Grazie
a tutte
per i commenti, mi hanno fatto davvero molto piacere ^_^
Ecco il penultimo capitolo:
Capitolo
IV
The sixth floor
Applausi,
coriandoli su me come pioggia di ironia, occhi e bocche piangenti ma
felici,
ancora urla, ancora applausi.
Come
ogni
volta, lancio il plettro su quella spaventosa folla, così
che una mano
sconosciuta possa afferrarlo e che qualcuno possa tornare a casa
dicendo “Tom
mi ha sorriso tutto il tempo, si, proprio a me, e alla fine del
concerto mi ha
lanciato questo! Poi mi ha anche fatto
l’occhiolino!”
Illuse.
Compatendole
esco dalla scena, rimpiangendo i bei giorni delle mie canzoni, cantate
da
diecimila voci, cantate da quella ossessione che ora mi sembra fosse
dolce
malattia rispetto a questa.
Cammino
lungo
i corridoi dell’albergo: ecco la stanza che
cercavo… ecco la stanza 483.
È
vuota e
aperta, non è come quella di tanto tempo fa, in Spagna, ma
per me andrà bene lo
stesso.
Spalanco
la
finestra che da sulla strada e per un attimo mi godo la brezza
d’inizio
autunno.
Che buon
profumo, profumo di pioggia.
Butto a
terra
il cappellino, lasciando che l’aria mi passi tra i capelli.
Ogni
volta che
me li tocco provo una strana sensazione… per quanto sia
già passato un anno, ancora
non mi sono abituato ai capelli corti. I miei bei rasta
appartengono al
passato, quello stesso passato che mi sta spingendo a salire sul
parapetto del
balconcino in questa deprimente camera d’albergo.
Guardo
verso
il basso, le luci mi ammiccano di rimando, attraendo come calamite il
mio paio
di Sneakers bianche, nuove di zecca.
Mi pare
di
svuotare ulteriormente il mio cuore da quell’ultimo briciolo
di umanità
rimastami.
A che
scopo
conservare la vita se poi non si ha nessuno con cui condividerla? A che
scopo?
Sono
stato
tante cose nella vita: Tom Kaulitz von Tokio Hotel… Tom
Kaulitz dei gemelli
Kaulitz… Tom Kaulitz von Mystified… e ora?
Ora che
in
questa stanza non c’è nessuno oltre a me, ora che
sono solo Tom, mi rendo conto
che io non sono nessuno.
“cosa
ho
fatto? Che cazzo ho fatto!” singhiozzo nel nero.
Sorrido
senza
motivo, mentre una lacrima mi precede nel grande salto.
Ho
sempre
creduto di sapere quale fosse il mio destino, eppure non l’ho
mai saputo.
Mi rendo
pian
piano conto che tutto quello che volevo, tutto quello di cui avevo
bisogno, era
quell’ultimo briciolo di umanità che avevo appena
scacciato dal mio cuore.
E forse
di un
fratello.
La vita
è così
vuota. Solo un salto la può riempire.
La
caduta dal
sesto piano è una strana sensazione: ti senti
così leggero, come se tutti gli
organi ti avessero abbandonato, rimanendo su quel parapetto. Eppure mi
sento
anche molto pesante, tutte le colpe e i rimpianti che mi
premono contro
gli occhi.
Quando
me ne
libero è già troppo tardi.
A
cadere
dal sesto piano ci si impiegano solo pochi secondi… poi
è buio.
Tom
Kaulitz
girò l’angolo nel vicoletto, buio e seminascosto.
In
tasca
teneva il suo piccolo tesoro bianco, incellophanato e ben protetto.
A
quell’ora
Bill sarebbe sicuramente già stato sulle sue tracce, pronto
a perquisirlo e
fargli l’ennesima scenata.
Nel
cupo
silenzio della notte, il rumore dei passi sull’asfalto
bagnato rimbombavano
come rimproveri nelle orecchie di Tom.
Ogni
centimetro corrispondeva a un ulteriore senso di colpa.
Un
improvviso, concitato e affannoso parlare attirò la sua
attenzione.
Accelerando
l’andatura nella direzione dalla quale sembravano provenire
le voci, Tom giunse
a un incrocio tra due stradine piastrellate. Solo un lampione morente
illuminava la terribile scena che gli si parava innanzi.
Bill
Kaulitz giaceva a terra: un ragazzo corpulento stava seduto a
cavalcioni sul
suo corpo,trattenendogli le mani e premendolo sgraziatamente in una
morsa che
doveva essere una specie di bacio.
“Che
brava
puttana che sei, ragazzo”
Il
burbero
aggressore spingeva una mano dei boxer di Bill, lasciati in vista dai
jeans
aperti, mentre un altro uomo osservava la scena dall’esterno,
evidentemente in
attesa del proprio turno.
I
due non
parvero accorgersi della nuova presenza così, Tom, superato
l’iniziale momento
di paralisi, scattò in direzione del più grosso,
quello che stava addosso a suo
fratello.
Bastò
un
unico pugno dell’altro per mandare il chitarrista ko, con il
labbro gonfio e
sanguinante.
Approfittando
di una momentanea tregua, Tom alzò lo sguardo verso
l’assalitore, supportato
ora dal suo socio.
Rimase
basito alla scoperta che, effettivamente, quel volto non gli era
affatto nuovo
“Frank!? Sei tu?”
L’uomo,
che
era rimasto fino ad allora fermo ad assistere alla scena,
sembrò riscuotersi
dal torpore, così che, stiracchiandosi le braccia,
scandì:
“Tom,
Kaulitz… ebbene…paradossalmente, era proprio te
che volevo.”
Il
suo
ghigno sinistro fece rimpiangere al chitarrista i pugni in faccia di
poco prima.
“Frank…io…”
“Mi
hai
molto deluso, Kaulitz. Tre ottime dosi e ancora non mi hai
pagato”
Poteva
succedere qualsiasi cosa in quella situazione, Tom avrebbe potuto
scappare, ma
la vista di suo fratello, steso a terra, gli occhi sbarrati dal terrore
e il
trucco sciolto sulle guancie, gli diede la forza per aprir bocca.
“Pagherò!
Giuro… io… li ho i soldi, ho solo bisogno di un
attimo per evadere la
sorveglianza dell’albergo e poi…”
“Non
ti sei
più fatto vedere… hai trovato qualcun altro per
la roba forse?”
“No..
io…”
“Shhh…
shhh…. Non fa niente… Non sei più in
debito, Tom”
“I..in
che
senso?”
“Tuo
fratello ha pagato per te” una luce strana nei suoi occhi,
malizia e una buona
dose di cattiveria.
“E
piuttosto bene…” aggiunse l’altro. La
risata dello stronzo fu peggiore di
qualsiasi schiaffo mai ricevuto.
Prima
ancora che Tom potesse dire o fare qualsiasi cosa, i due tipacci
montarono su
una moto rossa, per poi partire nel buio.
E
così Tom
rimase li, i pugni stretti in una morsa disperata e la mascella serrata.
Con
un
balzo felino fu al fianco di Bill, passandogli una mano tremante sulle
guancie…
ma il fratello lo respinse, si sollevò, e, barcollando, si
incamminò lungo il
vialetto.
“Bill…
stai
bene? Bill…”
Che
cosa
stupida da chiedere. Come poteva stare bene?
Senza
pensarci ancora, gettò le braccia al collo del gemello
più piccolo, lasciando
che si sfogasse.
“Merda…
merda merda merda”
Ripeteva
Bill tra i singhiozzi isterici, cercando di allacciarsi i jeans,
appiccicosi di
liquido bianco estraneo. Ma, appena Tom tentò di aiutarlo,
il fratello gli si
appese alla maglietta, graffiandogli, incidendogli il petto per tutta
la sua
lunghezza.
Il
chitarrista restò lì, nel piccolo vicolo
solitario, bersaglio immobile e
silenzioso di quella giusta rabbia.
…
Riapro
gli
occhi, lentamente. Le ciglia sono leggermente appiccicate dal sonno e
faccio
una fatica incredibile a mettere a fuoco i colori attorno a me.
Qualche
mattutino raggio di sole filtra tra le imposte alla mia finestra,
impregnando
di primavera la stanza.
“Dove
sono?”
penso.
“A
casa”
risponde una voce conosciuta, al mio fianco… non mi chiedo
come mai possa
sentire quello che passa per la mia mente intorpidita,
perché la gioia di quel
sorriso è troppo disarmante.
Dietro
ai suoi
capelli neri e folti spunta un cappellino da baseball…
Gustav!
Riesco a
fatica a tirarmi a sedere, giusto in tempo per vedere il viso allegro
di Georg
fare capolino nella camera semi illuminata, portando una vassoio
stracarico di
ciambelle.
“La
colazione!” esclama, versando a me e a mio fratello una tazza
di caffè con
latte.
“Moritz!
Hai
di nuovo lasciato le mutande della tua groupie nel mio
letto!” rimprovera
Gustav. Moritz, così chiamiamo Georg ogni volta che ci fa
arrabbiare. Ridono e
scherzano davanti ai miei occhi, come un tempo.
Raccolgo
un
po’ di coraggio, poi riesco finalmente a dire quello che
penso, che penso da
quasi due anni a questa parte “Mi siete mancati,
ragazzi.”
“Forza
Tom,
mangia.. il concerto è tra solo due ore!”
“Che
bello, un
concerto! ma allora… i TH si sono riuniti?” chiedo
speranzoso.
Bill
sorride
più di tutti… non lo vedo così felice
da un sacco di tempo. È bellissimo quando
sorride, molto più bello di me.
Ma una
nube
scura passa ora al di fuori della finestra, un monsone. Le ombre nella
stanza
si allungano e si distorcono.
“Ci
hai fatti
preoccupare, Tom…” improvvisamente tutte le
espressioni attorno a me si fanno
corrucciate, quasi ansiose.
“Io…”
la
caduta dal sesto piano mi investe come un treno in corsa:
“Come
è
possibile? Come mai sono vivo?”
Ho quasi
paura
a chiederlo… tutto questo è troppo
bello per essere ver… e proprio
mentre lo penso, mi tocco i capelli, tocco i lunghi rasta di Tom
Kaulitz von
Tokio Hotel.
E
capisco.
Provo ad
aggrapparmi a questo sogno, provo a non scivolare nella
realtà, ma tutto è
inutile. Vedo per l’ultima volta ancora il volto che amo
più in assoluto e
comincio a gridare: non voglio perderlo, non di nuovo, non ora che
abbiamo
fatto pace. Ma lui mi fissa, senza muovere un dito, con quella sua
nuova
espressione severa, quasi accigliata.
“Bill….
Non
lasciarmi… Bill… Bill… ti voglio bene!
... Bill…”
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