Credo
di essere tornata. Scusate per essere sparita per mesi interi senza
avviso alcuno ed essere tornata con un capitoletto così misero
(ahimè, cinque paginine scarse) ma ho avuto parecchie grane a
cui badare, inclusi esami, morte di Microsoft Word e blocchi vari,
per cui posso solo dire che mi dispiace molto, ma di più non
sono riuscita a fare. Ovviamente questa storia non è stata
abbandonata, ormai l'ho iniziata e la mia cara sempai Iryael mi ha
convinto a portarla a termine costi quel che costi. Ho ancora una
manciatina di capitoli già progettati, l'unico problema ora è
scriverli, e per quello posso solo fare appoggio a un ispirazione che
va e viene come le pare. Vorrei anche dirvi che ho iniziato in
parallelo un altra storia, si chiama Gli Eredi, scritta a
quattro mani con ChantyBlack98. Sarei felice se vi fermaste a dare
un'occhiata anche a questa storia.
Bene,
bando alle ciance. Gustatevi questo nuovo (talmente corto da
rasentare il ridicolo) capitolo. ^^
PS:
sul serio, mi dispiace per essere sparita e tutto. Il prossimo cap
sarà parecchio più lungo di questo, quindi... spero
siate ancora interessati alla storia ^^ (??)
Buona
lettura!
XIV: Un rifugio
Era di nuovo buio.
Per Sandman, il mondo intero era
affogato nelle tenebre.
Ogni qualvolta allungava le mani
nell’oscurità, non percepiva nulla. Più si
sforzava di vedere, più il buio si faceva fitto, se ciò
era possibile.
Faceva fatica a ricordare, la testa
dolorante -aveva ancora una testa attaccata al collo? Perché
aveva l'impressione che non fosse così- gli impediva di
processare le vaghe informazioni che riceveva.
Da quando si era risvegliato,
l’oscurità era diventata il suo mondo. E in quel mondo,
lui non sapeva. Non sapeva dov’era, se poteva uscire da
lì, in che condizioni era, se in quel luogo misterioso aveva
ancora potere, visto si sentiva troppo debole. Non sapeva nemmeno se
era ancora vivo o meno. Strinse le mani e se le portò
lentamente al petto. Serrò gli occhi: non faceva differenza
che li tenesse aperti o meno, perché quell’oscurità
pareva divorare persino il lieve bagliore che usualmente emanava. In
quel momento provò paura, si sentì solo e impotente. E
alla sua mente salì un solo pensiero.
Un unico, piccolo desiderio.
Spero stiate tutti bene, ragazzi…
*
La coscienza di June venne lentamente
riportata alla realtà da un lieve rollio accompagnato e da un
altrettanto debole scricchiolio, come se si trovasse a bordo di una
barca.
Aprì gli occhi, la vista si
rivelò un po' sfocata. Si sentiva coperta da qualcosa di caldo
e avvolgente, e il suo sguardo era rivolto verso quello che intuì
fosse il soffitto. Era di legno chiaro, squisitamente intarsiato.
June strizzò gli occhi, costringendosi a concentrasi sui
dettagli minuti di quell'inatteso spettacolo: le decorazioni
rappresentavano onde, nuvole, paesaggi. Riconobbe anche stelle,
pianeti, pesci e uccelli dalle forme così bizzarre da sembrare
aliene, con piume e scaglie decorate con pietre, mogano e oro, che
splendevano nella penombra.
June si alzò lentamente,
guardandosi attorno, un po’ incantata e un po’ confusa:
si trovava in una stanza di medie dimensioni dal soffitto alto, le
pareti di legno chiaro e oro, lavorato in modo da sembrare sabbia
incrostata fra i pannelli. L’unica fonte di luce della stanza
era composta da una lampada dai pannelli di madreperla, situata su un
abat-jour in stile rococò. A June venne quasi da sorridere da
quanto tutto quell’insieme appariva pacchiano. Infine abbassò
lo sguardo su di sé: si accorse di essere seduta su uno
scintillante cumulo di sabbia dorata. Indossava il suo piumino
azzurro ghiaccio, che ora era strappato in alcuni punti e macchiato
di fango sul fianco e sui gomiti, e si chiese come mai. Come mai
fosse ridotto così, visto che trattava quel piumino sempre con
il massimo riguardo, visto che era il suo preferito. Le ricordava gli
occhi di Jack.
Alzò una mano e si tastò
cautamente il volto: il lato sinistro era dolente e un po’
gonfio, la tempia aveva un taglio. Un paio di ciocche erano sporche,
incrostate di una sostanza nerastra e friabile.
…Sangue?
June si tirò i riccioli scuri
con una sensazione di disgusto misto a orrore mentre qualcosa, nella
sua testa, parve punzecchiarla. Una memoria in attesa di essere
richiamata dall’abisso.
Le ci volle qualche secondo per capire.
Poi trattenne il fiato, e sentì
lo stomaco stringersi in una morsa dolorosissima.
…Sandy!
Ora ricordava.
Gli Incubi, la fuga, la battaglia…
quella donna. Si portò entrambe le mani al volto. Si lasciò
sfuggire un singhiozzo, e le lacrime le pizzicarono gli occhi,
minacciando di uscire. Sandy l’aveva difesa, protetta, le aveva
detto di fuggire, e lei invece era rimasta ad intralciarlo. Non era
nemmeno riuscita ad aiutarlo quando ne aveva bisogno, quando quella
donna l’aveva aggredito. A malapena era riuscita a difendere sé
stessa…
E ora cosa gli era successo? Che fine
aveva fatto? Dov’era? Era vivo, stava bene? Oppure…
June non riuscì nemmeno a
formulare l’ultima frase che aleggiava minacciosa nella sua
mente, e si prese la testa fra le mani, affondando le unghie nello
scalpo.
…Oppure era morto.
Si sforzò di respirare. Non
doveva farsi prendere dal panico, non poteva farlo. Non le era
permesso, non dopo quello che aveva fatto, e il cui prezzo Sandy si
era ritrovato a pagare per la sua stupidità, ma le risultò
estremamente difficile mantenere una almeno vaga parvenza di calma.
Questa è tutta colpa tua.
Doveva fare qualcosa.
Dirlo agli altri. Subito.
Con un balzo, June saltò in
piedi, e cercò freneticamente fra la sabbia il suo arco e la
sua faretra -miracolosamente rimasti intatti dopo quanto passato- e
corse fuori dalla stanza, alla ricerca di una via d’uscita da
quel luogo misterioso.
Non si accorse del largo nastro si
sabbia che si staccò pigramente dal cumulo su cui si era
risvegliata, e la seguì nella sua corsa disperata.
*
Il luogo misterioso in cui si ritrovava
si rivelò essere un’enorme imbarcazione –se gli
oblò erano una qualche indicazione- dalla quale non era
possibile uscire.
O meglio, si corresse June, era
possibile uscire da lì. L’ostacolo più grosso
era costituito da quello che somigliava a un’enorme nastro di
sabbia che le bloccava l’uscita ogni volta che ne trovava una.
- Per FAVORE! – gridò la
giovane, quasi sull’orlo dell’isteria; - Io devo andare
ad aiutare! Lasciami andare! – tuttavia, le sue
preghiere si dimostrarono inutili.
*
Quando si ritrovò bloccata una
quinta volta, fu quando aveva notato l’ennesima porta che
apparentemente dava verso l’esterno. Si era lanciata verso la
libertà, solo per ritrovarsi invischiata fino al collo nella
sabbia.
Letteralmente.
Alla fine si arrese, esausta sia
fisicamente che mentalmente. La sua 'gabbia' parve accorgersene, e
dopo pochi secondi si allentò.
June, accorgendosi in tempo del
dettaglio, colse la palla al balzo: balzò fuori dalla sua
trappola con un'agilità di cui si sorprese lei stessa, e si
lanciò verso la maniglia, afferrandola e spalancando la porta,
e saltando nel vuoto.
...Libera!
Poi, in pieno salto, si accorse del
fatto che la sabbia era proprio sopra di lei. Poté far poco a
parte lanciare un urlo soffocato quando gli cadde addosso con tutto
il suo peso. Quando riuscì a tirare fuori la testa e pulirsi
gli occhi dai granelli si accorse di non essere più in
trappola. Il nastro di sabbia si era sciolto, e ora le stava
fluttuando pigramente intorno, tracciando morbide volute dorate.
June non capì.
Alzò lo sguardo, notando un
luccichio dorato dietro di sé, e scoprì di essere
appena fuggita da...
- Woah! -
Sembrava un galeone, ma diverso da
tutti quelli che aveva visto ed immaginato in tutta la sua millenaria
vita. Era immenso, June non riuscì a decidere quanto era
lungo, ed era tutto dorato. Sui tre altissimi alberi erano spiegate
enormi vele di tessuto semitrasparente, finemente decorato, mosso da
un debole vento. Ogni superficie era finemente decorata e
caratterizzata da linee gonfie ed eleganti. Le solcava accanto
procedendo a passo d'uomo, pacifico e silenzioso, simile ad una
gigantesca balena.
June non poté far altro che
rimanere ad ammirare quello spettacolo a bocca aperta, sbalordita.
Poi la sua attenzione venne catalizzata da qualcosa che proveniva dal
basso, sotto di lei. Guardò sotto di sé: il galeone in
quel momento stava solcando il cielo sopra un immensa distesa di alti
alberi, perlopiù conifere, ed era giunto in prossimità
di una radura. E, proprio sulla radura, June intravide delle figure
nere agitarsi, impossibili da distinguere con quel buio. Ma alla
giovane la poca luce fornita dal galeone bastò.
Sbarrò gli occhi nel
riconoscerle.
*
Le spaventose correnti che dominavano
il regno delle Ombre si permisero un ultimo, violento scossone prima
di ributtare i suoi viaggiatori nella dimensione da cui erano venuti.
Pitch riuscì con molta fortuna
ad atterrare in piedi, anche se il suo intero corpo protestò
lo stesso per l'atterraggio violento, ma i suoi compagni di
disavventura non furono altrettanto fortunati, finendo col cadere,
per la maggior parte, malamente di faccia. Pitch si voltò, una
mano stretta sulla spalla ferita che continuava impietosamente a
sanguinare, e osservò gli altri: sembravano tutti a posto, chi
più chi meno.
North lo era di sicuro. Jack e
Calmoniglio avevano entrambi un bel po' di tagli e lividi addosso, e
il sacco di pulci sembrava lì lì per rimettere a causa
del viaggetto scomodo, ma le loro condizioni in generale erano
normali.
Tra gli yeti c'era un ferito che
necessitava di cure immediate.
Pitch si voltò, digrignando i
denti e cercando di pensare più rapidamente e lucidamente
possibile: dovevano trovare immediatamente un rifugio.
La sua amata caverna era inagibile, al
palazzo di North non si poteva tornare -in quel momento stava
probabilmente bruciando, consumato dagli incendi appiccati dagli
Sputafuoco-, di Sandy non se ne parlava -e a Pitch parve strano il
fatto che quella peste gialla non si fosse ancora presentata.
Nella lista rimaneva Dentolina, e fu
allora che l'Uomo Nero si accorse anche della sua assenza. Rumorosa e
appariscente com'era, era impossibile per lui non averla notata. La
fatina era parecchio impegnata, certo, ma quando si trattava di
combattere l'aveva sempre vista in prima fila nell'eterna
lotta contro gli Incubi...
Non ebbe il tempo di portare a termine
quel ragionamento, che il filo dei suoi pensieri venne interrotto da
un grido proveniente dall'alto.
Alzò lo guardo e vide una luce
chiara. Sulle prime l'aveva scambiata per la luna, perciò non
le aveva prestato più attenzione del dovuto. Ad una seconda
occhiata comprese di essersi sbagliato, e anche di parecchio. Quella
luce, dorata e calda anziché bianca e asettica, non era
affatto la luna.
Era un galeone. Uno galeone
dorato per giunta, che
solcava pigramente l'aria sopra di loro, sospinto da un vento
inesistente che gonfiava le sue vele semitrasparenti, e che ricordava
in maniera raccapricciante le creazioni di Sandman. E, davanti ad
esso, volando a tutta velocità verso di loro e seguita da
quello che somigliava ad un nastro di sabbia dorata, c'era...
- June?! - esclamò Jack
alle spalle di Pitch.
All'udire la voce del giovane
Guardiano, June si fermò di colpo, e rimase a galleggiare a
mezz'aria a un paio di metri da loro. Jack vide lo sguardo di June
spostarsi freneticamente su tutti i presenti, sui loro lividi e sulle
loro ferite, e vide il suo labbro inferiore tremare.
I suoi occhi si riempirono
improvvisamente di lacrime. Poi, nel silenzio di tomba della radura,
proruppe in un singhiozzo soffocato.
- June?... - Jack non poté
crederci. L'aveva sempre, sempre vista sorridere, e la
conosceva da centinaia di anni. E, quando vide quel viso lentigginoso
storcersi in una smorfia di dolore e rigarsi di lacrime,
semplicemente non poté credere ai suoi occhi. Ignorando le
esclamazioni di sorpresa degli altri a quello spettacolo inatteso,
Jack fece qualche passo avanti, muovendosi come un'automa. Si librò
in aria andando a raggiungere June e, senza proferire parola, la
strinse in un abbraccio.
June sussultò a quel contatto
improvviso, rimanendo paralizzata per qualche istante, il fiato
sospeso.
Poi si riscosse, e cercò di
liberarsi da quella stretta.
- J-Jack! - esclamò
all'improvviso, quasi urlando, e riuscendo finalmente a spingere via
lo spirito, allontanandosi da lui. Anche Jack si allontanò di
poco dalla giovane, scioccato dalla sua reazione. Calmoniglio e North
si scambiarono un occhiata incredula, così come fece una
coppia di yeti un metro dietro di loro. Pitch corrugò la
fronte, fissando la ragazzina, percependo la sua paura.
- Jack, hanno preso Sandy! - gridò
lei, il respiro reso irregolare fra i singhiozzi. Era prossima
all'isteria.
Jack sgranò gli occhi.
- Cos...? -
Hanno preso Sandy.
Non credeva alle
sue orecchie. Certo, Jack non aveva visto Sandy intervenire nella
battaglia a palazzo, ma questo non significava assolutamente nulla...
- Stai...
stai scherzando, vero? Chi è stato? -
June fissò Jack, che ora la
guardava con un espressione di shock misto a spavento, e si mise le
mani fra i capelli.
Non riusciva più a controllare
il respiro.
- QUELLA DONNA! - gridò –
E' stata lei! Ci ha attaccati all'improvviso, assieme a degli
Incubi grigi. È tutta
colpa mia se hanno preso Sandy, se l'hanno ferito, sono
stata d'intralcio Jack, non sono riuscita ad aiutarlo, io... - il
resto della frase si perse nella felpa di Jack: lo spirito del Gelo
la tirò a sé e la strinse di nuovo in un abbraccio a
cui stavolta June non riuscì a sfuggire. Jack sentì i
singhiozzi scuotere violentemente le sue esili spalle, rendendola
incapace di respirare regolarmente. Le accarezzò leggermente
la testa riccia e la schiena. Sempre continuando a stringerla la
guidò dolcemente verso terra, dove i due vennero
immediatamente raggiunti da North, Calmoniglio e gli yeti. June non
riuscì più a trattenersi e scoppiò a piangere,
stringendosi finalmente all'amico. Jack, continuando ad accarezzarla,
alzò lo sguardo verso gli altri, trovando le sue stesse
emozioni riflesse sulle facce degli altri: confusione, disperazione,
dolore, e uno schiacciante senso di impotenza.
E, sopra a tutto, coscienza del fatto
che stavano perdendo una guerra contro le tenebre.
Pitch non mosse un muscolo, rimanendo
in disparte, limitandosi ad osservare quello spettacolo. Era scosso
non meno degli altri, soprattutto per quella notizia. L'aveva
compresa appieno, meglio di quanto avevano fatto Guardiani in
quell'istante.
Sandy è nelle grinfie di
Crysis, e il suo destino è ignoto. Potrebbe essere morto.
Il pensiero non gli portò gioia
come aveva sempre immaginato. La sua nemesi era probabilmente morta.
Ma l'informazione non causò nessuna emozione in lui. Solo...
vuoto.
Aveva creduto di aver ucciso Sandy una
volta, e ancora ricordava la folle esaltazione provata nel prevalere
su quel potere che aveva da sempre rappresentato il suo opposto e suo
nemico. E ricordava lo sgomento e l'orrore nel vederlo risorgere, più
potente di prima.
All'epoca, quando aveva trionfato,
aveva vagamente considerato l'ipotesi che Sandman potesse tornare, ma
l'aveva scacciata: errore che in seguito era risultato fatale ai suoi
piani. Ora la storia si ripeteva, solo con una piccola variazione.
Stavolta Sandy era caduto sotto i colpi
di un nemico molto più potente e spietato di Pitch. Un nemico
che poteva corrompere da dentro, e al cui potere non era ancora
sfuggito nessuno.
Il re degli Incubi strinse le labbra
sottili ed alzò lo sguardo al cielo, posandolo sul galeone
dorato che li sovrastava, simile a un gigante silenzioso.
Tu non puoi morire per così
poco. E soprattutto, non puoi morire per mano sua.
*
Dopo diverse ore che parvero un
eternità, all'orizzonte nero, seguendo il profilo delle vicine
montagne, comparve una linea sottile di un blu sbiadito, giunta a
preannunciare l'alba. June non era sicura di quanto tempo aveva
passato sul ponte del galeone, seduta su uno dei barili, lo sguardo
fisso nel vuoto. Non doveva essere passato poi molto: si era offerta
di dare una mano a medicare gli yeti feriti, e il suo corpo
cominciava solo adesso ad accusare la stanchezza data dal movimento e
dalle emozioni della giornata. Sospirò, chiudendo gli occhi.
Poi qualcosa di morbido e leggero di
posò sulle sue spalle. Riaprì gli occhi sorpresa,
scoprendo di avere sulle spalle una coperta di piles gialla, e vide
un Jack non meno stanco sedersi su una cassa accanto a lei. Guardava
anch'egli l'orizzonte ancora scuro, e aveva sulle labbra un lieve
sorriso, che svanì subito. June non proferì parola,
distogliendo lo sguardo e tornando a fissare l'orizzonte. Nessuno dei
due disse nulla.
Poi Jack parlò: - Sono felice
che tu stia bene. - disse piano. - Io... mi dispiace per quello che
hai passato. Avrei voluto essere lì ad aiutarvi tutti e due.
Mi... dispiace. - disse con voce esitante.
La verità era che non sapeva che
dire. Si sentiva devastato, non solo per quello che era successo, ma
anche per quello che aveva visto. Per Sandy, per gli altri Guardiani,
per June. Era la prima volta che la vedeva piangere, l'aveva sempre
creduta troppo forte per queste cose.
June non sorrise, sentiva che persino i
suoi muscoli facciali erano troppo stanchi e congelati per compiere
un qualche movimento, il so cuore troppo pesante per battere ancora.
Tuttavia, al sapere che Jack era accanto a lei, che non la odiava
dopo le notizie che lei gli aveva portato, dopo i fastidi e i guai
che gli aveva causato, sentì che un po' del peso che le
schiacciava l'anima svanire.
Chiuse gli occhi, sentendo le lacrime
minacciare di scendere per l'ennesima volta.
Poi, si sentì stretta da due
braccia forti e gelide come il ghiaccio dell'Antartico, e un mento un
po' appuntito poggiarsi sul suo scalpo.
Fu allora che le lacrime tornarono a
scorrere sulle sue guance.
Per quanto si sentisse un mostro ad
ammetterlo, stava un po' meglio, ora.
*
La notte era calata da poco sulla
foresta. Era un luogo cupo, silenzioso, con alberi altissimi dai rami
così fitti che la luce non era in grado di penetrarli ed
arrivare a terra.
Una figura chiara vagava tra quei
tronchi secolari. Aveva una pelle di un pallore cadaverico, quasi
grigiastro, i capelli erano neri, lunghi e scompigliati, con qualche
ciocca grigia. Indossava un abito lungo, largo e scuro, talmente
sporco e rovinato da aver perso il suo colore originario, arrivando
ad assumere una tonalità simile ad un nero verdastro, dagli
orli marcescenti. Dal suo collo pendeva un bizzarro cappio di corda
nera, spessa e pesante, che sembrava infinito, o almeno così
la figura credeva.
Aveva provato a togliersi quel pesante
accessorio, ma per qualche ragione non ci era riuscita. Ogni volta
che ci provava, la corda si stringeva al suo collo, impedendole di
rimuoverlo, per tornare alla sua larghezza originale quando
abbandonava tale intento. La figurina lo aveva trovato un fenomeno
assai curioso. Si era poi guardata intorno e, incuriosita dal cappio
e dalla sua spropositata lunghezza, aveva deciso di trovarne la fine.
Prese a tirarlo, ma la corda non finiva mai. Allora decise di
seguirla per scoprirne l'origine, ma questa dopo un po' spariva e,
dopo essersi persa più volte tra gli alberi, abbandonò
anche quest'ultima intenzione.
Dopo aver lasciato perdere le indagini
sul cappio, la figurina decise di fare una passeggiata e di esplorare
il luogo. Era tanto, tantissimo che non aveva l'occasione di uscire
fuori, vagare in un oscurità che credeva essere la sua casa,
ma che non aveva mai visitato perché aveva trascorso tutta la
sua lunga -era lunga? Non era in grado di calcolare il
trascorrere del tempo in fondo, e le tenebre eterne della foresta non
glielo permettevano- esistenza intrappolata in una grande quercia
maledetta da un sigillo.
Si era chiesta molte volte perché
era stata intrappolata -o forse ci era direttamente nata? Si chiese-
in quell'albero, ma ora che era libera tutte quelle domande non
avevano più importanza.
Una fanciulla era arrivata, una
fanciulla bella come un fiore e terrificante come il guardiano posto
a difesa del sigillo, e l'aveva liberata.
La figurina, libera e terrorizzata
dalla sconosciuta, era fuggita quando aveva scoperto che le sue
catene erano state misteriosamente spezzate, e non aveva avuto il
coraggio di tornare finché non aveva scoperto che la sua
misteriosa liberatrice se n'era andata.
Ora che era più calma, si rese
conto che non l'aveva ringraziata, e se ne rammaricò. Ma non
sapeva dov'era andata, e non poteva di conseguenza seguirla. L'unica
cosa che le rimase da fare era vagare senza meta, esplorando quel
luogo grande e silenzioso con la meraviglia di una bambina.
Infine giunse sulle sponde di una
grande distesa d'acqua. Sapeva cos'era: un lago.
Non ricordava di aver mai visto
l'acqua, se non quando pioveva e le gocce cadevano sulle foglie e poi
sul suolo con un ticchettio ritmico, aiutando la terra a far crescere
l'erba e le piantine nuove, però per qualche ragione sapeva
com'era fatto un lago, e forse anche un mare.
Non aveva mai visto il mare.
Si avvicinò piano all'acqua,
affascinata da quella distesa liscia e nera, parzialmente distratta
dal biancore candido e soffice della neve che giaceva per terra.
Anche la neve era uno spettacolo assai raro per lei.
I suoi passi erano leggeri e non
lasciavano impronta alcuna, ma lei sentiva il freddo e il bagnato su
cui stava camminando. Giunta alla sponda, si sporse a guardare.
Una forte luce inondò i suoi
occhi, e la costrinse a coprirsi il viso con le mani cianotiche.
Quando le abbassò, un nuovo
spettacolo si parò davanti a lei: sul lago nero c'era della
luce. Alzò lo sguardo al cielo, e vide delle nuvole grigie,
oltre le quali faceva capolino la luna. Era grande e bianca, e la
figurina rimase ad ammirarla, meravigliata.
Quando era ancora intrappolata
nell'albero, certe notti aveva l'impressione che la luna le parlasse,
ma lei non aveva mai capito cosa le dicesse. La sentiva sussurrare
parole inintelligibili, e aveva una voce calma e rassicurante. Quelle
rare volte, lei era felice, e cercava di ricambiare parlandole a sua
volta, ma senza ricevere risposta.
Si portò entrambe le mani alle
orecchie, e cercò di aguzzare l'udito: magari ora che era
libera la luna le avrebbe parlato di nuovo, e stavolta lei l'avrebbe
capita.
Ma la luna non parlò.
La figurina abbassò le mani e lo
sguardo, delusa. La luna era un po' come un amica per lei, e il suo
silenzio la rendeva triste. Ma non ebbe tempo di imbronciarsi, che
vide qualcos'altro. C'era qualcosa, anzi qualcuno, sulla sponda
opposta del lago. La figurina dall'abito scuro strizzò gli
occhi, osservandola: sembrava un ragazzo.
Un ragazzo alto e magro, dimostrava non
più di sedici anni, o almeno così lei credeva, ed
indossava una bella armatura che sembrava fatta d'argento e platino,
decorata con motivi sinuosi e impreziosita da perle, opali e
diamanti. Il ragazzo stesso sembrava fatto di nebbia, simile a un
respiro nella notte, o alla nebbia mattutina. Il suo viso era bianco
e magro, incorniciato da corti capelli candidi come la neve, i suoi
occhi erano di un azzurro chiarissimo, e somigliavano a zaffiri.
Guardava la figurina con un sorriso gentile.
La figurina fece un piccolo passo
indietro, sorpresa, ma sorrise anche lei. Per qualche ragione quel
ragazzo le ricordava tanto la luna, e questa cosa la rallegrava.
Poi, con un balzo leggero, il ragazzo
si librò in cielo ed atterrò al centro del lago, e con
un altro salto arrivò vicino alla figurina dalla chioma nera.
Sempre con quel sorriso, le fece un
piccolo inchino, e si posò una mano sul cuore.
Io mi chiamo Nightlight.
La sua voce era un sussurro gentile. La
figurina lo trovò un nome meraviglioso.
Anche lei si portò una mano sul
cuore, e aprì la bocca.
Ma non ne uscì nessun suono.
La richiuse, e si guardò la mano
cadaverica che aveva posato sul petto, rendendosi conto di una cosa:
non ricordava il suo nome. Non riusciva nemmeno a parlare.
Rialzò lentamente lo sguardo,
disperata, e vide Nightlight in piedi di fronte a lei. Sorrideva
ancora. La figurina si tolse la mano dal cuore, e se la portò
ai capelli, rendendosi conto di quanto erano in disordine.
Chissà cosa starà
pensando di lei...
Nightlight tese una mano verso di lei.
La figurina la guardò interrogativa. Nightlight le fece un
piccolo cenno con la testa, indicando la luna.
Lei non capì, ma non si fece
troppe domande. Titubante, allungò una mano esile, che lui
strinse con dolcezza. Sembrava grigia tra le sue dita, che erano
bianche come la neve. Si sentì imbarazzata, ma anche curiosa.
Si sentì sollevare, farsi più
leggera, e guardò giù: si stava alzando in aria. Non
credeva di esserne capace.
Nightlight le prese anche l'altra mano,
e tirò la figurina a sé.
La Luna mi ha detto che volevi
parlarle.
Io sono qui per portarti da lei.
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