La stanza era piena
di nebbia.
Ma non era una
stanza come tutte le altre. Non era una nebbia come tutte le altre.
Usagi volse lo
sguardo da destra a sinistra, da sinistra a destra, e quello che vedeva
erano pareti di un fragile marrone scuro, come quelli di molti locali
malfamati di Tokyo in cui Haruka-chan qualche volta la portava, con
Michiru che fissava sdegnata gli avventori mezzo ubriachi e i muri
impregnati di fumo e di poster pieni di liceali nude.
Gli sguardi di
fuoco che la violinista lanciava alla sua compagna per averla
trascinata lì divertivano immensamente Usagi, che aveva
goduto di quelle piacevoli serate (piacevoli per tutti tranne che per
Michiru-san!), anche perché apprezzava gli sforzi di quelle
due, soprattutto di Haruka di farla sorridere il più
possibile, di farla svagare il più possibile, ora che le sue
amiche più care erano lontano, troppo lontano per ricreare
quella piacevole compagnia di gruppo che aveva sempre contraddistinto
la sua adolescenza di paladina della giustizia.
Sì,
Usagi aveva goduto di quelle gradevoli serate, ma non era stata la
stessa cosa, non sarebbe mai stata la stessa cosa, quella calda
sensazione di unione, di affinità e affiatamento totale che
condivideva con le quattro ragazze che erano diventate quasi dei
fantasmi nella sua mente. E di fantasmi sembrava fatta quella
nebbiolina che imperniava tutta la stanza, di una consistenza che
sarebbe potuta risultare, percepire, opprimente se solo non avesse
avuto la chiara sensazione che se avesse voluto, con un semplice soffio
di fiato, l'avrebbe potuta spazzare via, per sempre.
Sentiva odore di otsunami, e anche
di sakè, di sudore maschile e di angoscia sopita a tutti i
costi. Proprio odori di una bettola della peggior specie, si disse
dentro di se, all'interno dell'Usagi che in quel momento sognava con la
consapevolezza di sognare. Un brusio di voci rendeva tutto
più realistico e surreale al contempo.
Poi dal nulla, o
forse la nebbia si era diradata quel tanto per farle vedere davanti a
se, sorse dal pavimento un enorme tavolo da biliardo, uno di quelli che
ci sono sempre nei telefilm americani ma che non sono molto comuni in
Giappone, una larghissima lastra di ardesia della migliore fattura,
lucida, scintillante, come un occhio maligno nell'angolo più
buio di una stanza di notte.
Il verde del
ripiano in confronto sembrava più acceso del dovuto, un
effetto che le provocò un inspiegabile disagio, un
misterioso senso di disastro incombente che veniva direttamente verso
di lei, nei panni magari della figura immobile dall'altra parte del
tavolo, completamente irriconoscibile, interamente grigia come una
persona senza lineamenti, come un'anima senza pace.
Eppure c'era
qualcosa di scattante, di felino in quell'ombra, qualcosa che le
ricordava Haruka-chan, o certe volte anche Makoto. Una potenza latente,
che rimaneva sopita fino a quando la persona amata non era in pericolo
e questa forza veniva fuori per proteggerla, per custodirla, per amarla
meglio, per amarla di più.
Ma non erano
nessuna delle due, perché quelle spalle possenti e larghe,
quei fianchi stretti e quelle braccia muscolose potevano appartenere
solo ad una figura maschile.
E Usagi conosceva
solo un uomo che possedesse quella particolare caratteristica, quel
particolare dono.
Il volto di Mamoru
bucò la nebbia come un faro, il suo faro, il suo eterno punto di
riferimento, la sua eterna metà della mela.
Mamoru, il padre di
sua figlia, la guardava dall'altra parte di quel tavolo lunghissimo e
senza fine; Mamo-chan, l'uomo con cui divideva il letto ogni sera, la
squadrava come se non la riconoscesse, o come se non volesse
più riconoscerla.
Ma Usagi poteva
sbagliarsi. Sì, sicuramente si sbagliava, da una tale
distanza quel cipiglio fermo e deciso che aveva sempre nascondeva il
profondo amore che aveva per lei, il legame forte come l'acciaio che li
univa da secoli e secoli.
Doveva essere
così, lei doveva essersi immaginata l'amarezza della piega
della bocca, il luccichio freddo degli occhi che non sembravano neanche
più di quell'azzurro che l'aveva fatta imbambolare la prima
volta che lo aveva visto, che l'aveva fatta innamorare nel medesimo
istante in cui aveva guardato nelle iridi del suo alter-ego Tuxedo
Kamen.
Per un attimo Usagi
tornò nel passato, e si diede della cretina. Come non aveva
potuto riconoscere Mamoru nel suo salvatore che interveniva ogni volta
in suo soccorso, quando ancora era una paladina della giustizia? Come
era potuta essere così stupida e ingenua? A 14 anni si
commettono molti errori certo, ma la verità era stata
così limpida, così netta, stampata nelle
profondità di quel blu meraviglioso che solo una rimbambita
come lei non aveva potuto scorgerla subito. Tanto tempo perso che non
era stato riguadagnato, nemmeno in quegli anni di matrimonio.
Il rumore di
qualcosa che scattava la riporto alla realtà del sogno, e
l'istinto e i riflessi di Sailor Moon vennero fuori contro la sua
volontà.
La lunga stecca di
legno che venne lanciata rabbiosamente verso di lei fu presa prima che
la colpisse direttamente in faccia, anche se il contraccolpo la fece
vacillare.
Quando Usagi
capì che era stato proprio Mamoru a lanciarle quel bolide
comprese anche che era stato lanciato ben altro.
Un guanto di sfida,
uno schiaffo morale e passionale, una rivincita che aveva aspettato 21
anni per essere dichiarata. Per essere accettata. Da entrambi.
Amy Mizuno sapeva
che quella era un sfida e l'aveva accettata.
Kakeru-san l'aveva
messa alla prova portandola all'ESA, per vedere quanto lei fosse
appassionata, per vedere quanto lei fosse cambiata.
E lo era, ma forse
non quanto si aspettava, o forse non dove si aspettava.
Infatti l'amore per
l'astronomia, per il cielo nero pieno di misteri da esplorare, da
sondare, era rimasto intatto, custodito in una parte di lei, la parte
più segreta del fortino che aveva costruito attorno a se
stessa,con se stessa, con le sue ossa, con
il suo sangue, con il suo preziosissimo cervello pieno di nozioni e
formule matematiche, con il suo cuore pieno di paura e nostalgia. Per
il passato scritto da un pezzo e per il futuro, scritto e scolpito da
ancora prima.
Mentre rifletteva
sul perché avesse deciso di seguire l'impulso folle di
guardare in alto quando per 21 anni aveva invece solo osservato vetrini
e campioni di tessuto anatomico, sentì Kakeru avvicinarsi a
lei, accompagnato da altre due persone, uno vestito con una cravatta
perfetta e inamidata, polsini accurati e camice immacolato con tanto di
logo dell'ESA, e l'altra che era il suo opposto, capelli biondi e
arruffati, top al limite della decenza e jeans a vita bassa.
“Amy, ti presento il
dottor Roger Griffin, della Royal Society di Londra e la sua collega,
Angelina Rojas dell'Istituto Nazionale Spagnolo. Fanno entrambi parte
del programma che eseguirà le rilevazioni del fenomeno. Li
ho voluti nella mia squadra perché sono i migliori, come
te.”
“Sì, ma
io non faccio parte del tuo team. Sono solo un'ospite,”ci
tenette a puntualizzare la donna con il caschetto turchino.
“Dettagli
trascurabili, credimi.” Kakeru sembrava talmente sicuro di se
stesso, così a suo agio in quell'ambiente accademico che
aveva sempre disprezzato che Amy si chiese chi fosse cambiato di
più, se lei o lui.
“Piacere Amy, puoi
chiamarmi Angie se ti va! Kakeru è sempre così entusiasta,
che a volte dimentica che anche gli altri hanno i loro piani e i loro
progetti!”
La bionda spagnola,
a dispetto del suo nome angelico non sembrava affatto tale. C'era una
diffidenza nel suo comportamento, come se Amy avesse invaso il suo
territorio, e un po' era così, anche se ciò era
avvenuto inconsapevolmente e per colpa non sua.
Greg invece si
limitò a darle la mano, molto formalmente e con una stretta
ne forte ne debole. Tutto in lui sembrava guardingo, in attesa di fare
le dovute valutazioni per potere emettere un giudizio, un atteggiamento
tipicamente inglese.
Amy si chiese come
Kakeru-san fosse finito con quei due, come avesse potuto scegliere uno
snob che se la tirava e una versione antipatica di Haruka in salsa
spagnola.
Ma anche lei doveva
valutare, prima di emettere le sue di sentenze; magari le loro
qualifiche erano così eccellenti da sopperire al resto. E
poi neanche lei era un grande esempio di simpatia e socievolezza allo
stato puro.
“Allora ragazzi, manca poco
ormai. Controllate gli schermi e i vari collegamenti con XMM-Newton e
Mauna Kea. Voglio che il segnale sia più che ottimo. Angie,
tu invece sposta l'obiettivo di Chandra sul quadrante nord-ovest per
vedere dove è il nostro amico e se è puntuale per
l'appuntamento.” Kakeru sparava ordini a raffica, tutti i
colleghi avevano gli occhi appuntati sui monitor dei computer, con i
dati che sfilavano, sopra le scrivanie che riempivano la stanza, mentre
gli schermi giganti sulla parete più lunga, quelli per le
riprese via satellite e dallo spazio, mandavano bagliori rossi, gialli
e azzurri, bande colorate che si riflettevano sui volti, sulle facce,
come tante maschere di speranza, di paura, di eccitazione.
“Ok, ancora pochi
minuti ragazzi! Angie, come va con il nostro amico?”
“Sempre puntato
sull'obiettivo, dritto al bersaglio.”
“Bene, meglio
così.”
L'uomo aveva la
sguardo sollevato, ma Amy poté notare quasi una nota delusa
nella sua voce, la stessa di quella di un bambino che vuole vedere i
fuochi d'artificio ma invece che colorati e dalle forme complesse, si
ritrova con qualche sprazzo di bianco e qualche scintilla, nulla
più.
“Come ti stavo
dicendo al bar, si tratta di un evento molto raro, direi unico. Per la
posizione della Luna in questo momento, con un perigeo molto avanzato,
un record quasi. E poi anche per il luogo in cui avverrà il
contatto. Proprio il quadrante nord-ovest, vicino Demonax, lo
vedi?”
Kakeru si
piegò verso un computer su una scrivania, spingendo il suo
occupante che infastidito dovette farsi più in là.
“Qui c'è
il limbo lunare,” fece vedere ad Amy la zona così
chiamata della Luna vicino ai suoi bordi, ”l'impatto
avverrà tra la metà illuminata e quella oscura.
Sarà disastroso. Non posso usare altra parola se non
disastroso Amy, davvero. Un vero cataclisma di dimensioni titaniche.
Erano secoli che sulla Luna non impattava un asteroide di quella
portata. 2014-QC è grande più di tre kilometri,
3'272 metri se vogliamo precisare, di puro ferro spaziale, tanto per
complicare la situazione.”
Amy
sentì gli occhiali scivolarle sul naso e dovette faticare a
rimetterli a posto con tutta la nonchalance possibile.
“Sei sicuro che sia
così massiccio? Un asteroide ferroso di quelle dimensioni
sulla Luna è un evento eccezionale, mostruoso.”
“Vuoi i dati che
abbiamo su 2014-QC? Roger, manda su questo terminale i dati sul nostro
amico, e anche la ricostruzione 3D dell'impatto, nonché la
versione Armageddon.”
“Versione
Armageddon? Cos'è?”
Le mani di
Kakeru-san tremarono leggermente nel muovere il mouse del computer, poi
una fila di dati indecifrabili se non da un esperto, riempirono il
monitor di cifre e statistiche.
“Sai, quando abbiamo
scoperto 2014-QC un anno fa, la NASA e tutte le agenzie spaziali del
mondo si erano messe in allerta. Nella scala Torino eravamo arrivati a
8 vista la traiettoria, praticamente una collisione con la Terra era
data quasi per scontata. Siamo molto più grossi della Luna,
con una maggiore forza gravitazionale. Avrebbe colpito noi, era
più che sicuro e stavamo quasi per fare progetti tipo arche
di salvataggio per milioni di persone, o cernita di semi e animali per
la sopravvivenza delle specie che sarebbero morte. Ma poi ha
deviato.” Kakeru scrollò la testa ancora
incredulo. “2014-QC ha deviato il suo percorso, e punta alla
Luna.”
Amy
sentì un brivido lungo la schiena, come di chi è
stato appena sfiorato da un proiettile mortale, e lo avesse visto
passare radente a sé al rallentatore.
“Allora Armageddon
è stato scongiurato, no? Fammi guardare queste
equazioni.” Non
avrebbe mai dovuto dare retta a Kakeru-san. Non avrebbe dovuto farlo!
Riconosceva quella
sensazione, l'adrenalina che le scorreva nelle vene, la
possibilità di usare dati e cifre per risolvere un problema
che minacciava l'intero pianeta.
Amy Mizuno in quel
momento si sentiva di nuovo un'eroina!
Fece spostare
ancora più in là il sempre più
incattivito assistente che occupava quel terminale, il quale decise di
alzarsi e di lamentarsi direttamente con un altro membro di quel
progetto. Cosa che fece raggiungendo Roger Griffin, che se ne stava da
solo ed isolato dal suo mentore per cui nutriva una strana forma di
possesso e di adorazione assoluti, mentre questi neanche lo considerava
da quando la donna nipponica era entrata li dentro.
“Ma chi è
quella tizia giapponese? La conosci per caso? Il capo sembra pendere
dalle sue labbra, e non ha detto niente quando quella mi ha spinto via
dalla sedia!”piagnucolò.
Roger Griffin
guardò nella direzione di colei che aveva portato tanto
scompiglio, i capelli scuri dai riflessi bluastri che risaltavano su
quel collo così esile, eppure fiero, forte, che sarebbe
rimasto sempre fermo su se stesso, magari anche rigido, sulle sue
posizioni e davanti a chiunque.
Per un attimo
l'inglese perse la sua imperturbabilità, gli occhiali che si
appannavano leggermente che resero le sigle sui monitor incomprensibili
e trascurabili.
C'era qualcosa di
misterioso in lei, qualcosa che andava al di là della sua
sconcertante bellezza, dello spirito intelligente e arguto che
traspariva da tutta la sua persona, dalla fama che si portava dietro.
Sì,
Roger Griffin sapeva chi era Amy Mizuno; era famosa in tutta la
Germania dopo il caso del serial killer di Bonn che lei aveva
contribuito a catturare.
Ma quell'idiota di
Jérȏme non poteva saperlo. Era appena arrivato lì
da un paese sperduto dell'Alvernia, e si sa che i francesi non vanno
mai al di là del piacere del vino, della carne e della bella
vita.
Roger Griffin si
rimise gli occhiali sul naso, dopo averli puliti ben bene senza tracce
di quella caduta di stile e aplomb che non si poteva permettere.
Quel
Jérȏme era solo un tecnico, un passacarte pescato per
sbaglio. Non avrebbe mai capito lo spirito granitico, profondamente
radicato sulla ricerca interiore, magari un po' tetro che condividevano
le culture anglo-teutoniche e la lontana eppur vicina tempra giapponese.
Rammollito!
Dovrò fare un rapporto a Kakeru per farlo licenziare al
più presto.
Al di là
di queste considerazioni che facevano perno sulla sua naturale
presunzione da membro altolocato della Royal Society e da qualcosa che
non voleva sviscerare proprio in quel momento, quel qualcosa che era
nato dall'incontro con gli occhi azzurri di Amy Mizuno, Roger Griffin
era preoccupato. Ed eccitato.
Sentimenti che
sembravano animare chiunque in quella stanza, correnti misteriche e
crepitanti che andavano oltre le invidie, le attrazioni, il senso di
possesso e il broncio idiota del francesino che aveva l'aria di un cane
bastonato.
Non si sarebbe
staccato molto presto dalla gamba del suo nuovo padrone,
così l'inglese, le mani in tasca e la postura di un soldato
inattaccabile, invulnerabile a qualunque nemico, si diresse verso il
gruppo principale, la figura della giapponese che si avvicinava, che
oscillava, e la sua voce morbida e piacevole che snocciolava stime e
dati matematici.
Non
importava.
Niente di tutto
questo importava, l'apocalisse interiore che si stava srotolando
coattivamente come un film al rallentatore dentro la sua testa di
scienziato non era niente in confronto all'apocalisse di materia e
roccia esplosa che si sarebbe svolto di lì a poco sulle loro
teste.
Gli occhiali
brillarono maliziosi, e maligni, e diffidenti, mentre numeri scuri e
timer inesorabili sfilavano senza posa riflessi su di essi, in uno
scivolare altrettanto malizioso, altrettanto malevolo, e di una
indifferenza finalmente compiuta e totale.
La maschera di
indifferenza che alterava il suo volto era finalmente compiuta, e
totale.
Usagi, in qualche
mondo alieno a se stessa e alla realtà al di fuori del suo
sogno, sapeva che Mamoru aveva covato quell'espressione all'interno di
se stesso per mesi, per anni. E aveva infine deciso, lì e
proprio lì, di smascherarsi mettendosi quella maschera, per
sfidarla, per turbarla, per allontanarla.
Per un attimo la
compassione prevalse, perché Usagi sapeva che una buona
parte della responsabilità di quel mutamento era imputabile
a lei; ma poi il brillio di quel tavolo così verde, e il
freddo intenso che cominciava ad insidiarsi nel suo corpo e dentro il
cuore, come se la nebbia si stesse raffreddando, solidificando in un
blocco di cemento pesante sul suo petto, divennero talmente fastidiosi,
talmente frustranti che una collera stranissima, non da lei che era la
paciera in persona, dilagò piano, dolcemente. Cerchi
concentrici e sottili in un lago che fino ad adesso era stato
tranquillo. Troppo.
“Che succede
Mamo-chan?”
Non avrebbe voluto
metterci tanto sarcasmo, ne sentiva addirittura l'eco in quella
malfamata distesa desolante e desolata che ne amplificava il tono
ironico; ma se l'era cercata lanciandole quella stecca addosso che
avrebbe potuto anche farle male!
“Gioca.”
Un suono
così flebile eppure feroce non lo aveva mai sentito, neppure
nel peggiore dei mostri che aveva affrontato in passato.
“Andiamo Mamo-chan,
sai che non so giocare a biliardo!” Rise, la rabbia che
veniva vaporizzata dall'assurdità della conversazione.
Sì, il suo Mamoru non le avrebbe mai chiesto una cosa simile
sapendola tanto imbranata in quella disciplina, quindi doveva essere
qualcun altro. O
qualcos'altro.
“Gioca, ho
detto!”
L'uomo, il suo
uomo, si chinò in avanti, la luce della nebbia che gli
illuminava i capelli scuri come ebano appena lucidato, e
liberò le biglie colorate che erano improvvisamente comparse
sopra quella visiva tortura color smeraldo dalla loro prigione
triangolare che le teneva unite, che le teneva forzatamente legate.
“Cos'hai Usa, non
vuoi giocare con me?”
Mamoru
sogghignò, e persino con la consapevolezza che niente era
reale, quella piega maligna della bocca le diede un senso di
tradimento, una pugnalata in mezzo alle scapole.
Se quello fosse
stato un anime di quelli che lei e ChibiUsa seguivano in televisione
nelle serate in cui Mamo-chan lavorava e loro lo aspettavano alzate
(ChibiUsa si rifiutava categoricamente di dormire senza prima avere
ascoltato le storie del suo papà sulle strane operazioni che
eseguiva con la mascherina e il bisturi che tanto la terrorizzavano e
la eccitavano!), in quel momento la sua faccia sarebbe diventata blu,
poiché sentiva il viso congestionato da una rabbia aperta,
pronta ad esplodere persino in un sogno, anzi proprio perché
erasolo un
sogno.
“Non mi piace che mi
chiami così, te l'ho sempre detto!”
Stridula,
troppo stridula e patetica che sei Usagi!
Non seppe con
certezza se questo fu un pensiero suo o di Mamoru, o di entrambi, o di
colui che era il regista oscuro di quella dimensione artefatta e
allucinante.
“Ti chiamo come
voglio Usa.” Si mosse lentamente, la stecca che danzava con
abilità dentro le sue mani, dentro le sue braccia.
Usagi per un
secondo pensò che desiderava prepotentemente essere al posto
di quella stecca da bigliardo, anche a costo di essere uno strumento
per colpire e da colpire, di essere quasi toccata con amore dall'uomo
davanti a lei, in un modo che le ricordava loro due ai tempi di Silver
Millennium, un modo che non si era più ripresentato, nemmeno
mille anni dopo.
Ora che ci pensava,
ora che poteva davvero permettersi di pensarci perché
protetta dall'illusione onirica così rivelatrice da non
rivelare neanche il più imbarazzante dei segreti, doveva
ammettere con se stessa che Endymion era molto diverso da Mamoru, che
era sempre stato diverso da Mamoru.
Ora che i confini
dei ricordi del passato si facevano confusi per rendere tutto
più chiaro grazie al fatto di essere dentro ad un sogno,
sì, Endymion, e lei Serenity, erano molto diversi da Usagi e
Mamoru.
Forse
perché quel legame era appena nato, e per questo
più saldo, non logorato dal tempo e dalla
quotidianità, o forse perché doveva essere
più saldo dato che il loro mondo stava andando in pezzi e la
guerra bruciava tutto e tutti; si ritrovò ad invidiare
Serenity, ad invidiare il fatto che non dovesse pensare ad altro che ad
amare, circondata dalle sue amiche e da un regno splendido e perfetto.
Non aveva dovuto
fare la casalinga lei! Non aveva avuto un marito quasi assente che
aveva smesso di confidarsi (a pensarci bene Mamoru non era mai stato un
gran conversatore né uno che condivideva i suoi pensieri
più intimi con chicchessia), né una bambina che
non sarebbe cresciuta per altri novecento anni, anni che si sarebbero
dipanati nell'attesa degli splendori di Crystal Tokyo e dell'attacco
dei Black Moon, con tutto quello che conseguiva.
Uno scatto, uno
schiocco secco e duro la fece sobbalzare, dentro nel sogno, e fuori,
nel letto con la trapunta piena di conigli in cui era sdraiata, i
capelli biondi e splendenti sciolti in onde lunghissime e che
brillavano alla luce della Luna piena,la quale entrava a fiotti bucando
il buio come un laser bianco.
Una angelica statua
crisoelefantina, in cui l'oro dei capelli e l'avorio della pelle ne
risaltavano la purezza, l'innocenza senza limiti e senza pecche.
Questo pensava
l'uomo appoggiato pesantemente allo stipite della porta della camera;
una figura in ombra, una figura stanca e pallida, di un pallore molto
diverso da quello del satellite sopra le loro teste che invece
splendeva su tutti loro. Su di lei.
Non
avrebbe dovuto essere così bella, non
poté fare a meno di pensare buttando la testa all'indietro e
facendola aderire al duro legno giapponese che era freddo tanto quanto
lui.
Impossibilitato a
smettere di guardarla, impossibilitato a smettere di desiderarla,
impossibilitato a smettere di essere arrabbiato, furioso con lei,
l'uomo in nero che dentro di sé portava l'energia del Sole,
si rese conto che una semplice palla di grigia materia, bucherellata
come un cuore ferito, era più potente, dannatamente
più potente di un solo singolo raggio di quell'astro tanto
splendente al centro del Sistema Solare.
Un Davide che
avrebbe potuto schiacciare il suo gigante quando lo avesse voluto.
|