capitolo13
Ciao
a tutti! Arrivo come sempre dopo un'eternità e vi chiedo scusa. Ci
tengo a continuare e concludere questa storia senza mollare a metà,
ma non riesco quasi mai a dedicarle il tempo che merita. Tra il
lavoro, i progetti matrimoniali, il master, l'esame da rifare ecc ecc
non arrivo più! Spero abbiate pazienza con me...
Vi
ringrazio come sempre infinitamente!
PS.
Troverete una frase in russo detta da Katrina. Non ho voluto tradurla
intenzionalmente. Il traduttore di google potrà aiutarvi a risolvere
il mistero :)
Martina
////////
“...Questo è solo
l'inizio.”
Elia si congelò, sentendosi
di colpo più vuoto di prima. Quanto avrebbe voluto stringere quella
piccola mano nella sua e portarsela alle labbra. Quanto avrebbe
voluto poter credere che quel sorriso fosse vero e quelle parole
fossero sincere. Non poteva. Improvvisamente realizzò l'inutilità
del suo gesto. A che scopo sacrificare i beni di famiglia se non
poteva, non doveva e, soprattutto, non riusciva a crederle? Era lì,
davanti a lui, così vicina da avere la sua ombra addosso, eppure
c'erano ancora due anni di distanza tra loro. Due lunghi anni di
dubbi, incertezze, sensi di colpa e frustrazione. Due anni passati a
progettare la disfatta della sua famiglia, ventiquattro mesi e più
tra le braccia di Morgan Pryce e chissà quanti altri.
Accennò l'ombra di un sorriso
prima di staccarsi dal suo tocco leggero, afferrò le valigie ed aprì
la porta della loro casa. L'odore di fiori e pulito era sempre lo
stesso, nemmeno un granello di polvere sui mobili di legno antico,
nemmeno un'arricciatura sul grande divano color ecru. Tutto
ugualmente perfetto. Tutto ugualmente anonimo.
Improvvisamente gli venne da
chiedersi perché Katrina non avesse voluto modificare qualcosa in
quella calma piatta. Perché, come ogni altra moglie al mondo, non
avesse cambiato le tende o comprato qualche tappeto pacchiano, o
magari provato a dipingere le pareti della cucina di un improbabile
color lavanda.
Poggiò le valigie sul parquet
della loro stanza, rimirando per un secondo di troppo quel letto
immacolato in cui non aveva più dormito. Katrina gli fu subito
dietro. Sembrava che d'un tratto avesse mille cose da dire, proprio
ora che lui non aveva alcuna voglia di parlare.
“Puoi sistemare le tue
cose.”
Disse la prima cosa che gli
uscì di bocca, senza alcuna cadenza particolare. Katrina lo seguì
nel soggiorno.
“Elia...”
Tentò di fermarlo prima che
uscisse e ci riuscì. Lui si voltò lentamente
“Che c'é?”
Rispose. Gli serviva aria
fresca.
“...Aspetta.”
Di nuovo gli fu vicina,
avvolta nel suo maledetto profumo di tuberosa. Non sorrideva più, ma
i suoi grandi occhi brillavano.
“C'è voluto tutto questo
per avere tua reazione.”
La derise con un sospiro.
Reazione. Voleva solo una reazione. Tutto questo casino per avere un
po' d'attenzione? Davvero Katrina?
“Ciò che hai fatto oggi...”
Abbassò gli occhi ed afferrò
la mano di Elia nella sua.
“...Adesso sarà diverso.”
Elia guardò le proprie dita
intrappolate nella piccola mano di sua moglie. Se solo non avesse già
alzato le barricate... Forse a quel punto ci sarebbe caduto davvero.
Si ritrasse di nuovo
“Poco ma sicuro.”
Ribatté serio, cercando di
sfuggirle il più in fretta possibile. Katrina gli bloccò il
passaggio.
“Per favore. Ho bisogno di
uscire da qui.”
La pregò con la più cruda
sincerità. Lei scosse piano la testa
“Ho bisogno di parlare con
te.”
Elia contemplò l'idea per
qualche secondo. Chissà cosa sarebbe potuto venir fuori da quella
piccola bocca a cuore? Quante storie poteva ancora raccontare?
Stavolta fu lui a farsi
vicino, curvando la schiena per farsi alla sua altezza
“Risparmia il fiato
Katrina...”
La guardò dritto negli occhi,
freddo e diretto come solo lui sapeva essere
“...Non crederei ad una sola
parola.”
Lei scosse la testa cercando
il miglior modo di ribattere, Elia non gliene lasciò il tempo
“Volevi una reazione,
giusto?”
Nuovamente sua moglie cercò
di toccarlo, ma stavolta fu lui il più veloce, afferrandole entrambi
i polsi in una stretta morsa
“Eccola qui.”
Concluse trascinandola quasi
di peso verso la camera da letto.
“Elia ti prego lasciami!”
La spinse dentro senza troppa
delicatezza e, dopo averle lanciato un ultimo sguardo, si chiuse la
porta alle spalle. Girò la chiave nella toppa.
“Elia!”
Katrina stava già battendo i
palmi contro il legno, ma lui decise di ignorarla. Doveva uscire da
quella casa e fermarsi a pensare. Aveva bisogno di vedere i suoi
fratelli e calmare i nervi, almeno per un po'.
///////
“Borderline. Questo è il
termine tecnico.”
“Cosa?”
Cara sollevò gli occhi dal
bicchiere ancora pieno. Non aveva idea di cosa la barista stesse
dicendo, aveva smesso d'ascoltare parecchi minuti prima. A dire la
verità non sapeva nemmeno perché fosse finita davanti a quel
bancone, blaterando della sua vita sessuale con una perfetta
sconosciuta.
“Senza offesa tesoro, ma
credo che tu sia parecchio incasinata.”
Sai che novità. Anche avesse
avuto voglia di rispondere, Morgan non gliene avrebbe lasciato il
tempo. Piombando alle sue spalle sbatté il bicchiere vuoto sul
bancone, facendo cenno alla barista di ricaricare.
“Così rovini l'atmosfera
Barbie.”
“Voglio dormire.”
“Non si dorme stanotte. Si
festeggia!”
Il gemello afferrò il
bicchiere e si scolò l'ennesimo gin lemon tutto d'un fiato. Cara
sembrò ricordarsi solo in quell'istante che stava partecipando al
party della vittoria. Missione compiuta.
Little K la raggiunse
dall'altro lato e le poggiò il braccio attorno alle spalle
“Ed io mi sento
particolarmente ispirato.”
Sorrise stringendo la presa e
poggiando le labbra al sapor di tequila sulla sua tempia. Cara chiuse
gli occhi cercando di resistere all'urgenza di spingerlo via. Doveva
dimenticare ciò che era successo tra le lenzuola di Joseph, doveva
spegnere quell'inutile senso di colpa, doveva smettere di pensare a
lui.
Little K cercò il suo viso ed
accarezzò col pollice il taglio ancora fresco sulla sua guancia
destra
“Quanto avrei voluto vedere
la faccia di quel bastardo.”
Cara abbassò lo sguardo
ancora una volta, sforzandosi di fingere un sorriso compiaciuto.
“Dovremmo decisamente
continuare i festeggiamenti a letto...”
Parlandole all'orecchio poggiò
la mano libera sulla sua coscia scoperta.
“...E' passato troppo tempo
dall'ultima volta.”
Le sue dita iniziarono a
salire di pari passo alla sua ansia. Aveva sperato che una doccia
veloce ed un nuovo vestito potessero cancellare le tracce di Joseph
dalla sua pelle, ma chiaramente aveva sperato troppo in grande.
“Sono troppo stanca.”
Little K si fece serio di
colpo
“Come al solito.”
Cara cercò di alzarsi dallo
sgabello, ma lui le afferrò il braccio e la costrinse a guardarlo in
viso
“Dovremmo iniziare a
sospettare qualcosa Barbie?”
Lei non si lasciò minimamente
intimorire
“Magari sono solo stufa di
fare del sesso mediocre con te.”
Little K improvvisò una
risata sarcastica che morì immediatamente. Strinse la presa tanto
forte da farle male
“Sta' attenta...”
Intimò
“...Ricordati che siamo
merli, non amici.”
Cara si divincolò dalla morsa
ed uscì dal locale senza aggiungere nulla. Era pronta a perdersi nel
buio di quella notte.
////////
“DIMMELO!”
Era completamente distaccato
dalla realtà, non aveva più idea di che ora fosse, tanto meno di
quanto alcool avesse in corpo, tutto ciò che riusciva a vedere era
il riflesso sulla sua lama piantata contro il collo del dottor
Griffith, il caro vecchio medico di famiglia.
L'altro tremava nel suo
pigiama grigio, trascinato fuori dal suo letto nel peggiore dei modi.
Sapeva di essere condannato, poteva solo ringraziare che
quell'incapace di suo figlio fosse ancora fuori e che sua moglie
avesse scelto proprio quel week-end per il suo usuale giro di
shopping a Parigi.
“L'ha uccisa lui?”
Stava sudando, sul punto di
piangere, preparandosi a morire come fanno tutti i codardi. Non
riusciva a credere che fosse lo stesso uomo che aveva amorevolmente
curato il suo braccio rotto e la mononucleosi di Nathaniel.
“E' STATO LUI, SI O NO??”
La mano di Joseph gli spinse
la testa ancora una volta contro il muro e quel dolore pulsante,
mischiato al metallo che lentamente gli tagliava la pelle, lo
convinse ad arrendersi. Il dottor Griffith annuì preparandosi a
morire. Se lo meritava, meritava una fine del genere. Non avrebbe mai
dovuto violare il giuramento di Ippocrate, non avrebbe mai dovuto
cedere alle lusinghe del denaro svendendo la sua vocazione ad un
bastardo come William Michaelson.
Ogni piccola speranza che Cara
stesse solo mentendo svanì in quell'istante, Joseph sentì spegnersi
l'interruttore della sua ragione ed urlando contro il nulla prese a
sbattere il medico contro la parete bianca, tante volte e tanto forte
da vederla presto macchiarsi di rosso. Lasciò cadere il corpo
svenuto del dottor Griffith a terra, probabilmente era ancora vivo,
ma in quel momento non poteva importargli meno. Qualcun altro
meritava di morire ancor più di lui.
Si fermò per qualche istante
a respirare, afferrando una bottiglia qualsiasi dalla collezione
del dottore. Nessun liquido aveva più sapore, tutto gli bruciava la
lingua allo stesso modo. L'importante era non fermarsi, non lasciar
modo ai suoi pensieri di farsi sentire, non permettere alla sua mente
di immaginare come sarebbe stata la sua vita ora se sua madre non
fosse mai morta.
Uscì dalla villa il più in
fretta possibile, convinto che la tappa immediatamente successiva
sarebbe stata la casa di suo padre. L'aria fresca lo colpì in viso
come uno schiaffo, scontrandosi col calore dovuto all'ebrezza.
Nathaniel stava sicuramente dormendo tra le sue lenzuola di seta come
nulla fosse, cullato dall'idea di assomigliare ad un padre orgoglioso
e potente che, nonostante tutto, ammirava ancora. Suo padre.
Non si era reso conto fino a quell'istante di quanto la situazione
fosse diversa per Nate e per Elia. William era solo un estraneo per
lui, ma non certo per i suoi fratelli. Non poteva piombare a casa nel
cuore della notte ed ucciderlo come tanto profondamente stava
desiderando, non poteva fare questo a Nathaniel e non poteva farlo
nemmeno ad Elia. Elia.. Dove diavolo era suo fratello maggiore quando
più ne aveva bisogno?
La nuova consapevolezza lo
fece urlare di nuovo, stavolta contro il vento. Non poteva fare
nulla. Quel dolore terribile lo stava mangiando dall'interno e lui
non poteva fermarlo, non poteva cancellarlo, non nell'unica maniera
che conosceva, uccidendo e tagliando. Aveva bisogno di bere ancora,
di altro alcool che cancellasse i suoi pensieri e zittisse
quell'insopportabile sofferenza.
Si diresse a passi veloci
verso casa, senza alzare mai lo sguardo da terra, ignorando l'allegro
vociare che proveniva dai locali ancora aperti e gli sguardi storti
dei pochi passanti. Doveva tornare al suo appartamento. Anche se le
sue personali scorte d'alcool erano finite, la dispensa dello Sweet
Lorraine doveva essere ancora piena. Dopo la morte di Xavier
nessuno era venuto a reclamare il locale e poiché si sa, le voci
corrono veloce, né turisti né abitanti fremevano dalla voglia di
tornare in un posto dove i russi ti sparano addosso.
Riuscì a trovare due
bottiglie di bourbon e si accasciò dietro il bancone, usando i denti
per aprirle il più in fretta possibile. Mandò giù finché ci
riuscì, poi poggiò la testa contro il legno e chiuse gli occhi.
Voleva svenire, voleva solo svenire.
//////////
“Joseph...”
Lui si tirò su dal letto
con difficoltà, le due costole rotte facevano un male bestiale,
tanto che perfino respirare era una gran fatica. Suo padre gli aveva
ordinato di affiancare Boss e Jimmy nella sua prima ronda notturna al
quartiere francese. Una tranquilla discussione sulla spartizione
delle zone di spaccio si era presto trasformata in un'allegra rissa
di gruppo. I pugni veri fanno male.
Sua madre entrò nella
stanza avvolta nella vestaglia di maglina viola, i capelli ancora
sciolti ed il viso pulito da ogni traccia di trucco. Joseph guardò
l'orologio, sei e dodici del mattino, sicuramente William stava
ancora dormendo. Amelia chiuse piano la porta e si avvicinò al
letto, sedendosi sul bordo accanto a lui. Gli esaminò il viso con
attenzione ed accarezzò il grosso livido che andava scurendosi sullo
zigomo, giù fino al labbro tagliato.
“Il mio bambino.”
Sussurrò con voce
tremante. Non era poi così grave e, nonostante l'età, Joseph si
rendeva già conto che quel tono non era di preoccupazione, bensì di
colpa e rimorso.
“Ho quasi diciassette
anni mamma, non sono più un bambino.”
Ribatté sforzando un mezzo
sorriso cui Amelia rispose prontamente. Joseph osservò ancora una
volta il volto di sua madre, segnato da più anni di quanti non ne
avesse davvero. Era sempre impeccabile, educata e ben vestita, sempre
dritta e fiera al braccio di suo padre, sorridente davanti agli amici
di famiglia e determinata accanto ad una marito che chissà, forse
amava, forse no, forse aveva amato solo tanto tempo fa. In
diciassette anni di vita mai, mai aveva visto quello stesso viso
illuminato da un'ombra di reale felicità o almeno così gli
sembrava. Non aveva ancora un'idea precisa di cosa fosse la felicità,
tanto meno di cosa fosse l'amore coniugale.
Si mosse di nuovo cercando
di incrociare le gambe nel più sciolto dei movimenti, un mero
tentativo di tranquillizzarla e rimandarla a letto prima che William
si svegliasse. Purtroppo non riuscì a trattenere quell'unica smorfia
di dolore.
“Joseph devi stare
fermo.”
Raccomandò Amelia, ma lui
insistette provando a raggiungere lo scopo che si era prefisso
“Tranquilla mamma, tanto
devo abituarmi al dolore. Devo imparare ad ignorarlo.”
Lei gli posò una mano sul
ginocchio
“No tesoro mio...”
Parlò con voce ancor più
bassa, quasi stesse per confidargli un segreto
“...Non ignorare il
dolore. Non ignorare nulla di quello che provi.”
Lui aggrottò le
sopracciglia
“Ma è questo che papà
cerca di insegnarci.”
Non è per questo che mi
tratta costantemente come un cane? Concluse nella sua testa. Amelia
strinse le labbra, per un attimo sembrò che stesse per piangere, ma
presto quell'impressione svanì. Scosse la testa
“Non ascoltarlo...”
Inclinò la testa e di
nuovo allungò la mano per accarezzargli il viso
“...Le tue emozioni sono
importanti Joseph.”
“Ma io voglio essere
forte.”
Sua madre sorrise, forse a
malincuore
“Tu sei già forte
Joseph, più forte di tutti i tuoi fratelli...”
Stavolta sorrise anche lui,
abbracciato da quelle parole e dal calore della sua mano sul viso
“...Le tue emozioni ti
porteranno fuori da qui un giorno.”
Avrebbe voluto ribattere,
assicurarle che non voleva affatto andarsene, che non l'avrebbe mai
abbandonata e che l'avrebbe resa fiera di lui, ma Amelia lo zittì
con un dito sulla bocca
“Devo tornare di là
prima che tuo padre si svegli...”
Si alzò lisciando le
grinze sulla vestaglia
“...Tu cerca di non
muoverti troppo.”
Era perplesso, genuinamente
perplesso, incapace di dare senso a quelle parole in un momento della
sua vita in cui non poteva desiderare altro che diventare il soldato
perfetto, forte e coraggioso, principe di ghiaccio di un'intera città
e di un intero impero. Decise quasi subito che non le avrebbe dato
ascolto, non sarebbe mai stato una mammoletta piena di paure e di
debolezze. Doveva essere ferreo e tenace, non lasciarsi piegare né
scalfire dai pugni dei nemici, non lasciarsi ferire dall'indifferenza
e dagli insulti di un padre che sembrava amarlo di meno, o meglio non
amarlo affatto. Già dal giorno del suo quindicesimo compleanno aveva
promesso di smettere di chiedersi cosa avessero in più Caspar, Elia
o Nathaniel e voleva mantenere quella promessa.
///////
Elia sbottonò la giacca
mentre l'alba iniziava ad alzarsi su New Orleans. Era stanco, ma non
voleva tornare a casa da suo padre, tanto meno da sua moglie. Katrina
era forse abbastanza forte da sfondare quella porta, ma non avrebbe
mai potuto superare le inferriate alle finestre o il portone blindato
che non aveva più la stessa serratura né la stessa combinazione.
Joseph non rispondeva al
telefono e non era nel suo appartamento. Dopo averlo cercato in ogni
angolo e bar del centro decise di tornare comunque a casa di suo
fratello ed aspettare. Se non altro avrebbe finalmente posato le sue
stanche membra da qualche parte.
Spinse la porta dello Sweet
Lorraine lasciandola poi sbattere su sé stessa, già diretto
verso il retro. Fu la scarpa scura che spuntava da dietro al bancone
a fermare il suo ultimo passo a mezz'aria, girò la testa e seguì
quella traccia umana fino a scoprire il corpo di Joseph privo di
sensi sul pavimento. La schiena poggiata al bancone e la testa
abbandonata sulla spalle destra, una gamba lunga e l'altra ancora
piegata, le braccia stese lungo i fianchi, la bottiglia vuota ancora
stretta in una mano.
L'odore d'alcool era così
forte che di certo suo fratello non s'era limitato alle due sole
bottiglie che poteva vedere. S'inginocchiò davanti a lui e controllò
che stesse ancora respirando normalmente, gli afferrò la testa e
cercò di svegliarlo.
Joseph non disdegnava bourbon
e whisky, ma non era solito stravolgersi fino a tale punto. L'ultima
volta che l'aveva visto così risaliva a qualche anno prima, dopo il
funerale della loro madre.
Qualcosa come cinque minuti
dopo, quand'era ormai pronto a procurarsi un secchio d'acqua gelata e
ricorrere alle care vecchie maniere, Joseph aprì un occhio solo,
cercando di tener su con fatica la pesantissima palpebra.
La testa pulsava come se lo
stessero prendendo a martellate e la nuvola di colori confusi davanti
ai suoi occhi stentava a ricomporsi. Sentì una mano forte e calda
che lo colpiva in viso, aiutandolo pian piano a tornare alla realtà,
prendendo lentamente la forma di suo fratello
“Elia?...”
La lingua asciutta raspò
contro il palato, mentre le sue pupille s'adattavano alla luce
dell'alba
“...Stai bene?”
Elia si allontanò restandogli
di fronte a ginocchia piegate
“Sicuramente meglio di te,
fratello.”
Joseph si passò una mano
sulla fronte sperando di fermare il continuo tamburellare delle sue
tempie. Elia si tirò su e cercò di procurarsi della semplice acqua
“Che cosa ti ha ridotto in
una condizione così miserabile Joseph?”
Gli domandò porgendogli il
bicchiere. L'altro mandò giù trovandosi travolto dalla realtà come
da un treno, era reale, ogni avvenimento del giorno prima era reale.
Aveva ancora una madre morta ammazzata ed un padre bastardo a cui
farla pagare. Tutta la rabbia era sparita, ma il dolore era sempre
lì. Il suo stomaco minacciò di volersi svuotare sul pavimento,
poggiò le mani sulla pancia e prese un paio di lunghi respiri prima
di guardare Elia
“La mamma.”
Rispose a bassa voce, cercando
inutilmente parole più adatte per dire ciò che doveva dire. Suo
fratello sospirò, erano passati anni ormai, ma sapeva benissimo che
proprio Joseph era stato il più colpito da quella perdita. Con la
scomparsa di Amelia infatti, non solo aveva perso una madre, ma anche
ogni legame col suo passato e con le sue origini. Sebbene riuscisse
benissimo ad ignorarlo per la maggior parte del tempo, non scorreva
alcuna goccia di sangue Michaelson nelle vene di Joseph. Era sì suo
fratello, ma solo per metà.
“Stavi pensando a lei?”
Domandò con casualità,
sperando fosse Joseph ad approfondire la questione se ne aveva
bisogno. Quest'ultimo scosse piano la testa
“Non è stata una fatalità
Elia.”
L'altro sospirò
“Che vuoi dire?”
Joseph cercò di tirarsi su,
ma non ci riuscì.
“Non è stato un malore...”
Guardò suo fratello dal basso
“...E' stata punita.”
Elia aggrottò le
sopracciglia, probabilmente Joseph era ancora ubriaco e solo per
questo ogni sua parola suonava criptica e fuori contesto.
“Punita per cosa?”
“Me.”
Rispose immediatamente
cercando di evitare lo sguardo di Elia che dall'alto lo giudicava
ripetitivo, infantile ed auto commiserevole. Non era esattamente
questo che il maggiore stava pensando, anche se ormai Elia conosceva
bene gli incastri ed i meccanismi nella mente di Joseph. Era
brillante, intelligente, non un ottimo stratega, ma comunque
affidabile, eppure riusciva a perdersi in così poco, che fosse la
pozzanghera della sua solitudine o lo sguardo blu di un'affascinante
sconosciuta. A volte aveva bisogno di ricordare che, a dispetto del
dna, era comunque cresciuto come uno di loro.
“Sei ancora ubriaco Jo.
Parliamone più tardi.”
Il tentativo di Elia di
lasciar cadere la cosa fallì miseramente
“E' stato William. L'ha
uccisa lui.”
Elia si bloccò tenendogli le
spalle. Questo era decisamente più di quanto si sarebbe aspettato
dal post-sbronza di suo fratello. Nonostante il brivido gelido che
gli percorse la schiena, lasciò sfuggire una mezza risata
“Non so proprio da dove
venga fuori quest'assurdità.”
Provò a muoversi di nuovo
senza nemmeno voltarsi, lo stava tranquillamente abbandonando su quel
pavimento come fosse un pazzo visionario e miserabile. Joseph tornò
a sentire la rabbia che fino a quel momento era riuscito ad annegare
“Ho le prove.”
Elia stoppò i passi, voltando
la testa verso l'altro, lo sguardo affilato in attesa delle prossime
parole. Joseph si tirò su ignorando la stanza che gli girava attorno
“Ho i documenti
dell'autopsia...”
Indicò poco distanti i fogli
ormai stropicciati che Cara gli aveva consegnato
“...Il Dottor Griffith ha
confermato.”
Elia raccolse i documenti e li
sfogliò con più attenzione possibile
“Dove li hai presi?”
In quel momento Joseph sentì
di nuovo addosso gli occhi pietosi di Cara. Non poteva dirgli di lei,
del loro incontro, del modo in cui l'aveva lasciata fuggire ancora
una volta. Decise di non parlare e quel silenzio ad Elia sembrò
bastare, poggiò i documenti sul tavolino e restò impalato senza
dire o fare nulla.
Doveva esserci qualcosa di
veramente sbagliato in lui. Quella notizia avrebbe dovuto fargli
crollare la terra sotto i piedi, farlo infuriare, far cadere le sue
certezze. Avrebbe almeno dovuto stringergli il cuore nel petto. Suo
padre aveva provocato la morte di sua madre e lui non sentiva niente,
assolutamente niente.
Joseph aguzzò lo sguardo, non
era certo la reazione che si sarebbe aspettato
“Tutto qui?”
Si avvicinò ingoiando la bile
che gli risaliva l'esofago
“E' questa la tua reazione?”
Elia mandò giù guardando il
soffitto per qualche istante, come se quella bomba gli fosse appena
esplosa accanto senza sfiorarlo nemmeno. Joseph sentì un nuovo pugno
colpirlo allo stomaco
“Sembra che quasi te
l'aspettassi.”
L'altro sospirò
profondamente. William era un vero capo, fiero e senza scrupoli, di
quelli che non tollerano il minimo sgarro. Non era forse tanto più
strano aspettarsi che perdonasse sua moglie dopo un tradimento come
quello? Aveva partorito il figlio di un altro sotto il suo tetto
dopotutto.
Scosse piano la testa
“Ovviamente no Joseph.”
“Allora perché te ne stai
lì impalato? Aiutami.”
“Aiutarti a fare cosa?”
Joseph strinse i pugni
“A vendicare la mamma.”
Elia chiuse gli occhi per un
paio di secondi. Se conosceva bene suo fratello, non aveva dubbi
sulle parole che sarebbero seguite
“Cosa vuoi fare Jo?”
Il più giovane respirò a
pieni polmoni, l'alcool stava già lasciando spazio ad una ritrovata
energia
“Voglio ucciderlo.”
Sentenziò senza dubbi,
gustando quelle parole sulla punta della lingua. Non aveva altro
desiderio, non vedeva altre possibili punizioni che valessero la vita
di sua madre.
Ed eccole lì, esattamente le
parole che Elia stava aspettando. C'era un motivo se aveva sempre
preferito i veleni alle armi e quel motivo era il tempo, il breve
lunghissimo lasso di tempo in cui la vittima si porta il bicchiere
alle labbra, i lunghi minuti con la siringa stretta nella mano
aspettando che il bersaglio ti passi accanto, gli agonizzanti istanti
di dolore in cui resti a guardare, sapendo che hai ancora tempo, che
basterebbe una sola dose d'antidoto per rimediare al tuo gesto. Se
spari in testa a qualcuno o se gli tagli la gola, non c'è antidoto
che tenga.
Joseph vuole tutto e subito.
C'è un costante vuoto dentro di lui che nulla riesce a riempire, il
continuo desiderio di qualcosa che non sa identificare, l'inutile
speranza che un giorno la sua sofferenza sparisca davvero.
“Non farai nulla...”
Lo fissò negli occhi,
guardandolo dapprima raggelarsi per poi contorcersi in una smorfia di
rabbia e d'orgoglio
“...Qualsiasi cosa tu stia
pensando di fare non riporterà indietro nostra madre.”
Cercò di muoversi di nuovo,
stavolta verso la porta d'uscita. Joseph gli si parò davanti
squadrando le spalle
“Non puoi darmi ordini
Elia.”
Era di nuovo furioso ed il
tono, basso ma profondo, lasciava benissimo intendere il suo
ritrovato stato d'animo. Il più anziano sospirò, stimolando ancor
più i suoi nervi scoperti
“Quel maledetto ha ucciso
mia madre!”
Gli urlò in faccia, cercando
di far capire ad Elia quanto la sua reazione fosse dannatamente
assurda.
“E' colpa sua se io non...”
La frase rimase a metà,
interrotta dal repentino movimento di Elia. Joseph si ritrovò in un
istante afferrato per il collo della maglia, spinto contro il
bancone, inchiodato dagli occhi seri e decisi di suo fratello
“Ascoltami bene Joseph.
Questo non riguarda solo te, ma tutti noi. Farai esattamente come ti
dico io.”
La sola idea d'essere
comandato gli fece formicolare le mani. Joseph afferrò i polsi del
fratello ed allontanò le sue mani, l'angolo destro della sua bocca
si sollevò in un sorriso amaro intriso di sarcasmo
“Tutti noi...”
Ridacchiò tra sé e sé
“...Tutti voi vorrai dire.”
Guardò Elia con una nuova
espressione, gelida e distaccata. L'altro scosse la testa
“Non è quello che
intendevo.”
“Ah no? Non stavi forse
cercando di ricordarmi che quel bastardo non è il mio vero padre?
Che io non sono uno di voi? Che l'unico a poter dare ordini qui sei
tu, il solo ed unico William Michealson quarto?”
Sputò il suo nome completo
con sdegno e disprezzo, come mai aveva fatto prima. Elia sospirò
lasciando che l'altro continuasse a studiare il suo sguardo. Non
aveva mai davvero pensato a Joseph come un fratello a metà, mai
prima di quel momento almeno. Per lui William non era altro che un
tutore legale, nulla più del capo crudele e manipolatore che per
tutta la vita l'aveva trattato da cane bastardo. Per lui William non
era mai stato un padre e non c'era in Joseph una sola goccia d'amore
o di rispetto nei suoi confronti, nulla più che disprezzo e voglia
di riscatto.
Per quanto si sforzasse di
ricordare sua madre, Elia non riusciva nemmeno lontanamente a
sentirsi allo stesso modo. Amelia aveva sempre preferito Caspar a lui
e con l'arrivo di Joseph in famiglia, le cose erano ulteriormente
peggiorate. Nessuno più si era preoccupato del piccolo Elia,
abbastanza forte ed indipendente da non aver bisogno di niente.
Assassino o meno, suo padre
era ancora suo padre. C'erano voluti anni, ma alla fine era riuscito
a compiacere le sue aspettative e a guadagnarsi il suo rispetto,
tornando finalmente al primo posto. Che fosse un mostro o meno,
restava comunque l'unico padre che lui, Caspar e Nathaniel avrebbero
mai avuto e non l'avrebbe guardato morire solo per soddisfare i
personali desideri di vendetta di Joseph. La famiglia prima di tutto.
Si bagnò le labbra e fissò
le pupille del più giovane
“Pensa pure ciò che vuoi
Jo, ma non farai niente. Intesi?”
L'altro digrignò i denti,
frenando il desiderio di picchiarlo a sangue. Era davvero stato uno
stupido a cercare il sostegno di suo fratello, avrebbe dovuto
aspettarsi quell'immediato cambio di fronti. Elia si sarebbe sempre e
comunque schierato dalla parte della famiglia, famiglia di cui lui
chiaramente non faceva più parte.
Era solo. Completamente solo
al mondo.
Non avrebbe potuto distinguere
tra paura e sollievo in quel momento, attraversato da una corrente
continua d'emozioni in lotta tra loro. L'uomo davanti a lui non era
più suo fratello, ma un altro tra le migliaia di sconosciuti che
negli anni avevano incontrato il suo sguardo, un'altra persona al
mondo con cui aveva poco in comune, nulla più che qualche cromosoma
e spiacevoli ricordi d'infanzia.
William aveva ucciso i suoi
genitori e l'aveva condannato all'ignoranza. Non avrebbe mai saputo
nulla più della sua nascita, della relazione tra Amelia e Stig o
della terra di suo padre. Non era un Michaelson, ma non aveva altro
cognome. Non era nessuno, non era più nessuno.
Inspirò un'ultima profonda
boccata d'aria stantia
“Esci da casa mia.”
Ordinò, ormai protetto
dall'invisibile muro di cemento che si era costruito attorno in quei
pochi secondi.
Elia si bagnò le labbra,
contemplando l'idea di aggiungere qualcosa. Non riusciva a pensare
chiaramente. Emozioni che non voleva sentire rischiavano di arrivare
in superficie, impegnate nella loro personale rissa tra amore
fraterno, orgoglio e paura, un fiume in piena che non avrebbe mai
saputo gestire.
Ammonì Joseph con un ultimo
sguardo prima di sbattere la porta e sparire.
L'altro rimase immobile nel
silenzio per un paio di minuti, il tempo necessario perché tutta la
rabbia accumulata lo risalisse lentamente e raggiungesse le sue mani
chiuse a pugno. Esplose all'improvviso scaraventandosi contro sedie e
tavoli con tutta la sua furia, spaccando e sbattendo senza remore,
ignorando il vetro tra le dita ed il peso della solitudine sulle
spalle. Chi mai al mondo sarebbe stato dalla sua parte? Chi mai
avrebbe potuto capire cosa stava provando? Così solo, respinto,
accecato dalla sete di vendetta?
Si accasciò ancora una volta
chiudendo gli occhi, sentendo ogni più piccolo dolore che affliggeva
il suo corpo stanco, lasciando che la mente vagasse dove voleva.
Era come lei. Adesso era
esattamente come lei.
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Trovare casa ancora
perfettamente in ordine fu una vera sorpresa. Elia chiuse il grosso
portone e digitò rapidamente il codice, lasciando il mondo fuori da
quelle spesse mura.
La porta della sua stanza da
letto era ancora chiusa ed intatta, nessun pugno sbattuto contro il
legno e nessuna protesta. Elia prese a salire le scale verso il piano
superiore, diretto verso il suo personale studio, lì dove avrebbe
potuto riflettere in pace sulla nuova prospettiva. Joseph si sarebbe
calmato alla fine, ne era quasi certo.
A metà rampa il suo passo si
bloccò a mezz'aria e guardò con la cosa dell'occhio quella porta
chiusa. Katrina era già rimasta lì dentro per ore.
Scese e girò la chiave nella
toppa, aspettando che lei gli si parasse di fronte come una furia.
Quando nulla successe, qualcosa di simile alla più genuina
preoccupazione lo spinse ad entrare.
Con la luce del mattino che
filtrava dalle fessure della persiana, Katrina dormiva stesa sul loro
letto. Si mosse silenziosamente nella penombra finché non riuscì a
guardarla, i capelli ora sciolti e sparsi sul cuscino che stringeva
tra le braccia, i piedi nudi abbandonati sulla coperta scura. Non
riuscì a non sentire quel battito in più del suo cuore, l'ennesima
emozione che spingeva dall'interno. Senza nemmeno accorgersene
allungò una mano e spostò delicatamente una ciocca di capelli che
le copriva il viso. La sua dolce rovina.
Katrina si mosse nel sonno e
lui si scostò subito. Era già di fronte alla porta quando lei aprì
gli occhi ed immediatamente si tirò su, le iridi scure ancora velate
e la voce più roca del solito.
“Elia.”
Lui chiuse le palpebre per un
istante, sforzandosi di tornare fermo e deciso. Si voltò verso
Katrina e scrollò appena le spalle
“Non hai cercato di
fuggire.”
Sottolineò. Lei si ricompose
appena continuando a guardarlo
“Perché non voglio.”
Elia inspirò profondamente.
Non era il momento per le sue bugie. Si limitò ad annuire,
lasciandole intendere quanto le sue parole suonassero inverosimili.
Katrina si alzò in piedi e lo raggiunse, per nulla intimorita dalla
sua reazione.
“Ti prego, lasciami
parlare.”
Stavolta lui scosse il capo.
“Non è davvero il momento
per i tuoi discorsi Katrina.”
Solo al suono del suo nome la
russa riuscì a notare quanto il viso di Elia fosse stanco e
stravolto. Aggrottò le sottili sopracciglia
“Cosa è successo?”
A lui venne quasi da sorridere
“Non giocare a fare la
moglie proprio adesso per favore.”
Voltò le grandi spalle ancora
avvolte nella giacca e spinse sulla maniglia per andarsene il più
lontano possibile
“Ancora non capisci, vero?”
Katrina abbandonò la parvenza
di dolcezza per la sua tipica determinazione, attendendo, coi piedi
ben piantati a terra, che Elia tornasse sui suoi passi. Non ci volle
molto perché tornasse a guardarla, un sopracciglio sollevato che la
sfidava a stupirlo
“Volevo che combattessi.”
Lui aguzzò lo sguardo
“Combattere per cosa? Per
te?”
Già pregustava il
fiammeggiante finale che quella conversazione avrebbe presto
raggiunto. Stavolta fu lei a scuotere la testa e stringere i pugni
“Volevo essere regina...”
Elia rivolse gli occhi al
cielo, quella parola la odiava ormai con tutto il cuore
“...Tua regina.”
Il suo sguardo tornò
immediatamente sulla figura minuta che gli arrivava a malapena alle
spalle, così piccola e così pericolosa
“Quello che ho fatto... Ho
fatto per noi.”
Quelle parole suonarono
assurde, offensive perfino. Se n'era andata, senza nemmeno la decenza
di un biglietto, lasciandolo solo a leccare il suo orgoglio ferito,
schierandosi dalla parte del nemico senza ripensamenti, godendo sotto
il corpo di un altro. Come osava adesso?
“Per noi?!”
Suonò ancora più ridicolo
venendo fuori dalle sue stesse labbra, mentre squadrava le spalle e
l'avvolgeva nella sua minacciosa presenza. Katrina si lasciò coprire
d'ombra senza indietreggiare.
“Te ne sei andata senza una
parola Katrina!”
Le urlò in viso, deciso a
farle rimangiare quelle assurdità
“Ma tu hai cercato me.”
Ribatté lei senza scomporsi,
alimentando la sua incredulità ed il suo nervosismo
“Ti sei alleata con i merli
di Mancini!”
“Perché mi trovassi!”
Anche la voce di lei trovò
nuovo corpo. Possibile che non volesse proprio capire?
Elia allungò le mani per
afferrarla, ma le ritrasse subito al pensiero di ciò che stava per
dire
“Sei stata a letto con Pryce
per Dio!”
Katrina non ribatté
immediatamente, lasciandolo per quegli attimi nella più intensa
agonia.
Scosse il capo fissandolo
dritto negli occhi
“Non mi ha mai toccato.”
Elia indietreggiò d'un passo
cercando d'assorbire quelle parole. L'immagine di Morgan spalmato
addosso a sua moglie era ancora vivida nella sua testa, così come la
sua sporca lingua che ne assaporava la candida pelle. Saltò
afferrandola per le spalle e sbattendola contro il muro
“Non mentirmi!”
La sorpresa sparì di fretta,
Katrina poggiò la mano sul suo polso e lentamente spostò la mano di
Elia dalla spalla al collo, lì dove poteva sentire il suo cuore
battere
“Sai che non è bugia.”
Le vene di Katrina gli
pulsavano addosso, anche se lui non avrebbe mai voluto ascoltare quel
ritmo lento e costante. Non voleva crederle. Non poteva credere che
fosse tutto un piano per portarlo fin lì, per costringerlo ad
attraversare l'inferno e tornare al punto di partenza.
Che razza di marito era mai
stato?
“Perché?”
Domandò, stavolta a mezza
voce, la presa ormai allentata. Katrina inspirò profondamente, i
grandi occhi scuri ancora sgranati, prendendosi il tempo di scegliere
con cura le prossime parole. Il concetto era fin troppo semplice,
l'esito imprevedibile.
“потому
что я люблю тебя.“
Suonava sempre meglio nella
sua lingua natia, come ogni singola volta che l'aveva detto.
Elia le si pietrificò
dinanzi. Era del tutto inaspettato ed era troppo. Troppo presto,
troppo per quel momento già così carico di chiassosi sentimenti,
troppo per le sue orecchie ormai così diffidenti.
Si staccò da sua moglie
indietreggiando immediatamente, lo sguardo perso nel vuoto, ovunque
tranne che su di lei. Katrina preparò il suo ultimo tentativo
“Elia ti prego...”
Non aggiunse altro, gli occhi
di lui restarono piantati a terra.
Katrina aveva tutt'altro
aspetto, ma era in quel momento proprio come Joseph. Tutti e due gli
chiedevano ascolto, tutti e due volevano attenzione, tutti e due con
le loro assurde verità.
Suo fratello e sua moglie, due
estranei che non sapeva più come gestire e come accontentare. Due
pezzi di sé che non sapeva più come amare.
Decise di fare ciò che gli
riusciva meglio. Sollevò lo sguardo per un breve momento, puntando
l'indice al cielo perché il concetto ne fosse amplificato
“Lasciami in pace Katrina.”
Non fu una gentile richiesta,
ma l'ennesimo ordine che aveva sputato in quella giornata, sperando
che almeno uno dei due l'ascoltasse.
////////
Era di nuovo notte. Il giorno
si era spinto lento e pesante fino alla sua inevitabile fine,
trovandola ancora una volta persa per le vie affollate di New
Orleans. Perché fosse ancora lì era un mistero perfino per lei,
quel chiasso non le era familiare come quello di New York e tutti
quegli occhi addosso la facevano sentire continuamente in allerta.
Poteva andarsene quando voleva, tutte le sue poche cose erano chiuse
in una borsa e l'aspettavano nella stanza di un hotel. Tre stelle
stavolta, con le piccole saponette rosa sul bordo della vasca da
bagno e la vista sul fiume. Dopo l'ultima discussione con Little K
era volata a riprendere i suoi averi, decisa a continuare da sola
quel percorso. Nulla era andato come si immaginava, ma aspettava
ancora che da un momento all'altro qualcuno per strada mormorasse di
una lotta intestina scoppiata tra i famosi Michaelson o magari della
morte del grande William, proprio per mano di suo figlio.
Aspettava quel momento per
sparire, trovare Robert e sperare che quanto fatto bastasse.
Varcò la soglia di un locale
e camminò dritta fino al bancone. Avrebbe preso una birra e nulla
più. Non era entrata in quel posto per ubriacarsi infatti, l'aveva
fatto seguendo la musica, la calda ed esuberante voce di un uomo che
ora poteva vedere in carne ed ossa, un tizio dalla pelle scura che si
dimenava sul palco come una vera star.
Li sentì di nuovo in quel
momento, occhi puntati addosso come fulmini. Si voltò di scatto
senza trovarsi dietro nulla più che un branco di persone intente a
vociare rumorosamente, del tutto disinteressate alla sua presenza.
Mandò giù ciò che restava nella bottiglia e lasciò pochi dollari
sul bancone.
Non le piaceva quella
sensazione, il dubbio costante che dietro di lei ci fossero i Pryce o
qualche altro merlo, che fosse Robert in persona venuto a punirla,
che i russi le fossero ancora addosso o che magari proprio uno dei
Michaelson fosse pronto a spararle da un momento all'altro... Magari
proprio Joseph... Dopotutto gli aveva spezzato il cuore, esattamente
dopo aver scoperto che ne aveva uno.
Era strano. Strano, assurdo e
fastidioso. Il pensiero la spaventava giusto un po', ma allo stesso
tempo era come se nell'intimo sperasse di vederlo accadere davvero.
Doveva lasciare quella città
il più presto possibile.
Salì le scale velocemente e
passò la chiave magnetica nella serratura della sua stanza. Sebbene
avesse fretta si prese il tempo d'inalare quell'odore di pout-pourri
che trovava magnifico. Dolci note di cannella miscelate ad arancia e
cedro, col sottile retrogusto di... cos'era quell'odore? Sandalo?
Muschio? Dopobarba da uomo? S'irrigidì nel mezzo della camera.
Quell'odore non c'era la prima volta.
Senza produrre il minimo
rumore indietreggiò d'un solo passo ed allungò la mano verso
l'interruttore della luce. Non aveva armi addosso, avrebbe potuto
contare solo sulle proprie forze.
La stanza s'illuminò in un
singolo istante, rivelando l'intruso comodamente seduto sulla
poltrona accanto al suo letto.
Il cuore le saltò in gola.
“Come mi hai trovato?”
Lui sollevò solo una mano per
rafforzare l'ovvietà della sua risposta
“Questa è la mia città. Ho
occhi dappertutto.”
Joseph se ne stava lì,
apparentemente comodo e rilassato, gli occhi stanchi in contrasto col
bianco pulito della sua camicia. Nulla nella sua espressione lasciava
intravedere le sue intenzioni.
Cara respirò a pieni polmoni
nel tentativo di calmarsi
“Pensavo non volessi più
vedermi.”
Lui staccò la schiena dalla
poltrona continuando a fissarla intensamente
“Infatti...”
Rispose tirandosi su senza
fatica
“...Ma poi ho realizzato...”
Lento e sinuoso coprì i pochi
passi tra loro, arrivandole vicino. Il suo respiro sapeva d'alcool,
ma il suo sguardo era lucido e deciso
“...Sei tutto quello che ho
adesso.”
Cara sollevò gli occhi
aggrottando leggermente le sopracciglia. Il sangue pompava forte
nelle vene e la pancia formicolava.
Lui sollevò la mano e gliela
posò delicatamente sulla guancia in una carezza. Il suo palmo era
bollente contro la pelle, il pollice ruvido contro la ferita che lui
stesso aveva inflitto. Lo stesso dito scivolò poi più giù, a
sfiorare le labbra socchiuse
“Aiutami ad uccidere
William.”
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