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Disclaimer:
tutti i personaggi presenti in questo racconto, ad eccezione di
Meredith St.Clair/Medusa, che è una mia creazione, appartengono
a Stan Lee e Jack Kirby, alla Marvel Comics e alla Twentieth Century
Fox.
Benvenuti! Ecco il capitolo
conclusivo di "Winning a Battle, Losing the War". E' spaventosamente
lungo, lo so, ma non sono riuscita a fare altrimenti. Anche volendo
dividerlo in due parti, non ho trovato un punto di stacco
da cui tirare fuori un eventuale capitolo 9 senza ridurlo ad uno
schifo. Se arrivate vivi fino alla fine ^^ vi aspetto per gli
ultimi saluti... sigh...
Buona lettura!
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Gli X Men si stavano battendo con valore, e il fatto di trovarsi in una
posizione di marcata inferiorità numerica rispetto alle schiere
della Confraternita non sembrava metterli in difficoltà. Medusa
vide Wolverine tagliare in due uno dei lampioni che si trovavano nel
cortile con i suoi artigli di adamantio, e farlo cadere su alcuni degli
uomini che avanzavano minacciosi verso le file serrate degli X Men e
dei militari dietro di loro. Ci furono altre urla, più acute, e
Medusa riconobbe il suono di una lama, anzi, di tre lame, che venivano
conficcate nel corpo di un altro essere umano. Eccola, la pace di Charles Xavier e dei suoi degni tirapiedi, si disse distogliendo lo sguardo. Noi saremo anche dei criminali, ma almeno non siamo dei criminali ipocriti.
Tornò a guardare il cortile quando sentì il ruggito di
Hank McCoy risuonare nuovamente sul campo di battaglia. Nonostante la
tuta stretta, che senz’altro doveva essergli quanto meno
d’impiccio, riuscì a stendere a pugni e calci almeno
quattro mutanti della Confraternita contemporaneamente, e un altro
gruppetto (Medusa non potè contare esattamente quanti fossero)
finì a terra quando McCoy si lanciò contro un palo e lo
utilizzò come perno per volteggiarci attorno e colpire con i
calci chiunque o qualunque cosa si trovasse nel suo raggio
d’azione. Per qualche istante, Medusa ammirò stupefatta e
meravigliata quella mossa. Cavolo, e pensare che ad insegnare scienze era pallosissimo.
Si girò ad osservare il volto di Magneto e vide che ormai il
comandante della Confraternita era oltre la rabbia. I tratti del suo
viso pallido, reso ancora più bianco dalla luce della luna piena
e delle stelle, era talmente deformato dall’ira e dallo sdegno
che per qualche secondo Medusa ebbe paura di lui. Era sicura che
Magneto avesse preso in considerazione l’intervento degli X Men,
perciò aspettò che lui parlasse e spiegasse ai suoi
luogotenenti cosa fare per trarre le loro schiere da quel brutto
impiccio. Invece il comandante della Confraternita rimase muto; si
voltò verso Archlight e Kid Omega, che stavano anche loro
osservando in silenzio la battaglia, e rivolse loro uno sguardo
significativo. I due ragazzi annuirono, e poi cominciarono ad
inerpicarsi sulle lamiere del ponte, cercando un luogo abbastanza buio
e discreto per poter scendere nel cortile senza essere visti da uno
degli X Men o dai militari. Medusa non conosceva il loro compito, ma
era certa che aveva qualcosa a che fare con l’edificio bianco in
fondo al cortile, o con una delle persone al suo interno. Forse è il piano B, si disse.
Magneto non spiegava mai tutti i dettagli dei suoi piani ai suoi
sottoposti. Ognuno conosceva solo i propri compiti o poco più, e
per il resto doveva sbrigarsela da solo, o aspettare gli ordini diretti
di Magneto quando la missione era già in atto. Era una tecnica
lacunosa, certo, e anche pericolosa, perché non c’è
niente di peggio al mondo che trovarsi nel bel mezzo di una battaglia e
non sapere cosa fare. Medusa sospettava che ci fosse dietro una
filosofia del tipo “divide et impera”, un modo per tenere
ancora più legati a sé i propri sottoposti.. Si chiese se
Magneto intendesse affidarle qualche compito quella notte, o se
l’avrebbe semplicemente fatta rimanere sul ponte finché
tutto non fosse finito. Tutto dipendeva dalla possibilità che
Magneto avesse o meno ancora fiducia in lei. Guardò Pyro, che
stava osservando assorto i loro ex compagni di scuola e i loro ex
professori combattere per difendere coloro che desideravano la
sparizione dei mutanti dalla faccia della terra.
Chissà come Magneto prenderà la nostra richiesta di congedo, si domandò scrutando il volto pallido e impassibile del suo ragazzo. Chissà dove andremo, quando sarà finita. Si
infilò di nuovo la mano sinistra nella tasca dei jeans,
stringendo il rosario tra le dita, mentre la mano destra
accarezzò distrattamente il suo grembo.
Glielo dirai?
Quella voce non identificata, proveniente da qualche parte in uno degli
angoli più remoti del suo cervello, la colse totalmente di
sorpresa. Allora, glielo dirai o no?
Vorrei ricordarti che per la prossima settimana hai già un
appuntamento programmato per... beh, hai capito, no? Le dita di
Medusa si serrarono talmente forte attorno al rosario che potè
sentire il profilo delle pietre e del crocefisso penetrare nella sua
carne.
Cercò dentro di sé una risposta da dare alla voce. Io...
Io non... Beh, ma che cos’è che è cambiato, poi?
Niente, proprio niente. Anche se per un po’ lasciassimo la
Confraternita, i soldi non è che comincerebbero magicamente a
crescere sugli alberi.
Con un movimento rapido e pieno di stizza si tolse dalla fronte un paio
di ciocche che le erano di nuovo scivolate sugli occhi. Quella
conversazione con sé stessa non le piaceva affatto, anzi, la
metteva molto, molto a disagio, ed era desiderosa di chiuderla il
più presto possibile. Era molto stanca. Voleva che tutto
finisse, e che finisse subito.
Si avvicinò con discrezione a Pyro, il più
silenziosamente che le riusciva, abbastanza vicino per sentire
l’odore del suo profumo. Aveva sempre adorato il profumo di John;
lo trovava buonissimo, e sexy, e incredibilmente virile. Ispirò
a pieni polmoni quell’odore, e per un istante fu tentata di
appoggiare la testa sulla sua spalla e pregarlo di farla addormentare
così, tra le sue braccia. Voleva dormire, ed ignorare quel
fracasso che veniva da sotto di loro, le urla e il rumore della lotta,
e soprattutto voleva ignorare quelle domande assillanti che le stavano
facendo venire il mal di testa.
La voce, però, non sembrava disposta a gettare la spugna. Beh, ma questa non è affatto una risposta, replicò. Andrai o no all’appuntamento?
Prima che Medusa potesse anche solo iniziare a pensare a cosa dire, fu
investita da una violenta e improvvisa ventata che la costrinse a
ripararsi gli occhi. Con una fitta di adrenalina che le faceva correre
il cuore a mille e contorcere lo stomaco, alzò il viso verso
l'alto, pronta a fronteggiare l’attacco della Munroe, invece si
accorse un po’ sconcertata che sopra di lei c’era solo il
cielo, con il suo ricamo di stelle tremolanti e dorate e la luna piena
che brillava.
Un velocissima macchia scura che si muoveva nella zona periferica del
suo campo visivo le fece voltare la testa verso il tetto
dell’edificio in fondo al cortile, appena in tempo per vedere
Callisto gettarsi su Tempesta e trascinarla al suolo. Mentre guardava
le due donne lottare nel cortile, Medusa si disse sorpresa che
difficilmente lei avrebbe avuto una reazione pronta e decisa come
quella di Callisto. Sarà un’eccellente sostituta mentre io e John saremo via,
pensò. Un sorriso eruppe sulle sue labbra quando le venne in
mente ciò che aveva pensato mentre stava in attesa sulla
collinetta nel bosco, aspettando che Magneto arrivasse e annunciasse al
resto della Confraternita l’imminente attacco ai laboratori
Worthington: “Ancora un paio
di mesi e saranno Callisto e Kid Omega a fare scena a fianco del
capo”. Questa volta ci ho preso in pieno.
Intanto, nel cortile, un gruppo di mutanti della Confraternita si
scagliò contro Bobby, e lui alzò le mani producendo uno
spesso muro di ghiaccio che bloccò brutalmente la corsa dei suoi
assalitori. Sbatterono violentemente contro la parete e caddero al
suolo storditi dall’urto. John scattò in avanti, fissando
il suo ex amico con un espressione rabbiosa e decisa sul viso, ma
Magneto lo fermò.
“Non ancora.” gli disse, e Pyro gli rivolse uno sguardo stupito.
Anche Medusa era un po’ perplessa: perché il capo non
voleva che combattessero? D’accordo, non si fidava di lei, questo
le era ormai chiaro. Ma perché impedire a Pyro di partecipare
alla battaglia, oltretutto in un momento in cui le truppe della
Confraternita erano evidentemente in difficoltà? Che motivo
aveva di dubitare di John, quando lui... Forse ha capito che dopo stanotte ce ne andremo. Forse John gliene ha già parlato. Forse...
In quel momento Magneto si voltò verso di lei e le fissò
il suo sguardo gelido addosso, e il ghiaccio dei suoi occhi piantato
sul suo volto la fece rabbrividire dalla testa ai piedi. Per la seconda
volta in quella nottata, Medusa ebbe paura del suo capo.
“Va’ là dentro.” le disse Magneto. La sua voce
suonava autoritaria e pericolosa. “Trova il ragazzo e
uccidilo.”
Medusa rimase qualche istante immobile e in silenzio, incapace di
credere all’ordine che aveva appena ricevuto. Sì, sapeva
che erano andati fino ad Alcatraz per distruggere la fonte della Cura,
e sapeva che la fonte della Cura era un ragazzino, ma non si era mai
soffermata a pensare a come avrebbero compiuto quella missione. Soprattutto, non aveva mai pensato che Magneto avrebbe affidato proprio a lei, di tutte le persone, il compito di uccidere il ragazzo.
Lo sguardo di Pyro era altrettanto scioccato; evidentemente nemmeno lui
si era aspettato che di quella parte della missione fosse incaricata
Medusa. I suoi occhi passarono dalla sua fidanzata a Magneto, come se
volesse chiedergli di esentare Medusa da quel compito, ma lo sguardo
del comandante supremo della Confraternita era fisso sulla ragazza di
fronte a lui. Medusa si ricordò del giorno della lite con John,
lo stesso giorno in cui Magneto le aveva detto che se era veramente con
lui allora si sarebbe dovuta comportare di conseguenza. E’ un test. Mi sta offrendo un’ultima chance per rientrare a pieno titolo nella Confraternita.
Per una frazione di secondo si domandò cosa doveva fare,
obbedire all’ordine oppure ignorarlo e mandare tutto quanto al
diavolo.
Ricordati di Evie, disse una voce nel suo cervello. Lottare per sopravvivere è un dovere per ognuno di noi.
Staccò gli occhi da quelli di Magneto e guardò John,
cercando di comunicargli con lo sguardo tutto ciò che non poteva
dirgli a parole, per via di tutta quella gente che era lì con
loro, poi si voltò e cominciò a scendere dal ponte,
cercando lo stesso punto buio e riparato da cui erano passati Archlight
e Kid Omega. Il trucco è non pensare, si disse. Affrontiamo
questa cosa un passo alla volta, come con Danielle, e presto
sarà tutto finito, e potrò tornare da John.
Si appoggiò con la mano sinistra a quello che un tempo doveva
essere parte delle mura di difesa del complesso, prima che il Golden
Gate ci atterrasse sopra, e balzò sulla ghiaia. L’urto fu
più violento di quel che si era aspettata, e sentì una
fitta alle ginocchia che le risalì lungo il corpo fino a
stemperarsi nel ventre. Qualcosa dentro di lei sussultò di nuovo.
Medusa si impose di ignorare quella sensazione, e cominciò ad
esaminare attentamente la battaglia che si svolgeva di fronte a lei.
Gli X Men, da soli, stavano affrontando le orde della Confraternita,
ora in seria difficoltà, mentre i soldati sopravvissuti alla
prima ondata di attacco erano raggruppati davanti all’entrata
dell’edificio, bloccandola completamente. Di lì era
impossibile passare; doveva fare il giro del cortile e trovare
un’entrata secondaria, possibilmente senza farsi vedere da uno
degli X Men o dai militari. Certo, avrebbe potuto provare a marciare
attraverso il cortile e ipnotizzare chiunque fosse così
coraggioso, o stupido, da mettersi sulla sua strada; ma c’era
davvero troppa gente lì, e lei non aveva mai utilizzato il suo
potere su così tante persone contemporaneamente. Decise di
optare per un’entrata che fosse un po’ meno ad effetto.
Scivolò nell’ombra gettata dai resti di una jeep caduta
dal ponte e cominciò a seguire il perimetro esterno del cortile,
tenendosi quanto più possibile lontano dalla luce dei lampioni e
dei falò che bruciavano qui e là nel bel mezzo del campo
di battaglia. Vide qualcosa luccicare nell’estrema sinistra del
cortile, a circa una cinquantina di metri da lei, e Medusa si
fermò di colpo e si accucciò dietro la carcassa
accartocciata di una delle torrette, cercando di capire se si trattasse
del lanciafiamme di Pyro che entrava in funzione. Guardando meglio,
però, si accorse che era la pelle di acciaio organico di Colosso
a causare quel barlume di luce che aveva visto. Toccò di nuovo
il profilo del rosario attraverso la tasca dei jeans.
Medusa riprese a camminare cercando di fare il meno rumore possibile,
per non attirare su di sé l’attenzione di uno degli X Men.
Sapeva che i suoi poteri funzionavano anche sui mutanti, ma si rese
conto che preferiva di gran lunga non trovarsi ad affrontare uno degli
appartenenti alla squadra del defunto Charles Xavier.
Cinica, la rimproverò Meredith St.Clair da qualche parte dimenticata della sua anima. Medusa le ingiunse di stare zitta.
Guardò verso l’edificio bianco, e si accorse che per
aggirare il gruppo di soldati di guardia alla porte principali avrebbe
dovuto correre allo scoperto per almeno una decina di metri.
L’angolo di cortile che doveva attraversare era piuttosto lontano
dal punto in cui si stava svolgendo il grosso della battaglia, ma era
ben illuminato dalle luci artificiali che spuntavano dai muri del
palazzo, e se qualcuno avesse guardato da quella parte proprio nel
momento in cui Medusa lasciava il suo nascondiglio nell’ombra per
correre verso l’edificio difficilmente sarebbe riuscita a passare
inosservata.
Medusa guardò verso il centro del cortile, e vide Wolverine e
McCoy che combattevano fianco a fianco, e di nuovo si stupì per
la destrezza e l’agilità del suo ex professore di scienze.
La Munroe volteggiava a qualche metro dal suolo, scagliando fulmini a
destra e a manca, e Colosso era ancora dove l’aveva visto
l’ultima volta, nel punto più lontano del cortile,
impegnato a lottare contro un gruppetto piuttosto numeroso di mutanti
della Confraternita. Non riuscì però a scorgere né
Bobby né la ragazza bassa e bruna. Dopo un attimo di esitazione,
decise di tentare comunque. Aveva già perso abbastanza tempo.
Balzò fuori dal buio e si mise a correre più velocemente
che poteva verso il muro laterale dell’edificio, pronto a
inghiottirla nella sua ombra e a offrirle riparo. Se riesci ad arrivare a quel maledetto muro è fatta, si disse. Scommetto che tutti i soldati di guardia all’edificio si trovano ora nel cortile principale. Chissà per quale motivo, le venne in mente Danielle.
Mancavano non più di sei o sette passi alla sua meta, quando
qualcosa di duro e gelido, molto simile ad una palla di neve, la
colpì con forza su una spalla. L’urto non fu tanto
violento da farla cadere, ma la costrinse a fermarsi per non perdere
l’equilibrio, e Medusa fece una giravolta su se stessa,
più veloce che le riusciva, per fronteggiare il suo assalitore.
Bobby era in piedi di fronte a lei, ad una distanza di circa quindici
metri. Indossava una di quelle tute aderenti di pelle nera che
costituivano l’uniforme degli X Men, e che lei trovava talmente
kitch. Millenni prima, quando ancora frequentava l’Istituto e
aveva partecipato al programma di inserimento negli X Men (dio,
l’aveva fatto, l’aveva fatto davvero, era stata sul punto
di diventare a pieno titolo una di loro, ma com’era possibile?),
non le era mai piaciuto indossarle. La facevano sentire parte di una
sorta di ballo in maschera.
“Ma perché non possiamo andare in giro vestiti come
diavolo ci pare?” ripeteva ogni volta che uscivano dagli
spogliatoi e si dirigevano alla camera speciale. “Mica siamo
l’esercito.”
Bobby la fissava come se avesse appena bestemmiato. “Siamo una squadra, Meredith.” le rispondeva.
Stanotte, invece, Bobby non la guardava affatto. Teneva gli occhi
bassi, e per un momento Medusa non capì il perché. Santo dio, ma come è possibile che gli faccio così paura? si domandò. Poi ricordò che Bobby sapeva, e di certo non era uno stupido.
“Ciao, Meredith.” disse, sempre fissandosi le scarpe.
Medusa esaminò il suo tono. Non c’era nessuna sfumatura di
ostilità, per cui si sentì in diritto di fare un
po’ di conversazione.
“Dov’è Rogue?” domandò. Anche se era
rivolto verso il terreno, Medusa vide il viso di Bobby contorcersi in
una smorfia di rabbia.
“Non è divertente, Meredith.” le ringhiò.
“Beh, non voleva essere divertente, voleva essere una
domanda.” replicò lei, colta di sorpresa dalla reazione di
Bobby. “E comunque io non sono Meredith.”
Il ragazzo bruno di fronte a lei fece per alzare gli occhi, ma poi
tornò a fissare la ghiaia ai suoi piedi. Medusa maledisse
l’occasione che aveva perso. Andiamo, Bobby, andiamo. Sai bene che non puoi farcela.
“Va bene, Medusa, allora.” disse Bobby, la sua voce di
nuovo calma e ferma, e serrò per una attimo le mani.
“Medusa, vieni via di lì.” le ordinò.
Medusa rimase qualche secondo a fissarlo in silenzio. “No,
Iceman, credo proprio che rimarrò dove sono.” rispose
infine. “Anzi, sei tu che dovresti andartene.”
“Non se ne parla proprio, Meredith.” La voce di Bobby era
leggermente più alta questa volta, e Medusa provò una
ondata di stizza a sentirlo rivolgersi di nuovo a lei con il suo
vecchio nome. Gli occhi di lui si spostarono da un punto
all’altro sulla ghiaia, e Medusa si domandò che diavolo
stesse facendo. “Non ti permetterò di entrare in quel
edificio.”
Le sfuggì un sorriso. “E come pensi di fare, Bobby? Io ti
posso guardare, tu no. Direi che è un bello svantaggio.”
Bobby sembrò di nuovo seguire con gli occhi qualcosa sul
terreno, e Medusa capì. Stava seguendo la sua ombra.
Improvvisamente prese coscienza del peso del rosario nella tasca dei
suoi jeans, dei suoi grani duri e tondi premuti contro la carne della
coscia, e sentì l’urgenza di andarsene da quel luogo.
“Ascoltami Bobby, se non te ne vai immediatamente, ti giuro che
ti farò del male. Non moltissimo, perché un tempo siamo
stati amici, ma te ne farò abbastanza da impedirti di seguirmi.
Mi hai capito?”
Bobby non replicò. Si limitò a stringere i pugni, lo
sguardo ancora basso, e a muovere velocemente gli occhi sul terreno,
cercando ogni più piccolo spostamento della sua ombra. Medusa
sentì di nuovo l’adrenalina scorrerle nel corpo, e i
muscoli delle gambe e delle braccia che si flettevano da soli. Un
secondo prima che Bobby la investisse con un’ondata di ghiaccio,
Medusa riuscì a balzare via dal punto in cui stava e rotolare a
terra fino alla torretta che giaceva abbattuta al suolo. La
colpì con la spalla sinistra, producendo un rumore piuttosto
forte, e Bobby si voltò verso di lei, lo sguardo sempre basso, e
di nuovo le diresse contro un getto di ghiaccio, questa volta
però mancandola di due o tre metri buoni.
Medusa ne approfittò per strisciare dietro la torretta e pensare
a come liberarsi di Iceman. Il ragazzo era in gamba, più in
gamba di quello che si era aspettata: era riuscito ad assestare due
colpi pericolosi facendosi guidare solo dall’ombra che Medusa
gettava e dal rumore che lei aveva fatto quando aveva sbattuto contro
la torretta d’acciaio. Ma è cieco. Non può alzare gli occhi se di te, perché sa bene che se lo facesse sarebbe la sua fine.
Bobby, evidentemente cercando di farla uscire allo scoperto,
cominciò a gettare ondate di ghiaccio a caso. La mano di Medusa
si appoggiò nuovamente sul suo ventre, e lei provò
un’ondata di furia travolgente contro di lui, un odio che non
aveva mai provato prima in vita sua. Portalo
accanto al muro del cortile, dove c’è buio e lui non
potrà vedere la tua ombra. Portalo là e fallo a pezzi.
Si alzò in piedi, incurante del rumore che avrebbe potuto
attirare Bobby dalla sua parte, e gli diresse contro un’onda di
energia psichica. Il ragazzo, però, l’aveva sentita
muoversi ed era riuscito ad individuare la sua posizione. Riuscì
a gettarsi di lato ed evitare il grosso del colpo scagliatoli contro da
Medusa, ma lei si accorse che era comunque riuscita a ferirlo, seppure
di striscio, ad una gamba. Si mise a correre e lasciò il suo
rifugio dietro la torretta prima che Bobby avesse il tempo di
riprendersi dal suo attacco e potesse rispondere a sua volta, e mentre
era ancora in movimento lanciò un’altra ondata di energia
psichica, che fu fermata da Iceman grazie ad uno spesso muro di
ghiaccio.
Medusa colse l’occasione al volo. Vide un grosso pezzo di
lamiera, probabilmente un tempo parte del parapetto del Golden Gate,
giacere abbandonato accanto al muro del cortile, dieci o quindici metri
dietro Bobby che ancora si faceva scudo con la sua parete di ghiaccio.
Troppo occupato a seguire i movimenti di Medusa attraverso la
superficie translucida e deformante del muro, non si accorse del pezzo
di ferro che viaggiava verso di lui ad altissima velocità.
L’impatto fu così violento che Iceman fu scagliato
attraverso la parete che lui stesso aveva creato e rimbalzò un
paio di volte sulla ghiaia del cortile, prima di fermarsi a pochi passi
da dove stava Medusa. Lei avanzò verso il corpo insanguinato del
ragazzo, decisa a sferrargli il colpo di grazia.
Bobby giaceva sulla ghiaia con il viso rivolto verso il terreno, il
volto e le mani tagliuzzati in più punti. Quando sentì la
sua avversaria avvicinarsi tentò di tirarsi su appoggiandosi sui
gomiti, ma poi ripiombò a terra, ansimando per la sofferenza che
quello sforzo gli aveva causato. Provando una sorta di disgusto a
vederlo steso al suolo così vulnerabile e inerte, Medusa gli
sferrò un calcio nelle costole e lo voltò sulla schiena.
Bobby gemette ad occhi chiusi e rimase immobile, come se solo respirare
assorbisse tutte le sue energie. Medusa fece di nuovo librare in aria
il pezzo di lamiera che giaceva a qualche metro da loro, vicino ai
frammenti del muro di ghiaccio che già cominciavano a
sciogliersi, e lo portò sopra il punto in cui giaceva Iceman.
Lui tenne gli occhi chiusi, ma voltò la testa di lato, come se
sentisse il peso della lastra di acciaio che galleggiava
nell’aria qualche metro sopra di lui. Medusa alzò la
lamiera ancora di qualche centimetro. Addio, Bobby.
Tutto ad un tratto si rese conto che il suo cuore aveva rallentato, e
che i muscoli del suo corpo non erano più in tensione. Si
sentiva stanca adesso, certo, e anche un po’ ammaccata, ma sapeva
che quelle sensazioni erano dovute più che altro
all’adrenalina che si ritirava dal suo sistema nervoso. Il suo
corpo sapeva che il combattimento era finito. Fissò di nuovo
Bobby, vide uno spesso rivolo di sangue colargli dai capelli sulla
ghiaia, e sentì, non immaginò di sentire, proprio
sentì, il rumore che avrebbe fatto quel pezzo di lamiera quando
sarebbe caduto sul corpo del ragazzo e gli avrebbe sfondato il cranio.
Sopraffatta dall’orrore, Medusa girò di scatto la testa di
lato e fece posare dolcemente la lastra a terra, vicino al muro del
cortile. “Vai a casa, Bobby.” disse al ragazzo disteso di
fronte a lei, poi gli voltò le spalle e si mise a correre verso
il muro laterale dei laboratori. Mentre si allontanava, Medusa
sentì Bobby mormorarle qualcosa, ma lei non si fermò a
dargli retta. Aveva altre cose a cui pensare. Sembrava che nessuno
avesse fatto caso al combattimento tra lei e Iceman, ma presto o tardi
uno degli X Men si sarebbe accorto del corpo che giaceva inerte in
quell’angolo remoto di cortile, e si sarebbe messo a darle la
caccia. Doveva trovare il ragazzo più in fretta che poteva.
Medusa girò l’angolo dell’edificio, e tirò un
sospiro di sollievo quando l’ombra l’avvolse di nuovo,
offrendole rifugio. Vide, a circa venti metri di distanza, una luce
proveniente dall’interno della costruzione trafiggere
l’oscurità della notte, e vi si diresse di corsa. Fu
felice di constatare che aveva visto giusto: la luce proveniva da una
porta spalancata, probabilmente utilizzata da Archlight e Kid Omega per
penetrare nel palazzo dell’ex prigione. Sulla soglia giaceva il
cadavere di un militare, il corpo e i vestiti trafitti da migliaia e
migliaia di piccoli buchi. Assomigliava ad un grosso puntaspilli. Kid
Omega è di certo passato di qui, si disse Medusa.
Appena varcata la porta, però, sentì una fitta tremenda
all’addome, talmente forte che dovette afferrare lo stipite
d’acciaio dell’entrata per non crollare a terra. Medusa si
mise una mano sul ventre, spaventata, e improvvisamente tutto davanti
ai suoi occhi divenne nero. Le ci volle tutta la sua forza di
volontà per non svenire. Poi, improvvisamente come era apparso,
il dolore scemò e lei potè tirarsi su, perplessa e
impaurita. Con la punta delle dita si massaggiò delicatamente il
grembo, cercando di capire cosa era successo, ma le sembrò che
fosse tutto come prima. Fece cautamente un passo in avanti,
aspettandosi che il dolore l’assalisse di nuovo, ma non accadde
niente di simile e Medusa si incamminò lungo il corridoio
illuminato.
Si guardò intorno: i muri di cemento armato erano grigi e
spogli, e le lampade al neon che pendevano dai soffitti assomigliavano
molto a quelle che Medusa aveva visto nella sala d’attesa del
consultorio. Probabilmente si trovava in una zona secondaria dei
laboratori, l’area dei magazzini o qualcosa di simile.
Ricordò Callisto riferire a Magneto che il ragazzo si trovava
nell’ala sud-est del palazzo, ma in questo momento lei non aveva
la più pallida idea di quale fosse l’orientamento
dell’edificio, figurarsi se sapeva dov’era l’ala
sudorientale. Quando arrivò ad una biforcazione del corridoio,
Medusa decise con un’alzata di spalle di inoltrarsi nella parte
di sinistra, che le sembrava portasse verso il cuore
dell’edificio. La gente nasconde sempre le cose più
importanti nei luoghi più difficilmente raggiungibili
dall’esterno.
Bingo, si disse quando il
cemento armato lasciò spazio ad un delicato stucco color panna.
Anche le condizioni del pavimento e dei lampadari le sembrarono
migliorare man mano che camminava, e Medusa cominciò ad aprire
le porte bianche che si affacciavano sul corridoio, sperando di trovare
la stanza in cui tenevano il ragazzino. Trovò solo laboratori e
uffici, e stava cominciando a innervosirsi seriamente quando da dietro
l’angolo arrivò un grido.
“No! No! Vi prego, non lo fate!”
Medusa corse in direzione di quella voce e vide Archlight, che insieme
ad un’altra mutante della Confraternita, la ragazza asiatica con
le extension viola nei capelli che si chiamava Psylocke, stava
trascinando un uomo alto e con i capelli bianchi lungo il corridoio.
Appena videro arrivare Medusa si fermarono di colpo, e da dietro il
gruppetto sbucò Kid Omega, un sorriso che gli illuminava il
volto da orecchio a orecchio.
“Ehi, indovina?” disse il ragazzo indicando l’uomo
che tremava stretto tra Archlight e Psylocke. “Questo stronzo
è il fenomeno che ha inventato la Cura.”
Medusa studiò con attenzione l’uomo in completo blu scuro
che stava in piedi davanti a lei. I suoi vestiti, che pure avevano
l’aria di essere molto costosi, ora gli pendevano addosso
stazzonati e sgualciti, e i suoi capelli bianchi erano incollati alla
testa dal sudore che gli colava copioso sulla fronte. I suoi occhi
castani, ingigantiti dalla paura e dall’ansia, si muovevano come
impazziti, cercando di leggere il volto della ragazza di fronte a lui.
Medusa sorrise. “Ma non mi dire.” sussurrò, e mise la mano destra sugli occhi dell’uomo.
Migliaia e migliaia di immagini appartenenti ad una vita non sua
cominciarono a vorticarle nel cervello. Era come cercare di distinguere
qualcosa guardando fuori dal finestrino di un’auto che corre
lungo l’autostrada a trecento chilometri all’ora. Medusa
vide un’enorme grattacielo di vetro formarsi davanti ai suoi
occhi, il sole che si rifletteva nelle sue finestre lucide, poi
l’immagine cambiò, e apparve un bambino biondo che
singhiozzava davanti ad un grosso specchio, e in un istante il bambino
divenne un ragazzo in piedi nel centro di quello che sembrava uno
studio medico, e santo dio, erano ali quelle che spuntavano dalla sua
schiena? Medusa cercò di trovare l’informazione che le
serviva in mezzo a quella sequela di forme e di colori, ed infine nella
sua mente si formò l’immagine del corridoio in cui si
trovavano ora. Galleggiò a mezz’aria sopra le piastrelle
verde pisello del pavimento come se fosse priva di corpo, poi
volò in avanti, veloce, sempre più veloce, finché
il corridoio non si biforcò. Prese a sinistra, poi a destra, poi
ancora a sinistra, le pareti color panna che le sfrecciavano accanto
come confuse macchie di colore, e si trovò di fronte a una porta
bianca.
Jimmy.
Medusa tolse la mano dagli occhi dell’uomo e fece un passo
indietro. “Jimmy.” mormorò senza nemmeno rendersene
conto, mentre gli ultime immagini provenienti da quella mente estranea
le si riverberarono nel cervello prima di scomparire del tutto. Quando
sentì la voce di Medusa pronunciare quel nome, l’uomo con
il completo blu spalancò gli occhi e cercò di lanciarsi
verso di lei, ma Psylocke e Archlight glielo impedirono. Kid Omega
iniziò a ridacchiare: con tutta evidenza non aveva capito un
accidente di quello che era appena successo, ma gioiva nel vedere che
stava procurando così tanta angoscia al loro prigioniero.
“Lascialo stare!” gridò l’uomo rivolto a Medusa. “E’ solo un ragazzino!”
Medusa dovette reprimere la voglia di mollargli un ceffone. “Come
se te ne fregasse qualcosa.” sibilò guardandolo dritto
negli occhi, e l’uomo tacque di colpo. Il suo corpo si
rilassò completamente, e dal suo volto teso scomparve ogni
espressione. Archlight e Psylocke le rivolsero uno sguardo pieno di
stupore, ma Medusa non riuscì proprio a sentirsi lusingata. Le
prime fitte della sua emicrania da gravidanza stavano cominciando ad
assalirla.
“Hai ancora bisogno di lui?” chiese Kid Omega, ancora
ghignando. “E’ in ritardo per la sua lezione di volo.”
Medusa chiuse gli occhi e alzò la mano destra per massaggiarsi
la tempia. “No, potete portarlo via.” rispose stancamente.
“Non ho utilizzato molta energia, perciò fate attenzione.
Si risveglierà presto.”
Sperò che i tre se ne andassero in fretta, così lei
avrebbe potuto trovare il ragazzino (Jimmy, così si chiamava), e
farla finita con tutto quanto. Kid Omega, però, non si mosse.
“Stai bene?” le domandò.
Medusa si sentì improvvisamente esasperata. “Sì,
sì, maledizione!” gli gridò contro. “Te ne
vuoi andare?”
Kid Omega la guardò offeso, poi si voltò verso le due
ragazze, che avevano osservato l’intera scena senza dire una
parola, e mormorò loro qualcosa. Il gruppetto si mise in marcia
verso la direzione dalla quale proveniva Medusa, l’uomo col
vestito blu che trascinava fiaccamente i piedi e guardava per terra con
la testa che gli ciondolava sulle spalle, e Kid Omega lanciò un
ultimo sguardo risentito verso Medusa mentre le passava a fianco.
Lei si mise a correre ancora prima che i tre giovani e il loro
prigioniero voltassero l’angolo, decisa a trovare Jimmy il prima
possibile. Sapeva che con tutta probabilità anche gli X Men
presto avrebbero avuto la stessa idea, sempre che uno dei loro non
fosse già dentro l’edificio.
E cosa farai quando avrai trovato il ragazzo, eh? Quello che stavi per fare a Bobby?
le domandò una voce maligna invadendo i suoi pensieri. Medusa
continuò a correre, cercando di ignorare quella sensazione di
orrore e paura che le stava opprimendo il petto, ma non ci
riuscì. Aveva quasi ammazzato Bobby, uno di quelli che neppure
troppo tempo prima era stato uno dei suoi migliori amici, anzi, uno
degli unici amici che aveva avuto in tutta la sua vita.
Voltò bruscamente a sinistra, seguendo il corridoio, e davanti
agli occhi le balzò l’immagine di Bobby in piedi
nell’atrio della scuola, il giorno in cui lei era arrivata
all’Istituto da Baltimora. Le era andato incontro e le aveva
stretto la mano con un sorriso. “Benvenuta nell’Istituto
Xavier.” le aveva detto, e poi l’aveva accompagnata a
visitare la villa. Quando aveva visto la sua espressione disorientata
all’ennesimo corridoio che si divideva, Bobby aveva riso e le
aveva messo una mano su una spalla. “Non preoccuparti, Meredith,
tutti noi ci siamo persi all’inizio. Ma poi ti ci abitui.”
le aveva detto con un sorriso rassicurante. “Se dovessi avere
bisogno di qualcosa, puoi sempre chiedere.”
Medusa continuò a correre lungo il corridoio color panna dei
laboratori Worhington, il peso sul suo cuore sempre più
intollerabile; era talmente opprimente, ormai, che le sembrava di non
riuscire a respirare. Aveva quasi ammazzato Bobby schiacciandogli la
testa sotto una lamiera di acciaio di due quintali. Bobby, che era
stato il primo ad alzarsi per abbracciarla quando aveva saputo della
morte di Evie.
Alex Hagen aveva ragione su di te. Tu sei un mostro,
le disse di nuovo la voce mentre il corridoio svoltava bruscamente a
destra, e Medusa vi si gettò senza pensarci due volte. Sapeva di
essere vicina alla sua meta ora. Un essere orribile come te non se la merita una cosa bella e pura come un bambino.
Girò di nuovo a sinistra quando il corridoio si biforcò,
e appena sorpassò l’angolo la vide. Sul muro in fondo alla
stanza, a circa venti passi da lei, c’era la porta bianca che
aveva scorto nella mente di Worthington. Il suo cuore cominciò a
battere all’impazzata, ancora più violento e rapido che
durante il suo combattimento con Iceman. Medusa si fermò di
colpo, ansimante e sudata per la corsa, e rimase immobile a fissare la
porta. Avrebbe dovuto gettarsi nel fuoco ancora quest’ultima
volta, sopportare il calore delle fiamme e il bruciore delle ustioni e
arrivare fino all’altra parte, dove avrebbe potuto riabbracciare
John.
Si infilò la mano in tasca e strinse il rosario con tutta la
forza che aveva. Il dolore la risvegliò, delineandole di nuovo
lucidamente la sua missione. Doveva eliminare il ragazzino, se voleva
che tutto quel delirio della Cura avesse fine, e che gli umani non si
sognassero mai più di creare qualcosa in grado di cancellare i
mutanti dalla faccia della terra. La sua mano rilasciò
lentamente il rosario e Medusa trasse un lungo respiro senza staccare
mai gli occhi dalla porta bianca davanti a lei. Jimmy doveva morire, se
voleva che il giorno in cui finalmente i mutanti avrebbero potuto
smettere di lottare per sopravvivere fosse un po’ più
vicino. La voce che le aveva parlato poco prima tentò di
controbattere, ma Medusa non glielo permise. Zitta! Zitta, stai zitta! le ingiunse, e quella si ritirò senza più pronunciare una sillaba.
Cominciò ad avanzare verso la porta provando dentro di sé
una nuova sensazione. Si sentiva calma e risoluta ora, come se quello
che stava per fare fosse stato già deciso millenni prima della
sua nascita da qualcuno più in alto di lei e facesse parte di
una sorta di piano cosmico che trascendeva la sua comprensione, ma in
cui Medusa aveva cieca fiducia.
Raggiunse la porta bianca e alzò la mano destra per aprirla.
Appena le sue dita toccarono il metallo della maniglia, però,
una voce che le suonava famigliare, anche se lei non la riconobbe
immediatamente, le parlò da dentro la sua anima. Questa
volta camminare nel fuoco ti farà molto male, Meredith. Molto,
molto più di quanto ti abbia mai fatto finora. Questa volta la
cicatrice ti rimarrà addosso, e sfigurerà il tuo volto
per sempre.
Medusa spalancò gli occhi. Sei davvero tu, papà?
domandò, ma non ebbe risposta. Rimase in attesa ancora qualche
secondo, aspettando che quella voce le parlasse ancora, ma ci fu solo
silenzio. Togliendosi di nuovo una ciocca o due di capelli ricci dalla
fronte, Medusa abbassò la maniglia ed entrò nella stanza.
I muri, il soffitto, persino il pavimento erano coperti di lucidi
pannelli di plastica bianca. Solo una piccola e stretta finestra,
simile alla feritoia di un castello medioevale, si apriva nella parete
di destra; per il resto, erano solo le lampade al neon che pendevano
dal soffitto a dare luce alla stanza. Davanti a lei c’era un
letto con una vivace coperta gialla e verde, e, a fianco del letto,
rispettivamente a sinistra e a destra, c’erano una cassettiera
colorata e un comodino con sopra una lampada a forma di cane. Vari
giocattoli erano sparsi sul pavimento immacolato, e in un angolo
c’era un piccolo televisore e l’ultimo modello della
Playstation. Guardandosi in giro, il primo pensiero di Medusa fu che
quella stanza le ricordava la gabbietta di un criceto.
“Non fargli del male.” le
aveva gridato quel vecchio ipocrita bastardo di Worthington. Una cavia
da laboratorio, ecco che cos’era questo Jimmy. Una cavia da
laboratorio che gioca con i videogame, d’accordo, ma pur sempre
un animaletto su cui fare degli esperimenti. Un sorriso sarcastico
piegò le labbra di Medusa. Lo credo bene, che Worthington era così disperato all’idea di perdere il ragazzo, si disse. Chissà quanti soldi ci avrà fatto, vendendo al governo quella dannatissima Cura.
Improvvisamente qualcosa che si muoveva accanto al comodino
catturò la sua attenzione. All’inizio non l’aveva
notato, perché indossava una specie di tuta dello stesso colore
del muro e del pavimento, ma c’era un ragazzino che si acquattava
contro la parete e tremava come un ossesso. Medusa lo guardò
mentre si metteva le braccia sopra la testa in cerca di protezione, e
la sua memoria le proiettò davanti agli occhi l’immagine
di un soldato che puntava il suo fucile in faccia ad un bambino, nei
corridoi dell’Istituto Xavier. Scacciò quel pensiero dalla
sua testa e fece un passo avanti.
“Jimmy.” chiamò.
Il ragazzino alzò la testa dalle ginocchia e la guardò,
evidentemente sorpreso che quella donna nemica conoscesse il suo nome.
Non sembrava avere più di dodici o tredici anni, e Medusa
sospirò. Aveva sperato che fosse più grande. Gli occhi
verdi di Jimmy erano spalancati per il terrore, e le labbra gli
tremavano come se stesse per scoppiare a piangere da un momento
all’altro. Notò che lo avevano rasato a zero, e Medusa si
rammaricò di non aver schiaffeggiato Worthington. Era davvero il
minimo che meritava.
Decisa a non sprecare altro tempo, avanzò veloce verso il
ragazzo e Jimmy tornò a coprirsi il viso con le braccia, in
cerca di un riparo che comunque non gli sarebbe servito. Medusa lo
afferrò per la maglietta e lo scosse, obbligandolo a guardarla,
e Jimmy alzò gli occhi su di lei, troppo terrorizzato per
tentare di scappare o anche solo per implorarla di non ucciderlo.
Rimase muto, i suoi enormi occhi verdi fissati in quelli grigi di
Medusa, e una lacrima gli rigò il volto.
Medusa strinse più forte i pugni nella sua maglietta.
“Vattene.” gli disse. Un’espressione di vago stupore
si mischiò alla paura nel volto di Jimmy, e le sue labbra si
dischiusero, forse cercando di dire qualcosa, ma Medusa non gliene
lasciò il tempo. Lo scosse di nuovo. “Vattene.”
ripeté, la sua voce piena di collera e di astio. “Sparisci
per sempre. Dico sul serio. Emigra in Antartide, arruolati nella
Legione Straniera, ritirati in un monastero sull’Himalaya,
suicidati, se devi, ma non farti mai più vedere. Giuro se dio,
Jimmy,” cercò gli occhi del ragazzo. “se ti incontro
un'altra volta, o se anche solo sento qualcuno sussurrare il tuo nome,
ti vengo a cercare e ti uccido. Sono stata chiara?”
“Sì.” mormorò il ragazzino in un soffio. Sembrava stesse per svenire da un momento all’altro.
Medusa si alzò lentamente in piedi, i suoi occhi grigi sempre
fissi sul ragazzino davanti a lei. Jimmy, ancora rintanato nel suo
cantuccio, le restituì lo sguardo in silenzio, il viso dello
stesso colore dei suoi vestiti. Non c’era il minimo dubbio che
avesse compreso la serietà della promessa fattagli da Medusa.
Lei si voltò lentamente e si incamminò verso la porta, la
mano destra infilata nella tasca dei jeans. “Ti auguro ogni bene,
Jimmy.” disse mentre attraversava la soglia.
Non si diede nemmeno la pena di richiudere la porta una volta tornata
in corridoio, occupata com’era a tenere a bada quella sensazione
di panico mista a rabbia verso sé stessa che l’aveva
assalita non appena aveva lasciato Jimmy a tremare nel suo cantuccio.
Come avrebbe potuto spiegarsi davanti a Magneto, e soprattutto davanti
a John? Come avrebbe potuto guardare in faccia i suoi compagni della
Confraternita, e dir loro che i loro commilitoni vittime della Cura e
assassinati dai loro nemici erano caduti invano, e solo perché
lei era troppo vigliacca per affrontare il fuoco e portare a termine la
missione per la quale erano venuti fino ad Alcatraz?
Che fine hanno fatto tutti i tuoi bei
discorsi sull’obbligo alla sopravvivenza e sulla necessità
di combattere per un domani migliore? si rimproverò
mentre, senza nemmeno pensare a dove volesse davvero dirigersi, si
incamminava nel lungo corridoio color panna che l’aveva portata
fino alla stanza di Jimmy. Una fitta di angoscia e di paura le
attraversò lo stomaco, e Medusa si appoggiò con una mano
alla parete, sentendosi improvvisamente troppo spossata per procedere
ulteriormente. Chiuse gli occhi per qualche istante e la mano che non
era impegnata a sorreggersi al muro si alzò fino a sfiorare le
sue palpebre chiuse, scendendo poi sulle guance e sul collo. Una
polverina sottile le coprì le dita, e Medusa aprì di
scatto gli occhi per esaminarla con cautela, strofinando insieme i
polpastrelli di indice e pollice.
Si rese conto che doveva essere la polvere che le era rimasta addosso
quando si era rotolata a terra, per sfuggire al getto di ghiaccio che
Bobby le aveva diretto contro. Questo è sopravvivere. Quella
frase le balzò nel cervello senza alcun preavviso, e Medusa
smise di occuparsi della polvere per seguire il filo dei suoi pensieri,
curiosa ed insieme spaventata per come la cosa avrebbe potuto
evolversi. Rifiutarsi di entrare nel
fuoco per non farsi consumare il corpo dalle fiamme è un atto di
sopravvivenza piuttosto deciso.
Quella frase sembrò infondere nuova energia nel suo corpo
esausto. Medusa alzò la testa, raddrizzò le spalle e
ricominciò a camminare lungo il corridoio, decisa a lasciare
prima che poteva quell’edificio. Worthington è morto, si disse Medusa mentre svoltava nella sezione di corridoio in cui aveva incontrato Kid Omega e le ragazze. E
gli X Men verranno a prendersi il ragazzo. Lo porteranno al sicuro
nell’Istituto e non permetteranno che il governo lo usi ancora
per la sua guerra contro i mutanti. Medusa sorrise di nuovo
pensando a quanti mutanti terrorizzati e abbandonati la scuola di Salem
Center aveva offerto rifugio. Concesse all’immagine di Meredith
St.Clair di apparire un’ultima volta nella sua mente così
com’era il giorno in cui era scesa dall’auto che
l’aveva portata da Baltimora all’Istituto, la vide nei
vestiti che i Jackson le avevano comprato al discount per pochi
dollari, mentre stringeva la maniglia della sua valigia e guardava
nervosamente le pareti esterne della villa, coperte da uno strato
spesso di edera verde scuro. Medusa si meravigliò per tutta la
strada che aveva percorso da quel giorno: chi avrebbe potuto dire, a
quel tempo, che le cose sarebbero andate così? Eppure eccomi qui, si disse. E forse, magari in un giorno non troppo lontano, potrò tornare ad essere Meredith.
I muri color panna del corridoio scomparvero per lasciare spazio al
nudo cemento e Medusa esultò, sapendo di trovarsi vicina ormai
alla porta che aveva utilizzato per entrare nell’edificio, quando
improvvisamente quella che sembrava essere una scossa di terremoto
percorse il palazzo, facendo tremare i muri e il pavimento. Una sottile
polvere di cemento e scaglie di intonaco si staccarono dal soffitto e
caddero a terra a pochi passi da dove si trovava Medusa, e lei
alzò gli occhi verso l’alto, preoccupata. Certo, siamo in una zona sismica, ragionò. Ma
ehi, un’invasione di mutanti e un terremoto nella stessa sera?
Qui siamo ben oltre il calcolo delle probabilità. Di
nuovo la costruzione dei laboratori tremò, e da fuori provenne,
chiaro e distinto, il rumore di un’esplosione, seguito da quelle
che avrebbero potuto essere grida, oppure una fortissima raffica di
vento.
Si mise a correre più che poteva, cercando di guadagnare
l’uscita, il cuore che le batteva impazzito nel petto e lo
stomaco ormai ridotto ad un nodo inestricabile. Raggiunse la porta e
praticamente saltò via il cadavere del soldato che ingombrava la
soglia, ritrovandosi nel tratto tranquillo e buio di terreno che
costeggiava la parte laterale dei laboratori. Sentì dei rumori
provenire dal cortile principale, urla ed deflagrazioni unite al
cigolio sinistro dell’acciaio che si piegava e si spezzava, e
Medusa si diresse di corsa da quella parte. Il suo primo pensiero fu
che Magneto aveva perso la testa e stava distruggendo ogni cosa.
Mentre correva, si rese conto però che c’era
dell’altro, oltre le urla e le esplosioni e il gemito del
metallo. Era qualcosa che assomigliava al fruscio della sabbia
trasportata qua e là dal vento; Medusa non l’aveva mai
sentito prima, ma lo collegò al rumore di un tornado, o di un
uragano, ma subito cancellò quell’idea, dicendosi che non
si trovavano né nella zona né nella stagione adatta per
quei fenomeni.
La prima e ultima cosa che riuscì a vedere appena arrivò
nel cortile, attraverso l’inferno di polvere e terra che
mulinavano trasportati dal vento, fu il profilo di Jean Grey che si
librava a mezz’aria nel punto in cui Medusa aveva visto per
l’ultima volta Pyro e Magneto. L’angoscia e il terrore la
stritolarono, e senza nemmeno rendersene conto scattò in avanti,
intenzionata a raggiungere il ponte. Riuscì a fare un passo
soltanto, poi l’uragano la investì e la scagliò
lontano. Medusa chiuse gli occhi quando sentì il suo corpo
librarsi in aria, e cercò di portarsi una mano al volto per
impedire al pulviscolo di entrarle nel naso e nella bocca, ma fu tutto
inutile. La violenza del vento le impediva di respirare, e Medusa
cominciò a farsi prendere dal panico, temendo di morire
soffocata, ma poi il suo volo finì (una parte del suo cervello
le disse che dovevano essere passati solo pochi secondi, ma a Meredith
sembrò che quel supplizio fosse durato una vita) quando
sbattè contro qualcosa e il suo corpo rotolò a terra.
Il dolore dell’impatto fu talmente forte che Medusa non
riuscì nemmeno a gridare. Una sensazione di bruciore si diffuse
nel suo addome, così atrocemente dolorosa che Medusa
pensò di essere caduta su uno dei falò che punteggiavano
il campo di battaglia. Tutti i nervi del suo corpo si contrassero
mandando un unico messaggio al cervello che, forse sovraccarico per
tutti i segnali che gli arrivavano nello stesso istante, non
riuscì a concepire una reazione diversa dal raggomitolarsi in
posizione fetale. Quando Medusa ci provò, tuttavia, il dolore
all’addome fu talmente forte che rinunciò immediatamente,
e rimase sdraiata su un fianco, così come era caduta.
Aprì lentamente gli occhi e la prima cosa che vide fu il
terreno, marrone e polveroso, e non la ghiaia che ricopriva il cortile
principale dei laboratori. Doveva essere stata scagliata lontano da
quella forza misteriosa che era esplosa dal corpo di Jean Grey, e
probabilmente ora si trovava da qualche parte vicino alle mura esterne,
dove la ghiaia non arrivava. Guardò più in basso, verso
il punto da cui proveniva il dolore, e vide qualcosa di nero e
appuntito spuntare dal suo corpo. Incapace di capire cosa fosse e cosa
ci facesse in lei, accarezzò quella cosa con la punta delle
dita, e solo quando sentì il freddo del metallo lasciare posto
al tepore del suo corpo capì che una scheggia d’acciaio,
forse proveniente da una delle torrette abbattute che giacevano qua e
là nel cortile, le si era conficcata appena sotto lo sterno.
Qualcosa di caldo e viscoso le imbrattava le dita, e Medusa si
domandò da dove provenisse tutta quell’acqua prima di
rendersi conto che la maglietta e la felpa che indossava erano intrisi
di sangue, e dai suoi vestiti ormai zuppi grosse gocce di liquido denso
colavano sul terreno.
Oh mio dio, pensò Medusa portandosi una mano alla ferita, nel vano tentativo di fermare l’emorragia. Mi sto dissanguando.
Spaventata, alzò la testa alla frenetica ricerca di qualcuno che
la potesse aiutare, ma tutto ciò che riuscì a scorgere
nella penombra fu l’immagine distante di Jean Grey, le falde del
suo lungo cappotto porpora che le svolazzavano attorno come la coda di
un uccello. Il vulcano è esploso, pensò
Medusa, ricordando una conversazione che lei e la dottoressa Grey
avevano avuto tempo prima, quando ancora frequentava l’Istituto e
tutto era l’opposto di come era ora. L’eruzione non può più essere fermata.
Una fitta all’addome le fece digrignare i denti per il dolore e
Medusa guardò di nuovo la scheggia di metallo che le perforava
lo stomaco, ma non era la ferita il punto dal quale si irradiavano le
fitte. Era più in basso, e lei si posò una mano sul
grembo, spaventata. Un altro crampo le tolse il respiro, e poi un
altro, e Medusa sentì qualcosa sussultare e contorcersi dentro
di lei.
No, no, ti prego, no! pensò in preda al panico. Ti prego, fa quello che vuoi a me, ma non fare del male al mio bambino.
Lo sentì staccarsi da lei e scivolare via. Cercò di
opporsi, di trattenerlo in qualche modo, ma fu tutto inutile. Mentre
una lacrima le solcava una guancia, un’ultima contrazione spinse
via dal suo grembo quello che restava del suo piccolo, e poi tutto
dentro di lei fu vuoto, buio e freddo. Medusa chiuse gli occhi e la sua
mano strinse convulsamente il rosario che teneva nella tasca dei jeans.
Ti prego, ti prego, ti prego aiutami!
implorò, senza sapere a chi si stesse rivolgendo con quella
preghiera, se fosse una qualche divinità, o sua madre, o John, o
chiunque altro volesse accogliere quella disperata richiesta
d’aiuto.
Non sapeva di avere ancora la forza di piangere finché altre
lacrime non si unirono a quella che aveva solcato il suo volto pochi
secondi prima, e la sua mano destra emerse dalla tasca con il rosario
di Danielle avvolto attorno al palmo. Medusa la fece correre
delicatamente sul ventre, cercando il suo bambino, ma il gelo che vi
sentì le confermò che lui non era più lì
con lei.
Sentì la testa vorticarle terribilmente e il sapore del sangue
risalirle fino in bocca. Ogni residuo di forza l’abbandonò
e Medusa chiuse di nuovo gli occhi, troppo stanca e troppo debole per
lottare ancora contro quella sensazione di freddo che le stringeva il
corpo. Non sentiva più dolore, ma si disse che persino la
sofferenza atroce che aveva provato era preferibile al ghiaccio che ora
stava ricoprendo il suo corpo centimetro dopo centimetro, irradiandosi
dal suo grembo vuoto. La sua mano strinse di nuovo il rosario, o almeno
ci provò, e mentre un’altra lacrima sfuggiva alle sue
palpebre ed andava a mischiarsi al sangue sul terreno Medusa
pensò che non aveva mai sopportato il freddo, mai. Però sono stata fortunata ad aver incontrato nella vita qualcuno che mi ha dato la sua felpa per scaldarmi,
si disse con un sorriso. Una sensazione di gratitudine e di gioia
l’attraversò, difendendola per qualche secondo dal gelo
che l’attanagliava.
La sua testa ricadde lentamente di lato e lei sospirò. Qualcosa
le costringeva la gabbia toracica, impedendole di espandersi in maniera
efficiente, e respirare si stava facendo più difficile. Merda, morire fa proprio schifo, pensò, e con sorpresa si rese conto che non provava rabbia a quel pensiero, solo rimpianto. Ho
diciassette anni. Diciassette. Ci sono ancora così tante cose
che avrei dovuto fare. Così tante cose che avrei potuto dire. Di
nuovo si stupì di non essere infuriata all’idea di morire
a diciassette anni, ma poi pensò che forse era perché
l’ira è un sentimento che richiede una certa
quantità di energie, e lei non era sicura di averne ancora.
Anche le lacrime che fino a poco prima le solcavano il volto si erano
esaurite, o forse il freddo che la stringeva nella sua morsa le aveva
congelate dietro le sue palpebre.
On the third day he took me to the river
He showed me the roses and we kissed
And the last thing I heard was a muttered word
As he stood smiling above me with a rock in his fist…
“Papà, papà, corri!” gridò Evie.
“Meredith piange!” Medusa aprì di scatto gli occhi,
sobbalzando alla voce di sua sorella. Migliaia di luci le danzarono
nelle pupille come se stesse guardando attraverso un caleidoscopio, e
lei richiuse le palpebre. Evie era in piedi di fronte a lei e la
fissava con uno sguardo preoccupato, i suoi grandi occhi verdi pieni di
lacrime e il labbro inferiore spinto in avanti, come faceva sempre
quando stava per mettersi a piangere. Aveva otto anni, ma
quell’espressione la faceva sembrare ancora più piccola e
fragile.
Meredith continuò a singhiozzare, senza nemmeno curarsi di
asciugare quel fiume di lacrime che le inondava le guancie e le bagnava
la maglietta. Le sue mani strinsero convulsamente il copriletto dei
Looney Tunes, mentre dallo stereo del soggiorno arrivava fino alla
cameretta che divideva con Evie l’ultima strofa della canzone.
On the last day I took her where the wild roses grow
And she lay on the bank, the wind light as a thief
And I kissed her goodbye, said, "All beauty must die"
And lent down and planted a rose between her teeth.
Suo padre apparve sulla soglia, il volto teso in un’espressione
preoccupata. “Meredith...” disse, e poi fece una cosa che
lei non si sarebbe aspettata nemmeno in un milione di anni.
Attraversò velocemente la stanza, scavalcando le Barbie che
giacevano qui e là sul tappeto, si sedette accanto a lei sul
letto e la prese in braccio. “Shhh, tesoro mio, shhh...” le
sussurrò mentre la cullava, accarezzandole i capelli con una
mano e serrandola contro il suo petto con l’altro braccio.
“Non è niente... Vuoi dire a papà perché
piangi?”
Meredith singhiozzò più forte, e premette la fronte
contro la spalla di suo padre. Era arrivata a Phoenix da due mesi, e
aveva cercato in tutti i modi di farsi mandare via. Aveva rotto tutte
le bamboline di ceramica che sua madre teneva sul caminetto con
un’onda di energia psichica. Aveva preso a calci la siepe di
rododendro che cresceva accanto alla porta finché il tronco non
si era spezzato. Aveva spinto Evie in una pozzanghera. Due volte. Ma i
Barrymore la sgridavano, la mettevano in castigo e si ostinavano a
tenerla con loro. Lei li odiava.
“E’ stata la canzone, papà.” disse Evie, la
sua voce rotta dal pianto. Meredith sentì la mano di sua sorella
accarezzarle delicatamente il braccio. “Non piangere, non
piangere Meredith...” la implorò.
“Ti avevo detto di non mettere quell’album quando ci sono
le bambine, John.” Meredith non la poteva vedere, ma
immaginò che sua madre fosse da qualche parte nella stanza,
forse vicino alla porta.
Suo padre la strinse più forte contro di sé.
“Tesoro mio, non devi piangere.” le sussurrò
nell’orecchio mentre le sue mani le accarezzavano dolcemente la
testa e la schiena, cercando di calmare i singhiozzi che ancora la
scuotevano. “E’ solo una canzone, non è una cosa
reale. Non avevo idea che ti avrebbe sconvolta tanto. Non la metteremo
mai più, d’accordo piccola?”
Meredith scosse la testa con forza. “No, non è... Io
non...” mormorò tra i singhiozzi. Non voleva che
rinunciasse a qualcosa per colpa sua, ma non sapeva come dirglielo.
Sollevò le braccia, che fino a quel momento erano rimaste
abbandonate lungo i suoi fianchi con i pugni serrati, e le avvolse
attorno al collo di suo padre. Lui le diede un bacio sulla tempia.
“Va tutto bene, amore mio. Papà è qui con te, e
anche la mamma, e la tua sorellina...” disse spostandole dagli
occhi una ciocca di capelli zuppa di lacrime. Meredith strinse
più forte le braccia attorno al suo collo, pregando che lui non
la lasciasse andare mai. “Papà...” sussurrò
con gli occhi ancora chiusi. Era la prima volta che pronunciava quella
parola. Suo padre le baciò la fronte, poi la punta del naso e le
palpebre, e Meredith aprì piano gli occhi. Il viso di suo padre
era a pochi centimetri dal suo, e la stava guardando con un sorriso
sulle labbra. Le prese il volto tra le mani e spinse indietro i capelli
che le cadevano sulla faccia, poi la attirò a sé e le
baciò nuovamente la fronte. “Sono qui con te, piccolina.
Sarò sempre qui con te.”
“Papà.” chiamò piano Medusa, sdraiata sul
terreno freddo e duro del cortile dei laboratori Worthington,
sull’isola di Alcatraz. Aveva talmente freddo ora che non
riusciva a sentire più il suo corpo; le sue braccia, le sue
gambe, erano solo dei monconi intorpiditi, e per un istante Medusa si
domandò cos’erano quelle cose molli e pesanti attaccate a
lei. Aprì le palpebre, ma questa volta nessuna luce ballò
davanti ai suoi occhi: c’era solo un velo grigio e impalpabile
che copriva ogni cosa, impedendole di vedere. No, non così, si disse. Voglio morire guardando il cielo.
Medusa spostò la mano che ancora era posata sul suo grembo a
terra, o almeno dove presumeva ci fosse la terra, e spinse, gettando
contemporaneamente indietro la testa per buttare tutto il suo peso
dietro di lei. Atterrò sulla schiena e aspettò di sentire
di nuovo il dolore irradiarsi dalla ferita come una lingua di fuoco, ma
invece non successe nulla. Le dita della mano sinistra, che non erano
legate dalla catena del rosario, si piegarono e artigliarono la terra,
cercando un appiglio che le consentisse di sollevare il suo peso e
appoggiarsi al grosso frammento di muro che giaceva a terra pochi
centimetri dietro di lei. Si ricordò della buca che lei e John
avevano scavato per Evie ai piedi della rosa, nel cortile dietro le
cucine giù alla scuola, e sorrise pensando che nessun altro al
mondo conosceva quel segreto, solo loro tre: lei, sua sorella e John.
John. chiamò Medusa in silenzio. E’ maggio ormai. Chissà come sono belle le rose bianche, là nel nostro posto segreto.
Una lacrima solitaria sfuggì alla prigionia del ghiaccio e
percorse la sua guancia, andando a morire sulle sue labbra ancora
piegate in un sorriso. Sarebbe stato tanto bello vederle con te un’ultima volta.
La sua schiena colpì il cemento grezzo del muro più
duramente di quanto si era aspettata, ma stranamente non sentì
alcun dolore, solo la sensazione di avere qualcosa di duro e scomodo
che le urtava le vertebre. Medusa non ci fece caso. Riscaldata dalla
mano di John che stringeva la sua, mentre osservava insieme a lui il
cespuglio di rose bianche ai cui piedi giaceva Evie, Medusa aprì
gli occhi. Il velo che ricopriva le sue pupille era diventato
più buio e più fitto, immergendo tutto quel che restava
del suo mondo nelle tenebre, e lei utilizzò gli ultimi grammi di
forza e di coraggio che le restavano per strappare
quell’oscurità dai suoi occhi e gettarla lontana, dove non
avrebbe più potuto tenerla prigioniera.
Ed eccole, finalmente. Le stelle. Medusa dovette sbattere le palpebre
un paio di volte prima di riuscire a metterle a fuoco e scorgerle nella
seta blu scuro del cielo, lucenti e piene di grazia come migliaia di
piccole farfalle di fiamma. Sembravano osservare dall’alto la
ragazza insanguinata che giaceva in un angolo remoto del campo di
battaglia, e quando le ammiccarono tremolanti Medusa pensò che
forse era il loro modo di dirle che partecipavano al suo dolore, e che
stessero cercando di consolarla. Cercò il disco dorato della
luna piena, e quando lo trovò si strinse forte al petto il
rosario di Danielle. Non voleva rischiare di perderlo quando il suo
corpo si sarebbe rilassato, e le sue dita avrebbero perso presa.
“Papà.” chiamò rivolta verso il cielo,
così piano che nessuno, anche se fosse stato inginocchiato
accanto a lei, avrebbe potuto sentire. “Tienimi stretta
adesso.”
Stremata da quello sforzo, Medusa richiuse gli occhi. Un involontario
sospiro le fuggì dalle labbra mentre la sua testa si reclinava
lentamente di lato, poggiando la guancia contro il cemento ruvido del
frammento di muro.
La guerra era finita.
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Ok. Ok. Calma, adesso.
Prima di sommergere la mia casella di posta con email di insulti, prima
di rendermi cieca e storpia con devastanti maledizioni vudoo, prima di
assoldare una banda di killer ucraini per farmi gambizzare, lasciate
che vi spieghi le mie ragioni.
Non è stato facile fare questo a Meredith. L'ho creata io, le ho dedicato due mesi della mia vita, e le voglio bene. Vi giuro che mentre scrivevo l'ultima parte del capitolo mi veniva da piangere. Ma
io non credo nei lieto fine, e a volte la vita può essere
davvero davvero bastarda, e fregarsene se hai diciassette anni, tutta
la vita per rimediare ai tuoi errori e un bimbo che nascerà fra
sette mesi. Ho cercato un modo per salvarla, ci penso ormai da tre
giorni, ma sono giunta alla conclusione che questa storia non possa
avere un finale differente. Non so spiegarvi il perchè, sento
che deve essere così e basta. Cercate di non odiarmi troppo, se
ci riuscite, e non siate troppo tristi per Meredith.
E poi, gente, stiamo parlando degli X Men, avete presente? Rogue che
risorge quando Wolverine l'abbraccia? Jean Grey che emerge
miracolosamente dalle acque di Alkali Lake? E poi, se ci fate caso, la
parola "morta" non compare da nessuna parte.
Forse Meredith non è morta affatto. Qualche idea mi frulla in
testa, troppo labile per costituire una storia, ma in futuro
chissà? Magari qualche pezzo in più si unirà al
puzzle, e potrò cominciare a scrivere qualcosa di sensato.
Credetemi, anch'io desidero ardentemente che Meredith non muoia.
Comunque, passiamo per un momento a cose pratiche. Ecco la traduzione delle ultime due strofe di "Where the Wild Roses Grow":
VOCE FEMMINILE: [...]"Il terzo giorno mi ha portata al fiume
Mi ha mostrato le rose e ci siamo baciati.
E l'ultima cosa che ho sentito è stata una parola mormorata
mentre lui stava sopra di me con una pietra stretta nel pugno..."
VOCE MASCHILE: [...]"L'ultimo giorno l'ho portata dove crescono le rose selvagge
Lei si è sdraiata sulla riva, il vento leggero come un ladro.
Le ho dato un bacio d'addio, ho detto: "Ogni bellezza deve morire"
Poi mi sono chinato e le ho messo una rosa tra i denti"
Inquietante, eh?
Voglio salutare tutti quelli che hanno letto questo racconto, in particolare joey_ms_86 e Lia, che hanno avuto la bontà di recensire. Lia, come
al solito non so cosa dire, tranne che sei un mito. Grazie per tutto
l'incoraggiamento che mi hai dato. Spero che questo finale non ti abbia
lasciato troppo con l'amaro in bocca.
Ora è arrivato davvero il momento degli addii. Un grosso bacio a
tutti e buona vita! Se la mia vena creativa farà la brava e si
metterà a suggerirmi qualcosa di decente, magari ci sentiremo
ancora.
Un bacione!!!!!
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