Libri > Harry Potter
Segui la storia  |       
Autore: Terre_del_Nord    21/12/2012    7 recensioni
Sirius Black e la sua Nobile Casata; gli Sherton e la Confraternita del Nord; l’Ascesa di Lord Voldemort e dei suoi Mangiamorte; gli Intrighi di Lestrange e Malfoy; le leggende di Potere e Sangue risalenti a Salazar Slytherin. E Hogwarts, i primi passi dei Malandrini e di chi, Amico o Nemico, condivise la loro Storia. UNA STORIA DI AMORE E DI GUERRA.
Anni 70. Il Mondo Magico, alle prese con Lord Voldemort, sempre più potente e feroce, farà da sfondo dark a storie d'amicizia per la vita, a un complicato rapporto tra un padre e i suoi figli, a vicende di fratelli divisi dalle scelte e dal sangue, a storie d'amore romantiche e avventurose. Gli eventi sono narrati in 1° persona da vari personaggi, canon e originali. "Nuovo Personaggio" indica la famiglia Sherton e altri OC.
*
HABARCAT (Chap. 1/20) *** ORION (Chap. 21/24) *** HOGWARTS (Chap. 25/39) *** MIRZAM (Chap. 40/52) *** STORM IN HEAVEN (Chap. 53/62) *** CHAINS (Chap. 63/X) *** FEAR (Chap.97/) ***
*
VINCITRICE 1° TURNO "Harry Potter Final Contest"
*
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: I Malandrini, Mangiamorte, Nuovo personaggio, Regulus Black, Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'That Love is All There is'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

That Love is All There is
Terre_del_Nord

Slytherin's Blood

Chains - IV.018 - Aquile e Lupi

IV.018


Alshain Sherton

Morvah, Cornwall - sab. 15 gennaio 1972

    «Dov'è nascosto tuo figlio? Dove avete portato la Fiamma?»
    «È tutto inutile, questo cane bastardo non ti risponderà mai!»
    «CRUCIO!»
    «De... i... ra... »
    «Che cosa ha detto?»
    «Nulla... Una delle sue solite stronzate del Nord... »
    «CRUCIO!»
    «Mi... r... za... »
    «CRUCIO!»
    «Ri... gh...  M... e... is... »
    «PARLA! PER SALAZAR, PARLA!»
    «CRUCIO!»
    «…We... z... n...  Ad... ar... »
    «Per l'ultima volta, dove si trova Mirzam?»
    «CRUCIO!»
    «Smettetela, così rischiate solo di ammazzarlo! Milord ha detto... »
    «CRUCIO!»
    «SMETTETELA!»
    «D’accordo, fifone… ma tu non t’illudere, bastardo, perché tra noi, non finisce qui... »

Il calcio alle costole arrivò all'improvviso, poi un altro e un altro ancora. Tremai, la coscienza ormai vacillava, la bocca era impregnata di sangue. Cercai di resistere, con le mie ultime forze.

    Nella mente... i volti dei miei cari... sulle labbra... i loro nomi... Attorno a me...  freddo e oscurità... urla e silenzio... Dentro di me, fin nel profondo del mio essere... solo dolore...

Sentii i passi dei tre carcerieri allontanarsi, poi più nulla. Avevo resistito, non gli avevo dato la soddisfazione di un solo lamento. Ora potevo lasciarmi andare: la poca aria rimasta nei polmoni mi uscì in un unico rantolo. Il corpo continuò a tremare. Le lacrime mi bagnarono le guance scavate.

    È finita... per questa volta è finita...  sono ancora vivo... amore mio… per te... sono vivo…

*

Quando ripresi conoscenza, ero bocconi, immobile, un groviglio scomposto di carne e ossa, un sacco vuoto gettato a terra, da qualche parte, la stanza delle torture di Lestrange, forse, o uno scantinato, una topaia, una prigione, una grotta, una fossa sottoterra... un “dove” che non riuscivo a definire, collocare... un “dove” fatto di gelo e silenzio... E del tanfo acre di sangue. Il mio sangue.
Ero cieco e sordo per i colpi e la Magia subiti: non percepivo suoni, ma non m'illudevo di essere solo, forse ero ancora accerchiato dai miei nemici, in attesa, pronti a umiliarmi, torturarmi e solo alla fine, quando si fossero stancati o avessero ottenuto ciò che volevano... Ricordavo il racconto di Mirzam sulla caccia al Babbano, cui aveva assistito, e sul genere di morte inflitta dagli uomini del Lord ai prigionieri: non m'illudevo che mi avrebbero riservato una sorte diversa.
Tremavo, di freddo e di dolore... forse anche per la febbre… ma non avevo paura.
Provai ad affondare le dita nel terriccio che sentivo umido e salmastro sotto di me, per darmi una piccola spinta e sollevarmi, alla ricerca di una superficie più asciutta, ma come le mie dita sfiorarono la terra, il dolore andò a incunearsi atroce nel mio cervello: non era stato un incubo, no, Rodolphus Lestrange si era divertito con le mie mani, ero uscito dallo stato d’incoscienza, ascoltando il suono sordo di ogni singola falange che veniva spezzata... provando un dolore inenarrabile… Avevo dato fondo a tutta la mia resistenza per non dargli la soddisfazione di sentirmi urlare... implorare… per sfregio, alla fine, si era pulito gli stivali dalla melma, schiacciando i tacchi contro le mie mani martoriate... Non sarebbe stata una bella morte, se le ferite si fossero infettate…
Il buio che percepivo attraverso le palpebre socchiuse, ora, era così compatto e impenetrabile da sembrare innaturale, mi metteva ansia non sapere, non capire, provai ad aprire gli occhi, ma il dolore alla testa era troppo forte, per questo desistetti subito: se quello era un momento di lucidità spontaneo e non un delirio, non volevo perdere di nuovo conoscenza, dovevo riuscire a pensare, valutare, trovare una soluzione. Capire cosa fosse andato storto.
           
    Qual è il senso di tutto questo? Perché mi pestano fin quasi a uccidermi, ma non vanno fino in fondo? E perché Rodolphus Lestrange ripete sempre “Questo è per mio padre?” quando mi riempie le costole di calci?

***

Rodolphus Lestrange
Morvah, Cornwall - sab. 15 gennaio 1972

Eravamo in attesa di ordini e di notizie, tra i resti fatiscenti di un antico convento medievale, abbarbicato su una roccia a strapiombo sul mare del Cornwall: metà del tetto e parte delle mura della foresteria erano crollati da chissà quanto tempo, noi c’eravamo raccolti sul lato quasi integro, pieno, anch'esso, di macerie, muschi, piante rampicanti, tane di ratto; non sapevo perché fossimo lì, Milord teneva in grande considerazione quel luogo devastato dal tempo. Era ancora pomeriggio ma tutto era già immerso nel buio: solo dal fianco franato della foresteria, quello che dalle rocce si protendeva sulle onde mugghianti, penetrava a ritmo irregolare una luce livida che squarciava, improvvisa, l’oscurità per poi ripiombarci nelle tenebre. Cercavo di restare vigile, in allerta, ma i miei pensieri correvano alla camera di Mirzam e quando, su di noi, esplodevano i fulmini, cercavo me stesso nelle figure scolpite nella pietra degli antichi capitelli, i ghigni demoniaci esaltati dalla luce radente che affilava forme e ombre. Mi sentivo così, come loro, un lupo uscito dalle tenebre.

    Voglio tornare di sotto. Voglio sfogare la mia furia, permearmi del tanfo acre del sangue.

Pucey mi teneva d'occhio, temeva ammazzassi il prigioniero, la sua solerzia mi era insopportabile.
Milord aveva voluto che accendessimo un solo braciere, da cui mi ero tenuto fin da subito a debita distanza: nascosti com'eravamo, circondati solo dalla desolazione per chilometri, non c'era il rischio concreto che la nostra presenza fosse notata, ma il Signore Oscuro teneva molto a quella missione, una missione che meritava tutta la calma, la pazienza, il tempo necessari, per questo aveva preso ogni accorgimento magico e non, per far sì che passassimo inosservati e nessuno ci disturbasse. Al contrario degli altri, che non facevano che lamentarsi, io ero grato di quell'oscurità che mi permetteva di ripiegarmi su me stesso, nonostante il freddo mi facesse battere i denti.
Avevo affondato le mani martoriate nelle tasche del mantello, con la scusa del freddo, in realtà lasciavo che le dita cercassero e stringessero il metallo gelido delle tre verghette che giacevano sul fondo. Nella mente riecheggiava come un tuono continuo il suono secco delle dita di mio padre che si rompevano, una dopo l'altra, nelle mie mani, era l'unica musica che avesse mai permeato realmente il mio spirito. Non m’importava di nulla, né del brusio degli altri, che parlottavano, chiedendosi che cosa fosse successo in quella casa e che cosa stesse accadendo, ora, tra il nostro Maestro e quell'arpia di Abraxas, né del calore di Bellatrix che, come una gatta, si stringeva a me.
La conoscevo, riconoscevo quello sguardo, desiderava appartarsi, senza curarsi della presenza degli altri, sfogare nel sesso l'adrenalina che la caccia le aveva iniettato nelle vene... io lentamente mi allontanai da lei sempre più, cercando la solitudine completa, arrivando fino alla parte scoperta dei ruderi, protesa sull'abisso, resa viscida dai pesanti cumuli di neve, caduti la notte precedente.

    Sono Lord Lestrange... da oggi... sono io Lord Lestrange...

Quella realtà tanto agognata mi colpì improvvisa, ma non ebbi il tempo di capire che valore avesse per me in quel momento, sentii un brusio alle mie spalle, mi ritrassi e tornai indietro, gli altri si stavano radunando attorno all'Elfo di Malfoy per avere notizie di Milord: voleva che alcuni di noi scovassero la Strega, io mi offrii, ma a Bellatrix e a me fu ordinato di restare di guardia. Soffocai il desiderio di prendermela con quel patetico Elfo, poi, però, sentii la bocca riempirsi di saliva, i peli della schiena rizzarsi per l'eccitazione, quando vidi che, al contrario di noi, Pucey doveva partire.
   
    Non c'è nessuno che possa trattenermi, che veda e riferisca. Tornerò di sotto… Di nuovo…

Appena gli altri si Smaterializzarono, mi bastò un solo sguardo: Bellatrix comprese. E mi seguì.

***

Alshain Sherton

Morvah, Cornwall - sab. 15 gennaio 1972

Ero cosciente da un po', da più tempo delle altre volte. E non arrivava nessuno, non si sentiva niente, a parte quella voce in testa che mi diceva che stavolta era finita, che dopo i calci che mi aveva dato Lestrange l'ultima volta, mi davano sicuramente per morto, perciò il loro compito era finito e mi avevano lasciato lì, sottoterra, in agonia, inerme, cieco e sordo, in attesa della morte che sarebbe giunta per fame e sete, di tutte la più atroce... E tutto questo mentre da qualche parte mia moglie e i miei figli erano in balia di quegli animali e pregavano invano che io arrivassi a salvarli.

    È solo una tortura, Alshain… Abraxas sa che da piccolo Ronald ti ha chiuso nei sotterrai e tu, per cercare una via d'uscita, sei scivolato in uno dei pozzi e hai rischiato di morirci dentro; ti hanno trovato dopo un giorno, semi assiderato, e da allora sei claustrofobico, lui questo lo sa...

Sì, faceva tutto parte del piano, spezzarmi nel fisico e nella mente, ma io avevo qualcosa che loro non capivano, avevo uno scopo, la mia famiglia: se mi fossi aggrappato a esso, ne sarei uscito...
Cercai di muovere la testa e il dolore s’irradiò in ogni particella di me: un dolore di pelle, di carne, di sangue raggrumato in gola, di sangue che ostruisce le narici, di carne spappolata e ossa rotte, di organi devastati. Iniziavo a riconoscere le differenze, non era l'effetto di una delle Cruciatus di Bellatrix, che causavano un dolore capace di infilarsi nel cervello e far perdere il senno, no, questo era l'effetto del pestaggio a morte di Lestrange, mi prendeva a calci nelle costole, o a pugni, come fossi feccia... Non capivo come mai un Purosangue come lui si comportasse in quella maniera, ma non ebbi il tempo di farmi altre domande: all'improvviso entrarono, il buio che percepivo sotto le palpebre sigillate dal dolore si rischiarò della luce di un paio di fiaccole; mi sentii afferrare per i capelli, schiacciare contro una parete gelida e scivolosa, tempestare di colpi, poi, privo quasi di fiato, le mie cellule si contrassero preda di una sorda Cruciatus. Scivolai di spalle sulla fredda pietra, i pensieri si fecero sfuggenti, travolto com’ero da un'onda di piena di dolore e paura.

    «CRUCIO!»

La voce cantilenante di Bellatrix pervadeva l'aria, non caddi solo perché già ero steso a terra, il mio corpo si contrasse, preda di nuovo delle convulsioni, non potevo evitarlo in nessun modo, ma restai muto, non le concessi nemmeno un grido, un respiro affannato, un rantolo, il mio corpo piagato sembrava esplodermi in mille pezzi, proprio come la prima volta, come le infinite altre volte che quell'inferno si era già ripetuto, ma stringevo i denti e tentavo di resistere, scavavo nei ricordi, negli antichi insegnamenti, per trovare in me la forza di sopportare, di non impazzire. Sapevo come fare...
Nella mia testa rivedevo i volti che mi davano coraggio, i volti che costituivano la mia sola ragione di vita... sulle labbra, come una litania continua, come la più potente delle Magie, uno dopo l'altro, ripetevo i loro nomi... ripetevo le mie promesse…

    Per te... amore mio...  e per il nostro Mirzam... e per Sile e il bambino che nascerà...
    … per Rigel...  e per Meissa... e per Wezen...  e per Adhara...
    Torneremo... a casa... Dei... TUTTI… te lo giuro, a ogni costo…
    Ti amo... Dei… ti amo... ti… amo...

    «CRUCIO!»

La voce di Bellatrix, lo sentivo, tradiva rabbia ed esasperazione, dalla mia bocca piagata gorgogliò una risata stentata, che si fece via via, sempre più alta e sicura... la Strega colpì di nuovo, con più odio, io continuai a ridere, finché il colpo alla testa di Lestrange, alla nuca, mi mozzò il respiro...
Fu solo il primo colpo di una lunga, nuova, devastante, serie: quando sentii le costole spezzarsi sotto l'ennesimo calcio persi il conto... avevo difficoltà a respirare, boccheggiavo, a terra, tremante di freddo e di dolore, il sangue rigurgitato m’impastava la bocca e la pelle, i volti e i nomi, nella mia mente si fecero via via più sfocati... e alla fine, a parte il freddo, non sentii più niente.

***

Deidra Sherton
Amesbury, Wiltshire - sab. 15 gennaio 1972

Sospirai… il respiro già corto... Le sue mani mi percorrevano lente la schiena, attraverso la seta sottile, vertebra dopo vertebra, le labbra mordicchiavano le mie, aprii gli occhi e m’immersi nell'acciaio dei suoi, ridenti. Alshain amava giocare... sempre… io no, non in quel momento. Scivolai con le dita tra i suoi capelli, mentre la mia bocca si faceva più vorace e le mie gambe s’intrecciavano provocatorie alle sue. Continuò a sorridere e a baciarmi, malizioso, mentre mi sollevava da terra... a me non interessava vincere quel gioco, quella sfida, no, io volevo lui, subito, solo lui. Smisi di baciarlo e lo fissai, inequivocabile, gli mordicchiai il lobo e baciai, umida, la Runa sotto il suo orecchio, seguendo con la lingua i sottili ricami, compiacendomi nel sentire il suo respiro farsi all'istante più profondo, la sua presa più rapace, i suoi movimenti più urgenti, prepotenti, mentre si stendeva sopra di me, m’imprigionava tra le sue braccia, sul letto, e le sue dita scivolavano tra la seta e la carne, inesorabili, a percorrere ogni centimetro delle mie cosce. Amavo quando la sua bocca si sfamava della mia, quando lasciava umide, eterne, inesorabili Rune di baci sul mio collo e nell'incavo del mio seno. Sul mio seno…e scivolavano giù, sul mio ventre, nel mio ventre. Mi morsi le labbra, graffiai la sua pelle, non riuscii a trattenere un gemito, quando finalmente lo sentii dentro di me. Si staccò appena dal mio collo, per guardarmi, sapeva quanto amassi perdermi nei suoi occhi mentre ero aggrappata a lui… carne, mente, spirito… appartenevo a lui... tutta…
Vibravo pervasa dalla sua passione, mentre la sua mano forte mi accarezzava gentile la guancia e la sua bocca si depositava in teneri baci sugli occhi… e sul collo, e un soffio roco e delicato al mio orecchio… Ti amo… ... Ti amo, Dei... ti amo... ti amo...

*

Avevamo appena fatto l'amore, non sapevo se fosse un sogno o la realtà, mi sembrava di galleggiare tra le nuvole, immersa in qualcosa d’impalpabile, soffice, bianco; c'era calore attorno a me, un diffuso senso di benessere mi pervadeva, non vedevo nulla, a parte il suo volto, ma ciò mi bastava… Non riuscivo a muovermi, ma non importava, perché lui era accanto a me, mi stringeva, mi baciava... chiusi gli occhi e mi abbandonai fiduciosa al suo abbraccio...  sorridevo...

    Alshain…

All'improvviso un brivido… sentivo freddo. Aprii gli occhi: Alshain era a qualche passo da me, in piedi, deciso ad andare via. Io chiamavo il suo nome, ma la voce non usciva dalla mia bocca. All’inizio ero incredula, poi, poco a poco… Cercai di alzarmi e fare un passo, ma qualcosa mi tirava giù, m’impediva di andare da lui, Alshain si voltò… il suo viso era diafano, una coltre di nebbia ci separava: non sorrideva più, il suo volto era triste, spento. Le sue labbra mi dicevano addio…

    Alshain…

Non c'era più, l'uomo che amavo, il padre dei miei figli, non c'era più… Tutto attorno a me non c'erano più pace e silenzio, tepore e benessere, era tutto buio, freddo, pervaso da strani, terribili sussurri, lamenti, gemiti propri dell'agonia. Tremavo… Poi il nulla.
Avevo paura, paura di quel sinistro, improvviso silenzio...

    Alshain!

***

Rigel Sherton
Hogwarts, Highlands - sab. 15 gennaio 1972

    «Te lo dico brutalmente, Sherton, non ti offendere, ma... sei un idiota!»
    «Ahahahah, ben detto Lestrange!»

Si erano piantati sul sentiero che portava al campo da Quidditch, decisi a non fare un altro passo, dovevo immaginarlo che si sarebbero tirati indietro, che cosa potevo aspettarmi da quella manica di sbruffoni buoni a nulla? Non si poteva mai fare affidamento su di loro! Avanzai ancora, senza farmi condizionare dalle loro risate, la scopa in spalla e l'aria esasperata di chi non ne può più: prima McNair mi aveva spedito in infermeria, poi quella piaga vivente di Kendra Campbell non mi aveva lasciato in pace... e gli ammonimenti di Lucius... e Narcissa nei panni della crocerossima...
Non sapevo come mia sorella l'avesse coinvolta, ma non la ringraziavo: non mi era ancora passata la cotta che avevo per lei, ma se prima potevo contare sulle mie abilità nell'evitare situazioni e persone indesiderate, - e Merlino solo sapeva quanto volessi evitare Cissa in quel periodo- ora la strana alleanza creatasi tra le due ragazze mandava a monte i miei piani per togliermela dalla testa. Inoltre ero inquieto: Meissa aveva sempre avuto paura di Malfoy, a ragione, ora invece, a causa di Black, aveva a che fare di continuo anche con lui. La situazione non mi piaceva, nell'aria non c'era nulla di buono, ma non capivo quale potesse essere il pericolo, Malfoy era furbo, non avrebbe mai colpito in maniera diretta. Per questo, da quando era apparso il gatto e quelle due sembravano diventate amiche, mi ero fatto più guardingo, avevo evitato i guai, avevo persino cercato di non cedere alle provocazioni di McNair, quella mattina, per non perdere di vista Meissa un secondo, certo che mio padre mi avrebbe spedito a Durmstrang all'istante, se le fosse accaduto qualcosa.
Quel pomeriggio però, finalmente, mia sorella sembrava aver recuperato un minimo di senno e stava passando il suo tempo libero con Sirius, il Black meno pericoloso, il suo adorato principino inglese, come amavo sfotterli io; Malfoy, da parte sua, aveva deciso di sistemare McNair con Slughorn, una volta per tutte, per evitare le ire di mio padre, quando avesse saputo dell'ultima rissa di quella mattina, e perché, come tutti nel sotterraneo, non ne poteva più di quel gradasso.
Una volta dimesso dall'infermeria, perciò, deciso a prendermi la libertà che mi spettava, avevo fagocitato rapido il pranzo e, prima che un altro contrattempo mi rovinasse del tutto la giornata, me l'ero data a gambe, convincendo Rabastan Lestrange ed Evan Rosier a seguirmi fino al campo da Quidditch: fare un giro sulla scopa, inseguire boccini, librarmi con il vento tra i capelli, era questo ciò che ci voleva per schiarirmi le idee e scrollarmi di dosso quel senso di malaticcia oppressione.
Volevo godermi quelle ore spensierate, i giorni successivi, infatti, non si prospettavano lieti: il Preside era già ritornato da Londra quindi la seduta del processo Williamson che coinvolgeva anche Mirzam doveva essere finita, mia sorella ed io avremmo ricevuto presto notizie da casa.
Sospirai, al pensiero di quanto sarebbero state pessime... E di quanto avrei dovuto mentire... Tremai.

    «Sherton, non avrai la febbre? Sei pallido e stai tremando... Non sei in forma, dai, è freddo, hai mangiato da poco... andiamocene, torniamo al castello… non vorrai sentirti male di nuovo!»
    «Ha ragione Evan, ci manca solo che cadi dalla scopa e ti massacri anche l'altro braccio!»
    «Non cado dalla scopa, io... Cadono solo le schiappe e chi si sbronza!»
    «Touché, Lestrange, touché… ahahahah... »
    «Ah-Ah-Ah... quella storia è vecchia e decrepita... e non fa ridere, Rosier!»
    «Lo dici tu, Lestrange! Ti ricordi che faccia verde aveva? Ahahah… »
    «Avete finito?»
    «No! Ahahahahah... »
    «Te la sei cercata, Rabastan, stavolta te la sei cercata... ahahahah... »

Ghignai, con Evan, memori della figuraccia di Rabastan che risaliva alla primavera precedente: era salito in scopa, alticcio, durante gli allenamenti, Malfoy gli aveva suggerito di starsene buono a terra perché non si reggeva in piedi, Lestrange, però, voleva mostrare le sue doti di Battitore, per fare colpo su una Ravenclaw dell'ultimo anno. Ed era caduto dalla scopa, rigettando e poi svenendo in mezzo al campo, assicurandosi così il ruolo di barzelletta dell'anno nella Torre dei Corvi, prima, e nel resto della scuola, in seguito. Ancora, dopo quasi un anno, c'era qualche idiota Gryffindor che gli faceva i versi dietro, benché tutti sapessero quanto terribile e inesorabile fosse la sua vendetta.

    «Si muore di freddo, Sherton, dai, perché cercare altre rogne? Vieni con noi a spennare polli nel sotterraneo, ne ho adocchiato un paio del secondo anno, in tre potremmo fare un bel bottino!»
    «Così… giusto per non cercare altre rogne, vero Evan? Ahahahah... »
    «No... voglio volare! Ne ho uno strafottuto bisogno... sono settimane che mi stanno tutti col fiato sul collo! Io vado... se non ve la sentite, scaldatevi le chiappe mosce in Sala Comune... cia... »
    «Creeeeeek! Creeeeeeek!»

Un alto grido infranse il placido silenzio, le parole mi si congelarono in bocca, anche gli altri rimasero interdetti; alzammo lo sguardo al cielo ma non notammo nulla, al contrario, c’era del movimento tra gli alberi, sul fianco digradante della collina, distante da noi, nel folto del bosco.

    «Creeeeeek! Creeeeeeek!»
    «Sarà uno degli Ippogrifi di Kettleburn e di quel dannato Guardiacaccia!»
    «No... Questo è il verso di un'aquila, Evan... Strano, però... di solito restano tra i picchi sulle montagne, proprio a causa degli Ippogrifi non scendono mai quasi in riva al lag... ehi... ma dove vai, Sherton? Guarda che noi non ti seguiremo lì in mezzo! La neve laggiù è più alta di te!»

Avevo levato il braccio, salutandoli con un gesto poco elegante, deciso a mollarli lì e raggiungere un punto dinanzi a noi: c'era qualcosa a terra, ai piedi di un gruppetto isolato di alberi, ma avevo difficoltà a capire che cosa fosse, in pochi minuti sarei arrivato e avrei visto, lasciando quegli smidollati a fare la solita parte dei buffoni. La neve mi arrivava fino al polpaccio, mi serrava gli stivali e mi appesantiva il passo, sentii la fatica nel muovermi in quel lago bianco e compresi quanto i miei amici avessero ragione a dire che ero fuori forma: le disavventure delle ultime settimane avevano lasciato il segno. Sudato e lento, feci ciò che in condizioni normali non avrei fatto mai, mi lasciai la scopa alle spalle e iniziai ad avanzare con difficoltà in direzione degli alberi, molto più lontani di quanto avessi valutato: quando mi voltai, i due “molluschi” erano ancora sul ciglio del sentiero a sbracciarsi e ridere di me, Rabastan aveva pure tirato fuori qualcosa da bere dall'interno del mantello e stava brindando alla mia salute, urlando contro di me e dandomi del "Coglione".

    «TI SEI PIANTATO LÌ, SHERTON? AHAHAHAH... APPENA RIPRENDERÀ A NEVICARE, TI TRASFORMERAI IN UN PUPAZZO DI NEVE! ED IO VERRÒ A METTERTI UNA CAROTINA TRA LE CHIAPPETTE GHIACCIATE... »
    «AHAHAHAH»
    «ANDATE AL DIAVOLO, BASTARDI!»
    «AHAHAHAH»

Gli urlai contro un paio d’insulti in gaelico e levai entrambi i miei diti medi, suscitando altri ululati e risate, mi voltai e non mi curai più di quegli infami, che continuavano a guaire le loro battute idiote: sentire in lontananza i loro cori, però, mi dava coraggio, più avanzavo, infatti, più quel gruppetto di alberi si allontanava, e suoni strani sembravano emergere dalle profondità della Foresta Proibita. Il mio cuore accelerò il battito, passo dopo passo, e non solo per la fatica: non ero mai stato pauroso, era impossibile esserlo, con tutte le esplorazioni nella foresta di Herrengton che avevo fatto con mio padre, eppure sentivo montarmi dentro un terribile senso d’inquietudine.

    Non puoi tornare indietro a  mani vuote, Rigel, non con quei due a deriderti in eterno…

All’inizio, quando arrivai vicino agli alberi, non vidi nulla e pensai a un'illusione ottica o a un gioco di luci, poi, guardando bene, notai una traccia fresca nella neve, qualcosa era stato trascinato via da lì, diretto nel fitto degli alberi: la voce di mio padre in testa mi diceva di tornare indietro, ma all'inquietudine ora si era aggiunta la mia solita, dannosa, dannata curiosità. M’incamminai.
Quando vidi le prime gocce di sangue, ero ormai fuori dalla visuale dei miei amici.

***

Rodolphus Lestrange
Morvah, Cornwall - sab. 15 gennaio 1972

    «È stato meraviglioso vederti combattere, oggi... »

Eravamo tornati tra i ruderi, soli, eravamo ancora di guardia. Stavo appoggiato alla fredda pietra, intabarrato nel mio mantello, le mani ferite nascoste nell'incavo delle ascelle. E insistevo a voler guardare lontano, nell'oscurità, gli occhi persi nel nulla in cui si celava un mare furioso e assassino, le orecchie tese a quell'ululato lugubre, cercando invano di non vedere, non ascoltare, non pensare a lei. Era una fatica improba impormi di non voltarmi e, infatti, a volte, il mio sguardo traditore riusciva a sfuggire al mio controllo e, di sottecchi, si lasciava attrarre dal rosseggiare delle fiamme del braciere, e da quella figura minuta, oscura, tanto leggiadra da sembrar danzare dentro il fuoco.

    Prova ad ammaliarmi quanto vuoi, Strega, non ti lascerò più entrare nella mia anima...

Era difficile restare fermo nei miei propositi, soprattutto quando incrociavo quegli occhi neri come la notte, ma dovevo. La odiavo, come potevo non odiarla, dopo aver scoperto il suo tradimento? Ero pervaso dall'odio, ma sapevo anche di essere debole, che sarebbe stato difficile liberarmene. Mi voltai a osservarla un solo istante, anche se non avrei dovuto: si era spostata già, rapida, tra me e il braciere, vedevo in controluce le sue forme voluttuose attraverso il tessuto sottile della tunica. Sì, la odiavo, non potevo non odiarla... ma continuavo e avrei sempre continuato a desiderarla...

    Sei un debole, Rodolphus, e lei è e sarà sempre la tua maledizione...

Tornai a fissare il nulla e rimasi in silenzio, non volevo che intuisse la verità, non volevo darle la soddisfazione di scoprire quanto male mi avesse fatto. Era morta, per me, doveva essere morta. E doveva starmi alla larga, o l'avrei uccisa anche fisicamente, con le mie mani.
Quell'unico rapido sguardo, invece, era stato sufficiente a spingerla ad avvicinarsi ancora. Sussultai appena, quando sentii le sue mani bollenti sfiorarmi il fianco e risalire fino a liberare dalla stretta la mia mano ferita: la prese tra le sue, sentii le sue labbra morbide depositarsi con baci umidi su ogni singolo lembo di pelle martoriato e le sue guance infuocate sfiorarle lievi; scivolò davanti a me, silenziosa, i capelli corvini a incorniciarle il volto pallido, gli occhi che fiammeggiavano fissi su di me. Avrei dovuto allontanarla subito, invece restai immobile, non volevo capisse quanto fossi cambiato. Per ottenere la mia vendetta, lei non doveva sospettare niente. Non ancora.
Si sollevò sulle punte, era a piedi nudi: nonostante quel freddo, era a piedi nudi... sapeva quanto adorassi le dita dei suoi piedi, vedere come si muovevano sulle lenzuola...  come si arricciavano mentre... La prima volta che l'avevo sentita ridere, ridere sinceramente, era stato proprio a letto, per un commento idiota che avevo fatto ai suoi piedi... Da quel momento, da quella notte, era iniziato qualcosa di strano tra noi, avevo iniziato ad accarezzarla in modo diverso, a baciarla in modo diverso... e l'avevo sentita complice, vicina... quella notte... era stata... inconsueta e...

    E tu sei un idiota... soprattutto per lei... ricordatelo... sei solo un patetico idiota, Rodolphus!

Sentii la bile riempirmi la gola, mentre si aggrappava alle mie spalle, le sue mani scivolarono lungo il mio collo, le sue dita giocarono tra i miei capelli e tracciarono linee immaginarie sulla mia barba, infine catturò le mie labbra e mi baciò, famelica, come se la sua vita dipendesse da quelle nostre bocche fuse in un solo respiro.  Sentii il mio corpo reagire ma m’imposi di resistere, restare lucido. Mi morse, sentii il sapore ferroso del mio sangue che s’insinuava tra noi, lo sentii mischiarsi al suo sapore e alla mia saliva, e scivolare sempre più giù, in ogni recesso della mia bocca. Conoscevo quel suo desiderio, sapeva quanto lo bramassi, ma, al contrario delle altre volte, non lasciai la lussuria prendere il sopravvento, non le strappai la tunica di dosso, non la schiacciai contro la parete per possederla, com’era capitato spesso, violenti, allucinati, sfrenati, persino nelle situazioni più impensate. Era sempre più difficile resistere, ma non volevo cedere: affondai le dita sporche di sangue e terra nella carne delicata delle sue braccia e me la staccai da dosso, senza alcuna gentilezza, fissando quegli occhi lucidi di desiderio con il massimo distacco di cui fossi capace, anche quando la sua lingua, provocatoria, andò a leccare via, allusiva, dalle sue labbra il mio sangue, come leccava sempre via, alla fine, l'essenza di me. Sapeva che in quel modo riusciva a farmi impazzire, ma stavolta provai solo rabbia, domande che non volevo pormi si affastellavano nel mio cervello: lo fa anche con lui? Certi trucchetti li ha imparati da lui? Vuole da me le stesse cose che chiede a lui?
Mi voltai, non volevo vederla: stringevo i pugni e immaginavo di spezzarle tra le dita il collo sottile.

    «Si può sapere che cos'hai? Non ti ho mai visto così... Tu non mi hai mai... Tu non hai mai Cruciato nessuno come hai fatto oggi con Sherton... »

Mi prese il volto tra le mani e mi costrinse a voltarmi, mi fissava, i suoi occhi ardevano per me di un desiderio vero che le avevo visto poche volte, anche se sempre più spesso, ultimamente: se fossi stato il patetico idiota di un tempo, avrei pensato che Bellatrix si stesse legando a me, che non mi amasse, certo, ma che almeno iniziasse a stimarmi e a volermi, che le piacessi, e che il legame tra noi fosse più solido e profondo proprio perché si stava accorgendo che ero come mi voleva lei, forte e temerario, vedevo il suo orgoglio crescere, quando ero violento e spietato con le mie vittime. Dopo il messaggio nella stanza di Sherton, però, non m’illudevo più, sapevo chi lei fosse: una cagna in calore, che desiderava me, perché il suo amante lontano, indisponibile, non poteva soddisfarla...
Per tanto tempo mi ero illuso che mi bastasse disporre di lei, del suo corpo, quando e come volessi, come di ogni cosa che mi apparteneva... tanti erano così, si trastullavano con una bella moglie purosangue, da esporre in società come un trofeo per poi divertirsi con altre, e lasciare che lei facesse altrettanto, purché nessuno dei due umiliasse l'altro. Io, però, non ero così... mi ero reso conto con orrore che io, proprio io, volevo qualcosa di più... molto di più... da Bellatrix non volevo solo l'apparenza... io volevo anche tutto il resto. Ero furioso con me stesso per essermi privato della libertà con le mie stesse mani… furioso, perché avevo lasciato che mi entrasse così sotto pelle.

    Non sarà più così... non dovrà più essere così… tornerò in me, libero, non m'importa nulla di lei... Non deve importarmi più nulla... Ha rovinato tutto... Io rovinerò lei… Questo vuoto allo stomaco è solo un fatto di ormoni e quelli puoi soddisfarli, perché lei ti appartiene, ma il resto non esiste, tra voi non c'è niente, non c'è mai stato niente, non ci sarà mai niente... L'unica cosa che vi accomuna, che vi ha sempre accumunati, è la capacità di fare del male... soprattutto a voi stessi...

    «Non ho nulla, Black... »
    «Menti... »
    «Ti sbagli... Ho fatto quello che dovevo fare... Forse non te ne sei accorta, ma quel viscido traditore del Sangue Puro stava per uccidere Milord... »
    «Non l'hai fatto per Lui, ti conosco... c'era… anzi c'è… qualcosa di personale... Non ti ho mai visto picchiare qualcuno a mani nude... e tu non sei il tipo che va mai oltre il necessario... »
    «Credi che io sia andato oltre il necessario con Sherton? È questo che credi? Mi deludi, Black... Fai la dura, vuoi essere considerata la migliore tra i Mangiamorte, poi ti dimostri una patetica donnetta dallo stomaco delicato? Dal cuoricino tenero? Con gli Sherton, Bellatrix… non è e non sarà mai abbastanza! Non… per… me…»

La fissai, cercando di percepire un'esitazione: aveva paura per lui? Come si sarebbe comportata, quando avrei avuto il suo Mirzam tra le mani? Quando glielo avrei ammazzato davanti agli occhi? Avrebbero pagato amaramente ogni affronto... L'avrei costretta a guardare e solo allora avrebbe capito la verità, avrebbe capito che conoscevo le loro colpe... e da quel momento sarebbe vissuta nella paura, un giorno dopo l'altro... mi aveva deriso, umiliato... alla fine, mi avrebbe temuto...

    «Non ti conviene sfidarmi, Lestrange... lo sai… »

Il mare mugghiava sempre più feroce, la tempesta era al culmine, sapevamo che sarebbe stato un giorno infernale, era stata una delle condizioni che avevano determinato per quel giorno la data della missione. Bellatrix non appariva turbata dalle mie parole, anzi, sembrava pervasa dalla curiosità e dallo stesso entusiasmo mostrato a Essex Street, io, al contrario, ero sempre più inquieto, l'elettricità nell'aria e le mie aspettative mi rendevano insopportabile quell'attesa: erano passate ore ormai, e a nessuno di noi era stato concesso conferire con Milord, a parte quanti erano andati invano a caccia della Strega. Non capivo tanta preoccupazione, avevamo i marmocchi, quella donna ferita e spaventata non costituiva una minaccia per noi, potevamo scendere a prelevare Sherton, costringerlo a confessare e farla finita una buona volta... invece il tempo passava ed io restavo nella foresteria, preda dei fantasmi che aleggiavano nella mia testa.
Un tuono squassò l’aria, Bellatrix mi mise una mano sul braccio, non ebbi il tempo di reagire, mi voltai verso il fondo oscuro della foresteria: l'Elfo di Malfoy era apparso, Milord voleva vederci.

    «... Penso abbiano finalmente trovato la troia... E ci chiamano per darle una lezione... bene, Lestrange, ora apri gli occhi, perché stai per vedere di cosa è capace questa patetica donnetta!»

***

Rigel Sherton
Hogwarts, Highlands - sab. 15 gennaio 1972

Quando vidi le prime gocce di sangue, ero ormai fuori dalla visuale dei miei amici. La voce di papà e il buon senso mi suggerivano di tornare a scuola e di stendermi sul divano, al calduccio, davanti al caminetto in Sala Comune, ma non volevo rientrare con la coda tra le gambe e farmi deridere da quei due. Sentii le guance farsi di fuoco e gli occhi diventare lucidi, respirai a fondo e mi feci coraggio, la vertigine che provavo era sicuramente effetto solo del freddo.

    Io non sono un moccioso, non sono una ragazzina, delicata e paurosa!

Tesi l'orecchio e avanzai con circospezione, da qualche parte c'era una belva che stava pasteggiando e non avrebbe gradito essere disturbata. Ricordavo tra me gli insegnamenti appresi a caccia da mio padre, a poco a poco mi sentii più sicuro, quando, però, a terra vidi alcuni brandelli sanguinolenti, ancora fumanti, e il tanfo della carne e del sangue mi riempì le narici, il pranzo mi risalì in gola e lo stomaco mi entrò in subbuglio. Mi fermai, cercai di riprendere il controllo, ma appena mi voltai e vidi una testa d’uccello staccata e delle viscere fumanti, mi ritrovai a vomitare tutto il pranzo.

    MALEDIZIONE! NO! CI MANCAVA PURE QUESTA!

La testa prese a girarmi e le gambe iniziarono a tremare, battevo i denti dal freddo e dalla paura, non della belva, no, ma di svenire e di essere deriso a vita. Feci profondi respiri e cercai di fermare il senso di vertigine, non dovevo pensare di essere solo, senza la mia scopa, altrimenti sarei stato preso dal panico e avrei urlato. Dopo quella che mi parve l’eternità, il mondo smise di girare e il cuore di battermi furioso nel petto, la nausea cessò: dovevo tornare indietro, sentivo freddo, non aveva senso continuare a girovagare, ormai sapevo quale animale avesse emesso quel verso, la testa che avevo visto era di un'aquila reale, e poco lontano da me c'erano penne e piume a dimostrarlo.

    Gli faccio vedere io, a quei due idioti… racconterò a tutti quanto sono pigri e fifoni!

Mi chinai a raccogliere il mio trofeo, con la coda dell'occhio vidi un movimento alla mia destra, seguito da un fruscio tra i rovi innevati, mi rialzai in tempo per vedere qualcosa inoltrarsi nel folto, strisciando sulla neve. Rimasi alquanto sconcertato, doveva essere per forza un’allucinazione, perché solo un rettile poteva muoversi così, ma, in quella stagione, quelle bestiacce erano in letargo.
Osservai il sole che stava scendendo dietro la montagna, il buio sarebbe arrivato improvviso, solo un folle avrebbe indagato nella Foresta di giorno, figurarsi di notte. Figurarsi nelle mie condizioni.

    Se fosse un serpente, però, sarebbe una scoperta eccezionale... e se lo catturassi e ne facessi la mascotte della Casa, sarei un eroe, avrei il rispetto di tutti, proprio come prima, smetterebbero di burlarsi tutti di me, di dire che sono cambiato, solo perché ora ho queste strane Rune… io sono un vero Mago... Io sono un vero Slytherin… se prendessi un serpente che gironzola in pieno inverno, sarei considerato degno di Salazar... e non dovrei più dimostrare niente... a nessuno!

    «RIGEL! RIGEL!»

Sentii le voci dei miei amici alle mie spalle, erano sulle mie tracce, sapere di non essere completamente solo mi diede la spinta definitiva: sguainai la bacchetta e iniziai a seguire le tracce, inoltrandomi tra sterpi, radici affioranti, neve, rami secchi caduti a terra. Non dovetti procedere molto, prima di bloccarmi di nuovo, i peli ritti in mezzo alla schiena e le dita serrate attorno al legno della bacchetta: lentamente cercai di acquattarmi e trattenni il fiato per non far notare la mia presenza, il sudore freddo mi scivolava lungo la schiena e sottili nuvolette di vapore mi uscivano dalle narici, mentre la mente, rapida, cercava un incantesimo di difesa potente, molto potente. Davanti a me, un serpente gigantesco, lungo più di quanto Hagrid fosse alto, con gli occhi gialli, i denti aguzzi, il dorso verde scuro, scivolava pigro verso l'oscurità impenetrabile della foresta, il corpo dilatato in modo spropositato dal pasto, le spire rilucenti di riflessi argentei.
Invece di pensare a scappare, come avrebbe fatto chiunque fosse dotato di raziocinio, mi fermai a sognarmi nell'atto di catturarlo e portarlo al castello, di donarlo ai miei compagni, immaginai Rabastan che lo liberava nei sotterranei, per mettere paura a quei “cagasotto” degli Hufflepuff.
Il serpente però si fermò, rizzò la testa, si voltò a destra e sinistra, si staccò ancora un po' da terra, sembrava annusare l’aria, alla ricerca di qualcosa, di qualcuno: all’improvviso, finalmente, mi resi conto che da predatore stavo rischiando di diventare la preda. Staccai un piede da terra e ondeggiai indietro, poi ripetei il movimento con l’altro, il serpente si alzò ancora e si voltò verso di me, mi fissò, i suoi occhi sembravano brillare del rosso dell’inferno, la sua lingua guizzò, famelica: mi aveva visto. Iniziai a tremare, muoveva la bocca, sembrava che parlasse o ridesse di me, io mi sollevai dal nascondiglio e cominciai a correre, disordinatamente, senza tener conto della direzione di provenienza, solo dell'assenza di ostacoli sul mio cammino, sentendo dietro di me i sibili della bestia e il movimento rapido e ritmico delle spire sulla neve, che si avvicinavano sempre di più.

    Non può essere! Non posso essermi messo in questa situazione di merda con le mie mani!

Caddi, i sibili erano più vicini, gattonai e rotolai tra rocce affioranti e mi calai in una fenditura, percorsi una lunga cresta di rocce e ghiaccio, rischiando di scivolare, la discesa si fece più morbida ed io mi lasciai andare giù, fino a una spianata libera da alberi, scoperta, esposta alle correnti che salivano dal lago: sperai che il freddo dissuadesse la belva dal seguirmi.

    T’illudi che quello sia un serpente normale che si comporta da bestia normale? Idiota!

Mi risollevai in piedi, guardai in alto, non sentivo più né il fruscio, né il sibilo, lo cercai guardandomi tutto attorno, ma non lo vidi avvicinarsi da nessuna direzione. Sospirando di eccitazione e terrore, iniziai a togliermi la neve da dosso, poi osservai il paesaggio che digradava di fronte a me verso il Lago Oscuro, per provare a orientarmi: la neve aveva perso il suo candore, si faceva via via più grigia, mentre l'oscurità arrivava da est, dalla collina alle mie spalle, a spegnere il giorno e sulle cime delle montagne di fronte a me, di là del lago, rosseggiava l'ultimo bagliore del sole. Non sapevo dove fosse finita la creatura, ma nel casino in cui mi ero cacciato, alla fine, ero stato fortunato: non mi ero perso, in quella corsa caotica e improvvisata, anzi, ero riuscito a portarmi sulla scorciatoia che spesso facevamo di ritorno dal campo da Quidditch, quasi in riva al lago, sarebbe bastato attraversare un tratto di bosco, e mi sarei trovato presso le serre di Erbologia.

    Recupererò la scopa domani, ricordo bene il luogo dove l'ho lasciata, vicino al sentiero.

Rimisi in tasca la bacchetta, controllai la piuma d'aquila dentro il mantello e boccheggiando ancora un poco per la fatica, mi avviai tra gli alberi, guardandomi ogni tanto le spalle per sicurezza.

    Da dove diavolo sarà saltato fuori quel mostro? Mai visti dei rettili girovagare in pieno inverno... Sarà una creatura magica, un Animagus... uno spirito... un Mago trasfigurato…

Pensando a tutte le possibilità, poco per volta mi rilassai, godendo del silenzio ovattato che mi circondava e mi permetteva di riflettere, il mio passo era rapido e sicuro, la neve era bassa in quel tratto, gli abeti proteggevano il suolo ed io mi muovevo facilmente sul tappeto di aghi e fogliame umido; mi rallegrai, pensando che sarei riuscito a tornare a scuola prima dei miei amici, ogni tanto sentivo le loro voci alle mie spalle, provenienti dall’alto, che mi chiamavano, avrei potuto urlare loro che era tutto a posto, che stavo tornando al castello, ma mi piaceva farli preoccupati un po’, inoltre ero in basso e aveva nevicato parecchio, rischiavo di far staccare dei grossi cumuli e restarci seppellito sotto. Speravo solo che non incontrassero il serpente, sebbene, conoscendolo, Rabastan non si sarebbe spaventato, anzi, si sarebbe galvanizzato e sarebbe persino riuscito a catturarlo.

    Stupido! Avevi la bacchetta, perché non hai provato a stregarlo? Se l'avessi pietrificato, ora… invece ti sei messo a correre, fifone! A quest'ora della sua pelle avresti fatto tu un trofeo!

    «RIGEL! RIGEL!»

Mi fermai, mi guardai intorno, in quel punto, sulla collina che sovrastava gli alberi intorno al sentiero, non c’era troppa neve, mi portai le mani alla bocca, deciso a rispondere, quando sentii una specie di pigolio e uno sbattere di ali, a poca distanza da me: memore della disavventura appena vissuta con il serpente, mi dissi che non era il caso di badarci e di cacciarmi in altri guai.

    Papà ha torto quando dice che dobbiamo soccorrere, intervenire… per millenni gli animali della foresta hanno vissuto la loro vita, senza che noi c’immischiassimo nei loro affari… perciò… che ognuno si faccia i cavoli propri! Anzi sbrigati a tornare a casa, Rigel! Ormai è quasi buio!

Quando, però, mi accorsi che la neve davanti a me era pregna di sangue e scie rossastre si dipanavano in ogni direzione, inoltrandosi nel bosco, era troppo tardi per farmi gli affari miei…

    La mia solita fortuna! Per fare una gita nel bosco, ho scelto proprio il giorno in cui tutte le belve fameliche e assassine della Foresta hanno deciso di darsi ai loro banchetti cruenti… fanculo!

Ripresi la bacchetta, non mi sarei comportato da vigliacco, stavolta: poco più avanti c'erano numerose penne, alcune attaccate a lembi di piumaggio e carne, vidi un'intera ala strappata via e immaginai la sofferenza di quella povera creatura. Ne raccolsi una, era di nuovo di un'aquila reale, evidentemente, quel giorno, le aquile erano fortunate addirittura più di me.
Proseguii e vidi a terra un intero nido devastato, tirato giù dall'albero e schiantato al suolo, mi chinai, raccolsi delle piume, dei pezzetti di uova: non avevo mai visto le aquile fare il nido in un luogo così inconsueto, accessibile e pericoloso. A poca distanza da me vidi a terra qualcosa muoversi appena, mi avvicinai: un aquilotto era stato sbalzato via dal nido, sembrava stordito e aveva un'ala rotta, ma respirava ancora, poteva essere stato lui a pigolare, o un suo fratello, di solito ne nascevano due, così diceva sempre mio padre. Lo presi in mano, deciso a portarlo con me, prima di ritornare al castello l’avrei lasciato da Hagrid, il Guardiacaccia, perché lo curasse.

    È tutto strano, però: un serpente sveglio, aquile che nidificano sugli alberi... un piccolo cresciutello… quindi di chi erano le altre uova nel nido? Mah… Ne nascono solo due in un anno…

Avanzai fino al corpo della seconda aquila, era la femmina, la riconobbi dal piumaggio, aveva il collo spezzato ed era stata dilaniata, l’ala che avevo visto era la sua: il pigolare sempre più stentato che percepivo tra gli alberi doveva essere dell'altro piccolo, forse il predatore lo stava portando alla sua tana. Mi chiesi chi fosse, se fosse un pericolo anche per me o potessi mettere in salvo anche il secondo aquilotto, guardai il piccolo che avevo in mano, compresi che mio padre non aveva torto.
Mi pentii delle mie domande e del mio altruismo quando sentii un ringhio sordo alle mie spalle: mi voltai e i peli sulla schiena mi si rizzarono, c’era un gigantesco lupo dal pelo fulvo che mi mostrava i canini aguzzi e sbavava; dietro, una femmina nera uscì dal fitto del bosco, gli occhi iniettati d’odio, il muso lurido di sangue, sollevò il muso, con un ringhio che sembrava una risata di scherno, tra le fauci serrava un aquilotto ancora vivo che si agitava e pigolava impaurito. La lupa mi fissò, la schiena mi si riempì di brividi, la vidi stringere, il sangue dell’aquilotto le imporporò i canini candidi. Sputò via la creatura morta: l’aveva uccisa non per nutrirsi, solo per sfregio.
Rabbrividii: per un istante, al posto dei suoi occhi brillarono gli occhi furiosi del Mangiamorte che mi aveva attaccato la notte di Herrengton. Sentii una profonda inquietudine pervadermi…

    È tutto strano… tanto, troppo strano…

Tutta la foresta, ora, sembrava pigolare; il cuore accelerò rapido, sempre di più… le lacrime mi velarono gli occhi, senza che ne comprendessi il motivo.
Dovevo andarmene da lì, subito: mossi un passo, arretrando, poi un altro, senza staccare gli occhi di dosso alle due belve, che convergevano su di me; il pigolio che mi aveva attirato fin dall’inizio era sempre più insistente, dietro di me, mi mossi in quella direzione, senza mai dare le spalle ai lupi, m’immersi lentamente nel bosco, caddi all'indietro, incespicando, mi rialzai, sentii di nuovo pigolare. Uscito lentamente dal fitto degli alberi, affondai nella neve fino al polpaccio, annaspai, mi rimisi in piedi, senza mai perdere di vista le belve che mi seguivano lente, possenti, le orecchie ormai appiattite sul cranio, gli occhi ridotti a fessure, la bava, copiosa, che usciva dalle bocche digrignate. Sentii di nuovo lo stridio acuto di un'aquila adulta scendere dall’alto, mi sorprese vedermela piombare davanti, al contrario, non sorprese i lupi: corsi alle sue spalle, con quanto fiato avevo in corpo, la superai, l’aquila sembrava non vedere me, solo i lupi, che però continuarono a inseguirmi, bramosi del mio sangue, il lupo fulvo correva parallelo a me a destra, a sinistra, più arretrata, c'era la femmina. Ed erano veloci, sempre più veloci. Raggiunta una radura, franai su un tronco che affiorava appena dalla neve, nella penombra non l’avevo visto; terrorizzato sguainai la bacchetta, sicuro che mi sarebbero saltati addosso, entrambi, mi sollevai pronto a fronteggiarli, disperato, ma l’aquila, di nuovo, planò di fronte a me, le ali spiegate, decisa a farmi scudo. Riuscii a sfuggire grazie a lei, all’ultimo secondo, ma lei non fu altrettanto fortunata: le belve gli si lanciarono addosso e l’abbatterono, li vidi strapparsi a vicenda la preda dalla bocca, furiosi, accaniti. Corsi, corsi a perdifiato, senza badare alla direzione, solo a percorrere quanti più metri possibili, fino a che il respiro non mi bastò più e le gambe non diventarono pesantissime, crollai carponi nella neve, tremante, di paura e fatica, senza più forze, disperato. Avevo perso l’orientamento, non sapevo quale direzione prendere, le lacrime mi si cristallizzavano sulla faccia, nelle orecchie, rimbombante, il pigolio che pervadeva il bosco, ormai quasi soffocato. Ero sconvolto, per quel lamento disperato, per quanto avevo visto, per la corsa e per l’odio dei lupi.

    Quello che sta accadendo in questo bosco non ha nulla di naturale… devo uscirne il prima possibile… non siamo lontani da Herrengton, le Terre sono al di là di questa montagna… forse anche la Foresta Proibita parla a chi porta le Rune… proprio come accade a Herrengton… e senza i segni che mi possano difendere… sarei un pazzo a tentare di affrontarla un secondo di più…

Guardai l'aquilotto nella mia tasca, sembrava addormentato, guardai il cielo, si stavano accendendo le prime stelle, osservai con attenzione i profili delle montagne, mi resi conto che le mie mani erano prossime a congelarsi, ma avevo anche capito in quale direzione andare, per ritornare sul sentiero che portava alle serre. L’unico problema erano i lupi, che forse mi attendevano ancora proprio a metà del percorso. Ormai i miei amici, però, dovevano essere tornati al castello e probabilmente avevano già dato l’allarme, sicuramente Slughorn era andato da Hagrid per chiedere aiuto.

    E almeno una squadra di soccorso passa sempre in basso, in riva al lago… è più lunga, rispetto alla via delle serre, ma non ci sono i lupi, laggiù… almeno spero… mi troveranno di certo!

M’incamminai, stanco e infreddolito, la continua attenzione che dovevo rivolgere al terreno, per non scivolare e finire in acqua, mi costringeva ad avanzare lentamente e a prestare meno attenzione al pigolio, che però, ormai, si era impiantato nel mio cervello. Avevo pure fame, e la fame, di solito, mi portava il sonno… E mio padre mi aveva sempre raccomandato di fare attenzione al sonno…
Presi la bacchetta e pronunciai un paio d’incantesimi, per svelare la presenza di qualcosa di commestibile sotto la neve, ma riuscii solo a dissetarmi un po’. Mentre scavavo, in un punto in cui avrei dovuto trovare una bacca, vidi una donnola dal caldo pelo bianco uscire dalla sua tana: il pigolare veniva da lì, dal suo nascondiglio. Non era strano, a pensarci bene, forse quella bestiaccia approfittatrice aveva colto l’occasione della battaglia tra aquile e lupi per impossessarsi delle prede. Presi un ramo, grosso e nodoso, per tenere la donnola alla larga mentre manomettevo la sua tana e liberavo i cuccioli, il furetto mi fissò, arruffò il pelo e digrignò i denti aguzzi, io ghignai, pensando che fosse proprio stupido a credere di potermi spaventare in quel modo. Alla fine riuscì a fuggire, portandosi via due aquilotti ancora implumi, io lo rincorsi, deciso a vendicarmi su quella specie di topo peloso di tutta la paura provata quel pomeriggio. La mia corsa, però, finì, insieme alla mia speranza di salvarmi e salvare i piccoli, quando un lupo rossiccio, smilzo e più giovane degli altri, mi sbarrò la strada: tentando di girarmi e fuggire via, caddi a terra, il lupo mi fu subito sopra, mi puntò, sbavante, sembrava anche lui interessato all'aquilotto sfuggito dalla mia tasca.

    «NO, MALEDIZIONE, NO! NON AMMAZZERAI ANCHE QUESTO! È L’ULTIMO!»

Raccolsi il piccolo e imprecai, il lupo guaì, sembrava una risata di scherno, si avvicinò, spaventoso, ma non fu a causa sua che mi si rizzarono i peli della schiena e la paura mi serrò il cuore. Quando abbassai gli occhi sulle mie mani, la piccola aquila non era più un animale, ma aveva il volto di un essere umano, un volto che conoscevo. Un volto che conoscevo fin troppo bene. Le lacrime mi bagnarono la faccia, perché ora tutto aveva un senso. E il terrore a quel punto mi fermò il cuore.

    Salazar, che dannata Magia Oscura è questa?

Afferrai un pugno di neve, la gettai sugli occhi del lupo accompagnandola a una maledizione del Nord, non era potente, ero troppo sfinito, ma forse mi avrebbe dato un minimo di vantaggio; mentre la belva restava interdetta, arretrai nella neve, mi nascosi dietro un cespuglio, sentii il passo del lupo che mi seguiva, dapprima incerto, poi più deciso, sguainai la bacchetta e la puntai nella sua direzione, pronto appena fosse apparso, non avrei avuto pietà, ero deciso a difendermi e a difendere ...
La bacchetta, però, mi cadde a terra, non riuscivo più ad afferrarla, tenerla; disperato, mi guardai le dita, l’aquilotto era scomparso ed io non avevo più una mano, c’erano piume che mi spuntavano dalla pelle del braccio, proprio lì dove prima c'erano le Rune. Urlai una richiesta d’aiuto, ma non era più esattamente la mia voce, si stava trasformando in qualcosa di diverso, il lupo giovane mosse un altro passo, e infine apparve da dietro il cespuglio, la sua bocca ghignò, dalla sua gola sorse una risata: ma non era più il latrato di un lupo, era la risata di un essere umano.
Con i miei occhi di rapace, divisi dal becco, vidi la sua ombra in controluce emergere dal cespuglio, la belva si avvicinava a me su due gambe, si chinò a raccogliere la bacchetta che mi era caduta dalle mani, sentii il mio cuore, il mio piccolo cuore di uccello, esplodermi di paura, lì nel petto piumato.

    La mia bacchetta, la mia bacchetta stretta nella sua mano…
 
Aprii la bocca per urlare, con tutto il fiato che avevo, annaspando con i miei artigli nella neve.

    «No... NOOOOOOOOOO ... NOOKREEEEEEEEEEEEK... »

La mia non era più la voce di un ragazzo, ma il verso di un'aquila, il lupo-uomo rise di nuovo, mi puntò la bacchetta addosso, indifeso, vidi la luce verde sgorgare. Sentii la sua voce. La riconobbi.

    «Addio… Hifrig… Avada... Kedavra… »
   
***

Deidra Sherton
Amesbury, Wiltshire - sab. 15 gennaio 1972

    Plink... ...
    Plink... Plink...

Quel rumore, indefinito, sconosciuto, era apparso all'improvviso e, a intervalli irregolari, riappariva, si ripeteva ossessivo, si stava incuneando nel mio cervello.
 
    Se esiste il cervello, esistono i pensieri, le sensazioni... le sensazioni richiamano alle labbra nomi... i nomi si legano ai volti, i volti fanno sgorgare lacrime, le lacrime trafiggono il cuore.

    Plink... ...
    Plink... Plink...

Quel rumore non apparteneva all'indefinito che mi aveva fagocitata, veniva dal mondo cui volevo tornare, dove c'erano le persone da riabbracciare. I miei figli, il mio amore. Oltre quel buio, oltre quel silenzio, c'era la vita... Forzai l'aria a entrare, sentii i miei polmoni bruciare come l'inferno.
Ero viva... non sapevo dove fossi, immersa nel nulla, travolta dagli eventi, ma ero viva.

    Plink... ...
    Plink... Plink...

Lo sentivo con le orecchie, adesso, non solo nella testa, lo riconosceva, era l’acqua che cade a terra, era la goccia che s'infrange al suolo... respirai ancora più a fondo, e finalmente aprii gli occhi...
Il buio s’illuminò: il mio corpo era solido attorno a me, lo sentivo, aveva freddo, provava dolore... non sapevo dove fossi stata, se nel buio della morte, o in un sogno spaventoso, ma ero tornata indietro... viva, attirata da quel suono.
A poco a poco gli oggetti smisero di essere ombre fumose, attorno a me, divenne nitida una piccola stanza immersa in una tiepida penombra, un caminetto scoppiettante ai piedi del divano su cui ero stesa, tende di strana fattura tirate alla finestra, a consentire la vista sul nulla...  c'era qualcosa ammassato contro i vetri, a rendere ancora più greve e soffocante l'atmosfera in quella misera stanzetta. Rabbrividii. Non sapevo se fosse notte o giorno, non sapevo dove mi trovassi.

    Dove mi trovo? Cosa ci faccio qui? Perché non sono a casa mia?

C'erano due porte ai lati del divano, una era di legno pesante, sprangata dall'interno, l'altra era socchiusa, e sebbene non comprendessi cosa dicevano, sentivo delle voci indefinite emergere da là dietro, insieme a un chiarore soffuso e a uno strano odore di spezie. Mi sollevai a sedere, cercando di resistere al senso di nausea e vertigine, che si accompagnarono alla confusione che avevo in testa.

    Mi fa male... tutto... il dorso, le costole, il capo... sembra che sia stata a lungo stesa a terra, o che abbia avuto la febbre alta... ogni particella del mio corpo è dolorante. Perché?

Respirai a fondo, con difficoltà, sperando di schiarirmi le idee, vidi i miei abiti appesi, vicino alla finestra, lontano dal caminetto, sulla poltrona accanto al divano c’era la mia vestaglia da camera, non capivo che cosa ci facesse lì, non avevo mai visto quella stanza, per quanto scavassi nella memoria non avevo ricordi di quel posto... eppure, attorno a me, era un pullulare di oggetti familiari: sul tavolino, c'era un candelabro spento che avevo già visto a Herrengton, una tazzina spaiata del servizio da tè di zia Gertrude, di cui pensavo di essermi liberata ormai da anni.

    Forse sto sognando... questi sono brandelli del mio passato...

A terra c'erano delle impronte quasi asciutte che conducevano verso l'altra stanza, ma che avevano anche girato avanti e indietro a lungo attorno alla poltrona fino a fermarsi vicino a me... anche sui cuscini, c'era ancora impressa la forma di qualcuno che era rimasto seduto. Ero inquieta: chi si era fermato a guardarmi... dormire? Star male?

    Alshain…

Gli occhi andarono al caminetto, attaccato a un appendiabito c'era un lungo pastrano scuro, grondante di neve, grosse gocce d'acqua si raggruppavano ai margini del tessuto, pesanti si sganciavano e dopo un breve salto, s’infrangevano al suolo, facendo un suono: plink…

    Dove sono ? Che cosa ci faccio qui? Di chi è quel pastrano?

C’era del liquido scuro nella tazzina ancora fumante, la presi e la annusai, sospettosa: erano stati sciolti miele ed estratti di due piante dagli effetti ricostituenti, qualcuno aveva cercato di curarmi.

    Kreya…

Pensai alla mia Elfa, immaginai che fosse entrata poco prima e mi avesse svegliato, era possibile… ma tutto il resto non aveva senso, mi chiesi dove fossero Alshain e i bambini: erano troppo piccoli, non li avevo ancora mai lasciati soli, erano sempre con me, dovevano essere lì, da qualche parte... Avevo anche il seno dolorante e pieno, dovevo allattare Adhara, eppure non la sentivo reclamare...

    Lei dov'è? Perché non ha fame? Salazar... O dei del cielo… O no… Adhara... no…

Come un rombo nella testa, come una diga che cede sotto l'impeto dell’acqua, uno dopo l'altro, i ricordi riemersero e mi travolsero, furiosi, via via sempre più rapidi, sempre più dolorosi, sempre più atroci: l'aggressione a Essex Street, il fiato fetido di Lestrange... la morte di Kreya... la maledizione di Emerson... il dolore… Abraxas che fuggiva con i miei bambini...
La disperazione mi mozzò il respiro, volevo urlare, correre via, volevo... Scoppiai in lacrime...

    Alshain... è rimasto... solo… ad affrontare... no! No, non è possibile… Non è possibile... è un incubo... solo un incubo... Kreya... Alshain... I bambini! Deve essere un incubo... un incubo...

Mi portai le mani alla testa, dondolandomi, tirando i capelli, per impedire a tutte quelle voci di urlarmi dentro, a quelle immagini di perseguitarmi, ma quando la mano scivolò sulla guancia, sentii la pelle lacerata, e la fitta di dolore: portavo addosso la dimostrazione che era tutto vero...
Tentai di alzarmi dal letto, di raggiungere la porta sprangata, terrorizzata all'idea che nell'altra stanza ci fosse il mio carceriere; non ricordavo cosa fosse successo, dopo che Alshain... dovevo Smaterializzarmi, fuggire, anche se non sapevo dove, incespicai sul tavolino e caddi, sentii il dolore noto alla gamba, ripensai a un'altra caduta, e le lacrime mi salirono agli occhi.

    Quanto tempo è passato? Che ne è dei miei bambini? Dov'è Alshain?

Sentii rumori provenire dalla stanza accanto, il terrore mi prese. Mi voltai per controllare la situazione, a fatica mi sollevai da terra, cercai di raggiungere la porta, con la coda dell'occhio vidi una figura scura, imponente, che si avvicinava ad ampie falcate. Si avventò su di me.

    «NOOOOOOOO... NO! LASCIAMI MALEDETTO, LASCIAMI! NOOOOOOOOOO… »

Ero in trappola: sentii il tepore delle sue mani a pochi millimetri da me, sentii le dita affondarmi nella carne, scoppiai a piangere, ero troppo debole per resistere, mentre braccia forti mi sollevavano e stringevano contro un corpo ignoto. Avrei preferito morire subito che affrontare anche...

    «NO! NO!»

Con le poche forze che avevo, cercai di tirare dei pugni, di liberarmi, di mordere, di graffiare... era tutto inutile, le forze venivano meno, di nuovo tutto girava, di nuovo tutto sembrava farsi indefinito.
Delle labbra lievi si posarono sul mio capo e pronunciarono il mio nome, al mio orecchio, rabbrividii, terrorizzata, ma quelle mani invece di stringermi in una presa crudele, mi sorreggevano, mi sostenevano, sembravano capaci di delicatezza. Non capivo. Sentii di nuovo il mio nome sussurrato piano alle orecchie... sembrava venire da lontano. Tremai.
Alzai gli occhi, spaventata, scrutai quegli occhi, quei lineamenti, temevo fosse un altro inganno... era accaduto tutto, lo ricordavo, proprio perché mi ero fidata, perché mi ero fatta ingannare...
Gli occhi che mi fissavano, però, non erano fatti per ingannare. Non me…
Erano pieni di timore, di preoccupazione, di affetto... fraterno... di sincerità… Compresi le parole…

    «Non volevo spaventarti, Deidra… mi dispiace… »

Scoppiai a piangere, affondando prima le mani poi il volto nel tessuto del panciotto impeccabile, sentii quelle mani forti accarezzarmi la testa, consolarmi, sentii quella voce cullarmi, lo guardai di nuovo, tra le lacrime, incredula e grata: nella penombra, quegli occhi brillavano come stelle che guidano verso la salvezza, attraverso la tempesta.

    «Salazar! Che gli dei ti benedicano, Orion Arcturus Black… »

***

Rigel Sherton
Hogwarts, Highlands - sab. 15 gennaio 1972

    «Rigel… Svegliati… ragazzo, mi senti? Rigel… eccolo… così, sì… svegliati! Svegliati... »
    «NO! Krrr... no... Kr... NO!»
    «Forza Rigghe… dai! Svegliati… te l’ho detto, Poppy … è razza forte questa… »
    «Sì, ma togliti da lì, Rubeus… o lo soffocherai!»

Aprii gli occhi, ma era tutto buio, percepivo solo un muso peloso sopra di me, provai a urlare ma la voce non mi uscì dalla gola, tremai, sicuro che la belva mi avrebbe ucciso, poi però il muso dai tratti confusi si ritrasse, e non fu più completamente buio, c’era una penombra rossastra, da cui emerse una mano inguantata che mi diede un paio di schiaffetti sulla guancia, e un'altra ombra, corpulenta, che da sinistra mi avvicinò qualcosa di metallico in bocca... Mi forzarono ad aprirla, ero troppo debole per protestare, sentii un liquido asprigno e caldo scivolarmi lungo la gola. Tossii.

    «Come ti senti, Rigel?»
    «Stia buono, signor Lestrange, il signor Sherton è ancora troppo debole per rispondere!»

Mi voltai a destra, verso quella voce, umana, di donna, poco per volta riconobbi la figura bianca di Madame Pomfrey, riconobbi la boccetta dei sali nella sua mano, vidi l’altra che si depositava sulla mia fronte e mi scostava i capelli, nel gesto materno che ci riservava sempre. Deglutii a stento, avevo sete, sentivo le labbra screpolate, asciutte, aprii di più gli occhi e poco per volta misi a fuoco l’aspetto purtroppo più che noto dell'infermeria, a sinistra il volto arrossato dall'agitazione del professor Slughorn, che si stava torturando le mani una contro l’altra. Infine, in fondo al letto, rividi quella montagna di pelo e tremai, levai la mano, gli occhi sbarrati, scalciando con i piedi, Madame Pomfrey mi strinse la mano e mi accarezzò di nuovo la fronte.

    «Sì, signor Sherton… sì… è stato Rubeus Hagrid a portarla in salvo… ma avrà tutto il tempo, in seguito, per ringraziarlo… ora si riposi… »

Il guardiacaccia si avvicinò, tornando in un punto illuminato della mia visuale, solo quando vidi che la massa di pelo erano proprio i suoi capelli e la sua barba e non il pelo ispido di un lupo assetato del mio sangue, mi calmai e riuscii persino a sorridere.

     «Allora… gra… grazie… Ha… grid…»
    «Come vedete, il signor Sherton si sta riprendendo… ora per favore, andate fuori tutti, lasciatelo riposare… può restare solo la signorina Sherton… fuori, via!»

I miei compagni scivolarono rapidamente davanti a me, chi mi strinse la mano, chi mi toccò un braccio o una gamba attraverso la coperta, addirittura Kendra Campbell osò chinarsi a stamparmi un bacio sulla guancia, sotto i rimproveri della Pomfrey… alla fine, rimasero solo Meissa seduta accanto a me, a destra, e il professore Slughorn alla mia sinistra, di fronte a me, in fondo al letto, c’era Rabastan Lestrange, sul quale avevo puntato gli occhi appena l’avevo notato; lui, a sua volta, aveva fatto in modo di uscire per ultimo.

    «Vorrei restare… se possibile… »

Slughorn guardò l’infermiera e lei fece un cenno di assenso, sottolineando però che ci concedeva non più di dieci minuti. Rabastan annuì, prese una sedia dal fondo della stanza e la portò vicino a me, di fianco a Meissa, che ormai stentava a trattenere le lacrime. Quando lo vidi metterle una mano sulla spalla per consolarla, cercai di sollevarmi a sedere sul letto, le presi una mano e la costrinsi ad avvicinare la testa per parlarle.

    «Vai in camera tua e scrivi a mamma e papà… vorrei che venissero subito qui!»

Meissa mi fissò, stranita, ma annuì con la testa e uscì, rapida, a me girava tutto, ma volevo stare seduto, per avere un minimo di controllo su quello che avevo intorno.

    «Come sono… tornato qui?»
    «Stia calmo, signor Sherton... per fortuna Hagrid l'ha ritrovata in mezzo al bosco, appena i signori Rosier e Lestrange hanno dato l’allarme… »
«Accade se si gioca nella foresta dopo neanche un'ora da quando si viene dimessi... Eppure ero stata chiara, aveva un po’ di febbre già da questa mattina! Questa volta segnalerò l’accaduto ai suoi genitori, signor Sherton… e anche a suo padre, signor Lestrange, lei è più grande, dovrebbe essere più responsabile! Poteva accadere… Poteva morire assiderato nel bosco, se ne rende conto?»
    «Dove… mi avete… trovato? Voglio… sapere… »
    «Ti abbiamo seguito fino ai piedi degli alberi verso i quali ti eri diretto: Evan ed io ti abbiamo visto barcollare e cadere; poi sei sparito… Evan è corso a chiamare Hagrid, per sicurezza, io ti ho cercato e chiamato per un po’… ma tu eri sparito… Hagrid ti ha trovato addirittura vicino al Lago Oscuro… »
    «Di questo riparlerete dopo, signor Lestrange… ora andiamo, facciamo riposare il signor Sherton…»

Lo salutai e mi ridistesi, dubbioso: se non avevo fatto solo un brutto sogno a causa della febbre, com’ero finito in riva al Lago? Probabilmente ero svenuto, dopo aver rigettato, poi avevo iniziato a camminare preda del delirio… Salazar, com’ero stato stupido! Avevo la febbre, ed ero stato così idiota da uscire subito dopo aver mangiato. Affondai la testa sul cuscino, svuotato: pregavo che si trattasse solo di un sogno, di un delirio normale... e non di una delle stramaledette premonizioni di cui erano capaci i Maghi della Confraternita. Non era un bel presagio… Bastava contare per capirne il senso: le aquile erano tante quanti i membri della mia famiglia; tutto il resto era più difficile da capire: perché l'ultimo aquilotto aveva quel volto umano? E perché a me erano spuntate le ali? Quanto ai lupi, al serpente e alla donnola, non avevo idea di chi fossero... Mentre ero preda del delirio, ero certo di aver riconosciuto la voce del lupo ma ora che ero lucido, non ricordavo più nulla…

    «Molto bene… e ora che anche il signor Lestrange e il professor Slughorn sono usciti… potrebbe essere così gentile da raccontare anche a me la storia dei lupi, signor Sherton?»

Sbarrai gli occhi e strinsi le coperte tra le dita, udendo quella voce: dall’ufficio di Madame Pomfrey, col passo lento e l’aria gioviale che sempre lo contraddistingueva, uscì il preside Dumbledore, in una lunga tunica lilla da Mago, la barba che arrivava quasi a toccargli le scarpe. Pareva Merlino redivivo. Venne a sedersi accanto a me, reggeva in mano una scatola di Cioccorane, me ne offrì ed io ne accettai una per gentilezza, più che per reale desiderio. Piano, con voce stentata e pause lunghe, dovute alla difficoltà di parlare e alle numerose domande del Preside, gli raccontai il mio sogno. Non sapevo neanche io perché lo stessi facendo, non mi fidavo di lui, non mi piaceva, avevo sempre avuto un rapporto burrascoso col preside, avevo sempre la sensazione che con me fosse ingiustamente più severo che con molti miei compagni. Eppure, in quel momento, volevo parlare, affidarmi alla sua saggezza, sentirmi dire che era solo uno scherzo della febbre, volevo essere rassicurato: parlai, parlai, arrivai persino a commuovermi raccontando delle giovani aquile, mentre il preside mi fissava, non si perdeva una mia sola parola… a volte vedevo i suoi occhi illuminarsi, come se fosse meravigliato non del mio racconto, ma delle emozioni con cui le raccontavo. Alla fine si rilassò a sua volta sulla sedia, assorto, io mi guardai le mani, erano fasciate, probabilmente avevo rischiato di perdere qualche dito, in mezzo a tutta quella neve: ero stato un vero idiota, ora lo comprendevo.

    «Sì, signor Sherton, ha rischiato parecchio con questa bravata… ma mi dica… ha visto il volto dell’unico aquilotto che era riuscito a salvare?»

Lo fissai, il preside stava sorridendo, sembrava un gatto che ha afferrato il topo, le mie guance presero fuoco, mentre mi chiedevo come diavolo sapesse che non gli avevo raccontato tutti i dettagli.

    «Sono stato professore di Trasfigurazione di suo padre, probabilmente lei lo sa già… una mattina, aveva all’incirca tredici anni, proprio come ora li ha lei… io ero qui, a farmi medicare per una bruciatura da incantesimo, quando il preside Dippet entrò con suo padre tra le braccia e il suo padrino, Orion Black, pallido come un morto, al seguito. Avevano trovato suo padre svenuto in un bagno, in un lago di sangue… la cosa sconvolgente era che non si riusciva a trovare alcuna ferita da curare sul suo corpo per fermare la fuoriuscita di sangue… alla fine suo nonno ha dovuto farlo personalmente… lo sa, vero?»
    «Ne ho sentito parlare, ma mio padre non… »
    «… Non ricorda questi fatti volentieri… lo so... e lo capisco… ma temo sia giunto anche per lui il momento di affrontare il suo passato… come suo padre ha fatto prima di lui… e come lei, Rigel, dovrà fare, un giorno, con i suoi figli… »
    «Mi scusi, ma io non capisco di cosa sta parlando… non la seguo…»
    «Il professor Slughorn le ha dovuto fornire già tre dosi di Pozione Rimpolpasangue, da quando l’hanno riportata qui, signor Sherton… Ma lei non ha alcuna ferita, proprio come quel giorno, non ne aveva suo padre… eppure nel bosco, su quella neve, Rubeus Hagrid, l’ha trovata riverso nel suo sangue… »

Lo fissai, continuavo a non capire, sollevai le mani, gli mostrai le fasce: era chiaro che fossi ferito. Guardai Madame Pomfrey, era pallida, guardai il preside, era fermo, deciso: mi prese le mani, svolse le bende… sotto le medicazioni la mia pelle era intatta. Sentii i peli rizzarmisi sulla schiena.

    «C’è qualcosa che suo padre deve sapere… qualcosa che, visti i tempi, deve restare tra noi…»
    «No, non voglio, non è giusto… perché io? Perché, tra tanti, proprio io? »

Di colpo sapevo perché l’aquilotto avesse il mio volto.
Di colpo capivo perché il lupo-uomo mi avesse chiamato Hifrig, nel darmi la morte…

    Sono io, non mio fratello, l’Erede di Hifrig, l’erede del Discepolo…

***

Deidra Sherton
Amesbury, Wiltshire - sab. 15 gennaio 1972

 Mi abbandonai a tutte le lacrime che avevo strette nel cuore, tra quelle braccia amiche, tremavo, spaventata e confusa, balbettando i nomi di mio marito e dei miei figli. Tutto sembrava vorticare, le mie gambe, per l'emozione e la debolezza, non ressero, Orion mi fece stendere sul divano. Doimòs rientrò nella stanza con un altro infuso, mi vide e accorse a sua volta, dicendo parole sconnesse, parole che non riuscivo a capire.

    «Padrona, deve stare a letto... padrona riposare... »
    «Come posso riposare, se non so che ne è dei miei figli e di mio marito!»

Annaspavo, mi sembrava che tutto girasse, sentivo il sudore freddo scorrermi copioso lungo la schiena, il cuore in tumulto. Orion tentò di convincermi a rimanere distesa, io sedetti sul bordo del divano, la vestaglia che mi aveva fatto indossare appoggiata sulle spalle, le mani pietrificate, aggrappate al tessuto, per non scivolare. Si mise al mio fianco, mi tenne stretta a sé, prese le mie mani tra le sue e attese che mi calmassi.

    «Bevi... e per favore stenditi... devi rimetterti in forze il prima possibile... ti racconterò tutto quello che so... promesso... »

Mi porse l'infuso, presi la tazza con mani tremanti, sentii l'odore della cannella e trangugiai un poco alla volta, piccoli sorsi febbrili, sentivo la gola graffiare come carta vetrata. Orion, seduto accanto a me, si guardava le mani, i movimenti lenti e ripetitivi svelavano la tensione che aveva addosso.
Iniziò a raccontare piano, con voce pacata, come se il racconto non lo riguardasse, nello stesso modo distaccato con cui spesso l'avevo sentito parlare a mio cognato, quando gli suggeriva il modo migliore per investire galeoni. Ma non parlava d’investimenti, Orion parlava di me, delle mie condizioni: la voce ogni tanto sembrava restare in sospeso, esitare... lo conoscevo ormai, sapevo che la presunta incapacità dei Black di provare qualsiasi sentimento era soltanto una patetica bugia.
Doimòs mi aveva curato, aveva già visto, quando serviva mio suocero, persone colpite dalla maledizione di Emerson, una maledizione antica, usata spesso dai Maghi del Nord contro i nemici mortali, una maledizione alla quale, per mia fortuna, ero stata sottoposta solo per pochi istanti, quindi, forse, nel giro di alcuni mesi, avrei smesso di subirne del tutto gli effetti.

    «So che stai male, Dei, ma da quello che mi ha raccontato l’Elfo... sei stata fortunata... »
    «Non è la parola che userei in questo momento per descrivermi, Orion... »
    «Lo so... lo immagino... ma se pensi a quello che tu e i ragazzi avete rischiato... immagina se... chi si sarebbe preso cura di Meissa e Rigel? Tu… almeno tu... sei qui... al sicuro... »
    «Al sicuro? Non so nemmeno dove ci troviamo, Orion, né cosa tu ci faccia qui... sempre che tu sia... tu… quanto tempo è passato da... »
    «È tardo pomeriggio, ormai, Deidra, sono passate alcune ore di quando è avvenuto tutto... e sì, sono io... puoi chiedermi qualsiasi cosa per averne prova... »

Lo fissai, negai con il capo, lui mi strinse le mani più forte.
    
    «Come ti senti?»
    «Ti prego, non ora... Dove siamo? Che ne è dei miei bambini? Che cosa ci fai qui?»
    «Siamo ad Amesbury... in un capanno nel bosco… Doimòs attende che tu stia un po' meglio per portarti a Herrengton... Questo è un nascondiglio di cui conosciamo l'esistenza solo Alshain, Doimòs ed io: tuo marito sapeva che potevano attaccarvi, aveva predisposto tutto per portarvi in un luogo sicuro, più vicino delle Terre, se uno di voi fosse stato ferito... Questo capanno era il luogo sicuro... per questo appena ho capito che avevi bisogno d’aiuto, sono venuto a cercarti qui... »
    «E Alshain? I bambini?»

Orion chinò la testa, io sentii il sangue andarmi alla faccia e gli occhi farsi lucidi.

    «No, non piangere... sono stato a casa vostra, Deidra... sarò sincero, è un campo di battaglia, ma sono rimasto fino alla fine... hanno trovato Emerson quando stavo per andarmene... lui era l'ultimo, ne sono certi... l'unico altro corpo trovato è quello di Roland Lestrange... Non so quale fosse il piano di Alshain, ma è riuscito a contenere i danni, nessuno fuori di quella casa si è ferito gravemente, e... anche all'interno... gli unici che sono morti, sono stati ammazzati dagli incantesimi... altro non so dirti... »
    «I bambini li hanno portati via prima... Alshain... io non capisco perché abbia agito così... perché è rimasto lì? Perché non è venuto via con noi per andare subito a caccia di... »
     «Di? Di chi, Deidra? Ti prego, dimmelo... possiamo riprenderci i bambini subito, se tu... »
    «NO! Se lui li avesse seguiti... ed io ti dicessi chi ha preso i bambini… se tu facessi qualcosa che... »
    «Io al suo posto sarei sceso a patti subito, per riavere i bambini... ma lui... »
    «Lui? »
    «Lui non è me, Deidra... Lui non si piega… mai…»
    
Orion si morse un labbro, combatteva con se stesso, preso tra l’amore per il suo amico e la rabbia contro la sua testardaggine, non lo vedevo così dai primi tempi in cui l'avevo conosciuto.

    «Ha fatto il testone come suo solito, Dei... inutile illudersi, l'hanno preso, non li ha seguiti volontariamente. Ha combattuto come una belva, questo è chiaro, ma erano tanti, troppi... E se hanno lui… tu sarai la prossima: li hai visti in faccia, tu sapresti chi denunciare... potresti ricattarli per riavere indietro i bambini... sei un problema per i loro piani… per questo devi andartene il prima possibile da qui... non devi piangere, no... a Herrengton nessuno può trovarti!»
    «NON È PER ME CHE HO PAURA, ORION!»
    «Lo so… ma… pensaci: Alshain gli serve vivo, gli servite tutti vivi, Mirzam ha quello che il Lord desidera: solo lui sa dove si trova Habarcat... Milord vuol costringere Alshain a parlare, se non ne ricaverà nulla, userà voi per piegare tuo figlio... »
    «Ti sembrano prospettive tali che io non debba preoccuparmi, Orion? Mi stai dicendo che l'unica strada per riavere salvi Alshain e i bambini… è che sia Mirzam a morire... »
    «No... Dei... c'è l’altra strada... Doimòs non ha voluto parlare, ma te lo ripeto: se hai visto qualcuno di loro in faccia, possiamo usare le loro armi... ricattarli... obbligarli a lasciarli liberi, in cambio del silenzio... finché sarai libera, è possibile obbligarli a renderci Alshain e i bambini... »
    «Vorresti giocare d'azzardo con le vite dei miei figli? Tu lo sai cosa si dice di quel Mago, Orion? Al mio tentativo di ricatto, Milord li ucciderebbe... non ha paura di niente e di nessuno!»
    «Quel Mago non sa chi dei tuoi figli è l'erede di Hifrig, non può permettersi errori! Non può far loro del male... per avere ciò che desidera, deve trattarli con ogni riguardo... »
    «Emerson gli ha detto che Adhara, senza Rune, non ha alcun valore in questo sporco gioco!»

Vidi tutto il suo fervore spegnersi, vidi la speranza spegnersi, le sue mani serrarsi: sembrava diventato un blocco di pietra… poi lentamente, rividi la maschera che si riformava sul suo volto.

    «Non m’importa nulla di quella dannata Fiamma, di questi intrighi, si prenda Herrengton, faccia ciò che vuole, metta a ferro e fuoco il mondo intero... io rivoglio la mia famiglia!»

Scoppiai a singhiozzare di nuovo, Orion mi cinse le spalle: sapevamo entrambi che non era vero, che non la pensavo così, mi sentivo male all'idea che quell'uomo riuscisse a fare ciò che voleva usando mezzi simili, usando i sentimenti di persone come noi, persone che senza la minaccia non avrebbero mai fatto del male nemmeno a una mosca. Sapevo anch’io che quel mostro andava fermato, che nessun’altra madre doveva soffrire quello che provavo in quel momento, ma ero terrorizzata e sconfitta, c'erano in gioco i miei figli e per loro, per la loro salvezza, avrei fatto di tutto. E quel mostro lo sapeva.

    «Perdonami, non volevo farti piangere... te lo ripeto, fidati… stai tranquilla... se vi facesse del male, perderebbe ogni potere su Mirzam e sulla Confraternita... in tanti seguono tuo marito... diventerebbero tutti nemici del Lord, all'istante... »
    «Nemici morti, prima ancora di alzare la testa: ciascuno degli uomini di Alshain, come li chiami tu, ha una famiglia e una famiglia significa essere deboli, ricattabili...  quell'essere non è un uomo... è una belva assassina... non conosce pietà, non conosce morale, non conosce vergogna... altrimenti non toccherebbe i bambini! »
    «Allora troveremo un altro modo, più sicuro, meno avventato... scusami... è stata la frenesia del volerli sbattere in cella che mi ha fatto parlare così... Troveremo un modo, più discreto... intatto, sappi che non sarai sola, Dei... ho ritrovato il tuo anello, tra le macerie... ci sono pure le schegge dei diamanti di Javannah... Tu sai che cosa fare con gli anelli del Nord…»
    «Hanno requisito tutti gli anelli al Ministero, Orion... nessuno può ascoltarmi… »
    «Non tutti si sono presentati al processo... e visto il tradimento di Emerson, a te non serve contattare un Mago qualsiasi, che potrebbe comprometterti... a te serve solo un uomo, qualcuno nascosto da qualche parte, che ha ancora il suo anello, Deidra... un Mago Oscuro, malefico, che può aiutarti… e che ti aiuterà con ogni mezzo... perché il Custode di Herrengton è fedele a tuo marito e alla sua famiglia, e in assenza di Alshain, deve rispondere a te: consigliati con Fear... Una volta al sicuro, a Herrengton, puoi usare gli anelli, i patroni, la Magia del Nord, per chiamare a raccolta la Confraternita: devono sapere che sei viva e che l’artefice di tutto questo non è Mirzam...»
    «Che cosa c'entra Mirzam, adesso? »
    «Uno di quei bastardi uscendo si è spacciato per tuo figlio e ha lanciato il marchio di Milord in cielo... ma è arrivato tardi: Moody ha mostrato le prove dell'innocenza di Mirzam al Wizengamot... sì Deidra: Mirzam è stato scagionato. E a quanto pare, hai il sostegno di uno dei pochi uomini onesti del dipartimento Aurors, sebbene converrai con me che Moody, per altri versi, sia un soggetto alquanto discutibile. Ora è necessario convincere tuo figlio a restare dove si trova...»

Mi portai le mani alle tempie, tutte quelle notizie mi lasciavano sconcertata: appena poche ore prima, quel mattino, avrei dato persino la mia vita per sentire una notizia simile, ora non riuscivo a trovare in me alcuna scintilla di felicità, tanto ero sconvolta.

    «Orion... spiegami… quanti sanno che ci è successo qualcosa? »
    «Tutti. Gli Obliviatori stanno ancora cancellando gli eventi dalla memoria dei londinesi... »
    «Quindi… quindi domattina ci sarà la notizia su tutti i giornali e... Meissa e Rigel... »
    «Intendo andare a Hogwarts per parlare con loro, appena tu sarai a Herrengton... non voglio che certi uomini del Ministero irrompano a Hogwarts, senza che Meissa e Rigel siano preparati... »
    «Orion… non puoi... »
    «Posso, devo e voglio... sono il loro padrino... è mio preciso dovere... »
    «Se mostrassi di sapere qualcosa, metteresti in pericolo te stesso e la tua famiglia... »
    «Sono già più coinvolto di quanto tu possa immaginare, Deidra... non ti ho messo sull'avviso sui Lestrange per nulla… so che c’entrano loro… i ragazzi devono essere avvisati, soprattutto Meissa... quel Rabastan… non mi piace come si comporta con lei…»
    «Orion... il gioco che stai facendo è pericoloso... »
    «So fingere meglio di tuo marito, Deidra... te li riporterò a casa... è sufficiente che tu mi dica quel nome... è stato Abraxas Malfoy, non è così? È lui che ha preso i tuoi bambini? Dimmelo! »

Abbassai gli occhi, anche se non volevo, non potevo udire quel nome e restare indifferente.

    «Gli farò sputare il sangue, dannato bastardo!»
    «Orion! »
    «Al diavolo l'etichetta, i modi da gentiluomo, non possono toccare dei bambini e pensare di aver diritto... »
    «Orion... no… Salazar! C'è qualcuno... guarda... c'è qualcuno alla finestra... »

Lo vidi voltarsi, deglutire, sbiancarsi, lo vidi mettere mano alla bacchetta.
La maniglia della porta iniziò a ruotare... la porta si mosse prima piano, poi più velocemente…
Urlai, mentre una specie di fagotto rotolò in casa. Orion si avvicinò cauto, Doimòs mi prese la mano, pronto a Smaterializzarci via da lì, se ci fosse stato pericolo, io sentivo il cuore esplodermi nel petto dalla paura.
Poi il silenzio fu rotto da una voce squillante che usciva dal fagotto e qualcuno, che non riuscivo a credere di vedere veramente, si alzò in piedi e caracollò verso di me, chiamandomi.

    «Mamma… mamma…»
    «Salazar santissimo… ma è Wezen! »

Corsi, arrancando verso la porta, presi in braccio il mio bambino, mentre Orion basito, non capiva se essere felice o dover avere ancora più paura, nemmeno io all’inizio capivo, ma mi fu sufficiente baciare mio figlio, odorare il suo profumo, sentire le sue manine morbide affondare tra i miei capelli e accarezzarmi il volto per asciugarmi le lacrime di felicità, per sapere che era vero…

    È tutto dannatamente giusto e vero.

Orion e Doimòs superarono la porta e furono fuori. L’Elfo entrò poco dopo, in mano teneva una specie di straccio, uno straccio che si muoveva, agitato, uno straccio da cui proruppe prima il gorgoglio, poi il pianto disperato e affamato di Adhara.

    «Padrona… Doimòs…»
    «O dei del cielo… o Merlino… grazie… io… io non ci credo... non è possibile…»

Con Wezen al collo, m’inginocchiai davanti all’Elfo, commosso, presi la mia bambina, piangeva affamata, a una prima occhiata sembrava stesse bene, me la divorai con gli occhi, esattamente come il giorno in cui il Medimago me l’aveva messa tra le braccia, appena nata.

    «Non ci posso credere, non ci posso credere… o dei… o…»
    «Ma è… la verità… Dei… te l’ho… riportati… siamo… a… casa… tutti… a casa…»

Alzai gli occhi: non riuscii a trattenere altre lacrime.
Orion sorreggeva mio marito, pallido, tumefatto, dolorante, ma era lui, era vero, era vivo. Lo abbracciai, cercando di non stringerlo troppo, lo vedevo, lo sentivo, stava malissimo, Orion si voltò, sembrò all’improvviso impegnato a controllare la lunghezza delle sue unghie, sempre perfette: in quel momento, anche per lui, era difficile nascondere i propri sentimenti…
Aiutai Alshain a raggiungere il divano, era consumato dal dolore e dalla febbre, era ferito, aveva gli occhi quasi chiusi, il volto gonfio, provai a togliergli il mantello, ma dovetti smettere, a causa del dolore che gli procuravo. Orion recuperò subito la sua compostezza, e i modi di fare tipici di chi punta alla concretezza.

    «Avremo tempo per sentirti raccontare come tu ci sia riuscito, ma non potete restare qui un secondo di più… Doimòs, io non ho l’autorità di impartirti ordini, ma devi portare i tuoi padroni a Herrengton e fare in modo che un Medimago di fiducia si occupi di tutti loro… io andrò subito a Hogwarts… ho fatto bene ad aspettare, prima di parlare con i ragazzi… era questa la notizia che volevo dare loro…»
    «No, Orion… no…»
    «Alshain, c’è il rischio che arrivino notizie preoccupanti e inesatte ai ragazzi e… »
    «Ho detto no, Orion… non ancora… non stasera… fidatevi di me… per favore…»

Orion ed io ci fissammo e fissammo Alshain, incerti, speravamo di aver capito male. Un brivido mi percorse la schiena: dopo l’euforia iniziale, per la prima volta mi chiesi quanto ci sarebbe costata quella ritrovata felicità…



*continua*



NdA:
Ciao a tutti, ringrazio quanti hanno letto, commentato e aggiunto alle varie liste. In questo capitolo un altro personaggio scopre il suo destino e assume le proprie catene, liberando, al tempo stesso, il destino di molti altri. Una precisazione, però, il sogno delle aquile e dei lupi non è letterale, rappresenta la presa di coscienza della propria natura da parte del figlio, mentre il padre è in fin di vita… I lupi, pertanto, non è detto che riescano a uccidere tutte le aquile! Non ho altro da aggiungere, al momento. Un bacione. Buone feste a tutti.

Valeria



Scheda
Immagine
  
Leggi le 7 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Harry Potter / Vai alla pagina dell'autore: Terre_del_Nord