Nastri di cotone fra i capelli
Sono nata
vicino a un campo di cotone. Non so neanche dove, esattamente; in
effetti, non ho molti ricordi di quel periodo. Ero molto piccola.
Ricordo fiocchi bianchi di luce del sole, quello sì. E mani
scure che li strappavano, tagliando gli arbusti e afferrandone le
bacche aperte.
Il cotone.
Mia madre, alta che quasi non riuscivo a vederle la faccia
quando stavo per terra e la fissavo, aveva capelli neri e mani bianche,
bianche come i fiocchi di cotone che tagliava dalla terra e metteva nei
sacchi - ma solo sotto, sui palmi. Quando li afferravo, per
addormentarmi, nel buio della nostra stanza le portavo la mano sotto la
luce della luna che trapelava dalle assi di legno, e le giravo e
rigiravo la mano finché entrambe non ci addormentavamo.
Aveva i palmi bianchi e la pelle nera. La sua pelle sembrava anche
più scura quando afferrava i fiocchi di cotone e li metteva
nelle gerle.
Io avevo i capelli come lei, scuri, ricci, gli occhi neri e
la pelle più chiara.
Una mattina non si svegliò. Le presi la mano e
giocai al bianco, nero, bianco, nero!, ma lei non aprì
più gli occhi. Aveva tossito tutta la notte, come la nonna e
quell'amico gentile che mi regalava sempre qualche fiore dei campi.
Avevano tossito e non si erano svegliati più.
Fu forse per questo motivo che mi portarono via da
lì.
Non cambiò molto: la mia casa era fatta di assi
di legno, umide e piene di chiodi, e d'estate si respirava un'aria
densa di odori; la nave sulla quale mi ritrovai per la mano con
quell'uomo alto dalla pelle chiarissima come i padroni, anche. Anche la
nave era di legno. Non tornai a terra per molto, molto tempo.
Ricordo che il viaggio fu lungo, stancante, e che il mare mi
faceva venir voglia di vomitare. Ricordo le facce dei marinai quando
videro che vomitavo e si lamentarono che ero femmina e che ero nera. Il
mare muoveva la nave a destra e a sinistra, le vele dondolavano a
ritmo e tutto pareva così grande che mi domandavo se sarei
mai arrivata a terra di nuovo, o se quel viaggio fosse stato
semplicemente infinito.
Era stato mio padre a portarmi via. Era bianco. Diceva di
essere mio padre, ma l'avevo visto poche volte. Quando
arrivò e mi portò via, prendendomi per mano, non
piansi. La mamma era stata messa nella terra, avvolta in un bianco
lenzuolo di cotone, e cotone sarebbe tornata. Il cotone era la nostra
vita. Il fiore è di un bianco abbagliante, poi secca e
muore. Arrivano le bacche, dal fiore morto. Dalle bacche, il cotone.
Passa del tempo, prima che succeda; prima del fiore, la pianta sta ferma per dei mesi, come morta. È simbolo di rinascita,
mi diceva la mamma: un
arbusto secco che fa un fore bianchissimo.
Tutto torna al cotone.
La vita di mio padre invece era il mare. Lui non sapeva che
rumore facessero le radici quando crescevano e puntavi l'orecchio per
terra. Io ero nata accanto a un campo, lui non stava mai a terra,
viaggiava sempre.
Non so se gli somigliassi. Mi chiamò “Bambina” quando mi vide e mi prese per mano. Gli dissi che mi chiamavo con un altro nome, ma lui parlava poco la mia
lingua. Lui parlava quella dei padroni, fluente e arrotolata. Io
parlavo quella di mia mamma, la lingua dei campi, musicale e veloce,
affannata, come se invece di parlare corressimo sempre.
Il ricordo del viaggio prese presto tanto spazio nella mia
testa, che a malapena ricordai da dove venissi.
Avevo bisogno della terra.
Un giorno, dopo mesi, arrivammo a un porto. Non sapevo cosa
aspettarmi, era diverso da quello della città da cui eravamo
partiti. Il cielo era grigio e la città emanava fumo, come
se stesse bruciando. Un fumo grigio che mi mise tristezza. Il pavimento
della strada era fatto di pietra, non c'erano alberi, solo quelli delle
navi.
Salimmo su una carrozza e mio padre mi rassicurò.
- Sei al sicuro, ormai.
Non seppi dire da cosa.
- Dove stiamo andando? - Tentai di dire.
- Andiamo da uno zio. È ricco e potente, bambina, vedrai.
Io non sapevo ancora lavorare nei campi, però.
Senza la mamma non avrei saputo farlo.
La casa dello zio ricco e potente era di pietra ed era un
castello, non una casa. Mi fece entrare una figura vestita di nero e
mio padre mi fece sedere in una sala piena di disegni sulle pareti, i
soffitti alti e grandi specchi che riflettevano la luce delle candele.
Avevo freddo e avevo il naso chiuso.
Lo zio ricco e potente apparve sulla soglia, era vestito
come un re e mi guardò dal basso verso l'alto.
- È nera.
- Lo so, ma è mia figlia. Vi scongiuro.
- Non possiamo tenerla. Abbiamo un nome, figliolo.
- Non posso portarla con me in India, non reggerebbe il viaggio.
- Che si arrangi, allora, dovevi pensarci prima.
Alla moglie dello zio piacqui ancora meno. Ma non andai via.
Prima di poter dire qualcosa, mi ritrovai in una camera enorme, su un
letto grande con le tende ai lati. Mi fu data una casa e un letto prima
che gli zii si potessero dare il tempo di pensarci bene. Dalla finestra
della mia stanza si vedeva il giardino, immenso, e ci giocava una
bambina.
Era una cugina con la pelle bianca e i capelli biondi e le volli subito
bene.
***
Non esiste fanciulla inglese che non apprezzi almeno un po'
l'idea di un corteggiamento: non esiste, e sicuramente si veste male,
non vuole piacere, non gioca alle frivolezze con veli di stoffa e
fiocchi nei capelli. Non ha certamente cappellini di pizzo,
né nastri colorati da abbinare all'abito. Sicuramente
è una donna destinata a restare sola.
Per stasera, non avrò la pelle nera.
Avrò un ricevimento.
Ho uno zio che mi ama tanto, una zia che ha imparato a
volermi bene e una cugina che sa del mio corteggiatore e lei stessa
presto si sposerà.
Sono una rarità, mi dicono. Sono nera, eppure mi
comporto come una signora. So fare un ottimo inchino e suonare
davvero molto bene il pianoforte. Mi esercito spesso, amo la musica.
Il ricevimento di stasera metterà in chiaro che
sono una donna adulta, pronta ad affrontare un matrimonio.
La casa di campagna degli amici di famiglia è una
reggia. Svolazzo nel mio abito colorato, leggero come un soffio, e immagino la scena.
La sala ha grandi quadri appesi alle pareti, tutto intorno. Enormi e maestosi, giganteschi volti che ti osservano e ti entrano dentro, fino nell'anima.
Come sempre faccio, da che ho memoria, mi ritrovo a soffermarmi su quei volti pallidi, perfetti, quella
carnagione rosea e chiara.
Mi sento meno donna.
Una volta ho catturato una mosca. Non ci sono mai mosche, nei quadri: solo fiori e frutti e foglie rigogliose.
Ho freddo.
Mi chiudo nella mia stanza, sono stanca e tremo come un
foglia. Chiamo la servitù, che accendano la stufa.
Uno strano gioco di specchi mi si para davanti.
Certo, lei è grassa, è tozza e non ha
un bel naso.
E quella pezzuola, per carità, proprio da serva.
Mi guarda, la balia, e io mi siedo sul letto e le dico di
andarsene, non ho bisogno di niente. Serro le labbra e prendo a
pettinarmi i miei dannatissimi capelli, maledetti loro. Il pettine si
impiglia. Andrò a letto come sempre, scarmigliata, il volto
rigato di lacrime e non uscirò dalla mia stanza per nessuna
ragione al mondo.
Mi stendo fra le lenzuola bianche, candide, pulite.
- Non deve pettinarli così.
- Vattene via.
- I capelli, dico. Lasciate che vi mostri come pettinarli.
Colta nella mia vanità, alzo la testa. Incrocio
di nuovo i suoi occhi, e mi vergogno. Avrei dovuto esserci io, al suo
posto, vestita di niente, i capelli raccolti, invisibile più
che mai.
Le porgo il pettine, e l'avorio di quei denti prende a passare
delicatamente nella matassa indistinta di ricci neri che mi cresce
sulla testa.
- Dovete iniziare dalle punte, Miss, vedete? E poi, pian piano, salire.
Non è difficile, provate.
Mi alzo dal letto e mi siedo alla specchiera; lentamente,
comincio.
- Bravissima! Avete visto?
- Credi che stasera andrà tutto bene?
La serva di quel grande castello sconosciuto, marmoreo e
pieno di quadri fatti di luce pura mi sorride e gioca con le mie
ciocche maltrattate, spezzate e nere. Prende un nastro di cotone di un
bianco brillante e me lo acconcia fra i capelli, senza rispondere.
Una volta ho catturato una mosca: l'ho racchiusa in un panno di cotone tanto candido che quasi abbagliava.
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