crocerossima...
Non sapevo come mia sorella l'avesse coinvolta, ma non la ringraziavo:
non mi era ancora passata la cotta che avevo per lei, ma se prima
potevo contare sulle mie abilità nell'evitare situazioni e
persone indesiderate, - e Merlino solo sapeva quanto volessi evitare
Cissa in quel periodo- ora la strana alleanza creatasi tra le due
ragazze mandava a monte i miei piani per togliermela dalla testa.
Inoltre ero inquieto: Meissa aveva sempre avuto paura di Malfoy, a
ragione, ora invece, a causa di Black, aveva a che fare di continuo
anche con lui. La situazione non mi piaceva, nell'aria non c'era nulla
di buono, ma non capivo quale potesse essere il pericolo, Malfoy era
furbo, non avrebbe mai colpito in maniera diretta. Per questo, da
quando era apparso il gatto e quelle due sembravano diventate amiche,
mi ero fatto più guardingo, avevo evitato i guai, avevo
persino cercato di non cedere alle provocazioni di McNair, quella
mattina, per non perdere di vista Meissa un secondo, certo che mio
padre mi avrebbe spedito a Durmstrang all'istante, se le fosse accaduto
qualcosa.
Quel pomeriggio però, finalmente, mia sorella sembrava aver
recuperato un minimo di senno e stava passando il suo tempo libero con
Sirius, il Black meno pericoloso, il suo adorato principino inglese,
come amavo sfotterli io; Malfoy, da parte sua, aveva deciso di
sistemare McNair con Slughorn, una volta per tutte, per evitare le ire
di mio padre, quando avesse saputo dell'ultima rissa di quella mattina,
e perché, come tutti nel sotterraneo, non ne poteva
più di quel gradasso.
Una volta dimesso dall'infermeria, perciò, deciso a
prendermi la libertà che mi spettava, avevo fagocitato
rapido il pranzo e, prima che un altro contrattempo mi rovinasse del
tutto la giornata, me l'ero data a gambe, convincendo Rabastan
Lestrange ed Evan Rosier a seguirmi fino al campo da Quidditch: fare un
giro sulla scopa, inseguire boccini, librarmi con il vento tra i
capelli, era questo ciò che ci voleva per schiarirmi le idee
e scrollarmi di dosso quel senso di malaticcia oppressione.
Volevo godermi quelle ore spensierate, i giorni successivi, infatti,
non si prospettavano lieti: il Preside era già ritornato da
Londra quindi la seduta del processo Williamson che coinvolgeva anche
Mirzam doveva essere finita, mia sorella ed io avremmo ricevuto presto
notizie da casa.
Sospirai, al pensiero di quanto sarebbero state pessime... E di quanto
avrei dovuto mentire... Tremai.
«Sherton, non avrai la febbre?
Sei pallido e stai tremando... Non sei in forma, dai, è
freddo, hai mangiato da poco... andiamocene, torniamo al
castello… non vorrai sentirti male di nuovo!»
«Ha ragione Evan, ci manca
solo che cadi dalla scopa e ti massacri anche l'altro
braccio!»
«Non cado dalla scopa, io...
Cadono solo le schiappe e chi si sbronza!»
«Touché, Lestrange,
touché… ahahahah... »
«Ah-Ah-Ah... quella storia
è vecchia e decrepita... e non fa ridere, Rosier!»
«Lo dici tu, Lestrange! Ti
ricordi che faccia verde aveva? Ahahah… »
«Avete finito?»
«No! Ahahahahah... »
«Te la sei cercata, Rabastan,
stavolta te la sei cercata... ahahahah... »
Ghignai, con Evan, memori della figuraccia di Rabastan che risaliva
alla primavera precedente: era salito in scopa, alticcio, durante gli
allenamenti, Malfoy gli aveva suggerito di starsene buono a terra
perché non si reggeva in piedi, Lestrange, però,
voleva mostrare le sue doti di Battitore, per fare colpo su una
Ravenclaw dell'ultimo anno. Ed era caduto dalla scopa, rigettando e poi
svenendo in mezzo al campo, assicurandosi così il ruolo di
barzelletta dell'anno nella Torre dei Corvi, prima, e nel resto della
scuola, in seguito. Ancora, dopo quasi un anno, c'era qualche idiota
Gryffindor che gli faceva i versi dietro, benché tutti
sapessero quanto terribile e inesorabile fosse la sua vendetta.
«Si muore di freddo, Sherton,
dai, perché cercare altre rogne? Vieni con noi a spennare
polli nel sotterraneo, ne ho adocchiato un paio del secondo anno, in
tre potremmo fare un bel bottino!»
«Così…
giusto per non cercare altre rogne, vero Evan? Ahahahah... »
«No... voglio volare! Ne ho
uno strafottuto bisogno... sono settimane che mi stanno tutti col fiato
sul collo! Io vado... se non ve la sentite, scaldatevi le chiappe mosce
in Sala Comune... cia... »
«Creeeeeek!
Creeeeeeek!»
Un alto grido infranse il placido silenzio, le parole mi si congelarono
in bocca, anche gli altri rimasero interdetti; alzammo lo sguardo al
cielo ma non notammo nulla, al contrario, c’era del movimento
tra gli alberi, sul fianco digradante della collina, distante da noi,
nel folto del bosco.
«Creeeeeek!
Creeeeeeek!»
«Sarà uno degli
Ippogrifi di Kettleburn e di quel dannato Guardiacaccia!»
«No... Questo è il
verso di un'aquila, Evan... Strano, però... di solito
restano tra i picchi sulle montagne, proprio a causa degli Ippogrifi
non scendono mai quasi in riva al lag... ehi... ma dove vai, Sherton?
Guarda che noi non ti seguiremo lì in mezzo! La neve
laggiù è più alta di te!»
Avevo levato il braccio, salutandoli con un gesto poco elegante, deciso
a mollarli lì e raggiungere un punto dinanzi a noi: c'era
qualcosa a terra, ai piedi di un gruppetto isolato di alberi, ma avevo
difficoltà a capire che cosa fosse, in pochi minuti sarei
arrivato e avrei visto, lasciando quegli smidollati a fare la solita
parte dei buffoni. La neve mi arrivava fino al polpaccio, mi serrava
gli stivali e mi appesantiva il passo, sentii la fatica nel muovermi in
quel lago bianco e compresi quanto i miei amici avessero ragione a dire
che ero fuori forma: le disavventure delle ultime settimane avevano
lasciato il segno. Sudato e lento, feci ciò che in
condizioni normali non avrei fatto mai, mi lasciai la scopa alle spalle
e iniziai ad avanzare con difficoltà in direzione degli
alberi, molto più lontani di quanto avessi valutato: quando
mi voltai, i due “molluschi” erano ancora sul
ciglio del sentiero a sbracciarsi e ridere di me, Rabastan aveva pure
tirato fuori qualcosa da bere dall'interno del mantello e stava
brindando alla mia salute, urlando contro di me e dandomi del
"Coglione".
«TI SEI PIANTATO
LÌ, SHERTON? AHAHAHAH... APPENA RIPRENDERÀ A
NEVICARE, TI TRASFORMERAI IN UN PUPAZZO DI NEVE! ED IO VERRÒ
A METTERTI UNA CAROTINA TRA LE CHIAPPETTE GHIACCIATE... »
«AHAHAHAH»
«ANDATE AL DIAVOLO,
BASTARDI!»
«AHAHAHAH»
Gli urlai contro un paio d’insulti in gaelico e levai
entrambi i miei diti medi, suscitando altri ululati e risate, mi voltai
e non mi curai più di quegli infami, che continuavano a
guaire le loro battute idiote: sentire in lontananza i loro cori,
però, mi dava coraggio, più avanzavo, infatti,
più quel gruppetto di alberi si allontanava, e suoni strani
sembravano emergere dalle profondità della Foresta Proibita.
Il mio cuore accelerò il battito, passo dopo passo, e non
solo per la fatica: non ero mai stato pauroso, era impossibile esserlo,
con tutte le esplorazioni nella foresta di Herrengton che avevo fatto
con mio padre, eppure sentivo montarmi dentro un terribile senso
d’inquietudine.
Non puoi tornare indietro a mani vuote, Rigel, non con quei
due a deriderti in eterno…
All’inizio, quando arrivai vicino agli alberi, non vidi nulla
e pensai a un'illusione ottica o a un gioco di luci, poi, guardando
bene, notai una traccia fresca nella neve, qualcosa era stato
trascinato via da lì, diretto nel fitto degli alberi: la
voce di mio padre in testa mi diceva di tornare indietro, ma
all'inquietudine ora si era aggiunta la mia solita, dannosa, dannata
curiosità. M’incamminai.
Quando vidi le prime gocce di sangue, ero ormai fuori dalla visuale dei
miei amici.
***
Rodolphus Lestrange
Morvah, Cornwall - sab. 15 gennaio 1972
«È stato
meraviglioso vederti combattere, oggi... »
Eravamo tornati tra i ruderi, soli, eravamo ancora di guardia. Stavo
appoggiato alla fredda pietra, intabarrato nel mio mantello, le mani
ferite nascoste nell'incavo delle ascelle. E insistevo a voler guardare
lontano, nell'oscurità, gli occhi persi nel nulla in cui si
celava un mare furioso e assassino, le orecchie tese a quell'ululato
lugubre, cercando invano di non vedere, non ascoltare, non pensare a
lei. Era una fatica improba impormi di non voltarmi e, infatti, a
volte, il mio sguardo traditore riusciva a sfuggire al mio controllo e,
di sottecchi, si lasciava attrarre dal rosseggiare delle fiamme del
braciere, e da quella figura minuta, oscura, tanto leggiadra da sembrar
danzare dentro il fuoco.
Prova
ad ammaliarmi quanto vuoi, Strega, non ti lascerò
più entrare nella mia anima...
Era difficile restare fermo nei miei propositi, soprattutto quando
incrociavo quegli occhi neri come la notte, ma dovevo. La odiavo, come
potevo non odiarla, dopo aver scoperto il suo tradimento? Ero pervaso
dall'odio, ma sapevo anche di essere debole, che sarebbe stato
difficile liberarmene. Mi voltai a osservarla un solo istante, anche se
non avrei dovuto: si era spostata già, rapida, tra me e il
braciere, vedevo in controluce le sue forme voluttuose attraverso il
tessuto sottile della tunica. Sì, la odiavo, non potevo non
odiarla... ma continuavo e avrei sempre continuato a desiderarla...
Sei
un debole, Rodolphus, e lei è e sarà sempre la
tua maledizione...
Tornai a fissare il nulla e rimasi in silenzio, non volevo che intuisse
la verità, non volevo darle la soddisfazione di scoprire
quanto male mi avesse fatto. Era morta, per me, doveva essere morta. E
doveva starmi alla larga, o l'avrei uccisa anche fisicamente, con le
mie mani.
Quell'unico rapido sguardo, invece, era stato sufficiente a spingerla
ad avvicinarsi ancora. Sussultai appena, quando sentii le sue mani
bollenti sfiorarmi il fianco e risalire fino a liberare dalla stretta
la mia mano ferita: la prese tra le sue, sentii le sue labbra morbide
depositarsi con baci umidi su ogni singolo lembo di pelle martoriato e
le sue guance infuocate sfiorarle lievi; scivolò davanti a
me, silenziosa, i capelli corvini a incorniciarle il volto pallido, gli
occhi che fiammeggiavano fissi su di me. Avrei dovuto allontanarla
subito, invece restai immobile, non volevo capisse quanto fossi
cambiato. Per ottenere la mia vendetta, lei non doveva sospettare
niente. Non ancora.
Si sollevò sulle punte, era a piedi nudi: nonostante quel
freddo, era a piedi nudi... sapeva quanto adorassi le dita dei suoi
piedi, vedere come si muovevano sulle lenzuola... come si
arricciavano mentre... La prima volta che l'avevo sentita ridere,
ridere sinceramente, era stato proprio a letto, per un commento idiota
che avevo fatto ai suoi piedi... Da quel momento, da quella notte, era
iniziato qualcosa di strano tra noi, avevo iniziato ad accarezzarla in
modo diverso, a baciarla in modo diverso... e l'avevo sentita complice,
vicina... quella notte... era stata... inconsueta e...
E
tu sei un idiota... soprattutto per lei... ricordatelo... sei solo un
patetico idiota, Rodolphus!
Sentii la bile riempirmi la gola, mentre si aggrappava alle mie spalle,
le sue mani scivolarono lungo il mio collo, le sue dita giocarono tra i
miei capelli e tracciarono linee immaginarie sulla mia barba, infine
catturò le mie labbra e mi baciò, famelica, come
se la sua vita dipendesse da quelle nostre bocche fuse in un solo
respiro. Sentii il mio corpo reagire ma m’imposi di
resistere, restare lucido. Mi morse, sentii il sapore ferroso del mio
sangue che s’insinuava tra noi, lo sentii mischiarsi al suo
sapore e alla mia saliva, e scivolare sempre più
giù, in ogni recesso della mia bocca. Conoscevo quel suo
desiderio, sapeva quanto lo bramassi, ma, al contrario delle altre
volte, non lasciai la lussuria prendere il sopravvento, non le strappai
la tunica di dosso, non la schiacciai contro la parete per possederla,
com’era capitato spesso, violenti, allucinati, sfrenati,
persino nelle situazioni più impensate. Era sempre
più difficile resistere, ma non volevo cedere: affondai le
dita sporche di sangue e terra nella carne delicata delle sue braccia e
me la staccai da dosso, senza alcuna gentilezza, fissando quegli occhi
lucidi di desiderio con il massimo distacco di cui fossi capace, anche
quando la sua lingua, provocatoria, andò a leccare via,
allusiva, dalle sue labbra il mio sangue, come leccava sempre via, alla
fine, l'essenza di me. Sapeva che in quel modo riusciva a farmi
impazzire, ma stavolta provai solo rabbia, domande che non volevo pormi
si affastellavano nel mio cervello: lo fa anche con lui? Certi
trucchetti li ha imparati da lui? Vuole da me le stesse cose che chiede
a lui?
Mi voltai, non volevo vederla: stringevo i pugni e immaginavo di
spezzarle tra le dita il collo sottile.
«Si può sapere che
cos'hai? Non ti ho mai visto così... Tu non mi hai mai... Tu
non hai mai Cruciato nessuno come hai fatto oggi con Sherton...
»
Mi prese il volto tra le mani e mi costrinse a voltarmi, mi fissava, i
suoi occhi ardevano per me di un desiderio vero che le avevo visto
poche volte, anche se sempre più spesso, ultimamente: se
fossi stato il patetico idiota di un tempo, avrei pensato che Bellatrix
si stesse legando a me, che non mi amasse, certo, ma che almeno
iniziasse a stimarmi e a volermi, che le piacessi, e che il legame tra
noi fosse più solido e profondo proprio perché si
stava accorgendo che ero come mi voleva lei, forte e temerario, vedevo
il suo orgoglio crescere, quando ero violento e spietato con le mie
vittime. Dopo il messaggio nella stanza di Sherton, però,
non m’illudevo più, sapevo chi lei fosse: una
cagna in calore, che desiderava me, perché il suo amante
lontano, indisponibile, non poteva soddisfarla...
Per tanto tempo mi ero illuso che mi bastasse disporre di lei, del suo
corpo, quando e come volessi, come di ogni cosa che mi apparteneva...
tanti erano così, si trastullavano con una bella moglie
purosangue, da esporre in società come un trofeo per poi
divertirsi con altre, e lasciare che lei facesse altrettanto,
purché nessuno dei due umiliasse l'altro. Io,
però, non ero così... mi ero reso conto con
orrore che io, proprio io, volevo qualcosa di più... molto
di più... da Bellatrix non volevo solo l'apparenza... io
volevo anche tutto il resto. Ero furioso con me stesso per essermi
privato della libertà con le mie stesse mani…
furioso, perché avevo lasciato che mi entrasse
così sotto pelle.
Non sarà più così... non
dovrà più essere così…
tornerò in me, libero, non m'importa nulla di lei... Non
deve importarmi più nulla... Ha rovinato tutto... Io
rovinerò lei… Questo vuoto allo stomaco
è solo un fatto di ormoni e quelli puoi soddisfarli,
perché lei ti appartiene, ma il resto non esiste, tra voi
non c'è niente, non c'è mai stato niente, non ci
sarà mai niente... L'unica cosa che vi accomuna, che vi ha
sempre accumunati, è la capacità di fare del
male... soprattutto a voi stessi...
«Non ho nulla, Black...
»
«Menti... »
«Ti sbagli... Ho fatto quello
che dovevo fare... Forse non te ne sei accorta, ma quel viscido
traditore del Sangue Puro stava per uccidere Milord... »
«Non l'hai fatto per Lui, ti
conosco... c'era… anzi c'è… qualcosa
di personale... Non ti ho mai visto picchiare qualcuno a mani nude... e
tu non sei il tipo che va mai oltre il necessario... »
«Credi che io sia andato oltre
il necessario con Sherton? È questo che credi? Mi deludi,
Black... Fai la dura, vuoi essere considerata la migliore tra i
Mangiamorte, poi ti dimostri una patetica donnetta dallo stomaco
delicato? Dal cuoricino tenero? Con gli Sherton, Bellatrix…
non è e non sarà mai abbastanza! Non…
per… me…»
La fissai, cercando di percepire un'esitazione: aveva paura per lui?
Come si sarebbe comportata, quando avrei avuto il suo Mirzam tra le
mani? Quando glielo avrei ammazzato davanti agli occhi? Avrebbero
pagato amaramente ogni affronto... L'avrei costretta a guardare e solo
allora avrebbe capito la verità, avrebbe capito che
conoscevo le loro colpe... e da quel momento sarebbe vissuta nella
paura, un giorno dopo l'altro... mi aveva deriso, umiliato... alla
fine, mi avrebbe temuto...
«Non ti conviene sfidarmi,
Lestrange... lo sai… »
Il mare mugghiava sempre più feroce, la tempesta era al
culmine, sapevamo che sarebbe stato un giorno infernale, era stata una
delle condizioni che avevano determinato per quel giorno la data della
missione. Bellatrix non appariva turbata dalle mie parole, anzi,
sembrava pervasa dalla curiosità e dallo stesso entusiasmo
mostrato a Essex Street, io, al contrario, ero sempre più
inquieto, l'elettricità nell'aria e le mie aspettative mi
rendevano insopportabile quell'attesa: erano passate ore ormai, e a
nessuno di noi era stato concesso conferire con Milord, a parte quanti
erano andati invano a caccia della Strega. Non capivo tanta
preoccupazione, avevamo i marmocchi, quella donna ferita e spaventata
non costituiva una minaccia per noi, potevamo scendere a prelevare
Sherton, costringerlo a confessare e farla finita una buona volta...
invece il tempo passava ed io restavo nella foresteria, preda dei
fantasmi che aleggiavano nella mia testa.
Un tuono squassò l’aria, Bellatrix mi mise una
mano sul braccio, non ebbi il tempo di reagire, mi voltai verso il
fondo oscuro della foresteria: l'Elfo di Malfoy era apparso, Milord
voleva vederci.
«... Penso abbiano finalmente
trovato la troia... E ci chiamano per darle una lezione... bene,
Lestrange, ora apri gli occhi, perché stai per vedere di
cosa è capace questa patetica donnetta!»
***
Rigel Sherton
Hogwarts, Highlands - sab. 15 gennaio 1972
Quando vidi le prime gocce di sangue, ero ormai fuori dalla visuale dei
miei amici. La voce di papà e il buon senso mi suggerivano
di tornare a scuola e di stendermi sul divano, al calduccio, davanti al
caminetto in Sala Comune, ma non volevo rientrare con la coda tra le
gambe e farmi deridere da quei due. Sentii le guance farsi di fuoco e
gli occhi diventare lucidi, respirai a fondo e mi feci coraggio, la
vertigine che provavo era sicuramente effetto solo del freddo.
Io non sono un moccioso, non sono una ragazzina, delicata e paurosa!
Tesi l'orecchio e avanzai con circospezione, da qualche parte c'era una
belva che stava pasteggiando e non avrebbe gradito essere disturbata.
Ricordavo tra me gli insegnamenti appresi a caccia da mio padre, a poco
a poco mi sentii più sicuro, quando, però, a
terra vidi alcuni brandelli sanguinolenti, ancora fumanti, e il tanfo
della carne e del sangue mi riempì le narici, il pranzo mi
risalì in gola e lo stomaco mi entrò in
subbuglio. Mi fermai, cercai di riprendere il controllo, ma appena mi
voltai e vidi una testa d’uccello staccata e delle viscere
fumanti, mi ritrovai a vomitare tutto il pranzo.
MALEDIZIONE! NO! CI MANCAVA PURE QUESTA!
La testa prese a girarmi e le gambe iniziarono a tremare, battevo i
denti dal freddo e dalla paura, non della belva, no, ma di svenire e di
essere deriso a vita. Feci profondi respiri e cercai di fermare il
senso di vertigine, non dovevo pensare di essere solo, senza la mia
scopa, altrimenti sarei stato preso dal panico e avrei urlato. Dopo
quella che mi parve l’eternità, il mondo smise di
girare e il cuore di battermi furioso nel petto, la nausea
cessò: dovevo tornare indietro, sentivo freddo, non aveva
senso continuare a girovagare, ormai sapevo quale animale avesse emesso
quel verso, la testa che avevo visto era di un'aquila reale, e poco
lontano da me c'erano penne e piume a dimostrarlo.
Gli faccio vedere io, a quei due idioti…
racconterò a tutti quanto sono pigri e fifoni!
Mi chinai a raccogliere il mio trofeo, con la coda dell'occhio vidi un
movimento alla mia destra, seguito da un fruscio tra i rovi innevati,
mi rialzai in tempo per vedere qualcosa inoltrarsi nel folto,
strisciando sulla neve. Rimasi alquanto sconcertato, doveva essere per
forza un’allucinazione, perché solo un rettile
poteva muoversi così, ma, in quella stagione, quelle
bestiacce erano in letargo.
Osservai il sole che stava scendendo dietro la montagna, il buio
sarebbe arrivato improvviso, solo un folle avrebbe indagato nella
Foresta di giorno, figurarsi di notte. Figurarsi nelle mie condizioni.
Se fosse un serpente, però, sarebbe una scoperta
eccezionale... e se lo catturassi e ne facessi la mascotte della Casa,
sarei un eroe, avrei il rispetto di tutti, proprio come prima,
smetterebbero di burlarsi tutti di me, di dire che sono cambiato, solo
perché ora ho queste strane Rune… io sono un vero
Mago... Io sono un vero Slytherin… se prendessi un serpente
che gironzola in pieno inverno, sarei considerato degno di Salazar... e
non dovrei più dimostrare niente... a nessuno!
«RIGEL! RIGEL!»
Sentii le voci dei miei amici alle mie spalle, erano sulle mie tracce,
sapere di non essere completamente solo mi diede la spinta definitiva:
sguainai la bacchetta e iniziai a seguire le tracce, inoltrandomi tra
sterpi, radici affioranti, neve, rami secchi caduti a terra. Non
dovetti procedere molto, prima di bloccarmi di nuovo, i peli ritti in
mezzo alla schiena e le dita serrate attorno al legno della bacchetta:
lentamente cercai di acquattarmi e trattenni il fiato per non far
notare la mia presenza, il sudore freddo mi scivolava lungo la schiena
e sottili nuvolette di vapore mi uscivano dalle narici, mentre la
mente, rapida, cercava un incantesimo di difesa potente, molto potente.
Davanti a me, un serpente gigantesco, lungo più di quanto
Hagrid fosse alto, con gli occhi gialli, i denti aguzzi, il dorso verde
scuro, scivolava pigro verso l'oscurità impenetrabile della
foresta, il corpo dilatato in modo spropositato dal pasto, le spire
rilucenti di riflessi argentei.
Invece di pensare a scappare, come avrebbe fatto chiunque fosse dotato
di raziocinio, mi fermai a sognarmi nell'atto di catturarlo e portarlo
al castello, di donarlo ai miei compagni, immaginai Rabastan che lo
liberava nei sotterranei, per mettere paura a quei
“cagasotto” degli Hufflepuff.
Il serpente però si fermò, rizzò la
testa, si voltò a destra e sinistra, si staccò
ancora un po' da terra, sembrava annusare l’aria, alla
ricerca di qualcosa, di qualcuno: all’improvviso, finalmente,
mi resi conto che da predatore stavo rischiando di diventare la preda.
Staccai un piede da terra e ondeggiai indietro, poi ripetei il
movimento con l’altro, il serpente si alzò ancora
e si voltò verso di me, mi fissò, i suoi occhi
sembravano brillare del rosso dell’inferno, la sua lingua
guizzò, famelica: mi aveva visto. Iniziai a tremare, muoveva
la bocca, sembrava che parlasse o ridesse di me, io mi sollevai dal
nascondiglio e cominciai a correre, disordinatamente, senza tener conto
della direzione di provenienza, solo dell'assenza di ostacoli sul mio
cammino, sentendo dietro di me i sibili della bestia e il movimento
rapido e ritmico delle spire sulla neve, che si avvicinavano sempre di
più.
Non
può essere! Non posso essermi messo in questa situazione di
merda con le mie mani!
Caddi, i sibili erano più vicini, gattonai e rotolai tra
rocce affioranti e mi calai in una fenditura, percorsi una lunga cresta
di rocce e ghiaccio, rischiando di scivolare, la discesa si fece
più morbida ed io mi lasciai andare giù, fino a
una spianata libera da alberi, scoperta, esposta alle correnti che
salivano dal lago: sperai che il freddo dissuadesse la belva dal
seguirmi.
T’illudi
che quello sia un serpente normale che si comporta da bestia normale?
Idiota!
Mi risollevai in piedi, guardai in alto, non sentivo più
né il fruscio, né il sibilo, lo cercai
guardandomi tutto attorno, ma non lo vidi avvicinarsi da nessuna
direzione. Sospirando di eccitazione e terrore, iniziai a togliermi la
neve da dosso, poi osservai il paesaggio che digradava di fronte a me
verso il Lago Oscuro, per provare a orientarmi: la neve aveva perso il
suo candore, si faceva via via più grigia, mentre
l'oscurità arrivava da est, dalla collina alle mie spalle, a
spegnere il giorno e sulle cime delle montagne di fronte a me, di
là del lago, rosseggiava l'ultimo bagliore del sole. Non
sapevo dove fosse finita la creatura, ma nel casino in cui mi ero
cacciato, alla fine, ero stato fortunato: non mi ero perso, in quella
corsa caotica e improvvisata, anzi, ero riuscito a portarmi sulla
scorciatoia che spesso facevamo di ritorno dal campo da Quidditch,
quasi in riva al lago, sarebbe bastato attraversare un tratto di bosco,
e mi sarei trovato presso le serre di Erbologia.
Recupererò
la scopa domani, ricordo bene il luogo dove l'ho lasciata, vicino al
sentiero.
Rimisi in tasca la bacchetta, controllai la piuma d'aquila dentro il
mantello e boccheggiando ancora un poco per la fatica, mi avviai tra
gli alberi, guardandomi ogni tanto le spalle per sicurezza.
Da dove diavolo sarà saltato fuori quel mostro? Mai visti
dei rettili girovagare in pieno inverno... Sarà una creatura
magica, un Animagus... uno spirito... un Mago trasfigurato…
Pensando a tutte le possibilità, poco per volta mi rilassai,
godendo del silenzio ovattato che mi circondava e mi permetteva di
riflettere, il mio passo era rapido e sicuro, la neve era bassa in quel
tratto, gli abeti proteggevano il suolo ed io mi muovevo facilmente sul
tappeto di aghi e fogliame umido; mi rallegrai, pensando che sarei
riuscito a tornare a scuola prima dei miei amici, ogni tanto sentivo le
loro voci alle mie spalle, provenienti dall’alto, che mi
chiamavano, avrei potuto urlare loro che era tutto a posto, che stavo
tornando al castello, ma mi piaceva farli preoccupati un po’,
inoltre ero in basso e aveva nevicato parecchio, rischiavo di far
staccare dei grossi cumuli e restarci seppellito sotto. Speravo solo
che non incontrassero il serpente, sebbene, conoscendolo, Rabastan non
si sarebbe spaventato, anzi, si sarebbe galvanizzato e sarebbe persino
riuscito a catturarlo.
Stupido! Avevi la bacchetta, perché non hai provato a
stregarlo? Se l'avessi pietrificato, ora… invece ti sei
messo a correre, fifone! A quest'ora della sua pelle avresti fatto tu
un trofeo!
«RIGEL! RIGEL!»
Mi fermai, mi guardai intorno, in quel punto, sulla collina che
sovrastava gli alberi intorno al sentiero, non c’era troppa
neve, mi portai le mani alla bocca, deciso a rispondere, quando sentii
una specie di pigolio e uno sbattere di ali, a poca distanza da me:
memore della disavventura appena vissuta con il serpente, mi dissi che
non era il caso di badarci e di cacciarmi in altri guai.
Papà
ha torto quando dice che dobbiamo soccorrere, intervenire…
per millenni gli animali della foresta hanno vissuto la loro vita,
senza che noi c’immischiassimo nei loro affari…
perciò… che ognuno si faccia i cavoli propri!
Anzi sbrigati a tornare a casa, Rigel! Ormai è quasi buio!
Quando, però, mi accorsi che la neve davanti a me era pregna
di sangue e scie rossastre si dipanavano in ogni direzione,
inoltrandosi nel bosco, era troppo tardi per farmi gli affari
miei…
La
mia solita fortuna! Per fare una gita nel bosco, ho scelto proprio il
giorno in cui tutte le belve fameliche e assassine della Foresta hanno
deciso di darsi ai loro banchetti cruenti… fanculo!
Ripresi la bacchetta, non mi sarei comportato da vigliacco, stavolta:
poco più avanti c'erano numerose penne, alcune attaccate a
lembi di piumaggio e carne, vidi un'intera ala strappata via e
immaginai la sofferenza di quella povera creatura. Ne raccolsi una, era
di nuovo di un'aquila reale, evidentemente, quel giorno, le aquile
erano fortunate addirittura più di me.
Proseguii e vidi a terra un intero nido devastato, tirato
giù dall'albero e schiantato al suolo, mi chinai, raccolsi
delle piume, dei pezzetti di uova: non avevo mai visto le aquile fare
il nido in un luogo così inconsueto, accessibile e
pericoloso. A poca distanza da me vidi a terra qualcosa muoversi
appena, mi avvicinai: un aquilotto era stato sbalzato via dal nido,
sembrava stordito e aveva un'ala rotta, ma respirava ancora, poteva
essere stato lui a pigolare, o un suo fratello, di solito ne nascevano
due, così diceva sempre mio padre. Lo presi in mano, deciso
a portarlo con me, prima di ritornare al castello l’avrei
lasciato da Hagrid, il Guardiacaccia, perché lo curasse.
È tutto strano, però: un serpente sveglio, aquile
che nidificano sugli alberi... un piccolo cresciutello…
quindi di chi erano le altre uova nel nido? Mah… Ne nascono
solo due in un anno…
Avanzai fino al corpo della seconda aquila, era la femmina, la
riconobbi dal piumaggio, aveva il collo spezzato ed era stata
dilaniata, l’ala che avevo visto era la sua: il pigolare
sempre più stentato che percepivo tra gli alberi doveva
essere dell'altro piccolo, forse il predatore lo stava portando alla
sua tana. Mi chiesi chi fosse, se fosse un pericolo anche per me o
potessi mettere in salvo anche il secondo aquilotto, guardai il piccolo
che avevo in mano, compresi che mio padre non aveva torto.
Mi pentii delle mie domande e del mio altruismo quando sentii un
ringhio sordo alle mie spalle: mi voltai e i peli sulla schiena mi si
rizzarono, c’era un gigantesco lupo dal pelo fulvo che mi
mostrava i canini aguzzi e sbavava; dietro, una femmina nera
uscì dal fitto del bosco, gli occhi iniettati
d’odio, il muso lurido di sangue, sollevò il muso,
con un ringhio che sembrava una risata di scherno, tra le fauci serrava
un aquilotto ancora vivo che si agitava e pigolava impaurito. La lupa
mi fissò, la schiena mi si riempì di brividi, la
vidi stringere, il sangue dell’aquilotto le
imporporò i canini candidi. Sputò via la creatura
morta: l’aveva uccisa non per nutrirsi, solo per sfregio.
Rabbrividii: per un istante, al posto dei suoi occhi brillarono gli
occhi furiosi del Mangiamorte che mi aveva attaccato la notte di
Herrengton. Sentii una profonda inquietudine pervadermi…
È
tutto strano… tanto, troppo strano…
Tutta la foresta, ora, sembrava pigolare; il cuore accelerò
rapido, sempre di più… le lacrime mi velarono gli
occhi, senza che ne comprendessi il motivo.
Dovevo andarmene da lì, subito: mossi un passo, arretrando,
poi un altro, senza staccare gli occhi di dosso alle due belve, che
convergevano su di me; il pigolio che mi aveva attirato fin
dall’inizio era sempre più insistente, dietro di
me, mi mossi in quella direzione, senza mai dare le spalle ai lupi,
m’immersi lentamente nel bosco, caddi all'indietro,
incespicando, mi rialzai, sentii di nuovo pigolare. Uscito lentamente
dal fitto degli alberi, affondai nella neve fino al polpaccio,
annaspai, mi rimisi in piedi, senza mai perdere di vista le belve che
mi seguivano lente, possenti, le orecchie ormai appiattite sul cranio,
gli occhi ridotti a fessure, la bava, copiosa, che usciva dalle bocche
digrignate. Sentii di nuovo lo stridio acuto di un'aquila adulta
scendere dall’alto, mi sorprese vedermela piombare davanti,
al contrario, non sorprese i lupi: corsi alle sue spalle, con quanto
fiato avevo in corpo, la superai, l’aquila sembrava non
vedere me, solo i lupi, che però continuarono a inseguirmi,
bramosi del mio sangue, il lupo fulvo correva parallelo a me a destra,
a sinistra, più arretrata, c'era la femmina. Ed erano
veloci, sempre più veloci. Raggiunta una radura, franai su
un tronco che affiorava appena dalla neve, nella penombra non
l’avevo visto; terrorizzato sguainai la bacchetta, sicuro che
mi sarebbero saltati addosso, entrambi, mi sollevai pronto a
fronteggiarli, disperato, ma l’aquila, di nuovo,
planò di fronte a me, le ali spiegate, decisa a farmi scudo.
Riuscii a sfuggire grazie a lei, all’ultimo secondo, ma lei
non fu altrettanto fortunata: le belve gli si lanciarono addosso e
l’abbatterono, li vidi strapparsi a vicenda la preda dalla
bocca, furiosi, accaniti. Corsi, corsi a perdifiato, senza badare alla
direzione, solo a percorrere quanti più metri possibili,
fino a che il respiro non mi bastò più e le gambe
non diventarono pesantissime, crollai carponi nella neve, tremante, di
paura e fatica, senza più forze, disperato. Avevo perso
l’orientamento, non sapevo quale direzione prendere, le
lacrime mi si cristallizzavano sulla faccia, nelle orecchie,
rimbombante, il pigolio che pervadeva il bosco, ormai quasi soffocato.
Ero sconvolto, per quel lamento disperato, per quanto avevo visto, per
la corsa e per l’odio dei lupi.
Quello
che sta accadendo in questo bosco non ha nulla di naturale…
devo uscirne il prima possibile… non siamo lontani da
Herrengton, le Terre sono al di là di questa
montagna… forse anche la Foresta Proibita parla a chi porta
le Rune… proprio come accade a Herrengton… e
senza i segni che mi possano difendere… sarei un pazzo a
tentare di affrontarla un secondo di più…
Guardai l'aquilotto nella mia tasca, sembrava addormentato, guardai il
cielo, si stavano accendendo le prime stelle, osservai con attenzione i
profili delle montagne, mi resi conto che le mie mani erano prossime a
congelarsi, ma avevo anche capito in quale direzione andare, per
ritornare sul sentiero che portava alle serre. L’unico
problema erano i lupi, che forse mi attendevano ancora proprio a
metà del percorso. Ormai i miei amici, però,
dovevano essere tornati al castello e probabilmente avevano
già dato l’allarme, sicuramente Slughorn era
andato da Hagrid per chiedere aiuto.
E
almeno una squadra di soccorso passa sempre in basso, in
riva al lago… è più lunga, rispetto
alla via delle serre, ma non ci sono i lupi,
laggiù… almeno spero… mi troveranno di
certo!
M’incamminai, stanco e infreddolito, la continua attenzione
che dovevo rivolgere al terreno, per non scivolare e finire in acqua,
mi costringeva ad avanzare lentamente e a prestare meno attenzione al
pigolio, che però, ormai, si era impiantato nel mio
cervello. Avevo pure fame, e la fame, di solito, mi portava il
sonno… E mio padre mi aveva sempre raccomandato di fare
attenzione al sonno…
Presi la bacchetta e pronunciai un paio d’incantesimi, per
svelare la presenza di qualcosa di commestibile sotto la neve, ma
riuscii solo a dissetarmi un po’. Mentre scavavo, in un punto
in cui avrei dovuto trovare una bacca, vidi una donnola dal caldo pelo
bianco uscire dalla sua tana: il pigolare veniva da lì, dal
suo nascondiglio. Non era strano, a pensarci bene, forse quella
bestiaccia approfittatrice aveva colto l’occasione della
battaglia tra aquile e lupi per impossessarsi delle prede. Presi un
ramo, grosso e nodoso, per tenere la donnola alla larga mentre
manomettevo la sua tana e liberavo i cuccioli, il furetto mi
fissò, arruffò il pelo e digrignò i
denti aguzzi, io ghignai, pensando che fosse proprio stupido a credere
di potermi spaventare in quel modo. Alla fine riuscì a
fuggire, portandosi via due aquilotti ancora implumi, io lo rincorsi,
deciso a vendicarmi su quella specie di topo peloso di tutta la paura
provata quel pomeriggio. La mia corsa, però,
finì, insieme alla mia speranza di salvarmi e salvare i
piccoli, quando un lupo rossiccio, smilzo e più giovane
degli altri, mi sbarrò la strada: tentando di girarmi e
fuggire via, caddi a terra, il lupo mi fu subito sopra, mi
puntò, sbavante, sembrava anche lui interessato
all'aquilotto sfuggito dalla mia tasca.
«NO, MALEDIZIONE, NO! NON
AMMAZZERAI ANCHE QUESTO! È L’ULTIMO!»
Raccolsi il piccolo e imprecai, il lupo guaì, sembrava una
risata di scherno, si avvicinò, spaventoso, ma non fu a
causa sua che mi si rizzarono i peli della schiena e la paura mi
serrò il cuore. Quando abbassai gli occhi sulle mie mani, la
piccola aquila non era più un animale, ma aveva il volto di
un essere umano, un volto che conoscevo. Un volto che conoscevo fin
troppo bene. Le lacrime mi bagnarono la faccia, perché ora
tutto aveva un senso. E il terrore a quel punto mi fermò il
cuore.
Salazar, che dannata Magia Oscura è questa?
Afferrai un pugno di neve, la gettai sugli occhi del lupo
accompagnandola a una maledizione del Nord, non era potente, ero troppo
sfinito, ma forse mi avrebbe dato un minimo di vantaggio; mentre la
belva restava interdetta, arretrai nella neve, mi nascosi dietro un
cespuglio, sentii il passo del lupo che mi seguiva, dapprima incerto,
poi più deciso, sguainai la bacchetta e la puntai nella sua
direzione, pronto appena fosse apparso, non avrei avuto
pietà, ero deciso a difendermi e a difendere ...
La bacchetta, però, mi cadde a terra, non riuscivo
più ad afferrarla, tenerla; disperato, mi guardai le dita,
l’aquilotto era scomparso ed io non avevo più una
mano, c’erano piume che mi spuntavano dalla pelle del
braccio, proprio lì dove prima c'erano le Rune. Urlai una
richiesta d’aiuto, ma non era più esattamente la
mia voce, si stava trasformando in qualcosa di diverso, il lupo giovane
mosse un altro passo, e infine apparve da dietro il cespuglio, la sua
bocca ghignò, dalla sua gola sorse una risata: ma non era
più il latrato di un lupo, era la risata di un essere umano.
Con i miei occhi di rapace, divisi dal becco, vidi la sua ombra in
controluce emergere dal cespuglio, la belva si avvicinava a me su due
gambe, si chinò a raccogliere la bacchetta che mi era caduta
dalle mani, sentii il mio cuore, il mio piccolo cuore di uccello,
esplodermi di paura, lì nel petto piumato.
La
mia bacchetta, la mia bacchetta stretta nella sua mano…
Aprii la bocca per urlare, con tutto il fiato che avevo, annaspando con
i miei artigli nella neve.
«No... NOOOOOOOOOO ...
NOOKREEEEEEEEEEEEK... »
La mia non era più la voce di un ragazzo, ma il verso di
un'aquila, il lupo-uomo rise di nuovo, mi puntò la bacchetta
addosso, indifeso, vidi la luce verde sgorgare. Sentii la sua voce. La
riconobbi.
«Addio…
Hifrig… Avada... Kedavra… »
***
Deidra Sherton
Amesbury, Wiltshire - sab. 15 gennaio 1972
Plink... ...
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Quel rumore, indefinito, sconosciuto, era apparso all'improvviso e, a
intervalli irregolari, riappariva, si ripeteva ossessivo, si stava
incuneando nel mio cervello.
Se esiste il cervello, esistono i pensieri, le sensazioni... le
sensazioni richiamano alle labbra nomi... i nomi si legano ai volti, i
volti fanno sgorgare lacrime, le lacrime trafiggono il cuore.
Plink... ...
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Quel rumore non apparteneva all'indefinito che mi aveva fagocitata,
veniva dal mondo cui volevo tornare, dove c'erano le persone da
riabbracciare. I miei figli, il mio amore. Oltre quel buio, oltre quel
silenzio, c'era la vita... Forzai l'aria a entrare, sentii i miei
polmoni bruciare come l'inferno.
Ero viva... non sapevo dove fossi, immersa nel nulla, travolta dagli
eventi, ma ero viva.
Plink... ...
Plink... Plink...
Lo sentivo con le orecchie, adesso, non solo nella testa, lo
riconosceva, era l’acqua che cade a terra, era la goccia che
s'infrange al suolo... respirai ancora più a fondo, e
finalmente aprii gli occhi...
Il buio s’illuminò: il mio corpo era solido
attorno a me, lo sentivo, aveva freddo, provava dolore... non sapevo
dove fossi stata, se nel buio della morte, o in un sogno spaventoso, ma
ero tornata indietro... viva, attirata da quel suono.
A poco a poco gli oggetti smisero di essere ombre fumose, attorno a me,
divenne nitida una piccola stanza immersa in una tiepida penombra, un
caminetto scoppiettante ai piedi del divano su cui ero stesa, tende di
strana fattura tirate alla finestra, a consentire la vista sul
nulla... c'era qualcosa ammassato contro i vetri, a rendere
ancora più greve e soffocante l'atmosfera in quella misera
stanzetta. Rabbrividii. Non sapevo se fosse notte o giorno, non sapevo
dove mi trovassi.
Dove mi trovo? Cosa ci faccio qui? Perché non sono a casa
mia?
C'erano due porte ai lati del divano, una era di legno pesante,
sprangata dall'interno, l'altra era socchiusa, e sebbene non
comprendessi cosa dicevano, sentivo delle voci indefinite emergere da
là dietro, insieme a un chiarore soffuso e a uno strano
odore di spezie. Mi sollevai a sedere, cercando di resistere al senso
di nausea e vertigine, che si accompagnarono alla confusione che avevo
in testa.
Mi fa male... tutto... il dorso, le costole, il capo... sembra che sia
stata a lungo stesa a terra, o che abbia avuto la febbre alta... ogni
particella del mio corpo è dolorante. Perché?
Respirai a fondo, con difficoltà, sperando di schiarirmi le
idee, vidi i miei abiti appesi, vicino alla finestra, lontano dal
caminetto, sulla poltrona accanto al divano c’era la mia
vestaglia da camera, non capivo che cosa ci facesse lì, non
avevo mai visto quella stanza, per quanto scavassi nella memoria non
avevo ricordi di quel posto... eppure, attorno a me, era un pullulare
di oggetti familiari: sul tavolino, c'era un candelabro spento che
avevo già visto a Herrengton, una tazzina spaiata del
servizio da tè di zia Gertrude, di cui pensavo di essermi
liberata ormai da anni.
Forse sto sognando... questi sono brandelli del mio passato...
A terra c'erano delle impronte quasi asciutte che conducevano verso
l'altra stanza, ma che avevano anche girato avanti e indietro a lungo
attorno alla poltrona fino a fermarsi vicino a me... anche sui cuscini,
c'era ancora impressa la forma di qualcuno che era rimasto seduto. Ero
inquieta: chi si era fermato a guardarmi... dormire? Star male?
Alshain…
Gli occhi andarono al caminetto, attaccato a un appendiabito c'era un
lungo pastrano scuro, grondante di neve, grosse gocce d'acqua si
raggruppavano ai margini del tessuto, pesanti si sganciavano e dopo un
breve salto, s’infrangevano al suolo, facendo un suono:
plink…
Dove sono ? Che cosa ci faccio qui? Di chi è quel pastrano?
C’era del liquido scuro nella tazzina ancora fumante, la
presi e la annusai, sospettosa: erano stati sciolti miele ed estratti
di due piante dagli effetti ricostituenti, qualcuno aveva cercato di
curarmi.
Kreya…
Pensai alla mia Elfa, immaginai che fosse entrata poco prima e mi
avesse svegliato, era possibile… ma tutto il resto non aveva
senso, mi chiesi dove fossero Alshain e i bambini: erano troppo
piccoli, non li avevo ancora mai lasciati soli, erano sempre con me,
dovevano essere lì, da qualche parte... Avevo anche il seno
dolorante e pieno, dovevo allattare Adhara, eppure non la sentivo
reclamare...
Lei dov'è? Perché non ha fame? Salazar... O dei
del cielo… O no… Adhara... no…
Come un rombo nella testa, come una diga che cede sotto l'impeto
dell’acqua, uno dopo l'altro, i ricordi riemersero e mi
travolsero, furiosi, via via sempre più rapidi, sempre
più dolorosi, sempre più atroci: l'aggressione a
Essex Street, il fiato fetido di Lestrange... la morte di Kreya... la
maledizione di Emerson... il dolore… Abraxas che fuggiva con
i miei bambini...
La disperazione mi mozzò il respiro, volevo urlare, correre
via, volevo... Scoppiai in lacrime...
Alshain... è rimasto... solo… ad affrontare...
no! No, non è possibile… Non è
possibile... è un incubo... solo un incubo... Kreya...
Alshain... I bambini! Deve essere un incubo... un incubo...
Mi portai le mani alla testa, dondolandomi, tirando i capelli, per
impedire a tutte quelle voci di urlarmi dentro, a quelle immagini di
perseguitarmi, ma quando la mano scivolò sulla guancia,
sentii la pelle lacerata, e la fitta di dolore: portavo addosso la
dimostrazione che era tutto vero...
Tentai di alzarmi dal letto, di raggiungere la porta sprangata,
terrorizzata all'idea che nell'altra stanza ci fosse il mio carceriere;
non ricordavo cosa fosse successo, dopo che Alshain... dovevo
Smaterializzarmi, fuggire, anche se non sapevo dove, incespicai sul
tavolino e caddi, sentii il dolore noto alla gamba, ripensai a un'altra
caduta, e le lacrime mi salirono agli occhi.
Quanto tempo è passato? Che ne è dei miei
bambini? Dov'è Alshain?
Sentii rumori provenire dalla stanza accanto, il terrore mi prese. Mi
voltai per controllare la situazione, a fatica mi sollevai da terra,
cercai di raggiungere la porta, con la coda dell'occhio vidi una figura
scura, imponente, che si avvicinava ad ampie falcate. Si
avventò su di me.
«NOOOOOOOO... NO! LASCIAMI
MALEDETTO, LASCIAMI! NOOOOOOOOOO… »
Ero in trappola: sentii il tepore delle sue mani a pochi millimetri da
me, sentii le dita affondarmi nella carne, scoppiai a piangere, ero
troppo debole per resistere, mentre braccia forti mi sollevavano e
stringevano contro un corpo ignoto. Avrei preferito morire subito che
affrontare anche...
«NO! NO!»
Con le poche forze che avevo, cercai di tirare dei pugni, di liberarmi,
di mordere, di graffiare... era tutto inutile, le forze venivano meno,
di nuovo tutto girava, di nuovo tutto sembrava farsi indefinito.
Delle labbra lievi si posarono sul mio capo e pronunciarono il mio
nome, al mio orecchio, rabbrividii, terrorizzata, ma quelle mani invece
di stringermi in una presa crudele, mi sorreggevano, mi sostenevano,
sembravano capaci di delicatezza. Non capivo. Sentii di nuovo il mio
nome sussurrato piano alle orecchie... sembrava venire da lontano.
Tremai.
Alzai gli occhi, spaventata, scrutai quegli occhi, quei lineamenti,
temevo fosse un altro inganno... era accaduto tutto, lo ricordavo,
proprio perché mi ero fidata, perché mi ero fatta
ingannare...
Gli occhi che mi fissavano, però, non erano fatti per
ingannare. Non me…
Erano pieni di timore, di preoccupazione, di affetto... fraterno... di
sincerità… Compresi le parole…
«Non volevo spaventarti,
Deidra… mi dispiace… »
Scoppiai a piangere, affondando prima le mani poi il volto nel tessuto
del panciotto impeccabile, sentii quelle mani forti accarezzarmi la
testa, consolarmi, sentii quella voce cullarmi, lo guardai di nuovo,
tra le lacrime, incredula e grata: nella penombra, quegli occhi
brillavano come stelle che guidano verso la salvezza, attraverso la
tempesta.
«Salazar! Che gli dei ti
benedicano, Orion Arcturus Black… »
***
Rigel Sherton
Hogwarts, Highlands - sab. 15 gennaio 1972
«Rigel…
Svegliati… ragazzo, mi senti? Rigel…
eccolo… così, sì…
svegliati! Svegliati... »
«NO! Krrr... no... Kr...
NO!»
«Forza Rigghe… dai!
Svegliati… te l’ho detto, Poppy …
è razza forte questa… »
«Sì, ma togliti da
lì, Rubeus… o lo soffocherai!»
Aprii gli occhi, ma era tutto buio, percepivo solo un muso peloso sopra
di me, provai a urlare ma la voce non mi uscì dalla gola,
tremai, sicuro che la belva mi avrebbe ucciso, poi però il
muso dai tratti confusi si ritrasse, e non fu più
completamente buio, c’era una penombra rossastra, da cui
emerse una mano inguantata che mi diede un paio di schiaffetti sulla
guancia, e un'altra ombra, corpulenta, che da sinistra mi
avvicinò qualcosa di metallico in bocca... Mi forzarono ad
aprirla, ero troppo debole per protestare, sentii un liquido asprigno e
caldo scivolarmi lungo la gola. Tossii.
«Come ti senti,
Rigel?»
«Stia buono, signor Lestrange,
il signor Sherton è ancora troppo debole per
rispondere!»
Mi voltai a destra, verso quella voce, umana, di donna, poco per volta
riconobbi la figura bianca di Madame Pomfrey, riconobbi la boccetta dei
sali nella sua mano, vidi l’altra che si depositava sulla mia
fronte e mi scostava i capelli, nel gesto materno che ci riservava
sempre. Deglutii a stento, avevo sete, sentivo le labbra screpolate,
asciutte, aprii di più gli occhi e poco per volta misi a
fuoco l’aspetto purtroppo più che noto
dell'infermeria, a sinistra il volto arrossato dall'agitazione del
professor Slughorn, che si stava torturando le mani una contro
l’altra. Infine, in fondo al letto, rividi quella montagna di
pelo e tremai, levai la mano, gli occhi sbarrati, scalciando con i
piedi, Madame Pomfrey mi strinse la mano e mi accarezzò di
nuovo la fronte.
«Sì, signor
Sherton… sì… è stato Rubeus
Hagrid a portarla in salvo… ma avrà tutto il
tempo, in seguito, per ringraziarlo… ora si
riposi… »
Il guardiacaccia si avvicinò, tornando in un punto
illuminato della mia visuale, solo quando vidi che la massa di pelo
erano proprio i suoi capelli e la sua barba e non il pelo ispido di un
lupo assetato del mio sangue, mi calmai e riuscii persino a sorridere.
«Allora…
gra… grazie… Ha…
grid…»
«Come vedete, il signor
Sherton si sta riprendendo… ora per favore, andate fuori
tutti, lasciatelo riposare… può restare solo la
signorina Sherton… fuori, via!»
I miei compagni scivolarono rapidamente davanti a me, chi mi strinse la
mano, chi mi toccò un braccio o una gamba attraverso la
coperta, addirittura Kendra Campbell osò chinarsi a
stamparmi un bacio sulla guancia, sotto i rimproveri della
Pomfrey… alla fine, rimasero solo Meissa seduta accanto a
me, a destra, e il professore Slughorn alla mia sinistra, di fronte a
me, in fondo al letto, c’era Rabastan Lestrange, sul quale
avevo puntato gli occhi appena l’avevo notato; lui, a sua
volta, aveva fatto in modo di uscire per ultimo.
«Vorrei restare… se
possibile… »
Slughorn guardò l’infermiera e lei fece un cenno
di assenso, sottolineando però che ci concedeva non
più di dieci minuti. Rabastan annuì, prese una
sedia dal fondo della stanza e la portò vicino a me, di
fianco a Meissa, che ormai stentava a trattenere le lacrime. Quando lo
vidi metterle una mano sulla spalla per consolarla, cercai di
sollevarmi a sedere sul letto, le presi una mano e la costrinsi ad
avvicinare la testa per parlarle.
«Vai in camera tua e scrivi a
mamma e papà… vorrei che venissero subito
qui!»
Meissa mi fissò, stranita, ma annuì con la testa
e uscì, rapida, a me girava tutto, ma volevo stare seduto,
per avere un minimo di controllo su quello che avevo intorno.
«Come sono… tornato
qui?»
«Stia calmo, signor Sherton...
per fortuna Hagrid l'ha ritrovata in mezzo al bosco, appena i signori
Rosier e Lestrange hanno dato l’allarme…
»
«Accade se si gioca nella foresta dopo neanche un'ora da
quando si viene dimessi... Eppure ero stata chiara, aveva un
po’ di febbre già da questa mattina! Questa volta
segnalerò l’accaduto ai suoi genitori, signor
Sherton… e anche a suo padre, signor Lestrange, lei
è più grande, dovrebbe essere più
responsabile! Poteva accadere… Poteva morire assiderato nel
bosco, se ne rende conto?»
«Dove… mi
avete… trovato? Voglio… sapere…
»
«Ti abbiamo seguito fino ai
piedi degli alberi verso i quali ti eri diretto: Evan ed io ti abbiamo
visto barcollare e cadere; poi sei sparito… Evan
è corso a chiamare Hagrid, per sicurezza, io ti ho cercato e
chiamato per un po’… ma tu eri sparito…
Hagrid ti ha trovato addirittura vicino al Lago Oscuro…
»
«Di questo riparlerete dopo,
signor Lestrange… ora andiamo, facciamo riposare il signor
Sherton…»
Lo salutai e mi ridistesi, dubbioso: se non avevo fatto solo un brutto
sogno a causa della febbre, com’ero finito in riva al Lago?
Probabilmente ero svenuto, dopo aver rigettato, poi avevo iniziato a
camminare preda del delirio… Salazar, com’ero
stato stupido! Avevo la febbre, ed ero stato così idiota da
uscire subito dopo aver mangiato. Affondai la testa sul cuscino,
svuotato: pregavo che si trattasse solo di un sogno, di un delirio
normale... e non di una delle stramaledette premonizioni di cui erano
capaci i Maghi della Confraternita. Non era un bel presagio…
Bastava contare per capirne il senso: le aquile erano tante quanti i
membri della mia famiglia; tutto il resto era più difficile
da capire: perché l'ultimo aquilotto aveva quel volto umano?
E perché a me erano spuntate le ali? Quanto ai lupi, al
serpente e alla donnola, non avevo idea di chi fossero... Mentre ero
preda del delirio, ero certo di aver riconosciuto la voce del lupo ma
ora che ero lucido, non ricordavo più nulla…
«Molto bene… e ora
che anche il signor Lestrange e il professor Slughorn sono
usciti… potrebbe essere così gentile da
raccontare anche a me la storia dei lupi, signor Sherton?»
Sbarrai gli occhi e strinsi le coperte tra le dita, udendo quella voce:
dall’ufficio di Madame Pomfrey, col passo lento e
l’aria gioviale che sempre lo contraddistingueva,
uscì il preside Dumbledore, in una lunga tunica lilla da
Mago, la barba che arrivava quasi a toccargli le scarpe. Pareva Merlino
redivivo. Venne a sedersi accanto a me, reggeva in mano una scatola di
Cioccorane, me ne offrì ed io ne accettai una per
gentilezza, più che per reale desiderio. Piano, con voce
stentata e pause lunghe, dovute alla difficoltà di parlare e
alle numerose domande del Preside, gli raccontai il mio sogno. Non
sapevo neanche io perché lo stessi facendo, non mi fidavo di
lui, non mi piaceva, avevo sempre avuto un rapporto burrascoso col
preside, avevo sempre la sensazione che con me fosse ingiustamente
più severo che con molti miei compagni. Eppure, in quel
momento, volevo parlare, affidarmi alla sua saggezza, sentirmi dire che
era solo uno scherzo della febbre, volevo essere rassicurato: parlai,
parlai, arrivai persino a commuovermi raccontando delle giovani aquile,
mentre il preside mi fissava, non si perdeva una mia sola
parola… a volte vedevo i suoi occhi illuminarsi, come se
fosse meravigliato non del mio racconto, ma delle emozioni con cui le
raccontavo. Alla fine si rilassò a sua volta sulla sedia,
assorto, io mi guardai le mani, erano fasciate, probabilmente avevo
rischiato di perdere qualche dito, in mezzo a tutta quella neve: ero
stato un vero idiota, ora lo comprendevo.
«Sì, signor
Sherton, ha rischiato parecchio con questa bravata… ma mi
dica… ha visto il volto dell’unico aquilotto che
era riuscito a salvare?»
Lo fissai, il preside stava sorridendo, sembrava un gatto che ha
afferrato il topo, le mie guance presero fuoco, mentre mi chiedevo come
diavolo sapesse che non gli avevo raccontato tutti i dettagli.
«Sono stato professore di
Trasfigurazione di suo padre, probabilmente lei lo sa
già… una mattina, aveva all’incirca
tredici anni, proprio come ora li ha lei… io ero qui, a
farmi medicare per una bruciatura da incantesimo, quando il preside
Dippet entrò con suo padre tra le braccia e il suo padrino,
Orion Black, pallido come un morto, al seguito. Avevano trovato suo
padre svenuto in un bagno, in un lago di sangue… la cosa
sconvolgente era che non si riusciva a trovare alcuna ferita da curare
sul suo corpo per fermare la fuoriuscita di sangue… alla
fine suo nonno ha dovuto farlo personalmente… lo sa,
vero?»
«Ne ho sentito parlare, ma mio
padre non… »
«… Non ricorda
questi fatti volentieri… lo so... e lo capisco…
ma temo sia giunto anche per lui il momento di affrontare il suo
passato… come suo padre ha fatto prima di lui… e
come lei, Rigel, dovrà fare, un giorno, con i suoi
figli… »
«Mi scusi, ma io non capisco
di cosa sta parlando… non la seguo…»
«Il professor Slughorn le ha
dovuto fornire già tre dosi di Pozione Rimpolpasangue, da
quando l’hanno riportata qui, signor Sherton… Ma
lei non ha alcuna ferita, proprio come quel giorno, non ne aveva suo
padre… eppure nel bosco, su quella neve, Rubeus Hagrid,
l’ha trovata riverso nel suo sangue… »
Lo fissai, continuavo a non capire, sollevai le mani, gli mostrai le
fasce: era chiaro che fossi ferito. Guardai Madame Pomfrey, era
pallida, guardai il preside, era fermo, deciso: mi prese le mani,
svolse le bende… sotto le medicazioni la mia pelle era
intatta. Sentii i peli rizzarmisi sulla schiena.
«C’è
qualcosa che suo padre deve sapere… qualcosa che, visti i
tempi, deve restare tra noi…»
«No, non voglio, non
è giusto… perché io?
Perché, tra tanti, proprio io? »
Di colpo sapevo perché l’aquilotto avesse il mio
volto.
Di colpo capivo perché il lupo-uomo mi avesse chiamato
Hifrig, nel darmi la morte…
Sono io, non mio fratello, l’Erede di Hifrig,
l’erede del Discepolo…
***
Deidra Sherton
Amesbury, Wiltshire - sab. 15 gennaio 1972
Mi abbandonai a tutte le lacrime che avevo strette nel cuore,
tra quelle braccia amiche, tremavo, spaventata e confusa, balbettando i
nomi di mio marito e dei miei figli. Tutto sembrava vorticare, le mie
gambe, per l'emozione e la debolezza, non ressero, Orion mi fece
stendere sul divano. Doimòs rientrò nella stanza
con un altro infuso, mi vide e accorse a sua volta, dicendo parole
sconnesse, parole che non riuscivo a capire.
«Padrona, deve stare a
letto... padrona riposare... »
«Come posso riposare, se non
so che ne è dei miei figli e di mio marito!»
Annaspavo, mi sembrava che tutto girasse, sentivo il sudore freddo
scorrermi copioso lungo la schiena, il cuore in tumulto. Orion
tentò di convincermi a rimanere distesa, io sedetti sul
bordo del divano, la vestaglia che mi aveva fatto indossare appoggiata
sulle spalle, le mani pietrificate, aggrappate al tessuto, per non
scivolare. Si mise al mio fianco, mi tenne stretta a sé,
prese le mie mani tra le sue e attese che mi calmassi.
«Bevi... e per favore
stenditi... devi rimetterti in forze il prima possibile... ti
racconterò tutto quello che so... promesso... »
Mi porse l'infuso, presi la tazza con mani tremanti, sentii l'odore
della cannella e trangugiai un poco alla volta, piccoli sorsi febbrili,
sentivo la gola graffiare come carta vetrata. Orion, seduto accanto a
me, si guardava le mani, i movimenti lenti e ripetitivi svelavano la
tensione che aveva addosso.
Iniziò a raccontare piano, con voce pacata, come se il
racconto non lo riguardasse, nello stesso modo distaccato con cui
spesso l'avevo sentito parlare a mio cognato, quando gli suggeriva il
modo migliore per investire galeoni. Ma non parlava
d’investimenti, Orion parlava di me, delle mie condizioni: la
voce ogni tanto sembrava restare in sospeso, esitare... lo conoscevo
ormai, sapevo che la presunta incapacità dei Black di
provare qualsiasi sentimento era soltanto una patetica bugia.
Doimòs mi aveva curato, aveva già visto, quando
serviva mio suocero, persone colpite dalla maledizione di Emerson, una
maledizione antica, usata spesso dai Maghi del Nord contro i nemici
mortali, una maledizione alla quale, per mia fortuna, ero stata
sottoposta solo per pochi istanti, quindi, forse, nel giro di alcuni
mesi, avrei smesso di subirne del tutto gli effetti.
«So che stai male, Dei, ma da
quello che mi ha raccontato l’Elfo... sei stata fortunata...
»
«Non è la parola
che userei in questo momento per descrivermi, Orion... »
«Lo so... lo immagino... ma se
pensi a quello che tu e i ragazzi avete rischiato... immagina se... chi
si sarebbe preso cura di Meissa e Rigel? Tu… almeno tu...
sei qui... al sicuro... »
«Al sicuro? Non so nemmeno
dove ci troviamo, Orion, né cosa tu ci faccia qui... sempre
che tu sia... tu… quanto tempo è passato da...
»
«È tardo
pomeriggio, ormai, Deidra, sono passate alcune ore di quando
è avvenuto tutto... e sì, sono io... puoi
chiedermi qualsiasi cosa per averne prova... »
Lo fissai, negai con il capo, lui mi strinse le mani più
forte.
«Come ti senti?»
«Ti prego, non ora... Dove
siamo? Che ne è dei miei bambini? Che cosa ci fai
qui?»
«Siamo ad Amesbury... in un
capanno nel bosco… Doimòs attende che tu stia un
po' meglio per portarti a Herrengton... Questo è un
nascondiglio di cui conosciamo l'esistenza solo Alshain,
Doimòs ed io: tuo marito sapeva che potevano attaccarvi,
aveva predisposto tutto per portarvi in un luogo sicuro, più
vicino delle Terre, se uno di voi fosse stato ferito... Questo capanno
era il luogo sicuro... per questo appena ho capito che avevi bisogno
d’aiuto, sono venuto a cercarti qui... »
«E Alshain? I
bambini?»
Orion chinò la testa, io sentii il sangue andarmi alla
faccia e gli occhi farsi lucidi.
«No, non piangere... sono
stato a casa vostra, Deidra... sarò sincero, è un
campo di battaglia, ma sono rimasto fino alla fine... hanno trovato
Emerson quando stavo per andarmene... lui era l'ultimo, ne sono
certi... l'unico altro corpo trovato è quello di Roland
Lestrange... Non so quale fosse il piano di Alshain, ma è
riuscito a contenere i danni, nessuno fuori di quella casa si
è ferito gravemente, e... anche all'interno... gli unici che
sono morti, sono stati ammazzati dagli incantesimi... altro non so
dirti... »
«I bambini li hanno portati
via prima... Alshain... io non capisco perché abbia agito
così... perché è rimasto
lì? Perché non è venuto via con noi
per andare subito a caccia di... »
«Di? Di chi, Deidra?
Ti prego, dimmelo... possiamo riprenderci i bambini subito, se tu...
»
«NO! Se lui li avesse
seguiti... ed io ti dicessi chi ha preso i bambini… se tu
facessi qualcosa che... »
«Io al suo posto sarei sceso a
patti subito, per riavere i bambini... ma lui... »
«Lui? »
«Lui non è me,
Deidra... Lui non si piega… mai…»
Orion si morse un labbro, combatteva con se stesso, preso tra
l’amore per il suo amico e la rabbia contro la sua
testardaggine, non lo vedevo così dai primi tempi in cui
l'avevo conosciuto.
«Ha fatto il testone come suo
solito, Dei... inutile illudersi, l'hanno preso, non li ha seguiti
volontariamente. Ha combattuto come una belva, questo è
chiaro, ma erano tanti, troppi... E se hanno lui… tu sarai
la prossima: li hai visti in faccia, tu sapresti chi denunciare...
potresti ricattarli per riavere indietro i bambini... sei un problema
per i loro piani… per questo devi andartene il prima
possibile da qui... non devi piangere, no... a Herrengton nessuno
può trovarti!»
«NON È PER ME CHE
HO PAURA, ORION!»
«Lo so…
ma… pensaci: Alshain gli serve vivo, gli servite tutti vivi,
Mirzam ha quello che il Lord desidera: solo lui sa dove si trova
Habarcat... Milord vuol costringere Alshain a parlare, se non ne
ricaverà nulla, userà voi per piegare tuo
figlio... »
«Ti sembrano prospettive tali
che io non debba preoccuparmi, Orion? Mi stai dicendo che l'unica
strada per riavere salvi Alshain e i bambini… è
che sia Mirzam a morire... »
«No... Dei... c'è
l’altra strada... Doimòs non ha voluto parlare, ma
te lo ripeto: se hai visto qualcuno di loro in faccia, possiamo usare
le loro armi... ricattarli... obbligarli a lasciarli liberi, in cambio
del silenzio... finché sarai libera, è possibile
obbligarli a renderci Alshain e i bambini... »
«Vorresti giocare d'azzardo
con le vite dei miei figli? Tu lo sai cosa si dice di quel Mago, Orion?
Al mio tentativo di ricatto, Milord li ucciderebbe... non ha paura di
niente e di nessuno!»
«Quel Mago non sa chi dei tuoi
figli è l'erede di Hifrig, non può permettersi
errori! Non può far loro del male... per avere
ciò che desidera, deve trattarli con ogni riguardo...
»
«Emerson gli ha detto che
Adhara, senza Rune, non ha alcun valore in questo sporco
gioco!»
Vidi tutto il suo fervore spegnersi, vidi la speranza spegnersi, le sue
mani serrarsi: sembrava diventato un blocco di pietra… poi
lentamente, rividi la maschera che si riformava sul suo volto.
«Non m’importa nulla
di quella dannata Fiamma, di questi intrighi, si prenda Herrengton,
faccia ciò che vuole, metta a ferro e fuoco il mondo
intero... io rivoglio la mia famiglia!»
Scoppiai a singhiozzare di nuovo, Orion mi cinse le spalle: sapevamo
entrambi che non era vero, che non la pensavo così, mi
sentivo male all'idea che quell'uomo riuscisse a fare ciò
che voleva usando mezzi simili, usando i sentimenti di persone come
noi, persone che senza la minaccia non avrebbero mai fatto del male
nemmeno a una mosca. Sapevo anch’io che quel mostro andava
fermato, che nessun’altra madre doveva soffrire quello che
provavo in quel momento, ma ero terrorizzata e sconfitta, c'erano in
gioco i miei figli e per loro, per la loro salvezza, avrei fatto di
tutto. E quel mostro lo sapeva.
«Perdonami, non volevo farti
piangere... te lo ripeto, fidati… stai tranquilla... se vi
facesse del male, perderebbe ogni potere su Mirzam e sulla
Confraternita... in tanti seguono tuo marito... diventerebbero tutti
nemici del Lord, all'istante... »
«Nemici morti, prima ancora di
alzare la testa: ciascuno degli uomini di Alshain, come li chiami tu,
ha una famiglia e una famiglia significa essere deboli,
ricattabili... quell'essere non è un uomo...
è una belva assassina... non conosce pietà, non
conosce morale, non conosce vergogna... altrimenti non toccherebbe i
bambini! »
«Allora troveremo un altro
modo, più sicuro, meno avventato... scusami... è
stata la frenesia del volerli sbattere in cella che mi ha fatto parlare
così... Troveremo un modo, più discreto...
intatto, sappi che non sarai sola, Dei... ho ritrovato il tuo anello,
tra le macerie... ci sono pure le schegge dei diamanti di Javannah...
Tu sai che cosa fare con gli anelli del Nord…»
«Hanno requisito tutti gli
anelli al Ministero, Orion... nessuno può
ascoltarmi… »
«Non tutti si sono presentati
al processo... e visto il tradimento di Emerson, a te non serve
contattare un Mago qualsiasi, che potrebbe comprometterti... a te serve
solo un uomo, qualcuno nascosto da qualche parte, che ha ancora il suo
anello, Deidra... un Mago Oscuro, malefico, che può
aiutarti… e che ti aiuterà con ogni mezzo...
perché il Custode di Herrengton è fedele a tuo
marito e alla sua famiglia, e in assenza di Alshain, deve rispondere a
te: consigliati con Fear... Una volta al sicuro, a Herrengton, puoi
usare gli anelli, i patroni, la Magia del Nord, per chiamare a raccolta
la Confraternita: devono sapere che sei viva e che l’artefice
di tutto questo non è Mirzam...»
«Che cosa c'entra Mirzam,
adesso? »
«Uno di quei bastardi uscendo
si è spacciato per tuo figlio e ha lanciato il marchio di
Milord in cielo... ma è arrivato tardi: Moody ha mostrato le
prove dell'innocenza di Mirzam al Wizengamot... sì Deidra:
Mirzam è stato scagionato. E a quanto pare, hai il sostegno
di uno dei pochi uomini onesti del dipartimento Aurors, sebbene
converrai con me che Moody, per altri versi, sia un soggetto alquanto
discutibile. Ora è necessario convincere tuo figlio a
restare dove si trova...»
Mi portai le mani alle tempie, tutte quelle notizie mi lasciavano
sconcertata: appena poche ore prima, quel mattino, avrei dato persino
la mia vita per sentire una notizia simile, ora non riuscivo a trovare
in me alcuna scintilla di felicità, tanto ero sconvolta.
«Orion... spiegami…
quanti sanno che ci è successo qualcosa? »
«Tutti. Gli Obliviatori stanno
ancora cancellando gli eventi dalla memoria dei londinesi... »
«Quindi… quindi
domattina ci sarà la notizia su tutti i giornali e... Meissa
e Rigel... »
«Intendo andare a Hogwarts per
parlare con loro, appena tu sarai a Herrengton... non voglio che certi
uomini del Ministero irrompano a Hogwarts, senza che Meissa e Rigel
siano preparati... »
«Orion… non puoi...
»
«Posso, devo e voglio... sono
il loro padrino... è mio preciso dovere... »
«Se mostrassi di sapere
qualcosa, metteresti in pericolo te stesso e la tua famiglia...
»
«Sono già
più coinvolto di quanto tu possa immaginare, Deidra... non
ti ho messo sull'avviso sui Lestrange per nulla… so che
c’entrano loro… i ragazzi devono essere avvisati,
soprattutto Meissa... quel Rabastan… non mi piace come si
comporta con lei…»
«Orion... il gioco che stai
facendo è pericoloso... »
«So fingere meglio di tuo
marito, Deidra... te li riporterò a casa... è
sufficiente che tu mi dica quel nome... è stato Abraxas
Malfoy, non è così? È lui che ha preso
i tuoi bambini? Dimmelo! »
Abbassai gli occhi, anche se non volevo, non potevo udire quel nome e
restare indifferente.
«Gli farò sputare
il sangue, dannato bastardo!»
«Orion! »
«Al diavolo l'etichetta, i
modi da gentiluomo, non possono toccare dei bambini e pensare di aver
diritto... »
«Orion... no…
Salazar! C'è qualcuno... guarda... c'è qualcuno
alla finestra... »
Lo vidi voltarsi, deglutire, sbiancarsi, lo vidi mettere mano alla
bacchetta.
La maniglia della porta iniziò a ruotare... la porta si
mosse prima piano, poi più velocemente…
Urlai, mentre una specie di fagotto rotolò in casa. Orion si
avvicinò cauto, Doimòs mi prese la mano, pronto a
Smaterializzarci via da lì, se ci fosse stato pericolo, io
sentivo il cuore esplodermi nel petto dalla paura.
Poi il silenzio fu rotto da una voce squillante che usciva dal fagotto
e qualcuno, che non riuscivo a credere di vedere veramente, si
alzò in piedi e caracollò verso di me,
chiamandomi.
«Mamma…
mamma…»
«Salazar
santissimo… ma è Wezen! »
Corsi, arrancando verso la porta, presi in braccio il mio bambino,
mentre Orion basito, non capiva se essere felice o dover avere ancora
più paura, nemmeno io all’inizio capivo, ma mi fu
sufficiente baciare mio figlio, odorare il suo profumo, sentire le sue
manine morbide affondare tra i miei capelli e accarezzarmi il volto per
asciugarmi le lacrime di felicità, per sapere che era
vero…
È tutto dannatamente giusto e vero.
Orion e Doimòs superarono la porta e furono fuori.
L’Elfo entrò poco dopo, in mano teneva una specie
di straccio, uno straccio che si muoveva, agitato, uno straccio da cui
proruppe prima il gorgoglio, poi il pianto disperato e affamato di
Adhara.
«Padrona…
Doimòs…»
«O dei del cielo… o
Merlino… grazie… io… io non ci
credo... non è possibile…»
Con Wezen al collo, m’inginocchiai davanti
all’Elfo, commosso, presi la mia bambina, piangeva affamata,
a una prima occhiata sembrava stesse bene, me la divorai con gli occhi,
esattamente come il giorno in cui il Medimago me l’aveva
messa tra le braccia, appena nata.
«Non ci posso credere, non ci
posso credere… o dei… o…»
«Ma è…
la verità… Dei… te
l’ho… riportati… siamo…
a… casa… tutti… a
casa…»
Alzai gli occhi: non riuscii a trattenere altre lacrime.
Orion sorreggeva mio marito, pallido, tumefatto, dolorante, ma era lui,
era vero, era vivo. Lo abbracciai, cercando di non stringerlo troppo,
lo vedevo, lo sentivo, stava malissimo, Orion si voltò,
sembrò all’improvviso impegnato a controllare la
lunghezza delle sue unghie, sempre perfette: in quel momento, anche per
lui, era difficile nascondere i propri sentimenti…
Aiutai Alshain a raggiungere il divano, era consumato dal dolore e
dalla febbre, era ferito, aveva gli occhi quasi chiusi, il volto
gonfio, provai a togliergli il mantello, ma dovetti smettere, a causa
del dolore che gli procuravo. Orion recuperò subito la sua
compostezza, e i modi di fare tipici di chi punta alla concretezza.
«Avremo tempo per sentirti
raccontare come tu ci sia riuscito, ma non potete restare qui un
secondo di più… Doimòs, io non ho
l’autorità di impartirti ordini, ma devi portare i
tuoi padroni a Herrengton e fare in modo che un Medimago di fiducia si
occupi di tutti loro… io andrò subito a
Hogwarts… ho fatto bene ad aspettare, prima di parlare con i
ragazzi… era questa la notizia che volevo dare
loro…»
«No, Orion…
no…»
«Alshain,
c’è il rischio che arrivino notizie preoccupanti e
inesatte ai ragazzi e… »
«Ho detto no,
Orion… non ancora… non stasera…
fidatevi di me… per favore…»
Orion ed io ci fissammo e fissammo Alshain, incerti, speravamo di aver
capito male. Un brivido mi percorse la schiena: dopo
l’euforia iniziale, per la prima volta mi chiesi quanto ci
sarebbe costata quella ritrovata felicità…
*continua*
NdA:
Ciao a tutti,
ringrazio quanti hanno letto, commentato e aggiunto alle varie
liste. In questo capitolo un altro personaggio scopre il suo destino e
assume le proprie catene, liberando, al tempo stesso, il destino di
molti altri. Una precisazione, però, il sogno delle aquile e
dei lupi non è letterale, rappresenta la presa di coscienza
della propria natura da parte del figlio, mentre il padre è
in fin di vita… I lupi, pertanto, non è detto che
riescano a uccidere tutte le aquile! Non ho altro da aggiungere, al
momento. Un bacione. Buone feste a tutti.
Valeria
Scheda
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