La pioggia disegna sulla
spiaggia come un bambino.
Qualcuno sta seduto pochi centimetri prima che il mare possa lambirlo.
È seduto
a gambe incrociate sulla giacca, ignora la pioggia e continua
imperterrito a scrivere
su un quadernetto, proteggendolo dall’acqua con il capo,
chinato. Un piccolo,
impercettibile sorriso gli increspa il volto quando una goccia riesce
finalmente a cadere sul candore delle pagine. Chiude il quaderno e
guarda in
alto. Il cielo è grigio e spumeggiante, come un mare in
tempesta al
rallentatore. Il ragazzo riapre il suo quaderno e
ne strappa le pagine. Guarda di nuovo il
cielo, mentre i capelli ormai fradici aderiscono al viso e la sabbia
continua a
impregnarsi con raffinatezza. Si alza in piedi, dimenticando di
prendere la
copertina vuota e desolata di quello che era un quaderno e stringe le
pagine
fra le mani, senza preoccuparsi di spiegazzarle. Alcune gocce di
pioggia gli
cadono negli occhi.
All’improvviso, in modo del tutto inaspettato, il ragazzo
scoppia a ridere, una
risata di gratitudine verso la pioggia che gli scivola addosso e lo lascia diverso rispetto
a prima del suo
passaggio.
Un centinaio di fogli
scritti fittamente corrono gioiosi
sulla spiaggia, trasportati dal vento, appesantiti dalla pioggia,
diretti verso
l’acqua di mare che già li schizza. Delle orme
sono l’unica cosa che deturpa il
gioco della pioggia. Conducono e invitano chiunque voglia seguirle a
compiere
una corsa lungo tutta la spiaggia ed infine a fermarsi a riaffermare
l’insensatezza
della corsa per un paio di minuti, prima di avviarsi in vicoli ignoti,
all’interno
del paese solitario con un nuovo attimo da far brillare negli occhi.
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