capXII
INCREDIBILE
MA VERO SONO TORNATA! NON VI FARO' L'ELENCO DELLE MILLE COSE CHE MI
SONO SUCCESSE, PERCHE' COMUNQUE SONO E RESTO UN'AUTRICE TERRIBILE, LO
SO! CHIEDO SCUSA A TUTTI!
SEX ALERT: scene di sesso in questo capitolo. Niente di che, ma vi avverto comunque qualora l'idea di leggere vi infastidisse.
A PRESTO!
//////////
Freddo.
Faceva un freddo terribile e nonostante la sciarpa stretta attorno al
collo Cara continuava a sentire i brividi percorrerle le ossa. Aveva
visto vento, pioggia e neve anche a New York, ma nulla di
paragonabile alla miseria dell’Alaska. Tutt’attorno le persone
sembravano starci dentro benissimo e lei continuava a non capire come
fosse arrivata fin lì, seduta sui gradini gelidi di un cinema
chiuso, sperando di morire prima della prossima seduta di
psicoterapia.
Ancora
una volta spinse il pollice sulla rotella dell’accendino sperando
che la fiamma riuscisse a sopravvivere. Aveva quella sigaretta in
bocca da quasi mezz’ora ed ormai sentiva il sapore del filtro sulla
punta della lingua. Non le piaceva fumare, era solo un modo come un
altro per sentirsi più grande e più forte dei suoi sedici anni.
L’orologio
della chiesa in lontananza segnava le dodici e venti, ancora un paio
d’ore prima di poter tornare a casa e fingere che un’altra
giornata di scuola fosse finita. Casa… Non sarebbe mai più tornata
a casa.
Ancora
una volta vide la flebile fiammella spegnersi all’istante davanti
ai suoi occhi.
“Hai
bisogno di accendere?”
Una
voce sconosciuta attirò la sua attenzione dalla sinistra. Un uomo
sulla quarantina dai capelli castani, avvolto in un cappotto non
troppo pesante, lasciato aperto sulla camicia a righe bianche e blu,
se ne stava con le mani in tasca ed un mezzo sorriso in faccia. Come
faceva a non morire assiderato?
Cara
sentì la schiena drizzarsi ed il panico affacciarsi sotto i mille
strati di abiti invernali. Non le piacevano gli sconosciuti. Non più.
Lui
tirò fuori le mani e le sollevò prima di farsi più vicino. Le
porse un accendino verde di quelli che vendono a cinquanta centesimi.
Cara rimase impietrita, senza saper decidere se fuggire a gambe
levate o cedere al suo imminente attacco di cuore.
Lui
sembrò sorridere di nuovo. Si sedette sul suo stesso gradino,
qualche metro più in là.
“Non
sei di qui, vero? Ti si legge scritto in faccia che vorresti essere
da tutt’altra parte.”
Esatto.
Vorrei essere a casa mia, a New York, litigando il coprifuoco con mia
madre mentre aspettiamo che il polpettone sia pronto e che mio padre
rincasi dal lavoro.
Cara
ingoiò la sua stessa saliva stringendo la borsa tra le mani.
“Mi
scusi…”
Iniziò
in un mezzo sussurro
“…Ma
non parlo con gli sconosciuti.”
Lui
allargò il sorriso mostrando i denti bianchi ed il loro piacevole
contrasto contro l’abbronzatura.
“Saggia
abitudine…”
Scivolò
sul cemento facendosi più vicino, allungò la mano destra
“Il
mio nome è Robert.”
Cara
lo guardò finalmente negli occhi, anonimi occhi castani splendenti
di una luce del tutto particolare. Qualcosa nel suo sguardo e nella
sua sicurezza abbassò il suo livello di panico.
“Potresti
comunque essere un serial killer.”
Rispose
senza accettare la stretta, sorpresa della sua stessa audacia.
L’altro
sollevò un sopracciglio in apprezzamento, ma quasi immediatamente la
sua ilarità scomparve
“Potrei…”
Abbassò
la mano poggiando il palmo sul gradino freddo e sporco
“…Ma
lascia che ti dica una cosa…”
Cara
tentò di scivolare via, ma rimase inchiodata al suo posto
“…A
volte le persone meritano di morire.”
Inclinò
la testa intenerendo lo sguardo
“Sono
comunque certo che non fosse il caso dei tuoi genitori.”
Cara
spalancò gli occhi
“Come
fai a sapere dei miei genitori?”
Lui
sembrò ignorare l’ovvia domanda, soffermandosi sul panorama di
fronte, attendendo il rintocco delle dodici e trenta. Il suono
solenne sovrastò per un secondo tutto il resto.
“Io
so molte cose Cara Phillis.”
Al
suono del suo stesso nome, nome che non aveva mai rivelato allo
sconosciuto, il cuore le si gelò nel petto. Non si sfugge dai
Michealson.
L’avevano
trovata. Avevano scoperto la sua esistenza ed ora l’avrebbero tolta
di mezzo.
“S…Sei
uno di loro?”
Gli
domandò in un sussurro, la bocca secca e la lingua attaccata al
palato. Lui esplose in una risata genuina, quasi avesse detto la più
assurda stupidaggine. Pochi attimi dopo gli piombò in faccia
un’espressione a metà tra il disgusto e l’esaltazione
“Io
odio i Michaelson… esattamente come te.”
Quel
nome pronunciato ad alta voce le provocò un brivido ancor più
gelato del vento che le soffiava in viso. La paura, il terrore, la
rabbia, ogni singola fastidiosa emozione si prese nuovo spazio tra le
sue viscere.
“Se
ti dicessi che puoi avere la tua vendetta…”
Lo
sconosciuto riprese a parlare, abbassando il tono benché non ci
fosse nessuno attorno
“…Che
io posso aiutarti a vendicare la morte dei tuoi genitori…”
I
suoi occhi brillavano, la sua voce liscia e morbida come il più
abile dei venditori
“Che
cosa risponderesti?”
La
stava fissando, studiando, in attesa di cogliere un qualsiasi barlume
d’entusiasmo alla sola idea. La ragazza aveva potenziale, di questo
era certo.
Cara
mandò giù, accarezzata da quella proposta, lasciando fluire per
qualche secondo i suoi pensieri più reconditi. Per quanto fosse
sbagliato desiderava la morte di quelle persone, lenta e dolorosa, la
desiderava più di ogni cosa.
Scostò
lo sguardo da quello di Robert e le parve di tornare improvvisamente
alla realtà. Scosse il capo
“Sono
solo una ragazzina.”
In
quella parola tutto il suo senso d’impotenza. Lo sconosciuto si
fece qualche centimetro più vicino, la sua voce ed il suo caldo
respiro le arrivarono dritti all’orecchio
“Ma
non sarà sempre così. Presto sarai una donna…”
Con
la coda dell’occhio lo guardò ancora, terrorizzata dall’evidenza
di come quelle sue parole riuscivano ad incantarla, alla stessa
maniera di un flauto magico
“…Una
donna forte, coraggiosa, indipendente.. E bellissima lasciami
aggiungere.”
La
prospettiva sembrò riscaldarla di colpo.
“Ti
insegnerò tutto quello di cui hai bisogno...”
I
loro occhi si incrociarono, il blu intenso di quelli di Cara
totalmente divorato dall’oscurità di quell’incantatore. Le
parole dello sconosciuto stavano leccando le sue ferite, le stesse
che lei cercava di nascondere, le stesse in cui il suo terapeuta
sembrava voler ficcare le dita ad ogni costo. Robert riusciva a
vederle e le stava offrendo la più miracolosa delle cure.
“…E
quando verrà il momento, sarò al tuo fianco mentre la tua vendetta
si compie.”
La
sola vaga fantasia di quel momento accese in Cara la voglia di
sorridere, cosa che non capitava ormai da mesi. Esterrefatta lo
guardò alzarsi e scendere l’ultimo gradino
“Chi
sei tu?”
Domandò.
Robert sorrise allungando la mano verso di lei
“Vieni
con me e ti spiegherò ogni cosa.”
Avrebbe
dovuto sentirsi terrorizzata alla sola idea, eppure quell’uomo
pareva conoscerla meglio di chiunque altro. Con poche semplici parole
le aveva detto tutto ciò che il suo cuore e le sue orecchie
bramavano sentire.
“Che
cosa ti è rimasto ancora da perdere?”
Nulla.
Non
ho più nulla da perdere.
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Cara
entrò nell’appartamento scuotendo la testa. Quel ricordo
continuava a tormentarla. Da quando aveva parlato con Morgan, dopo
quell’inaspettata scoperta, frammenti della sua infanzia e della
sua vita prima della Salle de Paris continuavano a presentarsi senza
alcun invito. Dentro la sua mente si combatteva una continua
battaglia.
Aveva
in mano la più tagliente delle armi, eppure non riusciva a
convincersi ad usarla.
Cercando
di non far rumore passò la soglia e si guardò attorno. Si sarebbe
aspettata una grossa macchia sul pavimento e l’odore di sangue
stantio dappertutto, tuttavia ogni cosa sembrava brillare, avvolta in
un dolciastro odore di limone ed aceto di mele.
Fissò
il punto preciso in cui aveva ucciso il secondo russo. Quasi riusciva
ad immaginarle, due cameriere in uniforme francese curvate sul
pavimento, impegnate a spazzolare via ogni traccia di sangue. Non si
sarebbe aspettata nulla di meno da gente arrogante e pomposa come i
Michaelson.
Girò
attorno al divano rivivendo il momento in cui si era rivelata.
Impagabile.
Ripensandoci
meglio forse era stata un po’ troppo teatrale. Troppo drammatica.
Troppo volgare.
Eccoli
di nuovo. I ricordi della sua infanzia stavano influenzando il suo
giudizio. Lo sguardo deluso di suo padre, lo stesso identico sguardo
che avrebbe avuto sapendola così, un'assassina sola e senza remore,
una donna senza innocenza e senza pudore.
Scosse
la testa ancora una volta. Doveva liberarsi di quelle emozioni e
tornare lucida. Joseph sarebbe presto tornato e lei non era certa di
come giocarsi quell'ultima mano. Guardò i fogli tra le sue dita
ancora una volta prima di piegarli e nasconderli sotto uno dei
cuscini del divano. Un simile colpo di scena meritava una degna
introduzione.
Girò
su sé stessa e si avviò verso il mobile bar, forse un po' d'alcool
avrebbe sciolto quella tensione. Poteva finirlo, sferrare un colpo
talmente potente da destabilizzare la sua intera esistenza. Le
fondamenta della famiglia Michaelson si sarebbero sgretolate, un
lento ed inesorabile processo di autodistruzione, uno spettacolo da
non perdere.
Il
cuore le batteva forte e le mani si muovevano da sole nel tentativo
di strappare quella carta a strisce il più in fretta possibile.
L'odore
dei waffle appena staccati dalla piastra le riempiva il naso e si
mischiava al pungente odore d'abete. L'albero che aveva scelto
insieme a suo padre troneggiava in salotto, completamente ricoperto
di luccichi e decorazioni. Il più bell'albero di Natale che avessero
mai realizzato.
“Mamma!
Mamma!”
Alla
vista di quella scatola rosa, la casa per le bambole che aveva tanto
desiderato, si sentì la persona più felice del mondo. Cos'altro mai
potrebbe desiderare una bambina di sette anni?
Cara
si portò le mani alla fronte. Basta!
Smettetela!
Mandò giù mezzo bicchiere di
whisky e finalmente quella scena sparì dalla sua mente.
“Già ti mancavo?”
Cara scattò sull'attenti
voltandosi verso la porta. Joseph ne stava appoggiato allo stipite
con un sorrisetto in faccia ed i vestiti imbrattati di sangue. Non è
così che immaginava di vederlo arrivare, non come uno appena uscito
dal set di un film splatter.
Di colpo le si chiuse lo
stomaco.
Lui varcò la soglia del
proprio appartamento a passi lenti, scrutando ogni angolo del suo
campo visivo. Non sarebbe stato eccessivo aspettarsi un attacco
combinato da quattro fronti, non dopo quello che aveva già visto.
Cara indietreggiò d'istinto,
lasciandogli il tempo di realizzare che erano soli. Il suo sguardo
non riusciva a staccarsi dalla maglietta insanguinata che aveva
appiccicata addosso, dai capelli scompigliati, da quelle mani che non
molto tempo prima avevano ucciso qualcuno.
Quanto era sbagliato, se non
perverso, volerle toccare?
Quanto era sbagliato, se non
patetico, sentire la colpa di ciò che stava per fargli?
Joseph si rese presto conto
che non c'era nessun altro. Lui e la ragazza dell'aereo erano soli
ancora una volta. Pregò che non fosse per battersi ancora. Non ne
aveva alcuna voglia.
Per cos'altro mai poteva
essere lì? Per parlare forse? Non avevano molto da dirsi. Si
odiavano, punto e basta. Per sbandierare qualche nuova minaccia?
Joseph la guardò dall'alto in basso nel suo abito a fiori, coi suoi
biondi capelli sciolti e le lunghe gambe scoperte. Cosa mai avrebbe
potuto fargli? Nulla. Non lì, non nel suo territorio.
Perché era a casa sua allora?
“Che cosa vuoi?”
Esordì, meno minaccioso di
quanto avrebbe voluto.
Cara si leccò le labbra, fino
a quel momento presa dall'idea perfetta di come quella scena avrebbe
dovuto compiersi. La lingua le si bloccò tra i denti. Le parve di
sentire la voce di suo padre dritta nell'orecchio, come fosse davvero
lì. Scosse il capo, non era il momento per inutili sentimentalismi.
Joseph sollevò il
sopracciglio, per la prima volta vedeva aprirsi un varco di
vulnerabilità nella gelida corazza della ragazzina.
Lei sospirò forte e riprese
la postura fiera e sicura. Leggere quei documenti ed immaginare cosa
fosse successo aveva risvegliato i suoi demoni personali. Inutile
provarci ancora, se non poteva zittirli, li avrebbe usati contro di
lui.
“Mio padre era un impiegato.
Uno qualsiasi. Uno di quelli che nessuno nota...”
Lui sembrò genuinamente
perplesso
“...Mia madre invece
lavorava part-time in una casa di riposo per arrotondare. Volevano
che avessi il meglio. Che diventassi il meglio.”
Senza
troppo pensarci si versò un altro dito di liquore e mandò giù,
guardando con la coda dell'occhio l'espressione disorientata del suo
nemico. Prenditi
il mio dolore Michaelson. Prenditelo. Io ho preso il tuo, l'ho
trascinato fin qui e l'ho nascosto sotto un cuscino. Proprio come
avrei fatto con un cadavere.
“Volevano che andassi alla
NYU e che diventassi un medico...”
Riprese, riuscendo finalmente
a guardarlo
“...Erano fieri di me.”
Quell'ultima affermazione
riuscì a smuovere Joseph dalla sua immobilità
“Perché mi dici queste
cose? A me non importa.”
Ed era vero. Non gli importava
nulla del suo passato, della vita che aveva vissuto, dei bei ricordi
che ancora conservava. Non voleva sapere nulla di chi Cara fosse
prima di incontrare suo padre. Non voleva provare pena né
compassione. Non voleva provare nulla per lei.
Cara strinse i pugni
“Non tutti hanno avuto ogni
cosa servita su un piatto d'argento come te.”
Lo stava giudicando, come si
giudica lo spocchioso figlio del re, troppo pigro perfino per
prendere le proprie decisioni.
Quanto
ti sbagli ragazzina.
Ore d'allenamento,
addestramento anche sotto la pioggia, prove infinite, mai una
carezza, mai un bacio, mai un apprezzamento. Solo il sorriso di sua
madre che gli portava di nascosto i biscotti e che gli raccontava di
fretta una storia per farlo addormentare quando William non c'era.
I ricordi lo accesero come una
miccia, alimentata dal disprezzo che colava a fiotti dalle parole di
Cara.
“Sta' zitta.”
Intimò una prima volta.
Lei scosse piano la testa, si
sentiva meglio dopo aver sputato fuori quel ricordo. Non era
diventata un medico, bensì un mostro, proprio come l'uomo sporco di
sangue che le stava di fronte, ma almeno aveva avuto una famiglia
normale e due genitori che l'amavano. Questo la rendeva più forte di
lui, più forte di tutti i Michaelson messi insieme.
“Oppure cosa?”
Decise di attizzare la fiamma
andandogli incontro. Joseph fremeva e tutta quell'eccitazione la
attirava come una falena estiva.
Raccolse i capelli sulla
spalla sinistra scoprendo l'altra, inconsapevolmente seducente.
“Mi avete già tolto tutto.”
Ti
sbagli di nuovo. Mille altre cose potrei toglierti, a cominciare da
quell'espressione compiaciuta che ti sei sbattuta in faccia.
Joseph avanzò a sua volta di
un passo.
“Non hai idea di quanto ti
sbagli ragazzina.”
Ribatté serio, resistendo
all'urgenza di sfregarsi le mani. Non sarebbe dovuta venire nella sua
casa, non vestita così, non con simili arroganti accuse, non mentre
il suo corpo affogava ancora nella dopamina post-omicidio.
Quel dolce appellativo le
scivolò addosso come il miele. Le piaceva sentirsi chiamare così,
la faceva sentire candida, come se avesse ancora una speranza.
“Ce l'ho...”
Rispose cercando i suoi occhi
“...Ecco perché so che la
mia famiglia, per quanto modesta, era mille volte meglio della tua.”
Joseph scattò verso di lei
squadrando le spalle
“Smetti di parlare della tua
vita!”
Le intimò in pieno viso,
sovrastandola con la sua altezza e la sua mole possente
“Non. Mi. Interessa.”
Scandì con tono più basso,
ma con più decisione. Il concetto doveva assolutamente entrarle in
testa.
Cara annuì, per nulla toccata
dalla sua mancanza di interesse. Si bagnò le labbra con la punta
della lingua e si diresse nuovamente verso il mobile bar. Non voleva
bere, il sapore del whisky le faceva ancora bruciare la bocca, per
cui iniziò a giocherellare col bordo dei bicchieri di cristallo.
Joseph prese un lungo respiro
nell'inutile tentativo di calmarsi. Non l'aveva mai guardata con
attenzione da quell'angolatura, non aveva mai notato il suo profilo,
la linea delle labbra schiuse, la schiena tesa e dritta, il disegno
dei fianchi e dei glutei che sollevavano appena il vestito nel punto
più giusto. Strinse i pugni perché odiava quella sensazione, ma non
riusciva a liberarsene. Continuava a volerla, a desiderarla,
esattamente come nel primo istante in cui le aveva posato gli occhi
addosso, e poco importa se anche quell'attrazione era frutto di un
calcolo attento di Mancini e company al solo fine di fotterlo.
Aveva già sentito quell'esile
corpo sotto il suo, aveva accarezzato quella pelle e assaporato
quelle labbra rosse. Nonostante i fumi dell'alcool ricordava
perfettamente la sensazione di esserle dentro. Stretto e bollente.
Ne voleva ancora. Glielo
dicevano le mani e glielo dicevano i pantaloni, diventati
improvvisamente troppo stretti.
Lei se ne stava lì, passando
i polpastrelli sul vetro, in attesa di non si sa cosa.
“Perché sei venuta qui?”
Le domandò, la voce già
tradita dal desiderio.
Cara sollevò lo sguardo,
notando immediatamente il cambio d'atmosfera. I suoi respiri erano
più profondi, i suoi occhi più scuri, i suoi muscoli tesi e la voce
più roca. Quell'espressione bramosa e quegli abiti imbrattati si
fondevano in una visione magnifica davanti ai suoi occhi, creando
l'irresistibile illusione che vita e morte potessero convivere
amichevolmente. Che ce ne fosse anche per mostri come loro.
Perché stai ancora
temporeggiando? Perché non glielo dici e basta?
Falla
finita Cara. Falla finita. Adesso.
Benché lo ripetesse senza
sosta era ormai chiaro il motivo per cui le sue labbra volevano
disperatamente restare serrate e le sue gambe disperatamente aprirsi.
“Rispondimi!”
Stavolta Joseph urlò
facendola sussultare. La ragazzina si voltò verso di lui sollevando
piano le ciglia scure di rimmel
“Te...”
Inspirò quell'aria densa di
ormoni
“...Sono venuta per te.”
Sembrò onestamente scioccato
per la frazione di un secondo. Era forse possibile? La ragazzina
aveva cospirato contro di lui addirittura per anni, cercato di
ucciderlo in almeno dieci modi, programmato al secondo la morte di
ogni suo consanguineo. Possibile che nonostante tutto si sentisse
proprio come lui?
Aguzzò lo sguardo e si fece
avanti, non le avrebbe permesso di prenderlo in giro ancora una
volta.
“Ti suggerisco di ponderare
attentamente la tua prossima scelta di parole...”
Ad ogni lungo passo
silenzioso, Cara indietreggiava verso le parete, lì dove lui la
stava sapientemente guidando.
Con la schiena spalmata contro
l'intonaco gelido non poté più evitare di guardarlo. Le era quasi
appiccicato e riusciva a sentire addosso tutto il suo calore. Joseph
poggiò i palmi sulla parete dietro di lei, imprigionandola tra il
muro ed il proprio corpo
“...Non sono dell'umore
giusto per un altro dei tuoi giochetti.”
Il respiro dell'assassino le
accarezzò la pelle ed il suo corpo reagì senza remore, diventando
bollente sotto la biancheria.
“Perché sei venuta qui?”
Chiese di nuovo, stavolta in
un mezzo sussurro, già terribilmente vicino al suo viso, respirando
a metà tra le sue labbra ed il suo orecchio.
Diglielo.
Digli che è stato suo padre.
Quel pensiero non lo sentì
nemmeno. Le dita di Joseph giocavano con i piccoli bottoni di
madreperla sulla scollatura del suo abito troppo leggero. Cara
combatté l'urgenza di chiudere gli occhi e graffiò il muro con le
unghie
“Ti ho già risposto.”
Riuscì infine a buttar fuori,
cercando di far passare una punta di acidità. Il suo ultimo stralcio
d'orgoglio. Joseph ribatté con un sorriso a labbra strette, un
sorriso di puro compiacimento.
Il tempo di sentirsi uno
stupido per lui era finito. La ragazzina dell'aereo che voleva tanto
rovinarlo sarebbe ben presto stata rovinata a sua volta. Si sarebbe
assicurato di farle dimenticare quel coglione di Little K e qualsiasi
altro uomo al mondo.
Stringendo la stoffa tra le
dita tirò tanto forte da strappare quella scusa di vestito in un
secondo. Lo strappo riempì il silenzio piombato nella stanza mentre
l'abito le si apriva addosso fino all'ombelico. Cara poggiò la testa
al muro e seguì i suoi occhi mentre prendevano possesso della nuova
visuale. Le pupille dell'assassino erano dilatate, i suoi denti
serrati, il respiro profondo, ma non ancora accelerato. Stava
prendendo il suo tempo, fissando ogni centimetro scoperto, valutando
accuratamente quante e quali torture infliggerle.
Cominciò dal seno, ancora
nascosto dietro il pizzo azzurro della sua biancheria, stringendolo
tra le mani con non troppa delicatezza. Continuava a guardarla in
viso mentre lei cercava di resistere all’urgenza d’inarcare la
schiena e gemere sotto il tuo tocco. Strinse di nuovo, i suoi piccoli
seni gli riempivano le mani a perfezione e per qualche strana
ragione, ogni volta che le era così vicino, il viso di Cara tornava
a sembrare quello di un angelo, fomentando le sue peggiori fantasie.
Le si spinse addosso, anche
contro anche, facendole sentire sulla pancia quanto fosse eccitato
alla sola idea di averla di nuovo. Nascose il viso nell'incavo del
suo collo abbandonando la dolce tortura per qualche istante,
sollecitando la pelle sottile con la barba incolta.
Cara strinse il labbro tra i
denti lasciandogli più spazio. La maglietta insanguinata le sfiorava
il corpo e le mani di Joseph risalivano lente la curva della sua
cosce, sollevando piano ciò che restava del suo vestito. La sua
carne pulsava di già.
“Dillo ancora.”
Le sussurrò contro
l'orecchio. Tono basso ma autoritario.
Le mani di Cara si staccarono
finalmente dalla parete e risalirono i suoi bicipiti tesi cercando un
appoggio più stabile. Poteva sentire le sue dita tra le gambe,
sfiorarla appena nella peggiore delle torture, senza concederle la
frizione che tanto desiderava.
Joseph si allontanò di
qualche centimetro per poter cercare il suo viso, afferrandolo con
una mano per costringerla a guardarlo. L'altra accarezzava ancora
l'evidenza bagnata della sua eccitazione, resistendo a malapena
all'urgenza di strappare quell'inutile pezzo di stoffa e affondarle
dentro.
“Dillo ancora.”
Stavolta scostò le sue
mutandine mentre lo diceva, ma senza toccarla ancora, godendo del suo
disperato tentativo di strusciarsi contro il ruvido dei jeans. Come
se non fosse già abbastanza eccitato.
Le mani di Cara raggiunsero la
sua nuca, i polpastrelli persi tra i suoi capelli mossi.
“Sono qui per te...”
Ribadì a bassa voce ed in
tutta risposta sentì due delle sue dita entrarle dentro senza
preavviso, costringendola a trattenere il fiato per non buttarglisi
addosso. Joseph continuava a fissarla come un lupo affamato mentre
lei si contorceva attorno alla sua presa. Era quasi insopportabile.
Cara strinse ancor più forte
le mani attorno al suo collo e lo guardò negli occhi un'ultima volta
“...Solo per te.”
Concluse, senza sapere se
fosse il suo stomaco, il suo cuore o la sua vagina a parlare. Si
schiantò contro la sua bocca a palpebre chiuse, sentendo la sua
lingua ancor prima delle sue labbra. Baci umidi, baci profondi, una
scia di baci bagnati lungo la linea della mandibola e della spalla
mentre le mani di Joseph la sollevavano di peso fino alla superficie
piana più vicina.
Le piccole mani della
ragazzina si insinuarono sotto il bordo della sua maglietta tirando
su, costringendolo a staccarsi per il tempo necessario a sfilarla.
Subito dopo la sentì attaccare i bottoni dei jeans nel tentativo di
liberarlo il prima possibile. Pelle contro pelle riusciva a sentire
il calore del suo corpo addosso, così come sentiva la pressione
delle sue ginocchia sollevate contro i fianchi. Non c'era più tempo
per i preliminari.
Stringendola con forza alla
vita la attirò ancor più a sé, spendendo pochi istanti d'attesa
per sfilare l'ultimo inutile indumento tra loro. Mischiando il
proprio respiro affannato a quello di Cara si posizionò tra le sue
gambe e la inchiodò al tavolo mentre, con una sola spinta,
finalmente la prendeva.
Il suo primo gemito, simile ad
un miagolio, lo costrinse a fermarsi perché tutto non finisse troppo
presto. L'interno del suo corpo era esattamente come ricordava, forse
anche meglio, ancor più accogliente dell'ultima volta. Le unghie di
Cara conficcate nella schiena lo spronavano a muoversi, le sue gambe
strette contro le anche chiedevano attrito e la sua bocca attaccata
alla spalla, con i denti che gli accarezzavano la carne, soffocava la
voglia di ansimare.
Prese a muoversi lento, ma
solamente per trovare l'angolo perfetto, quello che la faceva
tremare, che l'avrebbe fatta esplodere in pochi secondi. Il ritmo
divenne allora frenetico, le sue forti mani la stringevano
all'altezza dei fianchi accompagnando ogni spinta, non lasciandole
respiro, nemmeno per un attimo.
Cara si stringeva a lui
ansimandogli nelle orecchie, in un rapido crescendo di graffi e
gemiti che ben presto raggiunse il suo apice. Joseph la sentì
stringere la morsa attorno al suo corpo e trattenere il fiato mentre
i suoi muscoli si scioglievano in spasmi violenti e ripetuti.
Rallentò per qualche istante, godendosi la vista delle sue pupille
dilatate e del suo viso arrossato dall'orgasmo, ma prima ancora che
potesse rilassarsi spinse di nuovo e più forte, stavolta concentrato
sulle sue sole esigenze.
Avrebbe voluto continuare per
ore, fino a farle dire basta, ma era troppo anche per lui. Troppa
eccitazione, troppo piacere, troppe emozioni tutte in una volta. Le
si mosse dentro ancora una volta prima di venire, soffocando una
specie di ringhio tra i suoi capelli che sapevano di albicocca.
Rimasero immobili per minuti
infiniti, le mani di Cara aggrappate al bordo del tavolo per
sostenersi e le sue poco distanti, annaspando alla ricerca
d'ossigeno. Joseph si mosse per primo facendosi indietro e tirando su
i jeans. Lei scese dal tavolo cercando di coprirsi coi resti del suo
abito a fiori, un gesto pudico che non le s'addiceva affatto.
Era strano, quasi
imbarazzante, difficile di certo. Nessuno dei due aveva idea di cosa
dire adesso. Cara in realtà sapeva benissimo cosa avrebbe dovuto
dire, ma tutte quelle endorfine le avevano annebbiato il cervello.
Fu di nuovo lui a muoversi,
allontanandosi ancora
“Ho bisogno di una doccia.”
Si giustificò prima di
lasciare lentamente la stanza, abbandonandola coi suoi pensieri.
Cara guardò allo specchio il
disastro che era la sua faccia. Tentò ancora una volta di coprirsi,
ma era impossibile con l'abito strappato. Cercò allora le sue
mutandine sul pavimento e le infilò velocemente, non riuscendo ad
ignorare la sensazione ancora viva delle mani dell'assassino lungo le
sue gambe.
Non aveva idea del perché gli
avesse detto in quel modo che era lì per lui, come se avesse voluto
dirgli che stava morendo all'idea di non vederlo più. Non era una
bugia dopotutto, era davvero lì per lui, ma solamente per
raccontargli ciò che aveva scoperto, solo per fargli del male.
Buttò gli occhi verso il
divano che nascondeva il suo segreto e lasciò cadere le spalle. Chi
voleva prendere in giro?
Era lui.
Il motivo per cui la sola idea
di sfiorare di nuovo Little K la faceva vomitare.
Il motivo per cui aveva
sparato in testa a quel russo, giù al deposito.
Il motivo per cui il ricordo
dei suoi genitori e della sua infanzia era di nuovo lì a
tormentarla.
Era lui.
Chiuse gli occhi
concentrandosi sulle immagini di quella sera alla Salle de Paris.
Lo odiava ancora. Lo odiava da
morire. Doveva odiarlo.
Valutò allora l'idea di
lasciare quei documenti sullo stesso tavolo dove avevano fatto sesso
e andarsene. Avrebbe potuto goderne anche a distanza in fondo, e
Joseph era certo abbastanza intelligente da arrivarci da solo.
Raggiunse a passi lenti la
camera dell'assassino e raccolse la prima maglia che le capitò
davanti agli occhi. Non poteva certo uscire in strada mezza nuda.
Indossò la sua t-shirt nera e rimase lì, accanto al suo letto,
guardandosi di nuovo in uno specchio.
//////////
Elia uscì dalla suite
scortato da due uomini. Nessuno dei due aveva proferito parola, ma
quello più alto l'aveva indirizzato verso destra con un gesto della
mano ed un cenno del capo. Aveva addosso un nuovo completo italiano
ed una camicia bianca inamidata di fresco, un gentile omaggio
recapitato nella sua stanza dallo staff dell'hotel. Si stavano
dirigendo verso una sala privata per la cena.
Non aveva idea di cosa sarebbe
successo una volta lì dentro. Non aveva più parlato direttamente
con Pushkin dopo il loro ultimo confronto al deposito di Lewis.
Le parole di Katrina gli erano
ancora chiare in mente, sua moglie voleva prendersi ciò che gli
spettava, ma non era ben chiaro cosa pensasse di meritare,
soprattutto dopo una fuga durata due anni. Il suo disprezzo e la sua
rabbia l'avevano colpito profondamente, costringendolo a mettere in
discussione il suo intero operato. L'obbedienza ed il rispetto che
mostrava verso suo padre per lui non erano altro che lealtà, la
sacrosanta lealtà che si deve alla famiglia, la stessa che avrebbe
mostrato sia a William che ai suoi fratelli in qualsiasi circostanza.
Ed il matrimonio non è nulla più che una circostanza come le altre,
giusto? Cosa si aspettava Katrina da un'unione pianificata a tavolino
ed un contratto finanziario siglato a quattro mani? Avrà pur
sbagliato in mille modi, primo fra tutti innamorandosi di lei, ma
restava Katrina quella in torto, era stata lei ad abbandonarlo senza
una parola. Se avesse parlato prima magari... Elia sentì lo stomaco
chiudersi. Su una cosa sua moglie aveva avuto ragione, se anche
avesse chiesto o preteso qualcosa di più, lui di certo non l'avrebbe
ascoltata, avrebbe sempre messo al primo posto la famiglia. La sua
famiglia.
La grande e spessa porta della
sala lo distolse da quel pensiero. E se Pushkin avesse preparato
un'esecuzione dall'altra parte? Forse è questo che Katrina intendeva
dicendo che si sarebbe presa tutto in un modo o nell'altro,
togliendolo di mezzo non sarebbe più stata obbligata a dividere la
sua eredità con lui. Di conseguenza non avrebbe mai messo le mani su
metà delle proprietà di Elia, ma poco importa, quasi sicuramente
disprezzava quelle quote proprio disprezzava lui e tutti i suoi
parenti.
Non avrebbe avuto molte
possibilità di salvarsi, non stavolta.
Mandando giù la tensione
solcò il primo passo nella stanza e si trovò inaspettatamente
avvolto in una nuvola di aromi e profumi. L'acre si fondeva con
l'odore denso della carne e, solo in sottofondo, riusciva a percepire
una nota dolciastra e zuccherina.
Pushkin si tirò su lasciando
strisciare la grossa sedia sul pavimento, agghindato nella giacca
grigio scuro che contava quattro stelle su ogni spalla, il ricordo
dei suoi giorni da generale cui tanto era ancora legato.
“Elia.”
Lo salutò col proprio nome ed
un mezzo sorriso, invitandolo con un cenno ad unirsi a loro. Accanto
a lui sedeva infatti Katrina nel suo abito blu notte, il viso pulito
ed i capelli raccolti sulla nuca in uno chignon ordinato.
Elia si avvicinò lentamente e
circospetto, scegliendo infine la sedia di fronte, quella che gli
dava maggior controllo della situazione. I due tizi che l'avevano
accompagnato sparirono chiudendosi la porta alle spalle.
“Serviti pure.”
Lo invitò il russo tornando
al proprio posto. Elia guardò i vassoi che gli stavano davanti e
riconobbe immediatamente zuppa di barbabietole e straganoff di manzo,
un menu da grandi eventi e grande tradizione sovietica. Pushkin aveva
già un'abbondante dose di spezzatino nel piatto e pareva per nulla
scosso dalla sua presenza mentre ammollava grossi tozzi di pane nella
salsa. Accanto a lui Katrina giocava col cucchiaio e con la zuppa.
Il più anziano si schiarì la
voce dopo aver mandato giù un grosso sorso di vino rosso.
“Mi dispiace per nostra
piccola incomprensione Elia...”
Esordì, apparentemente
sereno, ma non meno inquietante
“...Mi spiace di incidenti
accaduti in questi anni. E anche di aver fatto arrestare tuo fratello
in Johannesburg.”
Elia continuava a guardarlo
con sospetto, nemmeno sfiorato dall'illusoria sincerità di quelle
parole.
Pushkin rivolse un gesto a sua
figlia senza spostare gli occhi da quelli del suo ospite
“Mia figlia qui...”
Si interruppe per un altro
sorso di vino
“...ha spiegato il suo
piccolo colpo di testa...”
Di nuovo indicò le pietanze
“...Spero tu voglia
accettare nostre scuse.”
Raggelato dalla costante
presenza delle sue pupille addosso, Elia allungò la mano e si servì
della carne che non aveva alcuna intenzione di mangiare.
Il russo parve totalmente
preso dal suo pasto per qualche minuto, dopodiché si pulì il viso
col tovagliolo e si rivolse nuovamente a lui con tono apparentemente
indifferente
“Dimmi Elia... Cosa vedi
quando guardi mia figlia?”
Domanda da un milione di
dollari. Domanda trabocchetto.
Elia spostò immediatamente
gli occhi sulla sua consorte, studiando la tenacia con la quale
sembrava voler restar zitta ad ogni costo. Lei alzò infine lo
sguardo e sollevò un sopracciglio, sfidandolo a trovare una risposta
degna, quella che forse gli avrebbe salvato la vita.
“Vedo la donna bellissima ed
intelligente che ho sposato.”
Rispose con la bocca secca, ma
senza interrompere lo scambio di occhiate.
Pushkin annuì mandando giù
il suo boccone e sempre con la stessa apparente calma proseguì
“Vuoi sapere cosa vedo io?”
Domanda retorica che entrambi
ignorarono
“Una regina...”
Al suono di quella parola Elia
tornò a guardare suo suocero
“...Una regina degna del mio
regno ed anche di più. Non sei d'accordo?”
In quell'istante tutta la
messinscena di compagnia e convivialità crollò, l'espressione del
russo nuovamente gelida e ferma come la pietra.
Elia inspirò drizzando la
schiena, osservando attentamente i movimenti dell'altro mentre tirava
su qualcosa dalla sedia vuota alla sua sinistra. Non era una pistola
come poteva aspettarsi, bensì un fascicolo di fogli che il vecchio
lasciò scivolare sulla tovaglia di lino.
“Credo sia ora di risolvere
qualcuna di nostre ostilità...”
Spostò il piatto da una parte
poiché il tempo della comunione era finito
“...Darai a Katrina la
proprietà di tutti tuoi beni in Europa.”
Elia aggrottò le sopracciglia
“Abbiamo già un contratto
prematrimoniale. Katrina avrà metà dei miei beni ed io metà dei
suoi al nostro decimo anniversario.”
L'altro ghignò
“Ammiro tua fiducia nel
sacro vincolo di matrimonio Elia, ma stavolta prenderò mie
precauzioni.”
Il maggiore dei Michaelson
afferrò i fogli e tentò di leggerne il contenuto nonostante il
nervosismo crescente. Non voleva rinunciare alle sue proprietà
cedendole a Pushkin su un piatto d'argento. Era certo infatti che
l'unico motivo per cui il russo chiedeva quei beni era per poterli
gestire lui, direttamente dal suo comodo trono di San Pietroburgo.
Katrina sarebbe stata solo un'utile prestanome.
“E lei? Tornerà in Russia
con te?”
Pushkin sospirò gesticolando
in quell'aria pesante
“E' tua moglie Elia. Mi
aspetto che tu la tenga con te in vostra casa.”
“ Oteц!”
Katrina finalmente parlò
facendosi dritta sulla sedia. Chiaramente non si aspettava quel
piccolo colpo di scena. Suo padre la zittì con un solo sguardo
glaciale e tornò a rivolgersi all'alto
“Mi occuperò io di sue
proprietà in Europa.”
Elia aveva smesso di
guardarlo, troppo preso dai tremori di Katrina che, piegata sulla
sedia, sembrava voler esplodere da un secondo all'altro. Sfogliò i
documenti cercando la conferma nero su bianco che sarebbe stata
Katrina, e solo lei, la nuova proprietaria dei suoi beni. Mentre
fingeva ulteriore interesse per le clausole di quel contratto,
continua solamente a pensare che in cambio di qualche terreno e di
pochi milioni di dollari in quote azionarie, avrebbe avuto sua moglie
di nuovo a casa. Di certo Katrina non ne sembrava entusiasta, ma lui
trovava terribilmente attraente l'idea di chiuderla a chiave in una
stanza ed assicurarsi che non potesse più scappare.
“Bene...”
Esordì raggiungendo la penna
“...Affare fatto.”
Concluse apponendo la sua
firma completa sull'ultimo foglio. Katrina lo guardava adesso
furibonda, ma a lui non importava, non vedeva l'ora di uscire da quel
posto e riportarla, consenziente o meno, nel loro letto.
////////
Joseph si avvolse un
asciugamano attorno alla vita e passò le dita tra i capelli bagnati.
Si sentiva leggero e pesante allo stesso tempo, soddisfatto nella
carne, ma comunque vuoto nell'anima. Era certo che uscendo dal bagno
non l'avrebbe più trovata, sicuro che Cara fosse già sparita nel
nulla com'era suo solito. Parte di lui sinceramente ci sperava,
sperava di non doverla guardare ancora, di non doverle parlare, di
non doversi chiedere se davvero provava qualcosa di diverso per lei,
qualcosa in più del semplice disprezzo che si deve al nemico.
Continuava a pensare alla
ragazzina imbranata che aveva incontrato sull'aereo, quella dall'aria
innocente che aveva immaginato tra i banchi di scuola e dietro il
bancone di un bar. Aveva fantasticato un'intera vita per lei in pochi
minuti, una vita qualsiasi, fatta di impegni insignificanti, amiche
un po' puttane e magari un padre bigotto e geloso. Una vita che lui
avrebbe sconvolto con un solo breve incontro.
Quella ragazza non esisteva e
lui non voleva più pensarci, voleva togliersi dalla mente l'immagine
della sua cerimonia di laurea in medicina. Maledetto il momento in
cui aveva aperto bocca, costringendolo a conoscere cose di lei che
non avevano alcuna importanza.
Si guardò brevemente allo
specchio e notò il marchio che i suoi denti gli avevano lasciato
sulla spalla sinistra. Benedetto il momento in cui aveva invece
aperto le gambe. Contava sulle dita di una mano le donne che si era
portato a letto più di una volta e Cara sembrava sovrastarle tutte,
forse perché cattiva, forse perché proibita. Forse perché tanto
simile a lui, non fosse per i continui voltafaccia e sbalzi d'umore
che lo tenevano continuamente sulle spine.
Se anche fosse rimasta, chissà
mai che donna avrebbe trovato fuori da quel bagno.
Uscendo notò immediatamente
la desolazione del suo soggiorno. Proprio come immaginava. Si avviò
silenzioso verso la propria stanza da letto pensando a come avrebbe
passato la notte che lo attendeva. Al di là dei suoi drammi
relazionali aveva ancora un fratello scomparso a cui pensare.
Di certo non si aspettava di
trovarla lì, nel suo piccolo mondo privato, con addosso una delle
sue magliette usate. Cara se ne stava poggiata all'armadio persa in
chissà quali piani di vendetta, totalmente ignara della sua presenza
vicino alla porta.
Joseph aspettava di sentirsi
infastidito ed invaso, ma in realtà nessuna delle due parole
definiva il suo nuovo inaspettato stato d'animo. Era bella nella luce
del tramonto che filtrava dalle tapparelle nella penombra, bella
nella sua apparente tranquillità e nei suoi vestiti. Il collo troppo
grande le lasciava la spalla scoperta, le maniche troppo lunghe
nascondevano le mani e l'idea che il suo odore le sarebbe
inevitabilmente rimasto sulla pelle accese di nuovo la sua virilità.
Facendosi avanti rese nota la
sua presenza. Cara gli scattò in piedi di fronte. Per quanto tempo
era rimasta lì ferma a chiedersi come meglio avrebbe potuto
sbattergli in faccia l'amara verità? I suoi occhi non resistettero
alla tentazione di accarezzare il torace scoperto di Joseph, la linea
degli addominali fino all'ombelico e quei tre numeri tatuati sotto al
cuore che per lei non avevano alcun significato.
Il suo viso aveva la stessa
espressione di poco prima, come se la sua grande fame non fosse
ancora placata. Quegli occhi azzurri riuscivano a spogliarla e
toccarla senza nemmeno essergli troppo vicini, ma lei non doveva e
non poteva più cedere.
Joseph avanzò di un passo
verso Cara e lei sollevò immediatamente le mani
“Non farlo.”
Intimò autoritaria, vedendolo
rispondere nel più inatteso dei modi. Un sorriso. Cara ingoiò la
saliva che le aveva riempito la bocca alla vista del suo corpo
seminudo e dei suoi capelli bagnati
“Ti odio ancora.”
Specificò stringendo i pugni.
Lui rispose annuendo, sempre più vicino.
“Ti voglio comunque morto.”
Aggiunse restando rigida in
mezzo alla stanza. Joseph annuì di nuovo, ormai a meno di mezzo
metro da lei
“Intanto però sta' zitta.”
Ribatté, afferrando il suo
viso tra le mani e soffocando ogni ulteriore protesta con la sua
bocca. Cara cercò di respingerlo con tutte le forze, ma il tocco
della sua lingua sul palato era così piacevole che dovette
arrendersi. Il suo bassoventre si contraeva di già, seguendo la
propria autonoma volontà di accoglierlo di nuovo.
Stavolta fu lui ad infilare le
mani sotto la maglietta per aiutare a toglierla di mezzo, spingendo
poi giù, lungo le gambe nude, l'abito strappato che non gli era
piaciuto dal primo momento. Cara sembrava improvvisamente così
piccola e leggera tra le sue mani. Sganciò il reggiseno con la
maestria di un veterano e la spinse sul letto, infilando le dita ai
lati dei suoi slip per farli scorrere giù il più veloce possibile.
In piedi di fronte a lei tolse
di mezzo l'asciugamano che aveva addosso e si godé il piacevole
attrito tra umido ed asciutto mentre si sdraiava tra le sue cosce. Le
passò le labbra sul seno, lasciando scivolare la lingua sulla pelle
più rosa e delicata. Cara inarcò la schiena e chiuse gli occhi.
Poteva aspettare, tutto il resto poteva aspettare.
Un lamento le uscì di bocca
quando al suo ennesimo tentativo di sollevare le anche ed
incontrarlo, lo sentì tirarsi indietro e rallentare. Quest'uomo,
quest'insensibile, avido e crudele assassino, si dedica ai
preliminari con la stessa accuratezza e grazia che mette nelle sue
esecuzioni, torturando con baci e carezze una vittima che ormai sa di
non potersi più salvare.
Cara Phillis non è una
vittima, non è una donnetta rimediata fuori da un pub, Cara Phillis
è un killer spietato, proprio come lui. Con questo pensiero strinse
gli addominali e premette sulle sue spalle fino a farlo rotolare
dall'altra parte del letto, ovviamente con lei sopra. Joseph sembrò
spiazzato per un istante, trovandosi ora in posizione sottomessa, con
le sue mani poggiate sulla pancia e la punta dei suoi capelli che gli
solleticava il petto. Fu solo un attimo però, giusto il tempo di
sentire la sua carne bollente addosso, scendere lentamente su di lui
ed avvolgerlo come la più calda delle coperte.
Iniziò a muoversi piano,
ondeggiando in un ritmo quasi crudele, il suo ritmo. Joseph sentì le
dita dei piedi arricciarsi e trattenne l'istinto di rispondere ai
suoi colpi, deciso a gustare quell'immagine ancora per un po'. Cara
aveva drizzato la schiena, il suo corpo nudo completamente esposto ai
suoi occhi, compresi i due nei vicino all'ombelico che prima non
aveva notato. Aveva gli occhi chiusi e la bocca leggermente aperta,
la testa rivolta all'indietro ed una mano ancora appoggiata su di
lui. Sembrava quasi che all'improvviso lui nemmeno ci fosse ed il
pensiero lo fece finalmente muovere, portando le mani attorno alla
sua vita sottile ed aiutandola a settare una nuova velocità. Lui era
un cavallo da corsa, non da passeggiata nei boschi.
Tirando su la schiena e
portandosi alla sua altezza, la afferrò per le ginocchia così da
rendere il contatto più profondo possibile e toglierle di nuovo il
controllo. Cara lo afferrò per le spalle e si lasciò guidare verso
un nuovo orgasmo, troppo stanca e stordita per continuare quella
battaglia di potere. Joseph spinse, spinse e spinse fino al punto di
non ritorno, tenendola stretta a sé con più forza del necessario,
ma senza davvero preoccuparsi dei lividi che probabilmente avrebbe
lasciato sul candido della sua pelle.
I loro gemiti lasciarono
spazio al silenzio e all'oscurità della stanza. Cara lo sentì
mollare finalmente la presa e si lasciò lentamente cadere sul
materasso, fissando il soffitto. Senza cercarlo, nemmeno con la coda
dell'occhio, allungò le mani fino alle lenzuola sgualcite e coprì
la propria nudità. Il sesso è una cosa, l'intimità è tutt'altro.
Erano entrambi sdraiati e
nudi, entrambi terrorizzati all'idea di dire qualcosa e far scoppiare
la bolla che li aveva inghiottiti nelle ultime due ore. Joseph
riprese il controllo del proprio respiro, notando con una punta di
piacere il modo con cui Cara si era subito coperta, come se lui non
avesse già scattato un milione di foto mentali di ogni centimetro
del suo corpo. Era nel suo letto. Dentro il suo letto. Avrebbe potuto
allungare la mano e toccarla ancora, avrebbe potuto voltarsi e
guardare il suo viso rivolto all'insù, determinato ad ignorarlo. Non
ne aveva voglia, non ne aveva la forza. Le sue palpebre sembravano di
colpo troppo pesanti da tenere su ed una voce gracchiante ed
insistente nella sua testa aveva preso di colpo a parlare di Elia.
Perché suo fratello non aveva ancora richiamato? E se avesse avuto
bisogno d'aiuto mentre lui stringeva i fianchi della donna che aveva
dato inizio a tutto? Perché tutto sembrava di colpo più lontano?
Cara rimase immobile per un
tempo senza fine, pensando a com'era arrivata fin lì e a come tutto
era cominciato, pensando al bagno immacolato della Salle de Paris e
all'orgoglio di sua madre nell'indossare le perle delle nonna almeno
per una sera. Ripensò al sudore sulla fronte di suo padre e alla sua
convinzione che fosse tutto un equivoco. Aveva ragione come al
solito. Ripensò a Robert e alla prima volta che l'aveva fatta
sparare, a come aveva immaginato la faccia di William Michaelson
dritta davanti ai suoi occhi.
Certo, non era stato William a
sparare ai suoi. Quei due insignificanti energumeni erano terra per i
vermi già da un po', ma era stato comunque lui a provocare tutto e
meritava di pagare fino alla fine.
Il figlio bastardo sdraiato
accanto a lei non aveva la minima idea di che faccia avessero i suoi
genitori, tanto meno della maniera sporca ed ingiusta in cui erano
morti lontani dalla loro casa. Joseph Michaelson non c'entrava nulla
con la morte della sua famiglia. Avrebbe anche potuto ammettere che
non meritava di morire a causa sua, ma ciò non voleva dire che non
dovesse come minimo soffrire.
Cosa stava pensando? Doveva
uscire da quel letto. Scivolò sui gomiti cercando di evitare
qualsiasi contatto visivo o verbale, ma nulla si mosse accanto a lei.
Inevitabilmente finì per guardarlo, ancora supino, ma chiaramente
addormentato come un sasso. Cara sentì la rabbia accendersi, due
sole scopate e già era così sicuro che non avrebbe provato ad
ammazzarlo nel sonno? Pensava davvero che fosse così debole?
Finalmente in piedi raccattò
la biancheria e la maglietta che indossava poco prima, correndo fuori
da quella stanza per indossarli. I piedi nudi la portarono
immediatamente fino al divano e lì si inginocchiò, finalmente
decisa a far esplodere quella bomba.
Afferrò i pochi fogli senza
preoccuparsi di rimettere a posto i cuscini, tesa e nervosa nella
semioscurità. Come poteva pensare così poco di lei? Tutta la sua
vita, la vendetta è tutta la sua vita. Non si fermerebbe nemmeno se
glielo ordinasse il Signore in persona, figuriamoci rinunciare per un
po' di sesso, non importa quanto piacevole.
Iniziò a camminare avanti e
indietro stringendo la carta tra le dita, tentata dall'idea di
svegliarlo con un pugno per non aspettare ancora, terrorizzata al
pensiero che forse il tempo avrebbe spento nuovamente le sue
convinzioni.
Per fortuna non dovette
aspettare troppo. Joseph, con addosso solo un paio di jeans, accese
la luce della lampada e la osservò con sospetto. Ancora non riusciva
a credere di essersi davvero addormentato con lei accanto. Desiderava
così disperatamente un po' di pace e normalità da mettere a
repentaglio la propria esistenza? Davvero?
“Che stai facendo?”
Chiese serio dopo aver notato
il suo divano scomposto.
Lei strinse i denti
“Te l'avevo detto.”
Si stava chiaramente riferendo
al fatto che nulla era cambiato e che la sua amata vendetta era
ancora in atto.
Invece di partire all'attacco
si sentì terribilmente frustrato, tanto da alzare gli occhi al cielo
e spalancare le braccia
“Non sei ancora stanca?”
Domandò
“La tensione costante. La
paura. Gli stessi circoli distruttivi ancora, ancora e ancora...”
Cara se ne stava lì,
apparentemente intoccata
“...Ti fermerai mai?”
Stava cercando di essere
onesto, in barba agli insegnamenti di una vita intera. Si sentiva
come uno stupido adolescente imbarazzato, ma era stanco di fingere di
non sapere ciò che ormai sapeva benissimo
“Non posso...”
Gli rispose lei con
naturalezza, ma non meno tormentata
“...Io non ho niente. Questa
vendetta è tutto quello che ho.”
Joseph sospirò cercando di
arrivarle più vicino
“Hai avuto occasione di
uccidermi almeno dieci volte...”
Riprese. Eppure eccomi
ancora qui. Concluse nella sua testa senza bisogno di dirlo
davvero.
“...Crollerebbe davvero il
mondo se ammettessi una volta per tutte che provi qualcosa per me?”
Stavolta lei saltò come se le
avessero appena conficcato un ago da dieci centimetri tra le scapole
“Io non sento niente per
te!”
Ribatté secca e decisa, forse
anche troppo.
Joseph allungò un altro passo
“Anche se mi uccidessi
adesso, anche se facessi a pezzi il mio intero albero genealogico, i
tuoi genitori resterebbero comunque a marcire sotto terra.”
Lui era quello razionale, lei
preferiva continuare a credere che ogni cosa sarebbe tornata a posto
e che quel buco in mezzo al suo cuore si sarebbe finalmente chiuso.
Le emozioni sono solo un impiccio. Le emozioni lei le ha spente tutte
parecchio tempo fa.
“Io non provo niente per te.
Niente che non sia odio.. o disprezzo.. o compassione.”
“Non sembrava così mezz'ora
fa.”
Non
osare. Non osare credere di conoscermi solo perché sei stato tra le
mie gambe.
Cara sentì la rabbia montare
ancora una volta come un toro inferocito e senza pensarci due volte
gli sbatté i preziosi fogli addosso
“Lascia che te lo dimostri
allora.”
Joseph afferrò il fascicolo
dalle sue mani ed iniziò a sfogliarlo senza capirci troppo, in
attesa che le sue pupille riuscissero a mettere a fuoco nella
penombra.
Lei non poteva aspettare
“E' stato tuo padre.”
Sentenziò senza
apparentemente avere la sua attenzione
“Tuo padre ha ucciso tua
madre.”
Al suono di quelle parole
Joseph prese a sfogliare più in fretta, il nome di Amelia Fisher
prima, ed Amelia Fisher Michaelson poi, in cima ad ogni pagina.
C'erano numeri e paroloni medici che gli annebbiavano la vista, già
provata dallo sforzo di metabolizzare quelle parole. Non poteva
essere vero. Lui era lì, lui l'aveva trovata sul pavimento, lui
l'aveva raccolta dal suo ultimo letto di pillole. Era un bluff, solo
uno stupido bluff per fargli perdere la concentrazione.
Cara lo sentì ridere sotto i
baffi ed aggrottò le sopracciglia
“Davvero pensi di fregarmi
con una simile assurdità?”
Era chiaramente in fase di
negazione.
“Va' all'ultima pagina.”
Joseph era ormai così certo
della sua teoria che obbedì senza fiatare. Era il referto
dell'autopsia che, tra l'altro, aveva già letto decine di volte.
“E' il vero rapporto
dell'autopsia, non quello che tuo padre ha fatto stampare per pararsi
il culo.”
Non aveva intenzione di
crederle, ma nonostante ciò prese a leggere quelle poche righe
“Tua madre aveva un tasso
altissimo di Midodrine nel sangue, un vasocostrittore comunemente
usato per curare l'ipotensione.”
Joseph scosse la testa.
Davvero in quel momento pensava di parlarle con un medico di ER?
“Considerate quelle dosi,
sono sicura che non lo prendesse di sua spontanea volontà.”
Lui sollevò gli occhi per un
attimo, confuso e vulnerabile come non l'aveva mai visto
“La mia teoria?”
Il momento era arrivato
“Tuo padre ha sostituito le
sue pillole per il mal di testa col Midodrine facendole salire la
pressione alle stelle. I suoi mal di testa saranno diventati
terribili, tanto da richiedere almeno quattro o cinque analgesici al
giorno.. E più ne prendeva, più stava male.. Più ne prendeva più
la pressione saliva.. Fino a che non le è esploso il cervello.”
Lui non si mosse nemmeno, come
una statua di pietra in mezzo al soggiorno. Stava diventando più
pallido ed i suoi occhi avevano ormai smesso di cercare conferme
sulla carta
“E perché mai l'avrebbe
fatto?”
La domanda gli uscì dalle
labbra in un soffio di voce come quella di un bambino. Cara mandò
giù, il suo stomaco si torceva sotto lo sterno e doveva sforzarsi di
ignorare la voce che le urlava di fermarsi. Lui era già distrutto,
ma nemmeno a lei stava piacendo.
“Guarda nello specchio.”
Concluse, cattiva come forse,
in fondo, non era mai stata prima di quell'istante. E Dio... Dio mio,
quanto avrebbe potersi rimangiare ogni parola immediatamente dopo.
Joseph Michaelson, il grande
Lupo, l'assassino senza morale, stava cadendo a pezzi davanti ai suoi
occhi. Immobile gli si sgretolava davanti. In silenzio scivolava giù,
desiderando di diventare tutt'uno con la polvere sul pavimento.
Cara sentì il cuore fermarsi.
Se non era un'emozione quella, cos'altro poteva mai essere? Qualcosa
dentro bruciava e non era la solita rabbia. Non voleva affatto
ridere. Voleva piangere, voleva prendersi a schiaffi, voleva
graffiarsi la pelle fino a sanguinare. Voleva toccarlo... Che Robert
possa perdonarla, che possano perdonarla i merli.. e perdonarla sua
madre e suo padre... Voleva toccarlo.
Nel giro di un istante
l'intera atmosfera nella stanza mutò da un estremo all'altro. Joseph
uscì dalla sua catatonia ed il tavolo del soggiorno volò in aria
con tutte le sue riviste ed il suo posacenere di vetro. Subito dopo
le sue mani si chiusero attorno al collo di Cara, spingendola con
forza contro la parete attrezzata. Stringeva forte, così forte da
sentire sui palmi il battere incessante delle sue carotidi che
cercavano ossigeno. Il suo pallido viso diventava più rosso ad ogni
secondo, i suoi grandi occhi blu sgranati e le sue unghie conficcate
nei polsi, cercando in maniera scoordinata, ma non meno disperata, di
farlo smettere.
La stava guardando, ma non la
vedeva davvero. Vedeva solo il suo dolore e quello stava cercando di
uccidere. Ancora pochi secondi e la ragazzina dell'aereo non sarebbe
stata nulla più che un cadavere sul suo tappeto persiano.
Anche lei lo sapeva, lo sapeva
perché le sue unghie avevano smesso di graffiare e le sue gambe di
dimenarsi. Non l'avrebbe più vista. Non l'avrebbe vista né toccata
mai più.
Lasciò la presa. Cara cadde a
terra tossendo alla ricerca d'aria, aspettando che la stanza
smettesse di girare.
“Vattene!”
Ordinò mentre afferrava la
bottiglia di bourbon e si preparava a tracannarlo tutto d'un fiato.
Lei provò a tirarsi su, con la gola ancora in fiamme ed i polpacci
invasi dal formicolio.
“VATTENE!”
Stavolta urlò come un
dannato. Cara riuscì a mettersi in piedi e raggiungere la porta
mentre lui mandava giù mezza bottiglia
“ESCI DALLA MIA CASA!”
Aveva già una mano sulla
maniglia e l'altra sul collo, ma continuava a guardarlo come un
povero cucciolo bastonato. Era davvero troppo.
La bottiglia le si fracassò
accanto alla testa in mille piccole schegge di vetro, l'alcool
schizzato dappertutto in un momento.
“ESCI DALLA MIA VITA!”
Cara ignorò la scheggia che
le aveva trafitto la guancia e si decise ad uscire. Aveva vinto.
////////
La terza valigia riempì il
cofano dell'auto che Pushkin aveva pronta per loro. Stavano tornando
a casa. Elia salutò con un ultimo cenno suo suocere e salì in auto,
trovando inevitabilmente posto accanto ad una Katrina immobile e
muta. Non gli avrebbe reso le cose semplici, poco ma sicuro.
Incredibile ma vero, delle
proprietà perse non gli importava nulla. William non sarebbe certo
stato dello stesso parere, ma per una volta, per una sola e singola
volta, aveva deciso usando null'altro che la sua testa. La vista alla
sua sinistra lo ripagava di ogni perdita. La sua preziosa Katrina,
disarmata ed arresa, pronta a pagare le conseguenze di ogni suo
stupido gesto.
Per tutto il viaggio cercò
qualcosa di brillante da dire, qualcosa che avrebbe potuto scuoterla
da quel torpore. Nulla venne fuori dalla sua bocca. Come sempre si
confermava il fratello più incapace, con tanta devozione, ma nulla
da dire.
Di fronte alla loro casa, poco
distante dalla grande proprietà di famiglia, l'auto accostò e
l'autista scaricò le valigie di Katrina prima di sparire.
Elia rimase indeciso se
prenderle o meno, come probabilmente avrebbe fatto un normale marito.
Continuava a chiedersi se sua moglie sarebbe scappata di nuovo appena
voltata la testa, magari giusto il tempo di ficcare la chiave nella
serratura. Lei si mosse sui gradini del porticato, cercando i piccoli
dettagli che non sapeva di non aver dimenticato.
Alla fine si schiarì la voce
“Mi spiace che il tuo piano
sia finito così.”
Fece per prendere la prima
valigia, ma quando Katrina si voltò finalmente verso di lui dovette
fermarsi. Un sorriso, quello era un sorriso.
Lei si avvicinò lentamente,
sfoderando per lui uno dei suoi magnetici sguardi da cerbiatta.
Sollevò una mano verso il suo viso e, con lo stesso sincero sorriso
ancora tra le labbra, gli accarezzò la guancia
“Il mio dolce, nobile
Elia...”
Era senza parole, senza
respiro, senza la forza di muoversi
“...Questo è solo
l'inizio.”
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