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Autore: elsie    09/10/2007    2 recensioni
Seguto di "Into the Fire". John e Meredith si sono ormai lasciati alle spalle i loro nomi e il loro passato e sono diventati Pyro e Medusa, soldati di Magneto nella Confraternita. Ma insieme alla guerra tra umani e mutanti, i due ragazzi dovranno combattere una battaglia molto, molto più importante, e che riguarda loro due soli. AVVISO: in questo racconto si parlerà di aborto. Se non vi sentite di affrontare questo argomento, allora per favore non leggete.
Genere: Romantico, Drammatico, Azione | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Confraternita, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Disclaimer: tutti i personaggi presenti in questo racconto, ad eccezione di Meredith St.Clair/Medusa, che è una mia creazione, appartengono a Stan Lee e Jack Kirby, alla Marvel Comics e alla Twentieth Century Fox.

Benvenuti! Ecco il capitolo conclusivo di "Winning a Battle, Losing the War". E' spaventosamente lungo, lo so, ma non sono riuscita a fare altrimenti. Anche volendo dividerlo in due parti, non ho trovato un punto di stacco da cui tirare fuori un eventuale capitolo 9 senza ridurlo ad uno schifo. Se arrivate vivi fino alla fine ^^ vi aspetto per gli ultimi saluti... sigh...

Buona lettura!

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Gli X Men si stavano battendo con valore, e il fatto di trovarsi in una posizione di marcata inferiorità numerica rispetto alle schiere della Confraternita non sembrava metterli in difficoltà. Medusa vide Wolverine tagliare in due uno dei lampioni che si trovavano nel cortile con i suoi artigli di adamantio, e farlo cadere su alcuni degli uomini che avanzavano minacciosi verso le file serrate degli X Men e dei militari dietro di loro. Ci furono altre urla, più acute, e Medusa riconobbe il suono di una lama, anzi, di tre lame, che venivano conficcate nel corpo di un altro essere umano. Eccola, la pace di Charles Xavier e dei suoi degni tirapiedi, si disse distogliendo lo sguardo. Noi saremo anche dei criminali, ma almeno non siamo dei criminali ipocriti.

Tornò a guardare il cortile quando sentì il ruggito di Hank McCoy risuonare nuovamente sul campo di battaglia. Nonostante la tuta stretta, che senz’altro doveva essergli quanto meno d’impiccio, riuscì a stendere a pugni e calci almeno quattro mutanti della Confraternita contemporaneamente, e un altro gruppetto (Medusa non potè contare esattamente quanti fossero) finì a terra quando McCoy si lanciò contro un palo e lo utilizzò come perno per volteggiarci attorno e colpire con i calci chiunque o qualunque cosa si trovasse nel suo raggio d’azione. Per qualche istante, Medusa ammirò stupefatta e meravigliata quella mossa. Cavolo, e pensare che ad insegnare scienze era pallosissimo.

Si girò ad osservare il volto di Magneto e vide che ormai il comandante della Confraternita era oltre la rabbia. I tratti del suo viso pallido, reso ancora più bianco dalla luce della luna piena e delle stelle, era talmente deformato dall’ira e dallo sdegno che per qualche secondo Medusa ebbe paura di lui. Era sicura che Magneto avesse preso in considerazione l’intervento degli X Men, perciò aspettò che lui parlasse e spiegasse ai suoi luogotenenti cosa fare per trarre le loro schiere da quel brutto impiccio. Invece il comandante della Confraternita rimase muto; si voltò verso Archlight e Kid Omega, che stavano anche loro osservando in silenzio la battaglia, e rivolse loro uno sguardo significativo. I due ragazzi annuirono, e poi cominciarono ad inerpicarsi sulle lamiere del ponte, cercando un luogo abbastanza buio e discreto per poter scendere nel cortile senza essere visti da uno degli X Men o dai militari. Medusa non conosceva il loro compito, ma era certa che aveva qualcosa a che fare con l’edificio bianco in fondo al cortile, o con una delle persone al suo interno. Forse è il piano B, si disse.

Magneto non spiegava mai tutti i dettagli dei suoi piani ai suoi sottoposti. Ognuno conosceva solo i propri compiti o poco più, e per il resto doveva sbrigarsela da solo, o aspettare gli ordini diretti di Magneto quando la missione era già in atto. Era una tecnica lacunosa, certo, e anche pericolosa, perché non c’è niente di peggio al mondo che trovarsi nel bel mezzo di una battaglia e non sapere cosa fare. Medusa sospettava che ci fosse dietro una filosofia del tipo “divide et impera”, un modo per tenere ancora più legati a sé i propri sottoposti.. Si chiese se Magneto intendesse affidarle qualche compito quella notte, o se l’avrebbe semplicemente fatta rimanere sul ponte finché tutto non fosse finito. Tutto dipendeva dalla possibilità che Magneto avesse o meno ancora fiducia in lei. Guardò Pyro, che stava osservando assorto i loro ex compagni di scuola e i loro ex professori combattere per difendere coloro che desideravano la sparizione dei mutanti dalla faccia della terra.

Chissà come Magneto prenderà la nostra richiesta di congedo, si domandò scrutando il volto pallido e impassibile del suo ragazzo. Chissà dove andremo, quando sarà finita. Si infilò di nuovo la mano sinistra nella tasca dei jeans, stringendo il rosario tra le dita, mentre la mano destra accarezzò distrattamente il suo grembo.

Glielo dirai?

Quella voce non identificata, proveniente da qualche parte in uno degli angoli più remoti del suo cervello, la colse totalmente di sorpresa. Allora, glielo dirai o no? Vorrei ricordarti che per la prossima settimana hai già un appuntamento programmato per... beh, hai capito, no? Le dita di Medusa si serrarono talmente forte attorno al rosario che potè sentire il profilo delle pietre e del crocefisso penetrare nella sua carne.

Cercò dentro di sé una risposta da dare alla voce. Io... Io non... Beh, ma che cos’è che è cambiato, poi? Niente, proprio niente. Anche se per un po’ lasciassimo la Confraternita, i soldi non è che comincerebbero magicamente a crescere sugli alberi.

Con un movimento rapido e pieno di stizza si tolse dalla fronte un paio di ciocche che le erano di nuovo scivolate sugli occhi. Quella conversazione con sé stessa non le piaceva affatto, anzi, la metteva molto, molto a disagio, ed era desiderosa di chiuderla il più presto possibile. Era molto stanca. Voleva che tutto finisse, e che finisse subito.

Si avvicinò con discrezione a Pyro, il più silenziosamente che le riusciva, abbastanza vicino per sentire l’odore del suo profumo. Aveva sempre adorato il profumo di John; lo trovava buonissimo, e sexy, e incredibilmente virile. Ispirò a pieni polmoni quell’odore, e per un istante fu tentata di appoggiare la testa sulla sua spalla e pregarlo di farla addormentare così, tra le sue braccia. Voleva dormire, ed ignorare quel fracasso che veniva da sotto di loro, le urla e il rumore della lotta, e soprattutto voleva ignorare quelle domande assillanti che le stavano facendo venire il mal di testa.

La voce, però, non sembrava disposta a gettare la spugna. Beh, ma questa non è affatto una risposta, replicò. Andrai o no all’appuntamento?

Prima che Medusa potesse anche solo iniziare a pensare a cosa dire, fu investita da una violenta e improvvisa ventata che la costrinse a ripararsi gli occhi. Con una fitta di adrenalina che le faceva correre il cuore a mille e contorcere lo stomaco, alzò il viso verso l'alto, pronta a fronteggiare l’attacco della Munroe, invece si accorse un po’ sconcertata che sopra di lei c’era solo il cielo, con il suo ricamo di stelle tremolanti e dorate e la luna piena che brillava.

Un velocissima macchia scura che si muoveva nella zona periferica del suo campo visivo le fece voltare la testa verso il tetto dell’edificio in fondo al cortile, appena in tempo per vedere Callisto gettarsi su Tempesta e trascinarla al suolo. Mentre guardava le due donne lottare nel cortile, Medusa si disse sorpresa che difficilmente lei avrebbe avuto una reazione pronta e decisa come quella di Callisto. Sarà un’eccellente sostituta mentre io e John saremo via, pensò. Un sorriso eruppe sulle sue labbra quando le venne in mente ciò che aveva pensato mentre stava in attesa sulla collinetta nel bosco, aspettando che Magneto arrivasse e annunciasse al resto della Confraternita l’imminente attacco ai laboratori Worthington: “Ancora un paio di mesi e saranno Callisto e Kid Omega a fare scena a fianco del capo”. Questa volta ci ho preso in pieno.

Intanto, nel cortile, un gruppo di mutanti della Confraternita si scagliò contro Bobby, e lui alzò le mani producendo uno spesso muro di ghiaccio che bloccò brutalmente la corsa dei suoi assalitori. Sbatterono violentemente contro la parete e caddero al suolo storditi dall’urto. John scattò in avanti, fissando il suo ex amico con un espressione rabbiosa e decisa sul viso, ma Magneto lo fermò.

“Non ancora.” gli disse, e Pyro gli rivolse uno sguardo stupito.

Anche Medusa era un po’ perplessa: perché il capo non voleva che combattessero? D’accordo, non si fidava di lei, questo le era ormai chiaro. Ma perché impedire a Pyro di partecipare alla battaglia, oltretutto in un momento in cui le truppe della Confraternita erano evidentemente in difficoltà? Che motivo aveva di dubitare di John, quando lui... Forse ha capito che dopo stanotte ce ne andremo. Forse John gliene ha già parlato. Forse...

In quel momento Magneto si voltò verso di lei e le fissò il suo sguardo gelido addosso, e il ghiaccio dei suoi occhi piantato sul suo volto la fece rabbrividire dalla testa ai piedi. Per la seconda volta in quella nottata, Medusa ebbe paura del suo capo.

“Va’ là dentro.” le disse Magneto. La sua voce suonava autoritaria e pericolosa. “Trova il ragazzo e uccidilo.”

Medusa rimase qualche istante immobile e in silenzio, incapace di credere all’ordine che aveva appena ricevuto. Sì, sapeva che erano andati fino ad Alcatraz per distruggere la fonte della Cura, e sapeva che la fonte della Cura era un ragazzino, ma non si era mai soffermata a pensare a come avrebbero compiuto quella missione. Soprattutto, non aveva mai pensato che Magneto avrebbe affidato proprio a lei, di tutte le persone, il compito di uccidere il ragazzo.

Lo sguardo di Pyro era altrettanto scioccato; evidentemente nemmeno lui si era aspettato che di quella parte della missione fosse incaricata Medusa. I suoi occhi passarono dalla sua fidanzata a Magneto, come se volesse chiedergli di esentare Medusa da quel compito, ma lo sguardo del comandante supremo della Confraternita era fisso sulla ragazza di fronte a lui. Medusa si ricordò del giorno della lite con John, lo stesso giorno in cui Magneto le aveva detto che se era veramente con lui allora si sarebbe dovuta comportare di conseguenza. E’ un test. Mi sta offrendo un’ultima chance per rientrare a pieno titolo nella Confraternita. Per una frazione di secondo si domandò cosa doveva fare, obbedire all’ordine oppure ignorarlo e mandare tutto quanto al diavolo.

Ricordati di Evie, disse una voce nel suo cervello. Lottare per sopravvivere è un dovere per ognuno di noi.

Staccò gli occhi da quelli di Magneto e guardò John, cercando di comunicargli con lo sguardo tutto ciò che non poteva dirgli a parole, per via di tutta quella gente che era lì con loro, poi si voltò e cominciò a scendere dal ponte, cercando lo stesso punto buio e riparato da cui erano passati Archlight e Kid Omega. Il trucco è non pensare, si disse. Affrontiamo questa cosa un passo alla volta, come con Danielle, e presto sarà tutto finito, e potrò tornare da John.

Si appoggiò con la mano sinistra a quello che un tempo doveva essere parte delle mura di difesa del complesso, prima che il Golden Gate ci atterrasse sopra, e balzò sulla ghiaia. L’urto fu più violento di quel che si era aspettata, e sentì una fitta alle ginocchia che le risalì lungo il corpo fino a stemperarsi nel ventre. Qualcosa dentro di lei sussultò di nuovo.

Medusa si impose di ignorare quella sensazione, e cominciò ad esaminare attentamente la battaglia che si svolgeva di fronte a lei. Gli X Men, da soli, stavano affrontando le orde della Confraternita, ora in seria difficoltà, mentre i soldati sopravvissuti alla prima ondata di attacco erano raggruppati davanti all’entrata dell’edificio, bloccandola completamente. Di lì era impossibile passare; doveva fare il giro del cortile e trovare un’entrata secondaria, possibilmente senza farsi vedere da uno degli X Men o dai militari. Certo, avrebbe potuto provare a marciare attraverso il cortile e ipnotizzare chiunque fosse così coraggioso, o stupido, da mettersi sulla sua strada; ma c’era davvero troppa gente lì, e lei non aveva mai utilizzato il suo potere su così tante persone contemporaneamente. Decise di optare per un’entrata che fosse un po’ meno ad effetto.

Scivolò nell’ombra gettata dai resti di una jeep caduta dal ponte e cominciò a seguire il perimetro esterno del cortile, tenendosi quanto più possibile lontano dalla luce dei lampioni e dei falò che bruciavano qui e là nel bel mezzo del campo di battaglia. Vide qualcosa luccicare nell’estrema sinistra del cortile, a circa una cinquantina di metri da lei, e Medusa si fermò di colpo e si accucciò dietro la carcassa accartocciata di una delle torrette, cercando di capire se si trattasse del lanciafiamme di Pyro che entrava in funzione. Guardando meglio, però, si accorse che era la pelle di acciaio organico di Colosso a causare quel barlume di luce che aveva visto. Toccò di nuovo il profilo del rosario attraverso la tasca dei jeans.

Medusa riprese a camminare cercando di fare il meno rumore possibile, per non attirare su di sé l’attenzione di uno degli X Men. Sapeva che i suoi poteri funzionavano anche sui mutanti, ma si rese conto che preferiva di gran lunga non trovarsi ad affrontare uno degli appartenenti alla squadra del defunto Charles Xavier.

Cinica, la rimproverò Meredith St.Clair da qualche parte dimenticata della sua anima. Medusa le ingiunse di stare zitta.

Guardò verso l’edificio bianco, e si accorse che per aggirare il gruppo di soldati di guardia alla porte principali avrebbe dovuto correre allo scoperto per almeno una decina di metri. L’angolo di cortile che doveva attraversare era piuttosto lontano dal punto in cui si stava svolgendo il grosso della battaglia, ma era ben illuminato dalle luci artificiali che spuntavano dai muri del palazzo, e se qualcuno avesse guardato da quella parte proprio nel momento in cui Medusa lasciava il suo nascondiglio nell’ombra per correre verso l’edificio difficilmente sarebbe riuscita a passare inosservata.

Medusa guardò verso il centro del cortile, e vide Wolverine e McCoy che combattevano fianco a fianco, e di nuovo si stupì per la destrezza e l’agilità del suo ex professore di scienze. La Munroe volteggiava a qualche metro dal suolo, scagliando fulmini a destra e a manca, e Colosso era ancora dove l’aveva visto l’ultima volta, nel punto più lontano del cortile, impegnato a lottare contro un gruppetto piuttosto numeroso di mutanti della Confraternita. Non riuscì però a scorgere né Bobby né la ragazza bassa e bruna. Dopo un attimo di esitazione, decise di tentare comunque. Aveva già perso abbastanza tempo.

Balzò fuori dal buio e si mise a correre più velocemente che poteva verso il muro laterale dell’edificio, pronto a inghiottirla nella sua ombra e a offrirle riparo. Se riesci ad arrivare a quel maledetto muro è fatta, si disse. Scommetto che tutti i soldati di guardia all’edificio si trovano ora nel cortile principale. Chissà per quale motivo, le venne in mente Danielle.

Mancavano non più di sei o sette passi alla sua meta, quando qualcosa di duro e gelido, molto simile ad una palla di neve, la colpì con forza su una spalla. L’urto non fu tanto violento da farla cadere, ma la costrinse a fermarsi per non perdere l’equilibrio, e Medusa fece una giravolta su se stessa, più veloce che le riusciva, per fronteggiare il suo assalitore.

Bobby era in piedi di fronte a lei, ad una distanza di circa quindici metri. Indossava una di quelle tute aderenti di pelle nera che costituivano l’uniforme degli X Men, e che lei trovava talmente kitch. Millenni prima, quando ancora frequentava l’Istituto e aveva partecipato al programma di inserimento negli X Men (dio, l’aveva fatto, l’aveva fatto davvero, era stata sul punto di diventare a pieno titolo una di loro, ma com’era possibile?), non le era mai piaciuto indossarle. La facevano sentire parte di una sorta di ballo in maschera.

“Ma perché non possiamo andare in giro vestiti come diavolo ci pare?” ripeteva ogni volta che uscivano dagli spogliatoi e si dirigevano alla camera speciale. “Mica siamo l’esercito.”
Bobby la fissava come se avesse appena bestemmiato. “Siamo una squadra, Meredith.” le rispondeva.

Stanotte, invece, Bobby non la guardava affatto. Teneva gli occhi bassi, e per un momento Medusa non capì il perché. Santo dio, ma come è possibile che gli faccio così paura? si domandò. Poi ricordò che Bobby sapeva, e di certo non era uno stupido.

“Ciao, Meredith.” disse, sempre fissandosi le scarpe. Medusa esaminò il suo tono. Non c’era nessuna sfumatura di ostilità, per cui si sentì in diritto di fare un po’ di conversazione.

“Dov’è Rogue?” domandò. Anche se era rivolto verso il terreno, Medusa vide il viso di Bobby contorcersi in una smorfia di rabbia.

“Non è divertente, Meredith.” le ringhiò.

“Beh, non voleva essere divertente, voleva essere una domanda.” replicò lei, colta di sorpresa dalla reazione di Bobby. “E comunque io non sono Meredith.”

Il ragazzo bruno di fronte a lei fece per alzare gli occhi, ma poi tornò a fissare la ghiaia ai suoi piedi. Medusa maledisse l’occasione che aveva perso. Andiamo, Bobby, andiamo. Sai bene che non puoi farcela.

“Va bene, Medusa, allora.” disse Bobby, la sua voce di nuovo calma e ferma, e serrò per una attimo le mani. “Medusa, vieni via di lì.” le ordinò.

Medusa rimase qualche secondo a fissarlo in silenzio. “No, Iceman, credo proprio che rimarrò dove sono.” rispose infine. “Anzi, sei tu che dovresti andartene.”

“Non se ne parla proprio, Meredith.” La voce di Bobby era leggermente più alta questa volta, e Medusa provò una ondata di stizza a sentirlo rivolgersi di nuovo a lei con il suo vecchio nome. Gli occhi di lui si spostarono da un punto all’altro sulla ghiaia, e Medusa si domandò che diavolo stesse facendo. “Non ti permetterò di entrare in quel edificio.”

Le sfuggì un sorriso. “E come pensi di fare, Bobby? Io ti posso guardare, tu no. Direi che è un bello svantaggio.” Bobby sembrò di nuovo seguire con gli occhi qualcosa sul terreno, e Medusa capì. Stava seguendo la sua ombra.

Improvvisamente prese coscienza del peso del rosario nella tasca dei suoi jeans, dei suoi grani duri e tondi premuti contro la carne della coscia, e sentì l’urgenza di andarsene da quel luogo. “Ascoltami Bobby, se non te ne vai immediatamente, ti giuro che ti farò del male. Non moltissimo, perché un tempo siamo stati amici, ma te ne farò abbastanza da impedirti di seguirmi. Mi hai capito?”

Bobby non replicò. Si limitò a stringere i pugni, lo sguardo ancora basso, e a muovere velocemente gli occhi sul terreno, cercando ogni più piccolo spostamento della sua ombra. Medusa sentì di nuovo l’adrenalina scorrerle nel corpo, e i muscoli delle gambe e delle braccia che si flettevano da soli. Un secondo prima che Bobby la investisse con un’ondata di ghiaccio, Medusa riuscì a balzare via dal punto in cui stava e rotolare a terra fino alla torretta che giaceva abbattuta al suolo. La colpì con la spalla sinistra, producendo un rumore piuttosto forte, e Bobby si voltò verso di lei, lo sguardo sempre basso, e di nuovo le diresse contro un getto di ghiaccio, questa volta però mancandola di due o tre metri buoni.

Medusa ne approfittò per strisciare dietro la torretta e pensare a come liberarsi di Iceman. Il ragazzo era in gamba, più in gamba di quello che si era aspettata: era riuscito ad assestare due colpi pericolosi facendosi guidare solo dall’ombra che Medusa gettava e dal rumore che lei aveva fatto quando aveva sbattuto contro la torretta d’acciaio. Ma è cieco. Non può alzare gli occhi se di te, perché sa bene che se lo facesse sarebbe la sua fine.

Bobby, evidentemente cercando di farla uscire allo scoperto, cominciò a gettare ondate di ghiaccio a caso. La mano di Medusa si appoggiò nuovamente sul suo ventre, e lei provò un’ondata di furia travolgente contro di lui, un odio che non aveva mai provato prima in vita sua. Portalo accanto al muro del cortile, dove c’è buio e lui non potrà vedere la tua ombra. Portalo là e fallo a pezzi.

Si alzò in piedi, incurante del rumore che avrebbe potuto attirare Bobby dalla sua parte, e gli diresse contro un’onda di energia psichica. Il ragazzo, però, l’aveva sentita muoversi ed era riuscito ad individuare la sua posizione. Riuscì a gettarsi di lato ed evitare il grosso del colpo scagliatoli contro da Medusa, ma lei si accorse che era comunque riuscita a ferirlo, seppure di striscio, ad una gamba. Si mise a correre e lasciò il suo rifugio dietro la torretta prima che Bobby avesse il tempo di riprendersi dal suo attacco e potesse rispondere a sua volta, e mentre era ancora in movimento lanciò un’altra ondata di energia psichica, che fu fermata da Iceman grazie ad uno spesso muro di ghiaccio.

Medusa colse l’occasione al volo. Vide un grosso pezzo di lamiera, probabilmente un tempo parte del parapetto del Golden Gate, giacere abbandonato accanto al muro del cortile, dieci o quindici metri dietro Bobby che ancora si faceva scudo con la sua parete di ghiaccio. Troppo occupato a seguire i movimenti di Medusa attraverso la superficie translucida e deformante del muro, non si accorse del pezzo di ferro che viaggiava verso di lui ad altissima velocità. L’impatto fu così violento che Iceman fu scagliato attraverso la parete che lui stesso aveva creato e rimbalzò un paio di volte sulla ghiaia del cortile, prima di fermarsi a pochi passi da dove stava Medusa. Lei avanzò verso il corpo insanguinato del ragazzo, decisa a sferrargli il colpo di grazia.

Bobby giaceva sulla ghiaia con il viso rivolto verso il terreno, il volto e le mani tagliuzzati in più punti. Quando sentì la sua avversaria avvicinarsi tentò di tirarsi su appoggiandosi sui gomiti, ma poi ripiombò a terra, ansimando per la sofferenza che quello sforzo gli aveva causato. Provando una sorta di disgusto a vederlo steso al suolo così vulnerabile e inerte, Medusa gli sferrò un calcio nelle costole e lo voltò sulla schiena. Bobby gemette ad occhi chiusi e rimase immobile, come se solo respirare assorbisse tutte le sue energie. Medusa fece di nuovo librare in aria il pezzo di lamiera che giaceva a qualche metro da loro, vicino ai frammenti del muro di ghiaccio che già cominciavano a sciogliersi, e lo portò sopra il punto in cui giaceva Iceman. Lui tenne gli occhi chiusi, ma voltò la testa di lato, come se sentisse il peso della lastra di acciaio che galleggiava nell’aria qualche metro sopra di lui. Medusa alzò la lamiera ancora di qualche centimetro. Addio, Bobby.

Tutto ad un tratto si rese conto che il suo cuore aveva rallentato, e che i muscoli del suo corpo non erano più in tensione. Si sentiva stanca adesso, certo, e anche un po’ ammaccata, ma sapeva che quelle sensazioni erano dovute più che altro all’adrenalina che si ritirava dal suo sistema nervoso. Il suo corpo sapeva che il combattimento era finito. Fissò di nuovo Bobby, vide uno spesso rivolo di sangue colargli dai capelli sulla ghiaia, e sentì, non immaginò di sentire, proprio sentì, il rumore che avrebbe fatto quel pezzo di lamiera quando sarebbe caduto sul corpo del ragazzo e gli avrebbe sfondato il cranio.

Sopraffatta dall’orrore, Medusa girò di scatto la testa di lato e fece posare dolcemente la lastra a terra, vicino al muro del cortile. “Vai a casa, Bobby.” disse al ragazzo disteso di fronte a lei, poi gli voltò le spalle e si mise a correre verso il muro laterale dei laboratori. Mentre si allontanava, Medusa sentì Bobby mormorarle qualcosa, ma lei non si fermò a dargli retta. Aveva altre cose a cui pensare. Sembrava che nessuno avesse fatto caso al combattimento tra lei e Iceman, ma presto o tardi uno degli X Men si sarebbe accorto del corpo che giaceva inerte in quell’angolo remoto di cortile, e si sarebbe messo a darle la caccia. Doveva trovare il ragazzo più in fretta che poteva.

Medusa girò l’angolo dell’edificio, e tirò un sospiro di sollievo quando l’ombra l’avvolse di nuovo, offrendole rifugio. Vide, a circa venti metri di distanza, una luce proveniente dall’interno della costruzione trafiggere l’oscurità della notte, e vi si diresse di corsa. Fu felice di constatare che aveva visto giusto: la luce proveniva da una porta spalancata, probabilmente utilizzata da Archlight e Kid Omega per penetrare nel palazzo dell’ex prigione. Sulla soglia giaceva il cadavere di un militare, il corpo e i vestiti trafitti da migliaia e migliaia di piccoli buchi. Assomigliava ad un grosso puntaspilli. Kid Omega è di certo passato di qui, si disse Medusa.

Appena varcata la porta, però, sentì una fitta tremenda all’addome, talmente forte che dovette afferrare lo stipite d’acciaio dell’entrata per non crollare a terra. Medusa si mise una mano sul ventre, spaventata, e improvvisamente tutto davanti ai suoi occhi divenne nero. Le ci volle tutta la sua forza di volontà per non svenire. Poi, improvvisamente come era apparso, il dolore scemò e lei potè tirarsi su, perplessa e impaurita. Con la punta delle dita si massaggiò delicatamente il grembo, cercando di capire cosa era successo, ma le sembrò che fosse tutto come prima. Fece cautamente un passo in avanti, aspettandosi che il dolore l’assalisse di nuovo, ma non accadde niente di simile e Medusa si incamminò lungo il corridoio illuminato.

Si guardò intorno: i muri di cemento armato erano grigi e spogli, e le lampade al neon che pendevano dai soffitti assomigliavano molto a quelle che Medusa aveva visto nella sala d’attesa del consultorio. Probabilmente si trovava in una zona secondaria dei laboratori, l’area dei magazzini o qualcosa di simile. Ricordò Callisto riferire a Magneto che il ragazzo si trovava nell’ala sud-est del palazzo, ma in questo momento lei non aveva la più pallida idea di quale fosse l’orientamento dell’edificio, figurarsi se sapeva dov’era l’ala sudorientale. Quando arrivò ad una biforcazione del corridoio, Medusa decise con un’alzata di spalle di inoltrarsi nella parte di sinistra, che le sembrava portasse verso il cuore dell’edificio. La gente nasconde sempre le cose più importanti nei luoghi più difficilmente raggiungibili dall’esterno.

Bingo, si disse quando il cemento armato lasciò spazio ad un delicato stucco color panna. Anche le condizioni del pavimento e dei lampadari le sembrarono migliorare man mano che camminava, e Medusa cominciò ad aprire le porte bianche che si affacciavano sul corridoio, sperando di trovare la stanza in cui tenevano il ragazzino. Trovò solo laboratori e uffici, e stava cominciando a innervosirsi seriamente quando da dietro l’angolo arrivò un grido.

“No! No! Vi prego, non lo fate!”

Medusa corse in direzione di quella voce e vide Archlight, che insieme ad un’altra mutante della Confraternita, la ragazza asiatica con le extension viola nei capelli che si chiamava Psylocke, stava trascinando un uomo alto e con i capelli bianchi lungo il corridoio. Appena videro arrivare Medusa si fermarono di colpo, e da dietro il gruppetto sbucò Kid Omega, un sorriso che gli illuminava il volto da orecchio a orecchio.

“Ehi, indovina?” disse il ragazzo indicando l’uomo che tremava stretto tra Archlight e Psylocke. “Questo stronzo è il fenomeno che ha inventato la Cura.”

Medusa studiò con attenzione l’uomo in completo blu scuro che stava in piedi davanti a lei. I suoi vestiti, che pure avevano l’aria di essere molto costosi, ora gli pendevano addosso stazzonati e sgualciti, e i suoi capelli bianchi erano incollati alla testa dal sudore che gli colava copioso sulla fronte. I suoi occhi castani, ingigantiti dalla paura e dall’ansia, si muovevano come impazziti, cercando di leggere il volto della ragazza di fronte a lui.

Medusa sorrise. “Ma non mi dire.” sussurrò, e mise la mano destra sugli occhi dell’uomo.

Migliaia e migliaia di immagini appartenenti ad una vita non sua cominciarono a vorticarle nel cervello. Era come cercare di distinguere qualcosa guardando fuori dal finestrino di un’auto che corre lungo l’autostrada a trecento chilometri all’ora. Medusa vide un’enorme grattacielo di vetro formarsi davanti ai suoi occhi, il sole che si rifletteva nelle sue finestre lucide, poi l’immagine cambiò, e apparve un bambino biondo che singhiozzava davanti ad un grosso specchio, e in un istante il bambino divenne un ragazzo in piedi nel centro di quello che sembrava uno studio medico, e santo dio, erano ali quelle che spuntavano dalla sua schiena? Medusa cercò di trovare l’informazione che le serviva in mezzo a quella sequela di forme e di colori, ed infine nella sua mente si formò l’immagine del corridoio in cui si trovavano ora. Galleggiò a mezz’aria sopra le piastrelle verde pisello del pavimento come se fosse priva di corpo, poi volò in avanti, veloce, sempre più veloce, finché il corridoio non si biforcò. Prese a sinistra, poi a destra, poi ancora a sinistra, le pareti color panna che le sfrecciavano accanto come confuse macchie di colore, e si trovò di fronte a una porta bianca.

Jimmy.

Medusa tolse la mano dagli occhi dell’uomo e fece un passo indietro. “Jimmy.” mormorò senza nemmeno rendersene conto, mentre gli ultime immagini provenienti da quella mente estranea le si riverberarono nel cervello prima di scomparire del tutto. Quando sentì la voce di Medusa pronunciare quel nome, l’uomo con il completo blu spalancò gli occhi e cercò di lanciarsi verso di lei, ma Psylocke e Archlight glielo impedirono. Kid Omega iniziò a ridacchiare: con tutta evidenza non aveva capito un accidente di quello che era appena successo, ma gioiva nel vedere che stava procurando così tanta angoscia al loro prigioniero.

“Lascialo stare!” gridò l’uomo rivolto a Medusa. “E’ solo un ragazzino!”

Medusa dovette reprimere la voglia di mollargli un ceffone. “Come se te ne fregasse qualcosa.” sibilò guardandolo dritto negli occhi, e l’uomo tacque di colpo. Il suo corpo si rilassò completamente, e dal suo volto teso scomparve ogni espressione. Archlight e Psylocke le rivolsero uno sguardo pieno di stupore, ma Medusa non riuscì proprio a sentirsi lusingata. Le prime fitte della sua emicrania da gravidanza stavano cominciando ad assalirla.

“Hai ancora bisogno di lui?” chiese Kid Omega, ancora ghignando. “E’ in ritardo per la sua lezione di volo.”

Medusa chiuse gli occhi e alzò la mano destra per massaggiarsi la tempia. “No, potete portarlo via.” rispose stancamente. “Non ho utilizzato molta energia, perciò fate attenzione. Si risveglierà presto.”

Sperò che i tre se ne andassero in fretta, così lei avrebbe potuto trovare il ragazzino (Jimmy, così si chiamava), e farla finita con tutto quanto. Kid Omega, però, non si mosse. “Stai bene?” le domandò.

Medusa si sentì improvvisamente esasperata. “Sì, sì, maledizione!” gli gridò contro. “Te ne vuoi andare?”

Kid Omega la guardò offeso, poi si voltò verso le due ragazze, che avevano osservato l’intera scena senza dire una parola, e mormorò loro qualcosa. Il gruppetto si mise in marcia verso la direzione dalla quale proveniva Medusa, l’uomo col vestito blu che trascinava fiaccamente i piedi e guardava per terra con la testa che gli ciondolava sulle spalle, e Kid Omega lanciò un ultimo sguardo risentito verso Medusa mentre le passava a fianco.

Lei si mise a correre ancora prima che i tre giovani e il loro prigioniero voltassero l’angolo, decisa a trovare Jimmy il prima possibile. Sapeva che con tutta probabilità anche gli X Men presto avrebbero avuto la stessa idea, sempre che uno dei loro non fosse già dentro l’edificio.

E cosa farai quando avrai trovato il ragazzo, eh? Quello che stavi per fare a Bobby? le domandò una voce maligna invadendo i suoi pensieri. Medusa continuò a correre, cercando di ignorare quella sensazione di orrore e paura che le stava opprimendo il petto, ma non ci riuscì. Aveva quasi ammazzato Bobby, uno di quelli che neppure troppo tempo prima era stato uno dei suoi migliori amici, anzi, uno degli unici amici che aveva avuto in tutta la sua vita.

Voltò bruscamente a sinistra, seguendo il corridoio, e davanti agli occhi le balzò l’immagine di Bobby in piedi nell’atrio della scuola, il giorno in cui lei era arrivata all’Istituto da Baltimora. Le era andato incontro e le aveva stretto la mano con un sorriso. “Benvenuta nell’Istituto Xavier.” le aveva detto, e poi l’aveva accompagnata a visitare la villa. Quando aveva visto la sua espressione disorientata all’ennesimo corridoio che si divideva, Bobby aveva riso e le aveva messo una mano su una spalla. “Non preoccuparti, Meredith, tutti noi ci siamo persi all’inizio. Ma poi ti ci abitui.” le aveva detto con un sorriso rassicurante. “Se dovessi avere bisogno di qualcosa, puoi sempre chiedere.”

Medusa continuò a correre lungo il corridoio color panna dei laboratori Worhington, il peso sul suo cuore sempre più intollerabile; era talmente opprimente, ormai, che le sembrava di non riuscire a respirare. Aveva quasi ammazzato Bobby schiacciandogli la testa sotto una lamiera di acciaio di due quintali. Bobby, che era stato il primo ad alzarsi per abbracciarla quando aveva saputo della morte di Evie.
Alex Hagen aveva ragione su di te. Tu sei un mostro, le disse di nuovo la voce mentre il corridoio svoltava bruscamente a destra, e Medusa vi si gettò senza pensarci due volte. Sapeva di essere vicina alla sua meta ora. Un essere orribile come te non se la merita una cosa bella e pura come un bambino.

Girò di nuovo a sinistra quando il corridoio si biforcò, e appena sorpassò l’angolo la vide. Sul muro in fondo alla stanza, a circa venti passi da lei, c’era la porta bianca che aveva scorto nella mente di Worthington. Il suo cuore cominciò a battere all’impazzata, ancora più violento e rapido che durante il suo combattimento con Iceman. Medusa si fermò di colpo, ansimante e sudata per la corsa, e rimase immobile a fissare la porta. Avrebbe dovuto gettarsi nel fuoco ancora quest’ultima volta, sopportare il calore delle fiamme e il bruciore delle ustioni e arrivare fino all’altra parte, dove avrebbe potuto riabbracciare John.
Si infilò la mano in tasca e strinse il rosario con tutta la forza che aveva. Il dolore la risvegliò, delineandole di nuovo lucidamente la sua missione. Doveva eliminare il ragazzino, se voleva che tutto quel delirio della Cura avesse fine, e che gli umani non si sognassero mai più di creare qualcosa in grado di cancellare i mutanti dalla faccia della terra. La sua mano rilasciò lentamente il rosario e Medusa trasse un lungo respiro senza staccare mai gli occhi dalla porta bianca davanti a lei. Jimmy doveva morire, se voleva che il giorno in cui finalmente i mutanti avrebbero potuto smettere di lottare per sopravvivere fosse un po’ più vicino. La voce che le aveva parlato poco prima tentò di controbattere, ma Medusa non glielo permise. Zitta! Zitta, stai zitta! le ingiunse, e quella si ritirò senza più pronunciare una sillaba.

Cominciò ad avanzare verso la porta provando dentro di sé una nuova sensazione. Si sentiva calma e risoluta ora, come se quello che stava per fare fosse stato già deciso millenni prima della sua nascita da qualcuno più in alto di lei e facesse parte di una sorta di piano cosmico che trascendeva la sua comprensione, ma in cui Medusa aveva cieca fiducia.

Raggiunse la porta bianca e alzò la mano destra per aprirla. Appena le sue dita toccarono il metallo della maniglia, però, una voce che le suonava famigliare, anche se lei non la riconobbe immediatamente, le parlò da dentro la sua anima. Questa volta camminare nel fuoco ti farà molto male, Meredith. Molto, molto più di quanto ti abbia mai fatto finora. Questa volta la cicatrice ti rimarrà addosso, e sfigurerà il tuo volto per sempre.

Medusa spalancò gli occhi. Sei davvero tu, papà? domandò, ma non ebbe risposta. Rimase in attesa ancora qualche secondo, aspettando che quella voce le parlasse ancora, ma ci fu solo silenzio. Togliendosi di nuovo una ciocca o due di capelli ricci dalla fronte, Medusa abbassò la maniglia ed entrò nella stanza.

I muri, il soffitto, persino il pavimento erano coperti di lucidi pannelli di plastica bianca. Solo una piccola e stretta finestra, simile alla feritoia di un castello medioevale, si apriva nella parete di destra; per il resto, erano solo le lampade al neon che pendevano dal soffitto a dare luce alla stanza. Davanti a lei c’era un letto con una vivace coperta gialla e verde, e, a fianco del letto, rispettivamente a sinistra e a destra, c’erano una cassettiera colorata e un comodino con sopra una lampada a forma di cane. Vari giocattoli erano sparsi sul pavimento immacolato, e in un angolo c’era un piccolo televisore e l’ultimo modello della Playstation. Guardandosi in giro, il primo pensiero di Medusa fu che quella stanza le ricordava la gabbietta di un criceto.
“Non fargli del male.” le aveva gridato quel vecchio ipocrita bastardo di Worthington. Una cavia da laboratorio, ecco che cos’era questo Jimmy. Una cavia da laboratorio che gioca con i videogame, d’accordo, ma pur sempre un animaletto su cui fare degli esperimenti. Un sorriso sarcastico piegò le labbra di Medusa. Lo credo bene, che Worthington era così disperato all’idea di perdere il ragazzo, si disse. Chissà quanti soldi ci avrà fatto, vendendo al governo quella dannatissima Cura.

Improvvisamente qualcosa che si muoveva accanto al comodino catturò la sua attenzione. All’inizio non l’aveva notato, perché indossava una specie di tuta dello stesso colore del muro e del pavimento, ma c’era un ragazzino che si acquattava contro la parete e tremava come un ossesso. Medusa lo guardò mentre si metteva le braccia sopra la testa in cerca di protezione, e la sua memoria le proiettò davanti agli occhi l’immagine di un soldato che puntava il suo fucile in faccia ad un bambino, nei corridoi dell’Istituto Xavier. Scacciò quel pensiero dalla sua testa e fece un passo avanti.

“Jimmy.” chiamò.

Il ragazzino alzò la testa dalle ginocchia e la guardò, evidentemente sorpreso che quella donna nemica conoscesse il suo nome. Non sembrava avere più di dodici o tredici anni, e Medusa sospirò. Aveva sperato che fosse più grande. Gli occhi verdi di Jimmy erano spalancati per il terrore, e le labbra gli tremavano come se stesse per scoppiare a piangere da un momento all’altro. Notò che lo avevano rasato a zero, e Medusa si rammaricò di non aver schiaffeggiato Worthington. Era davvero il minimo che meritava.

Decisa a non sprecare altro tempo, avanzò veloce verso il ragazzo e Jimmy tornò a coprirsi il viso con le braccia, in cerca di un riparo che comunque non gli sarebbe servito. Medusa lo afferrò per la maglietta e lo scosse, obbligandolo a guardarla, e Jimmy alzò gli occhi su di lei, troppo terrorizzato per tentare di scappare o anche solo per implorarla di non ucciderlo. Rimase muto, i suoi enormi occhi verdi fissati in quelli grigi di Medusa, e una lacrima gli rigò il volto.

Medusa strinse più forte i pugni nella sua maglietta. “Vattene.” gli disse. Un’espressione di vago stupore si mischiò alla paura nel volto di Jimmy, e le sue labbra si dischiusero, forse cercando di dire qualcosa, ma Medusa non gliene lasciò il tempo. Lo scosse di nuovo. “Vattene.” ripeté, la sua voce piena di collera e di astio. “Sparisci per sempre. Dico sul serio. Emigra in Antartide, arruolati nella Legione Straniera, ritirati in un monastero sull’Himalaya, suicidati, se devi, ma non farti mai più vedere. Giuro se dio, Jimmy,” cercò gli occhi del ragazzo. “se ti incontro un'altra volta, o se anche solo sento qualcuno sussurrare il tuo nome, ti vengo a cercare e ti uccido. Sono stata chiara?”

“Sì.” mormorò il ragazzino in un soffio. Sembrava stesse per svenire da un momento all’altro.

Medusa si alzò lentamente in piedi, i suoi occhi grigi sempre fissi sul ragazzino davanti a lei. Jimmy, ancora rintanato nel suo cantuccio, le restituì lo sguardo in silenzio, il viso dello stesso colore dei suoi vestiti. Non c’era il minimo dubbio che avesse compreso la serietà della promessa fattagli da Medusa.

Lei si voltò lentamente e si incamminò verso la porta, la mano destra infilata nella tasca dei jeans. “Ti auguro ogni bene, Jimmy.” disse mentre attraversava la soglia.

Non si diede nemmeno la pena di richiudere la porta una volta tornata in corridoio, occupata com’era a tenere a bada quella sensazione di panico mista a rabbia verso sé stessa che l’aveva assalita non appena aveva lasciato Jimmy a tremare nel suo cantuccio. Come avrebbe potuto spiegarsi davanti a Magneto, e soprattutto davanti a John? Come avrebbe potuto guardare in faccia i suoi compagni della Confraternita, e dir loro che i loro commilitoni vittime della Cura e assassinati dai loro nemici erano caduti invano, e solo perché lei era troppo vigliacca per affrontare il fuoco e portare a termine la missione per la quale erano venuti fino ad Alcatraz?

Che fine hanno fatto tutti i tuoi bei discorsi sull’obbligo alla sopravvivenza e sulla necessità di combattere per un domani migliore? si rimproverò mentre, senza nemmeno pensare a dove volesse davvero dirigersi, si incamminava nel lungo corridoio color panna che l’aveva portata fino alla stanza di Jimmy. Una fitta di angoscia e di paura le attraversò lo stomaco, e Medusa si appoggiò con una mano alla parete, sentendosi improvvisamente troppo spossata per procedere ulteriormente. Chiuse gli occhi per qualche istante e la mano che non era impegnata a sorreggersi al muro si alzò fino a sfiorare le sue palpebre chiuse, scendendo poi sulle guance e sul collo. Una polverina sottile le coprì le dita, e Medusa aprì di scatto gli occhi per esaminarla con cautela, strofinando insieme i polpastrelli di indice e pollice.
Si rese conto che doveva essere la polvere che le era rimasta addosso quando si era rotolata a terra, per sfuggire al getto di ghiaccio che Bobby le aveva diretto contro. Questo è sopravvivere. Quella frase le balzò nel cervello senza alcun preavviso, e Medusa smise di occuparsi della polvere per seguire il filo dei suoi pensieri, curiosa ed insieme spaventata per come la cosa avrebbe potuto evolversi. Rifiutarsi di entrare nel fuoco per non farsi consumare il corpo dalle fiamme è un atto di sopravvivenza piuttosto deciso.

Quella frase sembrò infondere nuova energia nel suo corpo esausto. Medusa alzò la testa, raddrizzò le spalle e ricominciò a camminare lungo il corridoio, decisa a lasciare prima che poteva quell’edificio. Worthington è morto, si disse Medusa mentre svoltava nella sezione di corridoio in cui aveva incontrato Kid Omega e le ragazze. E gli X Men verranno a prendersi il ragazzo. Lo porteranno al sicuro nell’Istituto e non permetteranno che il governo lo usi ancora per la sua guerra contro i mutanti. Medusa sorrise di nuovo pensando a quanti mutanti terrorizzati e abbandonati la scuola di Salem Center aveva offerto rifugio. Concesse all’immagine di Meredith St.Clair di apparire un’ultima volta nella sua mente così com’era il giorno in cui era scesa dall’auto che l’aveva portata da Baltimora all’Istituto, la vide nei vestiti che i Jackson le avevano comprato al discount per pochi dollari, mentre stringeva la maniglia della sua valigia e guardava nervosamente le pareti esterne della villa, coperte da uno strato spesso di edera verde scuro. Medusa si meravigliò per tutta la strada che aveva percorso da quel giorno: chi avrebbe potuto dire, a quel tempo, che le cose sarebbero andate così? Eppure eccomi qui, si disse. E forse, magari in un giorno non troppo lontano, potrò tornare ad essere Meredith.

I muri color panna del corridoio scomparvero per lasciare spazio al nudo cemento e Medusa esultò, sapendo di trovarsi vicina ormai alla porta che aveva utilizzato per entrare nell’edificio, quando improvvisamente quella che sembrava essere una scossa di terremoto percorse il palazzo, facendo tremare i muri e il pavimento. Una sottile polvere di cemento e scaglie di intonaco si staccarono dal soffitto e caddero a terra a pochi passi da dove si trovava Medusa, e lei alzò gli occhi verso l’alto, preoccupata. Certo, siamo in una zona sismica, ragionò. Ma ehi, un’invasione di mutanti e un terremoto nella stessa sera? Qui siamo ben oltre il calcolo delle probabilità. Di nuovo la costruzione dei laboratori tremò, e da fuori provenne, chiaro e distinto, il rumore di un’esplosione, seguito da quelle che avrebbero potuto essere grida, oppure una fortissima raffica di vento.

Si mise a correre più che poteva, cercando di guadagnare l’uscita, il cuore che le batteva impazzito nel petto e lo stomaco ormai ridotto ad un nodo inestricabile. Raggiunse la porta e praticamente saltò via il cadavere del soldato che ingombrava la soglia, ritrovandosi nel tratto tranquillo e buio di terreno che costeggiava la parte laterale dei laboratori. Sentì dei rumori provenire dal cortile principale, urla ed deflagrazioni unite al cigolio sinistro dell’acciaio che si piegava e si spezzava, e Medusa si diresse di corsa da quella parte. Il suo primo pensiero fu che Magneto aveva perso la testa e stava distruggendo ogni cosa.

Mentre correva, si rese conto però che c’era dell’altro, oltre le urla e le esplosioni e il gemito del metallo. Era qualcosa che assomigliava al fruscio della sabbia trasportata qua e là dal vento; Medusa non l’aveva mai sentito prima, ma lo collegò al rumore di un tornado, o di un uragano, ma subito cancellò quell’idea, dicendosi che non si trovavano né nella zona né nella stagione adatta per quei fenomeni.

La prima e ultima cosa che riuscì a vedere appena arrivò nel cortile, attraverso l’inferno di polvere e terra che mulinavano trasportati dal vento, fu il profilo di Jean Grey che si librava a mezz’aria nel punto in cui Medusa aveva visto per l’ultima volta Pyro e Magneto. L’angoscia e il terrore la stritolarono, e senza nemmeno rendersene conto scattò in avanti, intenzionata a raggiungere il ponte. Riuscì a fare un passo soltanto, poi l’uragano la investì e la scagliò lontano. Medusa chiuse gli occhi quando sentì il suo corpo librarsi in aria, e cercò di portarsi una mano al volto per impedire al pulviscolo di entrarle nel naso e nella bocca, ma fu tutto inutile. La violenza del vento le impediva di respirare, e Medusa cominciò a farsi prendere dal panico, temendo di morire soffocata, ma poi il suo volo finì (una parte del suo cervello le disse che dovevano essere passati solo pochi secondi, ma a Meredith sembrò che quel supplizio fosse durato una vita) quando sbattè contro qualcosa e il suo corpo rotolò a terra.

Il dolore dell’impatto fu talmente forte che Medusa non riuscì nemmeno a gridare. Una sensazione di bruciore si diffuse nel suo addome, così atrocemente dolorosa che Medusa pensò di essere caduta su uno dei falò che punteggiavano il campo di battaglia. Tutti i nervi del suo corpo si contrassero mandando un unico messaggio al cervello che, forse sovraccarico per tutti i segnali che gli arrivavano nello stesso istante, non riuscì a concepire una reazione diversa dal raggomitolarsi in posizione fetale. Quando Medusa ci provò, tuttavia, il dolore all’addome fu talmente forte che rinunciò immediatamente, e rimase sdraiata su un fianco, così come era caduta. Aprì lentamente gli occhi e la prima cosa che vide fu il terreno, marrone e polveroso, e non la ghiaia che ricopriva il cortile principale dei laboratori. Doveva essere stata scagliata lontano da quella forza misteriosa che era esplosa dal corpo di Jean Grey, e probabilmente ora si trovava da qualche parte vicino alle mura esterne, dove la ghiaia non arrivava. Guardò più in basso, verso il punto da cui proveniva il dolore, e vide qualcosa di nero e appuntito spuntare dal suo corpo. Incapace di capire cosa fosse e cosa ci facesse in lei, accarezzò quella cosa con la punta delle dita, e solo quando sentì il freddo del metallo lasciare posto al tepore del suo corpo capì che una scheggia d’acciaio, forse proveniente da una delle torrette abbattute che giacevano qua e là nel cortile, le si era conficcata appena sotto lo sterno. Qualcosa di caldo e viscoso le imbrattava le dita, e Medusa si domandò da dove provenisse tutta quell’acqua prima di rendersi conto che la maglietta e la felpa che indossava erano intrisi di sangue, e dai suoi vestiti ormai zuppi grosse gocce di liquido denso colavano sul terreno.

Oh mio dio, pensò Medusa portandosi una mano alla ferita, nel vano tentativo di fermare l’emorragia. Mi sto dissanguando.

Spaventata, alzò la testa alla frenetica ricerca di qualcuno che la potesse aiutare, ma tutto ciò che riuscì a scorgere nella penombra fu l’immagine distante di Jean Grey, le falde del suo lungo cappotto porpora che le svolazzavano attorno come la coda di un uccello. Il vulcano è esploso, pensò Medusa, ricordando una conversazione che lei e la dottoressa Grey avevano avuto tempo prima, quando ancora frequentava l’Istituto e tutto era l’opposto di come era ora. L’eruzione non può più essere fermata.

Una fitta all’addome le fece digrignare i denti per il dolore e Medusa guardò di nuovo la scheggia di metallo che le perforava lo stomaco, ma non era la ferita il punto dal quale si irradiavano le fitte. Era più in basso, e lei si posò una mano sul grembo, spaventata. Un altro crampo le tolse il respiro, e poi un altro, e Medusa sentì qualcosa sussultare e contorcersi dentro di lei.

No, no, ti prego, no! pensò in preda al panico. Ti prego, fa quello che vuoi a me, ma non fare del male al mio bambino.

Lo sentì staccarsi da lei e scivolare via. Cercò di opporsi, di trattenerlo in qualche modo, ma fu tutto inutile. Mentre una lacrima le solcava una guancia, un’ultima contrazione spinse via dal suo grembo quello che restava del suo piccolo, e poi tutto dentro di lei fu vuoto, buio e freddo. Medusa chiuse gli occhi e la sua mano strinse convulsamente il rosario che teneva nella tasca dei jeans. Ti prego, ti prego, ti prego aiutami! implorò, senza sapere a chi si stesse rivolgendo con quella preghiera, se fosse una qualche divinità, o sua madre, o John, o chiunque altro volesse accogliere quella disperata richiesta d’aiuto.
Non sapeva di avere ancora la forza di piangere finché altre lacrime non si unirono a quella che aveva solcato il suo volto pochi secondi prima, e la sua mano destra emerse dalla tasca con il rosario di Danielle avvolto attorno al palmo. Medusa la fece correre delicatamente sul ventre, cercando il suo bambino, ma il gelo che vi sentì le confermò che lui non era più lì con lei.

Sentì la testa vorticarle terribilmente e il sapore del sangue risalirle fino in bocca. Ogni residuo di forza l’abbandonò e Medusa chiuse di nuovo gli occhi, troppo stanca e troppo debole per lottare ancora contro quella sensazione di freddo che le stringeva il corpo. Non sentiva più dolore, ma si disse che persino la sofferenza atroce che aveva provato era preferibile al ghiaccio che ora stava ricoprendo il suo corpo centimetro dopo centimetro, irradiandosi dal suo grembo vuoto. La sua mano strinse di nuovo il rosario, o almeno ci provò, e mentre un’altra lacrima sfuggiva alle sue palpebre ed andava a mischiarsi al sangue sul terreno Medusa pensò che non aveva mai sopportato il freddo, mai. Però sono stata fortunata ad aver incontrato nella vita qualcuno che mi ha dato la sua felpa per scaldarmi, si disse con un sorriso. Una sensazione di gratitudine e di gioia l’attraversò, difendendola per qualche secondo dal gelo che l’attanagliava.

La sua testa ricadde lentamente di lato e lei sospirò. Qualcosa le costringeva la gabbia toracica, impedendole di espandersi in maniera efficiente, e respirare si stava facendo più difficile. Merda, morire fa proprio schifo, pensò, e con sorpresa si rese conto che non provava rabbia a quel pensiero, solo rimpianto. Ho diciassette anni. Diciassette. Ci sono ancora così tante cose che avrei dovuto fare. Così tante cose che avrei potuto dire. Di nuovo si stupì di non essere infuriata all’idea di morire a diciassette anni, ma poi pensò che forse era perché l’ira è un sentimento che richiede una certa quantità di energie, e lei non era sicura di averne ancora. Anche le lacrime che fino a poco prima le solcavano il volto si erano esaurite, o forse il freddo che la stringeva nella sua morsa le aveva congelate dietro le sue palpebre.

On the third day he took me to the river
He showed me the roses and we kissed
And the last thing I heard was a muttered word
As he stood smiling above me with a rock in his fist…

“Papà, papà, corri!” gridò Evie. “Meredith piange!” Medusa aprì di scatto gli occhi, sobbalzando alla voce di sua sorella. Migliaia di luci le danzarono nelle pupille come se stesse guardando attraverso un caleidoscopio, e lei richiuse le palpebre. Evie era in piedi di fronte a lei e la fissava con uno sguardo preoccupato, i suoi grandi occhi verdi pieni di lacrime e il labbro inferiore spinto in avanti, come faceva sempre quando stava per mettersi a piangere. Aveva otto anni, ma quell’espressione la faceva sembrare ancora più piccola e fragile.

Meredith continuò a singhiozzare, senza nemmeno curarsi di asciugare quel fiume di lacrime che le inondava le guancie e le bagnava la maglietta. Le sue mani strinsero convulsamente il copriletto dei Looney Tunes, mentre dallo stereo del soggiorno arrivava fino alla cameretta che divideva con Evie l’ultima strofa della canzone.

On the last day I took her where the wild roses grow
And she lay on the bank, the wind light as a thief
And I kissed her goodbye, said, "All beauty must die"
And lent down and planted a rose between her teeth.

Suo padre apparve sulla soglia, il volto teso in un’espressione preoccupata. “Meredith...” disse, e poi fece una cosa che lei non si sarebbe aspettata nemmeno in un milione di anni. Attraversò velocemente la stanza, scavalcando le Barbie che giacevano qui e là sul tappeto, si sedette accanto a lei sul letto e la prese in braccio. “Shhh, tesoro mio, shhh...” le sussurrò mentre la cullava, accarezzandole i capelli con una mano e serrandola contro il suo petto con l’altro braccio. “Non è niente... Vuoi dire a papà perché piangi?”

Meredith singhiozzò più forte, e premette la fronte contro la spalla di suo padre. Era arrivata a Phoenix da due mesi, e aveva cercato in tutti i modi di farsi mandare via. Aveva rotto tutte le bamboline di ceramica che sua madre teneva sul caminetto con un’onda di energia psichica. Aveva preso a calci la siepe di rododendro che cresceva accanto alla porta finché il tronco non si era spezzato. Aveva spinto Evie in una pozzanghera. Due volte. Ma i Barrymore la sgridavano, la mettevano in castigo e si ostinavano a tenerla con loro. Lei li odiava.

“E’ stata la canzone, papà.” disse Evie, la sua voce rotta dal pianto. Meredith sentì la mano di sua sorella accarezzarle delicatamente il braccio. “Non piangere, non piangere Meredith...” la implorò.

“Ti avevo detto di non mettere quell’album quando ci sono le bambine, John.” Meredith non la poteva vedere, ma immaginò che sua madre fosse da qualche parte nella stanza, forse vicino alla porta.

Suo padre la strinse più forte contro di sé. “Tesoro mio, non devi piangere.” le sussurrò nell’orecchio mentre le sue mani le accarezzavano dolcemente la testa e la schiena, cercando di calmare i singhiozzi che ancora la scuotevano. “E’ solo una canzone, non è una cosa reale. Non avevo idea che ti avrebbe sconvolta tanto. Non la metteremo mai più, d’accordo piccola?”

Meredith scosse la testa con forza. “No, non è... Io non...” mormorò tra i singhiozzi. Non voleva che rinunciasse a qualcosa per colpa sua, ma non sapeva come dirglielo. Sollevò le braccia, che fino a quel momento erano rimaste abbandonate lungo i suoi fianchi con i pugni serrati, e le avvolse attorno al collo di suo padre. Lui le diede un bacio sulla tempia.

“Va tutto bene, amore mio. Papà è qui con te, e anche la mamma, e la tua sorellina...” disse spostandole dagli occhi una ciocca di capelli zuppa di lacrime. Meredith strinse più forte le braccia attorno al suo collo, pregando che lui non la lasciasse andare mai. “Papà...” sussurrò con gli occhi ancora chiusi. Era la prima volta che pronunciava quella parola. Suo padre le baciò la fronte, poi la punta del naso e le palpebre, e Meredith aprì piano gli occhi. Il viso di suo padre era a pochi centimetri dal suo, e la stava guardando con un sorriso sulle labbra. Le prese il volto tra le mani e spinse indietro i capelli che le cadevano sulla faccia, poi la attirò a sé e le baciò nuovamente la fronte. “Sono qui con te, piccolina. Sarò sempre qui con te.”

“Papà.” chiamò piano Medusa, sdraiata sul terreno freddo e duro del cortile dei laboratori Worthington, sull’isola di Alcatraz. Aveva talmente freddo ora che non riusciva a sentire più il suo corpo; le sue braccia, le sue gambe, erano solo dei monconi intorpiditi, e per un istante Medusa si domandò cos’erano quelle cose molli e pesanti attaccate a lei. Aprì le palpebre, ma questa volta nessuna luce ballò davanti ai suoi occhi: c’era solo un velo grigio e impalpabile che copriva ogni cosa, impedendole di vedere. No, non così, si disse. Voglio morire guardando il cielo.

Medusa spostò la mano che ancora era posata sul suo grembo a terra, o almeno dove presumeva ci fosse la terra, e spinse, gettando contemporaneamente indietro la testa per buttare tutto il suo peso dietro di lei. Atterrò sulla schiena e aspettò di sentire di nuovo il dolore irradiarsi dalla ferita come una lingua di fuoco, ma invece non successe nulla. Le dita della mano sinistra, che non erano legate dalla catena del rosario, si piegarono e artigliarono la terra, cercando un appiglio che le consentisse di sollevare il suo peso e appoggiarsi al grosso frammento di muro che giaceva a terra pochi centimetri dietro di lei. Si ricordò della buca che lei e John avevano scavato per Evie ai piedi della rosa, nel cortile dietro le cucine giù alla scuola, e sorrise pensando che nessun altro al mondo conosceva quel segreto, solo loro tre: lei, sua sorella e John.

John. chiamò Medusa in silenzio. E’ maggio ormai. Chissà come sono belle le rose bianche, là nel nostro posto segreto. Una lacrima solitaria sfuggì alla prigionia del ghiaccio e percorse la sua guancia, andando a morire sulle sue labbra ancora piegate in un sorriso. Sarebbe stato tanto bello vederle con te un’ultima volta.

La sua schiena colpì il cemento grezzo del muro più duramente di quanto si era aspettata, ma stranamente non sentì alcun dolore, solo la sensazione di avere qualcosa di duro e scomodo che le urtava le vertebre. Medusa non ci fece caso. Riscaldata dalla mano di John che stringeva la sua, mentre osservava insieme a lui il cespuglio di rose bianche ai cui piedi giaceva Evie, Medusa aprì gli occhi. Il velo che ricopriva le sue pupille era diventato più buio e più fitto, immergendo tutto quel che restava del suo mondo nelle tenebre, e lei utilizzò gli ultimi grammi di forza e di coraggio che le restavano per strappare quell’oscurità dai suoi occhi e gettarla lontana, dove non avrebbe più potuto tenerla prigioniera.

Ed eccole, finalmente. Le stelle. Medusa dovette sbattere le palpebre un paio di volte prima di riuscire a metterle a fuoco e scorgerle nella seta blu scuro del cielo, lucenti e piene di grazia come migliaia di piccole farfalle di fiamma. Sembravano osservare dall’alto la ragazza insanguinata che giaceva in un angolo remoto del campo di battaglia, e quando le ammiccarono tremolanti Medusa pensò che forse era il loro modo di dirle che partecipavano al suo dolore, e che stessero cercando di consolarla. Cercò il disco dorato della luna piena, e quando lo trovò si strinse forte al petto il rosario di Danielle. Non voleva rischiare di perderlo quando il suo corpo si sarebbe rilassato, e le sue dita avrebbero perso presa.

“Papà.” chiamò rivolta verso il cielo, così piano che nessuno, anche se fosse stato inginocchiato accanto a lei, avrebbe potuto sentire. “Tienimi stretta adesso.”

Stremata da quello sforzo, Medusa richiuse gli occhi. Un involontario sospiro le fuggì dalle labbra mentre la sua testa si reclinava lentamente di lato, poggiando la guancia contro il cemento ruvido del frammento di muro.

La guerra era finita.

.........................................................................................................................................................

Ok. Ok. Calma, adesso.

Prima di sommergere la mia casella di posta con email di insulti, prima di rendermi cieca e storpia con devastanti maledizioni vudoo, prima di assoldare una banda di killer ucraini per farmi gambizzare, lasciate che vi spieghi le mie ragioni.

Non è stato facile fare questo a Meredith. L'ho creata io, le ho dedicato due mesi della mia vita, e le voglio bene.
Vi giuro che mentre scrivevo l'ultima parte del capitolo mi veniva da piangere. Ma io non credo nei lieto fine, e a volte la vita può essere davvero davvero bastarda, e fregarsene se hai diciassette anni, tutta la vita per rimediare ai tuoi errori e un bimbo che nascerà fra sette mesi. Ho cercato un modo per salvarla, ci penso ormai da tre giorni, ma sono giunta alla conclusione che questa storia non possa avere un finale differente. Non so spiegarvi il perchè, sento che deve essere così e basta. Cercate di non odiarmi troppo, se ci riuscite, e non siate troppo tristi per Meredith.

E poi, gente, stiamo parlando degli X Men, avete presente? Rogue che risorge quando Wolverine l'abbraccia? Jean Grey che emerge miracolosamente dalle acque di Alkali Lake? E poi, se ci fate caso, la parola "morta" non compare da nessuna parte.

Forse Meredith non è morta affatto. Qualche idea mi frulla in testa, troppo labile per costituire una storia, ma in futuro chissà? Magari qualche pezzo in più si unirà al puzzle, e potrò cominciare a scrivere qualcosa di sensato. Credetemi, anch'io desidero ardentemente che Meredith non muoia.

Comunque, passiamo per un momento a cose pratiche. Ecco la traduzione delle ultime due strofe di "Where the Wild Roses Grow":

VOCE FEMMINILE: [...]"Il terzo giorno mi ha portata al fiume
Mi ha mostrato le rose e ci siamo baciati.
E l'ultima cosa che ho sentito è stata una parola mormorata
mentre lui stava sopra di me con una pietra stretta nel pugno..."

VOCE MASCHILE: [...]"L'ultimo giorno l'ho portata dove crescono le rose selvagge
Lei si è sdraiata sulla riva, il vento leggero come un ladro.
Le ho dato un bacio d'addio, ho detto: "Ogni bellezza deve morire"
Poi mi sono chinato e le ho messo una rosa tra i denti"

Inquietante, eh?

Voglio salutare tutti quelli che hanno letto questo racconto, in particolare joey_ms_86 e Lia, che hanno avuto la bontà di recensire.
Lia, come al solito non so cosa dire, tranne che sei un mito. Grazie per tutto l'incoraggiamento che mi hai dato. Spero che questo finale non ti abbia lasciato troppo con l'amaro in bocca.

Ora è arrivato davvero il momento degli addii. Un grosso bacio a tutti e buona vita! Se la mia vena creativa farà la brava e si metterà a suggerirmi qualcosa di decente, magari ci sentiremo ancora.

Un bacione!!!!!
  
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