Draco ed
Hermione sono riusciti a fuggire dalla trappola tesa da Astoria, alias Summer Layton, che si è
alleata con Pucey e Montague, gli assassini
di sua sorella Helena, per uccidere entrambi dopo aver compreso il legame che
unisce i due. Hermione, ancora parzialmente sotto il controllo
dello Zahir che Astoria, con l’inganno, le ha fatto creare, è senza
voce e sotto il pesante rischio di essere nuovamente controllata
dalla Greengrass, che vuole che uccida Draco. Quest’ultimo l’ha portata a
casa di Pansy Parkinson, per proteggerla, prima di recarsi in un luogo
sconosciuto, senza riuscire a parlare con Hermione e senza sapere che la
ragazza è innamorata di lui e che l’effetto dello Zahir è
parzialmente sopito. Draco per aiutare Hermione a tornare sé stessa, ha
convocato una sua vecchia conoscenza, la figlia di Igor Karkaroff, Raissa, che
le ha detto che l’unico modo per tornare libera, sarebbe concentrarsi
sull’amore che Draco nutre per lei. E per farlo, le mostra i ricordi che Draco
ha su di lei, conservati da Blaise Zabini per farli vedere a
Serenity, qualora fosse accaduto qualcosa a Draco stesso. Ma, mentre Hermione
sta rivivendo i ricordi di Draco, essi sembrano scomparire nel nulla. Al suo
risveglio, Hermione apprende che cosa Draco sta facendo: si è rivolto ad un
demone, Adamar, per ottenere i poteri necessari per difendere Hermione e
Serenity da Astoria. Il prezzo per tale demone sono i suoi ricordi di Hermione
stessa, la cosa più preziosa che ha, per questo essi sono scomparsi. Se Draco
fallisse la prova oppure decidesse di ritirarsi dalla stessa, Adamar gli
restituirebbe i suoi ricordi. Ad Hermione, non resta che aspettare che Draco
ritorni. Insidiata da Dimitri il fratello di Raissa ed oramai vicina a perdere
le speranze, una sera di pioggia, Hermione distingue un’ombra nel vialetto
d’ingresso della casa di Pansy. È Draco che misteriosamente è riuscito a
tornare. I due finalmente si riuniscono e passano la notte assieme. Trascorrono
dieci giorni assieme di perfetta felicità: decidono di contattare Harry per
rivelargli la loro situazione, ma il Ministro è ignaro che Astoria abbia una
spia nella sua cerchia più fidata. Nonostante i tentativi di Blaise e
Draco, la spia non viene individuata e, quindi, sono costretti ad usare
Daphne Greengrass e una sua passata relazione con il Ministro, per
contattare Harry, in modo che non lo sappia nessuno. Daphne verrà avvicinata da
Pansy, la sera del suo compleanno, quando dà una festa a casa sua. Nella stessa
occasione, Draco chiede ad Hermione di sposarlo: la ragazza, raggiante, sta per
accettare, ma vedendo l’anello con cui Draco la chiede in moglie, che è lo
stesso anello di Helena, crolla e decide di prendersi del tempo per pensare,
dilaniata dal dubbio che Draco non la ami quanto abbia amato Helena stessa. I
due si lasciano momentaneamente, ed Hermione esce nel giardino della villa.
Intanto nel futuro, dopo cinque anni, Hermione è tornata a casa di Pansy
Parkinson assieme a Seth e a suo figlio Alex. Pansy, che adesso è sposata con
Dean, però, non sa dove Draco sia. Dean, però, le rivela che Draco, cinque
anni prima, è andato via da lì con Raissa Karkaroff, la sorella di Dimitri.
Hermione, sempre più vicina a perdere le speranze, ricordando gli eventi degli
anni passati, ripete che la sera del compleanno di Pansy è stata l’ultima sera
in cui ha visto Draco. Quella sera, infatti, Hermione venne rapita da Dimitri
Karkaroff che si era alleato con Astoria, Pucey e
Montague, proprio per separarla da Draco e farne la sua “regina”. La crudeltà e
la determinazione di Dimitri a fare sua Hermione, si spingono al punto di
catturare anche Hayden, l’amico babbano che Hermione frequentava
precedentemente, ferendolo gravemente e rendendolo incapace per sempre di
camminare. Nella sua prigionia nel castello di Dimitri, però, Hermione apprende
di essere incinta di Draco, cosa che spinge Astoria, sterile e desiderosa di
fare suo l’ultimo erede dei Malfoy, cosa che sicuramente le garantirebbe la
possibilità di riavere Draco, a prendere tempo con Dimitri e ad ingiungergli di
non toccare Hermione nel tempo della gravidanza. La ragazza, però, dopo dieci
giorni, viene liberata dalla prigionia da Helder, la sua amica Empatica, Harry
e Ron, ma durante la fuga, batte violentemente la testa, restando in coma per
tre mesi. Al suo risveglio, si trova in Italia, dove gli amici la tengono
nascosta, fingendo persino un matrimonio con Ron, fino a quando Hermione
apprende della morte di Dimitri ed Astoria, potendo tornare in Inghilterra con
suo figlio per cercare Draco. Una traccia per trovare Raissa risiede
inaspettatamente in un incontro che Draco, incalzato da Adamar durante la sua
prova, aveva fatto nell’aldilà: una donna di nome Tatia Krasova gli aveva chiesto di riferire ad Hermione il
suo nome in modo che si ricordasse di lei. Hermione, però, non la conosce.
Cinque anni dopo, tuttavia, Hermione, Dean, Pansy e Seth scoprono
che Tatia Krasova era una profetessa,
il cui nome era stato celato e nascosto da Raissa, strappando la pagina di un
libro, testimoniando quindi un probabile contatto tra le due. Tatianon voleva che Hermione si ricordasse di lei
cinque anni prima, ma in quel momento, alla scoperta del gesto di Raissa.
Hermione riesce a scoprire dell’ultima dimora di Tatia Krasova: era in Finlandia dove era sposata con un uomo di
nome Ilai Radcenko. A casa di Tatia, Hermione trova una lettera destinata
a lei dalla ragazza e scritta ben dieci anni prima e dove lei le dice tutto
quello che le è accaduto, rivelandole anche che Raissa sente ancora Ilai di cui
è innamorata. Tatia era un’amica d’infanzia di Dimitri e Raissa,
sebbene fosse più piccola di loro, i tre erano cresciuti assieme come
fratelli. Tatia da sempre dotata di un fortissimo potenziale magico,
aveva da sempre attratto l’indole scientificamente curiosa dei fratelli
Karkaroff, specialmente di Dimitri, che ne era ossessionato molto più che
innamorato. Quando però Tatia ed Ilai si erano innamorati, Raissa
aveva finito per uccidere casualmente Tatia e Dimitri le aveva fatto
promettere di aiutarlo a fare sua una donna che suscitasse in lui lo stesso interesse
che gli aveva provocato Tatia, altrimenti avrebbe rivelato ad Ilai il nome
dell’omicida della moglie. Hermione quindi, conosciuta la verità, ritorna in
Inghilterra con Ilai, Dean, Seth e Pansy, ma giunta a casa di Draco, scopre una
cosa straziante: Serenity chiama Raissa mamma. Interrogando con il Veritaserum
la bambina, scopre che Draco sta addirittura per sposare Raissa stessa;
distrutta, Hermione decide di andarsene senza incontrare Draco e di partire per
la Finlandia con Ilai, a cui la lega una complicità sempre più stretta. Ma,
alla festa di paese dove è andata con suo figlio e i suoi amici prima di
partire, qualcuno dal palco chiama il vincitore del secondo premio di una
lotteria. Viene annunciato a gran voce il nome di Serenity, facendo presagire
che la bambina non sia ovviamente da sola. Ma l’attesa di Hermione si rivela
vana: Serenity non è con Draco, ma con Raissa che, pazza di gelosia nell’aver
intuito un legame tra Ilai ed Hermione, usa un Incantesimo per far comparire
Dimitri, mai morto e sempre più ossessionato da Hermione. Le ordina di uccidere
Draco ed Ilai e lega Alex a sé stesso, di modo che qualsiasi cosa gli succeda,
accada al bambino: Hermione ha solo tre giorni per impedire che l’assimilazione
diventi definitiva e che Dimitri non si suicidi, trascinandosi dietro anche il
figlio. Tornata a casa di Draco, Hermione distrutta ricambia il bacio di Ilai,
poco prima che Draco ricompaia nella sua vita. L’incontro tra i due non è
idilliaco. Entrambi si sentono traditi l’uno dall’altra, in virtù dei legami
intanto sorti tra Hermione ed Ilai, e tra Draco e Raissa. Le cose peggiorano,
quando in modo rocambolesco e a causa dell’intervento dei Karkaroff, Draco
scopre prima che Hermione gliene possa fare parola, che Alex è anche suo
figlio. La scoperta lo distrugge emotivamente e psicologicamente, minando forse
per sempre la fiducia nei confronti di Hermione. Il clima diventa ancora più
complicato e ingestibile, quando Draco ed Hermione apprendono dall’Empatica
Helder di essere finiti nell’occhio del ciclone di una guerra millenaria tra il
demone Adamar e gli Empatici. Non potranno sconfiggere i Karkaroff e
riprendersi il loro figlio, se non supereranno una prova imposta dal demone che
testerà il sentimento che li unisce. Il loro amore, difatti, cinque anni prima,
assieme alla creazione e distruzione dello Zahir e al ritiro dalla
prova di Adamar a cui si era sottoposto Draco, ha scatenato una serie di eventi
che li designa come unici possibili vincitori nei confronti del demone: solo
loro possono invocare la Solutio damnationis, lo scioglimento della
dannazione, ossia la distruzione di ogni potere concesso da Adamar nonché della
sua stessa esistenza. La prova è però complicata, difficile, dura, e Draco ed
Hermione disperano di potercela fare, visto come si è deteriorato il loro
rapporto. La Solutio damnationis è però l’unico modo per
sconfiggere Adamar, e liberarsi del potere dell’onniscienza dei Karkaroff, in
modo da eliminarli. Nel piano di Helder, trovano posto tutti i loro amici, riuniti
per salvare il piccolo Alex Malfoy. La prova potrebbe avere conseguenze mortali
per il pianeta, oltre che per loro due e per Ilai Radcenko, che deve fingersi
morto con un complicato meccanismo biologico ed empatico, per ingannare i
Karkaroff. Nonostante tutto, sebbene siano certi di non potercela fare e
rassicurati sul destino dei loro figli qualora la prova vada male, Draco ed
Hermione accettano di sottoporsi alla Solutio damnationis. Dopo
essersi chiarita con Ron, Hermione parla con Serenity, raccontandole di suo “fratello”
Alex. Ma proprio durante la conversazione con la bambina, mentre mostra a Draco
le fotografie del loro figlio, dal suo album di foto ne compare una di lei con
Draco, scattata e conservata di nascosto da cinque anni prima. È allora che
Draco mostra ad Hermione un libro di favole disegnato da lui, per Serenity.
Ogni principessa del libro ha il volto di Hermione. È la molla per la peggiore
delle rivelazioni possibili. Sebbene entrambi sono consci di essere ancora
profondamente legati l’uno all’altra, Draco ed Hermione affrontandosi si
rendono conto di essere innamorati del loro passato, più che di loro stessi al
momento. Troppo dolore e rancore è intercorso tra loro, e purtroppo ormai non
sanno se potranno recuperare loro stessi vista l’imminente prova con il demone.
Disperando di poter tornare vivi, in un clima di tregua indotto dalle
circostanze, restano assieme per la loro ultima notte.
“Devi ricordarti sempre che hai un debito verso questi personaggi”.
Dedico questo capitolo a Demetra, per tutto quello che mi ha detto
mentre scrivevo questo capitolo, ricordandomi perché sono una
pseudo-scrittrice.
Capitolo 45 – No rest for the wicked
Quando Draco
esce dalla stanza si porta via tutto. Luce,
calore, pace.
Il primo
istinto che mi colpisce svogliato alla bocca dello stomaco, è di stendermi sul
letto alle mie spalle ancora impregnato del suo profumo e di nascondermi sotto
le coperte fino all’alba.
Forse, non è stata una buona idea restare da sola.
L’indolenza
minaccia di paralizzarmi mentre aspetto chissà che cosa piangendo,
disperandomi, sprecando tempo e basta. Respiro quindi a fondo, con una mano sul
torace, decisa, cercando di darmi coraggio e di focalizzare tutte le mie
energie sul tempo che mi resta.
Due ore. Mancano due ore all’alba.
Mi guardo
attorno spaesata, apparentemente ho tantissimo da fare… ma niente, davvero, con
cui riempire il tempo. Un po’ di vento notturno mi scompiglia i capelli
soffiando dalla finestra e costringendomi a trattenerli con una mano. Un gemito
di profumo diverso mi raggiunge le
narici. Odore di fiori, fresco, gentile, dolce. Nella luce pigra della lampada
azzurra sul comodino di Draco, noto qualcosa che inspiegabilmente attira la mia
attenzione addormentata. Aggrotto le sopracciglia in direzione del profumo insolito
ed allungo un braccio verso un libro che forse Draco stava leggendo, prima di
addormentarsi. Ne riconosco subito la copertina con un tonfo al basso ventre.
Orgoglio e pregiudizio.
Sorrido in
modo triste, malinconico, ripensando alle parole di Draco di poco fa.
Quando ho pensato che fossi andata via ho comprato come
un’idiota Orgoglio e pregiudizio, ma l’ho richiuso dopo tre capitoli
Forse, non
riuscendo a dormire, ha cercato di andare oltre nella lettura.
A fare da
segnalibro, una piccola peonia bianca incantata con la magia perché sia così
piccola da stare in un libro, sia sempre in fiore e sia sempre
meravigliosamente bella. La sfioro con le dita, è soffice e fragile come
velluto. Con curiosità, nel nitore accecante che emana, noto una piccola macchietta
nerastra.
La studio
meglio, avvicinando il fiore al viso. Il profumo è così dolce che mi stringe il
cuore. Sussulto stringendo le spalle: non è una macchiolina. È una piccolissima
serie di lettere, calcate delicatamente con l’inchiostro nero di una piuma. H.J.G..
Ed è la
prima volta nella vita che so che non sono le iniziali di Helena, ma le mie.
Una peonia bianca per alcuni significa una ragazza
indimenticabile per bellezza ed arguzia.
In Oriente, simboleggia coraggio: i guerrieri se lo tatuavano
a grandi petali sulla pelle.
In Occidente, simboleggia il matrimonio, il coronamento
di un amore scelto dal destino.
Per gli antichi, proteggeva dal male.
E per altri ancora, è un fiore che significa rabbia.
Quale significato hai scelto tu, Draco, da associare a
me?
Accarezzo i
petali del fiore con sconforto comprendendo che non lo saprò mai: l’incantesimo
sulla peonia mi impedisce anche di capire se l’abbia sempre avuta, o l’abbia
colta solo stanotte. Nel dubbio, in ogni caso, la nascondo nelle pieghe degli
abiti che indosserò per affrontare Adamar, come se stessi portando con me un
amuleto magico.
Con
quell’odore ancora nel naso a solleticarmi gli occhi di lacrime, decido prima
di tutto di lasciare un messaggio alle persone che amo. Dubito di riuscirle a
salutare degnamente adesso, visto che io e Draco abbiamo concordato di tenere
per noi quanto consideriamo impossibile tornare. Trovo la mia bacchetta sulla
libreria di fronte al letto di Draco. Probabilmente l’ha portata qui dopo il nostro
scontro nel ripostiglio. Estraggo quindi una scatolina di argento smaltato in
cui riponevo gli anelli quando non li indossavo, per conservarli al sicuro in
valigia. E la incanto perché, come fece Helena ormai sei anni fa, trattenga il
suono della mia voce e lo trasmetta, una volta aperta, ai miei genitori e ai
miei amici. Piango naturalmente, ma cerco di tenere ferma la voce per impedire
che ricordino questo di me. Soffoco le lacrime nel palmo quando non riesco a
parlare e, ad ognuno di loro, lascio un messaggio, un ringraziamento, una
raccomandazione, una frase affettuosa.
Concludo con
una comune esortazione. Per favore,
prendetevi cura di Alex e Serenity.
Con lui, con
mio figlio, non parlo. Ho altro in mente. Non può sentire che cosa ho detto
agli altri, non adesso. Quindi, ancora a costo di lacrime e di un sapore amaro
in gola che mi induce a tossire spasmodicamente, scrivo una lunga lettera e la
nascondo nel libro del Piccolo Principe che ho ancora in valigia. La incanto
perché, come fece Tatia con me, solo Alex la possa leggere e non prima del giorno
del suo diciassettesimo compleanno.
Lo considero
il tempo ottimale perché lui possa conoscere tutta la verità.
Gli dico
tanto, troppo: che lo amo, che sono
fiera di lui, che sono certa che è diventato tutto quello che voleva diventare,
che sicuramente ha già una ragazzina che gli fa battere il cuore, che suo zio
Dean è fissato che questa ragazzina sia Charisma. Gli dico che, qualunque
persona sceglierà di essere, con chiunque decida di condividere la vita, io sarò
dalla sua parte. Gli dico di amare sempre, e non pentirsene mai, perché io non
mi sono mai pentita di aver amato.
Né te e neanche tuo padre.
E gli dico
che, dovunque sarò, non smetterò mai di stargli accanto.
Nessun Dio o
diavolo potrà impedirmelo.
Con cura,
ripongo la lettera nel libro che, a sua volta, nascondo nella valigia. Sistemo
sul letto i vestiti di Alex, li piego con attenzione per l’ultima volta,
sbattendo continuamente le lacrime per impedirmi di crollare. E, con
maniacalità, compilo una lista per Pansy e Dean su tutto ciò che devono sapere
su Alex: i vestiti che adora, i suoi libri preferiti, cibi o medicinali a cui è
allergico, malattie che ha già contratto, vaccinazioni, fratture, patologie
pregresse mie o di Draco, altre vicende mediche accadute durante la gravidanza
e il parto. Ripiego la lista in due e la sistemo accanto alla scatolina
incantata, al libro del Piccolo Principe e alla lettera per Alex. Quando
finisco, respiro di nuovo. La luce all’esterno è lievemente più chiara.
Per eliminare
le tracce di quel pianto, mi faccio una lunga doccia con acqua bollente,
godendomi il tepore sul mio corpo. L’acqua nelle mie orecchie non riesce, però,
ad ovattare del tutto i miei pensieri che ripetono con accenni duri e strozzati
una sola litania.
Fa male. Fa malissimo.
Scuoto il
capo a tenerli fuori da me stessa, mentre mi asciugo velocemente. Indosso un
paio di jeans corti ed una camicia rossa, così che possa sentirmi me stessa.
Per lo stesso motivo, impulsivamente, punto la bacchetta contro i miei capelli
e li ordino di ricrescere: ricadono adesso in morbide onde sulle mie spalle.
Assomiglio alla mia me stessa della guerra contro Voldemort, cosa che voglio
prendere assolutamente come un buon presagio.
L’ultima
cosa che faccio, prima di scendere di sotto ed indossare la mia migliore
maschera di calma e seraficità, è poggiare sul letto la scatola di latta
azzurra con le novecento e tredici lettere per Draco.
Sono tue. Sono sempre state tue.
A far
compagnia al ricordo dei miei cinque anni in Italia, c’è anche l’anello di
Narcissa Black. È giusto a questo punto, visto che non è mai stato davvero mio,
che io lo lasci a Serenity.
Il mio solo
bagaglio è la collana di Tatia, l’anello di Ron con la pietra rossa e la peonia
bianca di Draco.
Quando mi
chiudo alle spalle la porta della camera di Draco, mi sorprende il silenzio del
corridoio e del resto della casa. Tutti evidentemente devono essersi addormentati.
I miei passi riecheggiano forte, quindi decido di andare in giardino così da
evitare di svegliare qualcuno e di dover intrattenere conversazioni che non ho
la forza di tenere. La porta della camera di Serenity è chiusa, mi fermo a
disagio davanti ad essa.
Immaginando
Draco e Serenity lì, abbracciati, in quel letto piccolo e femminile al profumo
di ciliegia e lavanda.
Li invidio,
come li avevo invidiati anni fa a Wonderland, stretti in quel vincolo d’amore
da cui mi ero sentita esclusa.
Invidio
Draco, perché ha una figlia da stringere, prima di morire.
Invidio
Serenity, perché ha lui da stringere, prima di perderlo.
Cancellando
quei pensieri, continuo a camminare nel corridoio, sentendo con una parte della
mia mente qualcuno parlare a mezza bocca. Il
sangue è troppo, è davvero troppo. Aggrotto le sopracciglia guardandomi
attorno ed intravedo Theodore Nott che parlotta con Blaise Zabini, tenendo un
libro in mano. Probabilmente qualche stupido racconto dell’orrore: come se non
ne stessi vivendo uno sulla mia stessa pelle. Li studio con silente rimprovero,
borbottando a mezza bocca, ma loro non si curano di me, sbuffando rumorosamente
guardandomi. Per tutti loro, in fondo,
oggi è solo una gita nella memoria con i vecchi compagni di scuola. Scendo
di sotto, dove c’è un’aria stagnante di sonno e pace. Pansy è profondamente
addormentata, distesa su un fianco sul divano, una mano sulla pancia ancora
inesistente. Ha sul viso un sorriso che non le ho mai visto, meraviglioso,
luminoso e bellissimo: libero. Fa
inspiegabilmente sorridere anche me, anche se non so da che cosa sia causato,
se dalla gravidanza, oppure da… altro. Dean
è seduto sul tappeto, un braccio piegato e poggiato sul bracciolo del divano a
poca distanza dalla testa della moglie, su cui tiene una mano aperta come a
proteggerla anche nel sonno. Ha la bocca spalancata, russa un po’, eppure non credo
che sia mai stato così felice. Mi porterò questo ricordo stupendo di loro, di
quello che sono, di come avrei voluto somigliarli anche solo un po’. Mi guardo
attorno nel resto del salone, il cuore gonfio di una sensazione insopprimibile
tra la tristezza e la tenerezza. Ron si è addormentato anche lui, vestito di
tutto punto, seduto sull’altro divano a braccia incrociate, un’espressione
aggrottata sul viso. Natalie dorme serena accanto a lui, la guancia poggiata
sulle sue ginocchia. Elias, invece, riposa nel passeggino poco distante. È
sporgendomi oltre che ho la sensazione davvero di stare per crollare: sul
tappeto, per terra, Seth russa della grossa con le braccia e le gambe
spalancate stile stella marina. Attaccate ai suoi fianchi, una a destra ed una
sinistra, ci sono Charisma e Lily profondamente addormentate a loro volta. Sul
petto, però, c’è un’altra bambina che non credo di aver mai visto. È bionda, ha
la pelle chiarissima ed indossa un vestitino di lino bianco con la stampa di
ravanelli fucsia. Sorrido, anche se non me l’avessero presentata, saprei
perfettamente chi è.
Kara, la piccola di Luna Lovegood.
È venuta
anche lei quindi…
Dal numero
di giochi sparsi in giro e dalla faccia di Seth, impiastricciata con i
pennarelli per farlo somigliare ad un panda, deduco che devono aver giocato
fino a crollare esausti.
Sarai un buon padre, in fondo.
Anche lui,
sono felice di poterlo ricordare così.
Quel senso
di pienezza tra i polmoni che rischia però di gonfiare il muscolo cardiaco al
punto di farlo esplodere, mi spinge a correre fuori nel giardino, a contatto
con la luce chiarissima dell’alba ormai imminente e con il vento che spira il
vociare inesauribile delle rondini che si risvegliano. Riprendo fiato,
poggiandomi con la fronte al tronco di una magnolia, chiudendo gli occhi
sofferente. J
Una serie di
rumori soffocati però mi costringono a riaprire le palpebre immediatamente,
mentre aggrotto le sopracciglia e ne cerco l’origine. Sembrano provenire da un
punto imprecisato alle mie spalle dietro alcuni alberi che descrivono una
piccola radura seminascosta del giardino di Draco. Incuriosita o forse
semplicemente vogliosa di distrarmi, faccio qualche passo in quella direzione,
uscendo dal sentiero che descrive il perimetro della proprietà ed addentrandomi
nel terreno brullo e coperto da aghi di pino. Mentre sposto qualche ramo basso
che minaccia di farmi sbattere la testa, mi rendo conto del punto preciso da
cui arrivano i rumori soffocati che, ancora, non distinguo pienamente. È dalla
parte opposta rispetto alla casa, in un angolo completamente nascosto dalla
vegetazione. Non appena i suoni assumono una dimensione lievemente più chiara
mostrandosi somiglianti a rantoli confusi, penso semplicemente ad un animale
sofferente ed afferro la bacchetta, pronta sia a curare la bestiolina, che a
difendermi da un probabile attacco.
Quando però
scosto con attenzione un ulteriore ramo basso di pino marittimo ed aggiro un
altro paio di alberi, la vista che mi compare davanti agli occhi mi agghiaccia
il sangue nelle vene, costringendomi a fare qualche passo indietro, come se ne
avessi avuto un contraccolpo sordo al centro esatto del petto.
Di fronte a
me, con un ginocchio poggiato sul fogliame secco ai piedi di un grande albero,
non c’è alcuna bestia ferita.
C’è Ilai.
Ha il volto
emaciato, scavato: la pelle del viso è terrea, bianca, ma segnata da profonde
macchie violacee che somigliano terribilmente a lividi ed ematomi non
riassorbiti. Inspiegabilmente sembra persino dimagrito ed anche meno alto del
consueto, mentre è così piegato al suolo. Non sembra assolutamente il ragazzo
che ho baciato ventiquattro ore fa e che mi ha cullato nel sonno: non ha più
nulla di quella placida e serafica sicurezza, ma un’espressione addolorata e
completamente devastata dalla sofferenza fisica. Non si è ancora accorto di me,
quindi ho tutto il tempo di rendermi conto di che cosa sta accadendo. I versi
che ho sentito… era lui. Chino al
suolo, tossisce ancora un paio di volte, il torace completamente sconquassato
dai sussulti.
La mano che si
tiene premuta sulle labbra si bagna di sangue che gronda copioso dalla sua
bocca, allargando sempre di più una già ampia chiazza sul terreno, di cui non
mi ero ancora accorta.
È lì che
comprendo la gravità della situazione e che, senza ulteriori indugi, corro
verso di lui, chinandomi in ginocchio alla sua altezza e prendendo il suo viso
tra le mani così da poterlo guardare in faccia.
“Ilai! O mio
Dio!” gemo in preda all’ansia e all’angoscia, mentre lui mi guarda con le
pupille dilatate per il terrore. Trattiene ancora la mano insanguinata sulla
bocca e sembra reprimere a fatica un ulteriore accenno di tosse che minaccia di
esplodergli in petto. Poi, accorgendosi della mia attenzione per la mano sporca
del suo sangue, sembra cercare di fare un cenno noncurante e disinteressato che
voglia rassicurarmi, ma nessuna sillaba lascia le sue labbra come se fosse
anche in debito di ossigeno.
“Ilai… che
ti succede?” chiedo ancora disperata, i pollici che cercano di cancellare il
sudore freddo che gli impregna la pelle fredda del viso, poi con fermezza lo
costringo a spostarsi verso un albero vicino così che possa appoggiare la
schiena contro il tronco. Lui asseconda i miei movimenti con lentezza come se
fosse esausto, e continua a premere la mano sulla bocca.
Il sangue
continua a gocciare tra le dita, mandandomi nel panico.
“Vieni qui,
siediti, riposa… hai bisogno di acqua? Vado a prendertela…” dico stupidamente,
completamente disorientata, non capendo nulla di quello che sta succedendo e
non riuscendo nemmeno a capire l’origine dell’emorragia. Mi guardo attorno cercando
aiuto, portando alla memoria nozioni di primo soccorso che si affannano l’una
sull’altra senza alcun senso. Siamo troppo lontani dalla casa, devo tornare
indietro da sola… e se lui intanto… proteggilo,
Hermione, per favore proteggilo… come faccio… io… Tatia… glielo ho
promesso… deve… vivere, come faccio?
Il mio
cervello va completamente in corto circuito e la sola cosa che continuo a
pensare è a portargli quella maledetta acqua, che non so che diamine di utilità
potrebbe davvero avere con una cosa del genere. Faccio quindi per alzarmi in
piedi per correre verso la casa, quando sento la mano di Ilai chiudersi sul mio
polso fermandomi. I capelli mi sbattono in faccia, facendomi ricordare di
averli di nuovo lunghi e restituendomi un po’ di chiarezza mentale, accucciando
il panico in un angolo di me stessa. La
pelle della sua mano… è ancora calda. È ancora la sua.
Lo guardo in
viso, una calugine di lacrime che mi impedisce di metterlo bene a fuoco. La dirado
sbattendo furiosamente le palpebre. Ha il viso lievemente più roseo, meno
pallido. Il sangue… ha smesso di scorrere. La mano resta sporca, ma riesce
finalmente a staccarla dalla bocca senza che nuovi conati possano scuoterlo
dall’interno. Il petto però si alza e si solleva ancora troppo velocemente: lo
vedo quindi poggiare sofferente la nuca contro il tronco dell’albero, dopo aver
lasciato il mio polso ed avermi fatto cenno con la mano di restare dove sono.
Portandomi i capelli indietro con entrambe le mani per fermare il tremore nelle
dita, mi chino di nuovo e mi avvicino a gattoni nuovamente a lui, studiando il
suo viso e le ombre che ne mangiano la salute. Ed è lì che, seguendo una
traccia di sudore che scivola lungo la mascella morendo nel collo, noto
qualcosa che di primo acchito non avevo notato. Senza rendermene conto, mi
avvicino ancora a lui, approfittando del fatto che stia riprendendo fiato ad
occhi chiusi con la testa ancora poggiata mollemente al tronco dell’albero. Non
riuscendo ancora a capire di che si tratta, le dita che mi tremano
convulsamente, sposto con delicatezza i lembi solo accostati della sua camicia aperta
per i primi tre bottoni a lasciare scoperta un’ampia porzione del torace. Quel
movimento fa trasalire Ilai che, d’improvviso, spalanca gli occhi e ferma le
mie mani, stringendomi per i polsi.
Iniziando
finalmente a comprendere di che cosa si tratta, la mia voce ingiunge minacciosa
e colma di livore: “Cosa… sono? Fammi vedere…”.
Ilai nega
con il capo ancora incapace di parlare: ha gli occhi più chiari di prima,
eppure appaiono ancora spalancati, terrorizzati. E comprendo subito che non è
il dolore a tenerli sbarrati e dilatati su di me… come anche poco prima, quando
mi ha vista arrivare. Non era la sofferenza, no.
Non voleva che me ne accorgessi. Non voleva che lo
sapessi.
“Fammele
vedere subito!” urlo allora sull’orlo delle lacrime, stringendo i pugni e
digrignando furiosa i denti.
Ilai
trasale, si stringe nelle spalle, ha un sussulto nelle mani che ancora
stringono i miei polsi. I suoi occhi assumono una piega carezzevole, tenera,
come se ancora cercasse di calmarmi solo con lo sguardo, dato il mutismo che
l’apnea del respiro ancora gli impone e i rantoli del dolore ancora non del
tutto scomparso. Restiamo per qualche secondo immobili, io in ginocchio di
fronte a lui, le dita ancora artigliate al colletto della sua camicia, mentre
lui mi tiene ancora per i polsi, il respiro affannoso e spezzato. Il sangue
vischioso sulla sua mano sporca la mia pelle, lo sento scivolare caldo lungo il
braccio. E’ ancora caldo, tremendamente caldo.
Sospiro a
lungo, gli occhi fissi nei suoi.
Alla fine,
la tensione delle sue mani si allenta appena, accompagnata da un lungo e
trattenuto respiro che rilascia tutt’assieme con evidente e malcelata rassegnazione.
Finalmente libera di muovermi, sebbene le sue mani siano ancora saldamente
ancorate sui miei polsi, riapro con attenzione e delicatezza la sua camicia,
deglutendo a disagio per la contemporanea intimità di quel gesto che si mescola
con lo sgomento neonato per le sue condizioni.
Il cuore mi
sprofonda in petto, mentre annega in un’incandescente lava melmosa di pena che
sembra subito trovare corrispondente nell’immagine che vedo di Ilai. La pelle,
che dovrebbe proteggere quel cuore di cui ho sentito mio il battito troppe
volte, è mangiata da lunghi e profondi segni di bruciature da cui fuoriesce
l’odore acre e nauseabondo della carne in suppurazione. Le striature rossastre
e lucide attorno alle ferite rimarcano come l’infezione si stia diffondendo ai
tessuti circostanti, contaminando il sangue. La porzione di tessuto necrotico è
estesa, ampia, uniforme… parte dall’incavo del cuore e si irradia tutt’attorno
nello spazio occupato dai polmoni.
Il respiro
mi si affanna subito, diventando veloce, irato, incomparabilmente nervoso e
furibondo. Sento lo sguardo di Ilai addosso, sento le sue mani sui miei polsi allentare
la loro stretta e renderla molto più dolce e gentile, eppure nella mia testa
sento solo le parole di Helder e la sua spiegazione di come avrebbero
utilizzato Ilai nel loro piano contro Dimitri e Raissa, inscenandone una
presunta morte.
Sarà possibile modulare la gamma delle tue
emozioni, fino ad indurti stati di sofferenza, di dolore, di disperazione, di
angoscia, in proporzione tale… da mandarti in arresto cardiaco. Attraverso
i tuoi occhi, vedremo quando i Karkaroff saranno vicini a te o ausculteranno il
tuo cuore… ed allora ti indurremo l’arresto cardiaco. Almeno fino a quando
Hermione e Draco avranno invocato la Solutio damnationis… dopo… ripristineremo
il tuo battito normale ed il naturale corso delle tue sensazioni. Il tuo cuore potrebbe non farcela
comunque… potrebbe non resistere a questo sovraccarico di emozioni, come non
potrebbe resistere a questi ritmi forsennati. Ti alleneremo, certo, a
sopportarlo, ma dipende dalla forza del tuo organismo… e tu… potresti morire
sul serio, Ilai…
“E’ quella
cosa che ti ha imposto Helder, non è così?” esplodo alla fine furibonda,
collegando tutti i pezzi e rendendomi maledettamente conto di come, presa dal
mio sciocco egoismo, ho concesso che iniziassero ad allenarlo per questo mascherato
suicidio. Mi stacco da lui alzandomi in piedi, non riuscendo più neanche a
guardarlo, la colpa e il dolore che minacciano di detonare dall’interno
riducendomi a brandelli.
Come ho potuto… come dannazione ho potuto lasciarlo da
solo? Come ho potuto permettere che accadesse… e a lui, poi?
Vado avanti
ed indietro come una fiera in gabbia, prendendo a calci in modo isterico sassi
e foglie, prima di biascicare a denti stretti: “Ti sta riducendo in queste
condizioni, vero? Ma sì, tanto in fondo avevano bisogno di te morto… e ben
presto ti uccideranno sul serio, no?”.
“Non è
niente…” la voce di Ilai mi sorprende, facendomi trasalire ed inchiodare sul
posto come se fossi stata fulminata. È la sua solita voce, calda, dolce,
tenera… un po’ più flebile del solito, meno salda. Ma è sempre la stessa…
respingo l’ondata di automatico sollievo che provo nel risentirla, nonché
quella spinta assolutamente inconscia ed ineluttabile che come sempre mi spinge
a sentirmi più calma e serena.
“Sembra più
grave di quello che è…” aggiunge Ilai con tono casuale, cercando di sollevarsi
in piedi e rinunciandoci per un nuovo tremito del torace che cerca di non farmi
notare inutilmente.
La vista di
lui debole ed affaticato rintuzza la mia furia, spingendomi ad urlare ancora, i
pugni chiusi: “Sei un medico! Sei un dannatissimo medico! Credi che non lo
sappia che potresti evitarti di soffrire se volessi?! Credi che non lo sappia?!
Non puoi fare nulla! E’ questa la realtà!”. Ogni tratto di sofferenza sul suo
viso, ogni residuo di sangue sulle sue labbra, invece che indurmi ad una sana e
pietosa compassione, mi infiamma di rabbia come benzina sul fuoco: è più forte
di me, non riesco a farne a meno. L’impotenza determinata dalle sue condizioni
e dal fatto di non essermi accorta prima di come stava, si traducono in una
morsa insopportabile alla bocca dello stomaco, che, in mancanza di sfogo, usa
lui come incomprensibile bersaglio.
Ilai si
solleva in piedi e, noncurante e distratto, aggiunge in tono calcolato: “Certo
che posso fare qualcosa. Solo… non per
conto mio…”. Di fronte al mio silenzio stizzito, si affretta ad una
sommaria spiegazione dopo un nuovo e rantolato sospiro: “La mia borsa… quella di
cuoio nero. C’è una bottiglietta di colore verde smeraldo. Falla riscaldare un
po’… e versaci tre cucchiaini di cardamomo, sette di tarassaco ed uno di
arnica. E portamela qui con delle bende.”.
Senza indugi
e neanche un’ulteriore parola, mi affretto a tornare indietro verso la casa,
alla ricerca della sua borsa. Ovviamente ho riconosciuto immediatamente gli
ingredienti che mi ha detto di prendere, nonché la pozione che dovrei
preparare: una blanda pozione rinfrescante e purificante contro le scottature.
Le mani mi tremano dal nervoso, mentre preparo il medicamento cercando di non
sbagliare. La casa è ancora avvolta nel silenzio, ma quando sento un tramestio
di passi dal piano superiore immediatamente gelo sul posto, terrorizzata che
sia Draco. So che non sto facendo nulla di male, so anche che naturalmente Ilai
è in queste condizioni perché sta cercando di aiutare noi due a salvare Alex. E
quindi Draco dovrebbe mostrarsi solo che riconoscente e preoccupato,
esattamente come me. Dubito però che, nonostante la ritrovata tregua che ci
siamo imposti, vivrebbe la cosa così. Del resto, la succitata tregua ha senso
anche e soprattutto perché abbiamo evitato di chiarire davvero ciò che potrebbe
renderci nemici.
Ed uno dei
primi punti sarebbe stato proprio quello che provo per Ilai.
Mentre
mescolo distrattamente la pozione azzurrina che sobbolle in un contenitore di
rame, mi lascio andare di nuovo ad un profondo sospiro.
Avessi più
tempo, avessi più vita davanti, sarei dovuta giungere ad una conclusione su
quello che sento per Ilai: mettere un punto, aprire porte, concedermi
possibilità, negarle in tronco.
Tutte cose che allo stesso identico modo mi atterriscono.
Invece, la
codardia che la morte vicina mi impone, mi spinge a liquidare questi pensieri
come assolutamente sgraditi e inutili. Non avrò alcun genere di futuro, è un
puro esercizio di retorica immaginare con chi avrei preferito viverlo quel futuro.
La sola cosa
che sento adesso di dover fare è lasciare libero Ilai: consentire che, dopo
l’inferno che gli ho riversato addosso, lui sia in grado senza remore e colpe
di non addossarsi responsabilità per la mia morte, ma di accettarla in modo abbastanza
sereno, andando avanti per la sua strada. Dovrei recidere il filo rosso che
Tatia ha tessuto per noi e consegnarlo ad un destino pacifico ed innocente, dandogli
la mia somma benedizione per un riscatto dal dolore in un luogo e tempo dove
possa curare le sue già incancrenite ferite.
Purtroppo, e
qui ancora la rabbia rischia di farmi bruciare le dita con la punta della
bacchetta, Helder è stata di altro avviso, avviluppando nello stesso infame
fato di morte non solo me e Draco, ma anche Ilai che in fondo è un innocente
estraneo.
Come faccio
quindi a morire serena, se so che anche lui sta rischiando la vita?
Come faccio
se so con certezza che la previsione di Tatia, quella sulla sua morte se avesse
affrontato da solo i Karkaroff, non sia vicina ad avverarsi?
Come posso
ripagare tutta la sua dolcezza, sicurezza, comprensione, facendogli rischiare
la vita? Ed allora, più o meno inconsciamente, torno a pensare che magari una
risposta onesta sui miei sentimenti sarebbe il minimo che dovrei tributargli,
visto quello che sta passando. E lì i miei pensieri ancora di più si incartano,
spingendomi ad ulteriore nervosismo verso Helder.
Come in
trance, affollata dai ragionamenti, termino di preparare la pozione, prendo
l’occorrente per una medicazione dalla borsa di Ilai e torno a passi spediti
nel giardino, fino al punto dove è nascosto. Il sole non è ancora sorto, manca
poco ormai, l’orizzonte è bianco e grigio di luce occulta. Ilai sembra stare un
pochino meglio. Ha il volto più disteso e in mia assenza sembra essersi pulito
del sangue sul viso e sulla mano. Anche il respiro ansante sembra essere
scomparso. Accoglie il mio arrivo con un sorriso sereno ma fioco, a cui non
rispondo, infuriata come sono. Mi inginocchio rapida accanto a lui,
trasfigurando una foglia affinché diventi una ciotola di legno scuro in cui
riverso il medicamento. A testa bassa, senza aggiungere altre parole, intingo
la garza nel liquido azzurro e mi avvicino a lui, senza guardarlo. Con una
vampata di imbarazzo, mi rendo conto che, per curarlo a dovere, dovrei
perlomeno sbottonare il resto della camicia.
Con il viso
che mi va in fiamme, capisco con vergogna che non sono affatto pronta e
preparata ad una cosa del genere. Medito se sia possibile medicarlo anche senza
sfilargli l’indumento, ma la porzione di pelle visibile non è nemmeno
lontanamente quella più ferita ed escoriata. Maledicendo ancora Helder e
rimproverandomi silenziosamente per la mia stupida timidezza che non ha alcun
motivo di venire fuori proprio adesso, resto immobile con la garza in mano che
goccia antipatica sulla mia gamba.
Quando ormai
sono quasi pronta a battere in ritirata per l’imbarazzo e per la stupidità,
sento un verso di gola proveniente da Ilai.
È
curiosamente simile ad una risata arrochita.
Inspiegabilmente
un’ondata di calore mi avvolge da capo a piedi, restituendomi calma e serenità
e portandomi persino una piega ilare sulle labbra. Scuoto il capo come a
scacciare fuori i pensieri e mi riaccosto a lui mordendomi il labbro inferiore,
mentre cerco contemporaneamente di non guardarlo in faccia e di simulare nella
mia goffa operazione di soccorso le movenze professionali che ho spesso visto
in Ginny. Faccio quindi scivolare i bottoni rimasti fuori dalle asole, cercando
di apparire disinvolta alla vista del suo torace, poi con lentezza esasperata dall’impaccio
apro un po’ la camicia. Un tocco gentile ma deciso da parte di Ilai sulla pelle
interna del mio polso, mi informa con sollievo che basta così. Con ritrovata
padronanza di me stessa, inizio con delicatezza e paura di fargli del male a
passare la garza imbevuta sulla pelle ferita. Ilai si lascia andare prima ad un
verso quieto di fastidio e poi ad un singulto di sollievo quando la pozione
inizia a fare effetto. Respiro di sollievo, l’odore di lui torna prepotente
nelle mie narici, sostituendo quello fastidioso e dolciastro della carne in
putrefazione. Per qualche minuto compio le mie operazioni in silenzio, beandomi
del ritrovato ritmo normale della respirazione, nonché dell’aspetto delle
escoriazioni che migliora notevolmente. Attorno a noi gli animali notturni si
ritirano nelle loro tane e quelli diurni ancora riposano beati nelle cadenze
regolate dalla natura: è un attimo di perfetto silenzio al profumo di resina e
legno di pino, che mi lascia dentro la sensazione di essere rimasta sola al
mondo assieme a lui senza più nessuno attorno.
Persino i
pensieri sembrano essersi volatizzati, annullati nel movimento meccanico di
bagnare la garza, strizzarla un po’ e passarla sulle ferite aperte.
“Grazie”
sussurra Ilai quieto dopo qualche secondo. La mia mano si ferma, restando
poggiata sul suo petto.
“Potevi
farlo benissimo da solo. Mi stai prendendo in giro…” mormoro spazientita,
comparando in modo sommario la salute della pelle della mia mano e lo stato
raggrinzito e malato della sua “Serve solo a curare i sintomi delle bruciature
e a mitigare il loro aspetto. Non la causa…”, mi stacco con un moto sdegnato e
chioso drastica: “Adesso mi chiederai di portarti della camomilla così da
calmare la tosse? O un bel bicchiere di latte e miele?”.
Ilai si
abbandona di nuovo a quella risata roca e infinitamente triste che ha l’effetto
di far evaporare ogni mio accenno di rabbia, svuotandomi e rendendomi solo
inerme e frastornata. Ancora, nonostante tutto, non riesco minimamente a
pensare di sollevare il viso, neanche quando sussurra con voce dolce: “Sarei
stata un bravo medico”.
“Non
cambiare discorso…” mastico amara, spiandolo dal basso a palpebre semichiuse
“Mi basta uno che faccia così nella
mia vita”.
L’allusione
a Draco mi esce fuori dalle labbra prima ancora che me ne renda conto, prima
che comprenda con chi sto parlando, prima che non mi scoppietti nel cervello ed
attorno a noi con la forza insolente e prepotente di un petardo acceso. La
garza mi scivola dalle mani, cadendo con un tonfo soffuso sul pavimento di
foglie.
“Ti basta uno nella tua vita… in assoluto…”.
La sua voce
non ha niente di rancoroso o di recriminatorio. Sarebbe stato meglio se mi stesse accusando di qualcosa. Decisamente
meglio. È invece asciutta, amara, velata di malinconia, ma senza alcun tono
di autocommiserazione. È semplicemente vera, reale ed onesta, come sempre è
stata, come se semplicemente mi stesse spiegando con logica razionale che il
sole è caldo e il ghiaccio è freddo. Eppure ha l’effetto devastante di un
calcio ben calibrato agli stinchi, pronto a mozzarmi il fiato e a mangiarmi il
respiro.
Guardami in faccia, per favore. Almeno questo.
Sento quella
preghiera nella mia testa, pronunciata con un tono al contempo stentoreo e
funereo seppur delicato e lieve, al punto che neanche sembrano i miei di
pensieri. Sollevo piano lo sguardo, le spalle contratte e strette, spiando con
colpa il suo viso che trovo inaspettatamente rivolto al mio. I colori dei suoi
occhi sembrano improvvisamente diversi, più caldi e luminosi. Ha la pelle
fragrante di miele ed ambra, scintille di caramello negli occhi, fiorisce di
sanità il respiro calmo e rilassato. Persino le ferite sembrano meno
spaventose, comprese le ecchimosi sparse che aveva sul volto. Sembra
esattamente lo stesso di sempre, nessuna traccia di sofferenza e dolore.
Inaspettatamente,
però, anche ciò che ci circonda sembra cambiare, come se si adeguasse a lui.
L’aria stagnante e sospesa del primo mattino è sostituita dalla luce dorata e
profumata di un pomeriggio d’estate che fa tralucere le foglie come se fossero
trasparenti. Ogni ombra si accuccia quieta e gentile, risorgono fremiti di
farfalle e crepitii gentili di usignoli, il vento alita fresco di muschio ed
erba.
Penso solo che
sia l’alba ormai imminente, vengo presa dall’ansia di parlare, di spiegarmi, di
non lasciarlo andare così.
“Non devi
fare questo per me…” biascico con voce rotta, le lacrime affacciate negli
occhi, afferrando un lembo del colletto della sua camicia “Per Alex. Non è
giusto che tu soffra così. Non puoi rischiare la vita per me, non te lo
permetto…”, respiro senza fiato con titubanza, sputando fuori: “…in fondo…”.
“In fondo con questa storia
io non c’entro nulla?” completa lui prontamente, ancora senza alcuna traccia di
rabbia o livore, ma con quella mansueta consapevolezza che mi fa ancora più
male “Io non sono… nessuno, giusto?”.
Le mie mani
sussultano, rabbrividiscono, stringendosi a lui, prima che erompa
scandalizzata, come se lo avessi sentito bestemmiare: “Che cosa?! Ti ho mai
fatto credere una cosa del genere? Ti ho fatto mai pensare che tu non sia
niente per me?”.
Ilai non
replica nulla, resta immobile ed in silenzio come se le mie parole non avessero
neanche raggiunto le sue orecchie, ma fossero invece scivolate lontane come
acqua da una cascata. La mascella è stretta e contratta, ma ancora
inaspettatamente nei suoi occhi non c’è traccia di rabbia, livore e tantomeno
di quella sana pena che mi spingerebbe a reagire stizzita e nervosa. È fiero
come il sovrano legittimo che viene trascinato in catene al patibolo, ma non
abbassa lo sguardo per guardare negli occhi il suo boia. Non tinge neanche
un’eco delle sue parole di un velato rimprovero o piuttosto di una qualsiasi
sfumatura di accusa: si limita a constatare i fatti e basta, apparentemente
senza alcun trasporto emotivo. Con perizia chirurgica, disseziona i miei
sentimenti, sentenziando poi, clinicamente consapevole, l’impossibilità che io
guarisca dal mio cancro terminale.
Non sono
abituata a tutto questo, non ci sono
abituata. Sono drammaticamente
abituata ai segni esteriori che Draco mi dà, alle sue espressioni
apparentemente fredde, ma celanti i suoi intimi pensieri che si rivelano,
d’improvviso limpidi, in un cenno del capo, in un’alzata di sopracciglia, in una
parola sfuggita.
Sono anche
abituata alla chiarezza rancorosa di Ron, come ero abituata alla superficiale
profondità di Dean.
Ilai non è
così, è completamente diverso. È geloso di sé stesso, specie della sofferenza,
del dolore, della rabbia… delle sensazioni negative, insomma. È sempre teso a
dare un’immagine di sé di distensione e trasparenza. Ed è sicuro, inflessibilmente
sicuro di sé e di ciò che lo circonda, mentre collega particolari e dettagli ed
arriva alle conclusioni con uno spirito d’osservazione acuto ed affilato. E
vive della teoria che ha interiorizzato.
Un po’… come… me.
Mi chiedo
improvvisamente se sia venuto a cercarmi, se abbia intuito che ero con Draco,
se pensa che le cose adesso con il padre di mio figlio siano a posto, se è
convinto che ci siamo riappacificati.
E mi rendo
conto che al momento non saprei che dire se mi facesse una domanda diretta
sullo stato in cui siamo. E’ facilissimo per me e Draco capire dove siamo:
abbiamo un passato di gradazioni di grigio nel definire noi stessi che ci aiuta
a non dover e voler trovare definizioni.
Ma Ilai è bianco o nero.
Per i suoi
gusti, ha vissuto fin troppo nell’aura dell’irrisolto, dell’atteso,
dell’inspiegabile.
Se l’ha
accettato fino ad ora, è stato solo per me.
Ma ora basta. Neanche io valgo questo sacrificio di
quello in cui crede.
Mi andrebbe
bene anche così se non fosse per questa maledetta spina dentro che mi impedisce
di lasciarlo andare con una incantata bugia, piuttosto che con la verità.
Fargli
credere che tra me e Draco è tutto risolto, che lui non ha mai contato troppo
per me… sarebbe una bugia. Ma lo libererebbe, lo salverebbe, gli permetterebbe
di farsi una rapida ragione della mia morte. La verità, invece, lo legherebbe
ancora.
Ma poi… in fondo… io la conosco questa verità?
Sono davvero in grado di dirgli che cosa è per me?
Sono davvero disposta a lasciar andare parole che non
torneranno più indietro da me, innocue ed inoffensive?
Mi stringo
nelle spalle a disagio, incapace di fare o dire qualsiasi cosa per la prima
volta nella mia vita: con Draco so sempre che fare e che dire. Al massimo, non voglio dirlo o farlo.
Ora, invece,
ogni gesto ed ogni parola sono armi a doppio taglio.
Ilai guarda superficialmente
le mie dita sul colletto della sua camicia ancora artigliate neglettamente,
come se si reggessero a stento. Le stringe di scatto tra le sue con un
movimento veloce e rapido, senza neanche tornare ai miei occhi. Non faccio
neanche in tempo a rendermi conto di che cosa sta accadendo o a percepire quell’ombra
piacevole di calore delle sue mani, che lui le lascia andare, facendomi
immediatamente intuire che voleva solo che mi staccassi dal suo petto. In
silenzio, con calma, mentre lo osservo di sbieco ad occhi sgranati, lo vedo
alzarsi in piedi con decisione, chiudersi la camicia e fare qualche passo come
se stesse tornando indietro verso la casa.
Ancora
seduta sul fogliame sparso e secco, mi volto di scatto su me stessa seguendo la
sua schiena che inizia piano ad allontanarsi. Un raggio improvviso e subdolo di
sole mi ferisce gli occhi, costringendomi a socchiudere le palpebre.
Sole. Alba. Tra poco è finita.
“Aspetta…”
mi sollevo in piedi in modo così brusco da avere un capogiro. La sua schiena
che si ferma mentre mi ascolta, calma un po’ di quell’insopportabile panico
ansioso nello stomaco.
“Aspetta…”
ripeto senza fiato, una traccia di lacrime inesplose nella voce flebile.
Che cosa dovrebbe aspettare, adesso? Scuse, promesse,
rassicurazioni, addii?
Lascialo andare Hermione, basta. Smettila una dannata
volta.
… sarà sempre Draco no? Sarà sempre lui, vero? È così che
l’hai sempre pensata e sempre la penserai. Ed allora lascialo andare. Smettila.
Contraggo le
spalle con ritrosia mentre quell’esortazione interiore si perde nel fondo di me
stessa, baluginando debole ed inascoltata nell’incoerenza maciullata che è
diventato adesso il mio cuore.
Ilai si
lascia andare ad una risata priva di allegria che ha l’effetto di rompere
l’incantesimo quieto a cui si era sottoposto. Si volta verso di me, incredulo,
sorpreso, più vivo di quanto l’abbia mai visto. Serra ancora la mascella, si
scompiglia i capelli con risentimento come se esitasse solo per dignità sepolta
a strapparseli dal capo. Respiro di nuovo sollevata, forse perché mi merito che
lui sia arrabbiato con me, o perché con il livore riesco ad averci meglio a che
fare.
O semplicemente, ho bisogno di sentire quello che prova
per me, qualsiasi cosa sia.
Ilai ancora
ridacchia, allarga le braccia in un gesto di contemporanea resa ed afflizione,
poi le fa ricadere mollemente lungo i fianchi, sfibrato e stanco. Mi guarda dal
basso delle ciglia nerissime, prima di sussurrare con voce dura: “Perché?
Perché non è abbastanza sentire il suo odore addosso a te? Non è abbastanza
vedere che è già cambiata la tua voce, o come mi guardi, o come mi sfiori? O
devo sorbirmi anche la pietà, la colpa, la pena? Risparmiamelo. Almeno questo,
per favore… risparmiamelo…”.
Un brivido
si arrampica gelido sulla mia schiena, non ha mai usato questo tono di voce con
me. Credo anzi che non l’abbia mai usato con nessuno neanche una volta nella
sua vita. Neanche con Draco, seppure era percettibile dalla contrazione dei
muscoli delle spalle quanto in realtà avesse voluto essere molto meno che
pacato ed educato. Con me a maggior ragione è sempre stato dolce, calmo,
gentile. In un modo che mi ha fatto abituare alla sua voce, così da ripetermela
nella testa come una ninnananna quando avessi timore o ansia. Ora, questa voce
nuova, ferrea ed arcigna, non la riconosco. Neanche le parole che mi ha detto,
le ho davvero sentite. È bastato il tono per farmi rabbrividire, mentre mi
chiudo la mano sul petto, stringendo la camicia rossa.
Io davvero traggo fuori il peggio dagli uomini.
Cosa speravo? Cosa pensavo in fondo? La morte vicina può
rendermi vigliacca ed egoista, può avvicinarmi Draco, può farmi perdonare da
Ron: ma non può darmi tutto. Certo non può darmi lui, qualsiasi maledetta cosa
io davvero voglia da lui.
Questo qualcosa che non permetterò a me stessa di
conoscere compiutamente. E tantomeno a lui.
Una parte di
me neanche tanto piccola è rincuorata dalla sua rabbia: sarà molto più facile e
semplice accettare la mia morte se mi odia.
Respiro a
fondo, cercando di tornare lucida. Come poco prima con Draco, mi impongo di
dire tutto ciò che so che potrebbe tenerlo lontano. Così da salvarlo da me
stessa. Così da liberarlo.
Nascondo nel
fondo di me stessa la forza, la decisione, l’orgoglio, la determinazione. Fingo
un’insopportabile tremore della voce, una debolezza volubile, l’acuto singulto
di una donna capricciosa che non sa neanche lei che cosa vuole dalla vita.
Forse in
fondo è davvero così… o forse ho paura davvero ad ammettere con me stessa che
cosa voglio.
Non importa
quale sia la risposta.
Devo solo lasciarlo andare.
Faccio
tremare il mio labbro inferiore con uno studiato broncio da bambina, mentre
pigolo fastidiosa persino alle mie orecchie: “Non è cambiato niente tra me e
te. Niente…”, lascio che un singhiozzo calcolatamente falso ed eccessivamente
patetico interrompa le mie parole. Mi asciugo le lacrime e mi giustifico
sommariamente: “Le cose… sono sempre state chiare, dall’inizio. Non è mutato di
una virgola quello che sentivo per lui… e quello che sento per te…”.
Ilai scrolla
il capo con un sorriso diverso da quello che gli ho sempre visto addosso.
Il suo
sorriso consueto è malinconico, un po’ triste, spruzzato sempre di un po’ di
amarezza mai del tutto ripudiata. Adesso invece indossa un sorriso storto che
non arriva agli occhi, più simile ad un ghigno ferino. Un sorriso che mi fa
rabbrividire e chiudere nelle spalle come se fossi al centro esatto
dell’inferno. Respira a fondo con espressione saputa, scuotendo il capo come se
non credesse alle sue orecchie, come se avessi profuso e difeso la più
menzognera delle eresie.
Come se avesse capito che cosa sto facendo.
Sgrano gli
occhi, non può essere che l’abbia capito,
e resto improvvisamente a secco di parole, terrorizzata e spaventata. Non
posso tenerlo lontano nell’unico modo che conosco: le bugie, a celare la
verità. E la verità è scomoda, sgusciante, viscida.
Non posso permettermi di capire sul serio che cosa provo
per te.
Mi basta Draco. Mi basta lui. Mi basta il dolore che mi
provoca lui.
Mi deve bastare lui.
Basterà ad uccidermi che debba perdere lui.
Non farmi pensare ad altro, adesso.
Ti prego.
Mi abbraccio
goffamente, sfregando le mani sulle braccia, ancora un intollerabile freddo
nelle ossa.
Ilai solleva
il capo, chiude gli occhi e poi li riapre, spiando dei ritagli di cielo tra le
chiome degli alberi. Ha la voce incerta, farinosa, soffocata, quando riprende a
parlare non guardandomi neanche per sbaglio: “Tatia diceva che ogni uomo ha
cinque destini. Quello del cervello: la mente, la ragione, il calcolo. Quello
del cuore: l’affetto, l’onore, l’amore. Quello delle ossa: gli avi, la
tradizione, i doveri. Quello del fegato: l’istinto, l’intuizione, la
premonizione. Quello del sangue: il caso, l’occasione, l’opportunità…”, prende
fiato, sorride come se inseguisse un ricordo lontano, tira su con il naso.
Poi,
d’improvviso, i suoi occhi lasciano il cielo, sfuggono i miei, si incatenano al
tappeto di foglie secche che calpesta con ferocia, spostando il piede avanti ed
indietro come in preda ad un tic nervoso. Sibila irrequieto, la voce che a
malapena mi raggiunge le orecchie per quanto è rancorosa e fioca: “Lei mi ha detto di ricordare la cannella
bruciata… cucinava una torta di mele, stava aggiungendo la cannella alla crema
pasticcera, mi dava le spalle ed era china sul fornello della cucina. Aveva una
schiena ampia, abbronzata. Seguivo le linee che univano nei ed efelidi, con la
voglia di baciarle una ad una. Mi ero incantato ad osservare quella piccola
donna bambina che era mia moglie: i suoi piedi nudi, la schiena scoperta, i
capelli castani lisci, la pelle olivastra. Poi un odore strano: la cannella che
bruciava. Mi avvicino a lei. Aveva gli occhi vacui, persi, lontani. L’ho scossa
per le spalle, le ho allontanato la mano dal fuoco, l’ho fatta sedere. Mi ha
guardato come se non mi vedesse, piangeva. Ogni
uomo ha cinque destini. Non si sa se li incontrerà tutti. Le persone tranquille
ne vivono e scelgono uno. Quelle felici ne trovano uno che ne comprende cinque.
Tu ne avrai tre. Sangue, cuore, fegato. Io sono stata il sangue. Ci sono altre
due vite, fuori di me, dopo di me, al di là di me. Questo mi disse. Poi
chiuse gli occhi, finse di tornare alla normalità, come se non ricordasse la
visione. Ma la sua schiena tremava, i piedi tremavano, la pelle tremava tutta.
La baciai, facemmo l’amore sul tavolo sporco di farina. Non mi importava del
destino, era lei il cuore. Lo era sempre stato…”.
Lo osservo
senza capire, stringendomi ancora, gli occhi sbarrati. I suoi finalmente
tornano al mio viso, stringe i pugni, ha la pelle del volto chiazzata e plumbea
come se si stesse trattenendo dal colpirmi. Stento a riconoscerlo, mi sembra di
trovarmi di fronte ad una persona completamente nuova. E di cui non so
assolutamente che cosa aspettarmi e che cosa temere.
Un brivido
freddo mi trapassa da parte a parte, facendomi rendere conto che sono io che
l’ho ridotto così. Continuo a guardarlo, il cuore che mi fa inaspettatamente
così male da darmi l’impressione che si sia spezzato a metà. Ed ero davvero
certa e sicura che ormai quello che c’era da soffrire, io l’avessi già alle
spalle. Invece non si smette mai.
Non smetto
mai di fare male a chi… a chi tengo, a
chi voglio bene, a chi amo?
Sussulto
serrando gli occhi a contenere quella spinta di domande affollate nella testa,
mentre Ilai fa qualche passo incerto verso di me, i pugni sempre chiusi,
l’espressione di un gargoyle di pietra. Nemmeno riesco a ritrarmi, a farmi
indietro, a sottrarmi al suo viso stravolto e al suo sguardo feroce. Resto
saldamente incollata al suolo, come se improvvisamente fossi ansiosa che mi
uccida meritatamente lui, e non Adamar. La sua voce è ormai modulata su uno
sbigottimento incancrenito, su una disperazione malvagia che mi colpisce come
un’onda lunga, frantumandomi come se fossi di sabbia e sale. Azzarda persino
una risata amara, mentre sputa fuori cercando risposte nei miei occhi: “E poi
Tatia mi lascia e scrive una lettera a te… muore, e scrive una lettera a te. A te che non eri nessuno per me. Come io che
adesso non sono nessuno per te. E dice: “Ricordati
della cannella bruciata”. Ed allora… dimmelo… quale sei tu? Quale destino
sei tu?”.
Me lo chiede
sul serio ormai a pochi passi da me, sempre con i pugni serrati, l’espressione
stralunata. Noto ancora un rivolo di sangue ferirgli le labbra, e mi sembra
adesso inconcepibile che io quelle labbra so di che cosa sanno, ne so
perfettamente il sospiro e il sapore, so anche come sarebbe stato desiderarle,
so che non mi sono concessa davvero di volerle. Però, ora, quella dimensione
sembra una fantasia di purgatorio in questa parentesi di limbo infernale. La
sua rabbia, il suo livore, la sua determinazione a darmi colpe, dovrebbe solo
che rendermi felice e contenta.
Invece la
determinazione con cui mi sputa addosso questa domanda senza alcun retro
pensiero ironico, senza remore, senza coscienza del futuro o memoria del
passato, ma come se davvero mi chiedesse che cosa siamo l’uno per l’altra, mi
inchioda come un Cristo in croce.
Balbetto il
suo nome e basta, incapace anche solo di pensare ad una miserrima risposta che
possa farlo fluire lontano da me.
L’ho già legato a me. È già legato a doppio filo a me.
Morirò io… e morirà anche lui.
Indipendentemente se si salvi o meno, ammazzerò una parte
di lui.
Io… sarò per lui quello che è stato Draco per me.
E sarà una condanna. Per sempre.
Se non si può stare assieme, diventa una condanna.
Non c’è nessuno che lo possa sapere meglio di me.
E io non sono riuscita a salvare almeno lui.
Un vento
improvvisamente caldo mi soffia un riverbero di polvere sul viso, obbligandomi
a sfregare gli occhi, mentre mi chiedo dove sia finita l’alba e il tempo
stesso. Tutto resta congelato, niente si muove a strapparmi via da qui, così da
impedirmi di versare queste lacrime confuse nella polvere del vento, mentre
ancora fingo pateticamente che io non abbia nulla di cui dolermi adesso.
Ilai abbassa
la voce, mi guarda di lato come se non sopportasse la vista dei miei occhi
lucidi e sospira come ispirato: “O meglio… non sei un destino. Sei una maledizione. Una disgrazia.
Questo sei. La colpa di aver fatto uccidere la donna che amavo che torna
indietro a punirmi…”, sobbalzo e chiudo gli occhi, come se mi avesse pugnalata. Diventa sempre meno lucido mentre
parla, cammina avanti ed indietro come un prigioniero prima della pena
capitale. Ha la voce distratta di chi parla con i morti, di chi bestemmia i
vivi, di chi è vittima di rimorsi perversi e crudeli: “…ma a quanto pare non
era abbastanza, non era abbastanza perdere la donna che amavo per colpa di
Karkaroff. No, non era abbastanza… magari semplicemente sono io che non sono
mai abbastanza…”. Mi guarda d’improvviso con irrazionale chiarezza, un sorriso
bieco sul viso: “Questo allora sei tu.
Un maledetto incidente sulla strada della mia vita. Mi danno sempre qualcosa e
me la tolgono…”. Non riesco più neanche a fingere di non stare piangendo, mi
appoggio all’albero alle mie spalle, soffoco i singhiozzi nel palmo aperto
della mano, mentre lui bestemmia il cielo, Tatia, me. Tutte e due assieme, nello
stesso maledetto calderone di odio e dolore.
“Questo
volevi dire, Tatia? Questo volevi dire? Che ho il destino di masticare cose mai
mie?” urla con il fiato che si spezza, gli alberi testimoni silenti e il cielo
una cappa argentata “Perché sei venuta da me in Finlandia, eh, Hermione? Perché
non te ne sei stata a casa tua, nella tua bella vita, eh, a sognare quell’uomo
che ti ammazza anche solo guardandoti, respirandoti vicino, eh? Perché non mi
hai lasciato in pace? Perché non mi lasci in pace? Io sono quello che guarisce
le ferite, che si accontenta delle briciole, che va anche bene così…”, la sua
voce si abbassa di nuovo, diventa solo un rantolo scomposto ed incomprensibile:
“Va anche bene morire domani, basta che torni viva e salva e sua… questo sono io… e tu sceglierai sempre
lui, sempre lui, che ti spezza il cuore che io ti rimetto assieme. Questo è il
destino, Tatia? Questo era il destino?”.
“Smettila!
Sei ingiusto!” mi ritrovo a gridare senza averlo premeditato, senza che io mi
sia resa conto di essermi staccata dall’albero e di essermi fermata davanti a
lui.
Solo con
l’anelito spavaldo della sopravvivenza, prima che finisca di farmi a pezzi.
“Nessuno ti
ha mai trattenuto! Potevi… potevi andartene quando volevi!” farfuglio ancora,
spiando i suoi occhi alla ricerca di un minuscolo segno di cedimento che mi
farebbe affondare ancora di più con le mie parole nel suo fianco scoperto “Puoi
andartene anche adesso! Fallo! Vattene! Ti prego, vai via!”.
Lui mi
guarda con una nuova crudeltà che gli distorce il viso in tratti persino
sadicamente divertiti. Rabbrividisco, percependolo più vicino di quanto mi
aspettassi: persino quel metro che mi separa da lui mi sembra d’improvviso
troppo poco, come per paura che davvero mi faccia del male.
“Avrei
davvero avuto quest’alternativa?” sussurra con voce salda, una replica deforme
di quello che mi disse settimane fa, quando volevo andare con lui in Finlandia.
L’ho davvero pensato? Ho davvero pensato di andare via
con quest’uomo che non conosco affatto?
Questa nuova
paura prosciuga tutta la fiducia incomparabilmente immediata che avevo per lui.
Ma, poi,
all’improvviso, come il sole che torna dopo un’eclisse, come l’aria che d’un
tratto si fa più tiepida e leggera, il suo viso dismette rabbia e disperazione
e torna calmo, impassibile, freddo. Più simile a quello a cui sono abituata. Abbandona
le braccia lungo i fianchi, mi guarda con il dolore dell’incomprensione che ha
velato la sua espressione mentre mi sentiva chiedergli di andare via.
Non può farlo. Non può andare via. È condannato. Come…
me.
Torna sé
stesso, come se il livore fosse fluito fuori dal suo corpo al pari del veleno
succhiato via di una vipera. Si bagnano di una patina di lacrime i suoi occhi
scuri, ringiovanendolo e rendendolo più simile ad un bambino.
Si arrende,
si lascia andare… e mi fa più paura adesso di quanto non mi abbia fatto mentre
urlava.
“Credi che
ce l’abbia un’alternativa?” mormora al vento, sollevando un braccio come ad
accarezzarmi il viso, ma fermandosi subito dopo scuotendo il capo.
Guardo la
sua mano, e poi il suo viso, il cuore che mi soffoca in gola.
“Sei una
stupida…” aggiunge lieve, ed è tenero, dolce, bellissimo. No, non esserlo, odiami, torna ad odiarmi, ti prego. “Sei tanto
intelligente e bellissima, e tutto… ma sei una stupida…”, non guardarmi così, “Credi davvero che me ne sarei mai potuto
andare via? In qualunque momento? Adesso? Domani? Mai?”.
“Perché,
maledizione, perché?” chiedo ed urlo, grido, stringo i pugni, come a voler
recuperare quel soffio nefasto di odio che lo animava fino a poco fa. E che era
la miglior cosa possibile.
Lo era… perché io che fingo una debolezza che non ho e
lui che finge di odiarmi, erano le sole bugie pietose che potevamo concederci,
come carinerie dell’addio.
La verità farà molto più male delle bugie.
Perché è a
quel punto che lui urla molto più forte di me, molto più forte di quanto abbia
fatto prima, senza che i suoi occhi cambino, senza che si nasconda più, senza
che metta ancora bugie a guardia armata del suo cuore.
“Perché ti
amo!”.
Non mi potrà mai odiare. Non se ne potrà mai andare.
Mi sembra
che il mondo stesso abbia preso a tremare dal contraccolpo del suono delle sue
parole, ed io, sciocca, piccola, inconsistente, posso solo tremare a mia volta,
come una foglia nella tempesta, attaccata all’albero padre solo per un
peduncolo fatuo di puntiglio. Respira a fatica come se fosse in apnea, come se
quelle due parole fossero una corda attorno al collo che impicca e toglie vita.
Il mondo, alla fine, è bianco e nero:
non c’è più alcun confortante grigio, dietro al quale nascondersi.
Non c’è più niente.
Dischiudo le
labbra mentre lui mi guarda spaventato, atterrito, implorandomi con lo sguardo.
E vorrei davvero sapere che cosa dire, vorrei davvero che tutte le parole non
si fossero prosciugate come un rigagnolo sporco, inaridendomi dentro,
lasciandomi riarsa e secca come steppa. E poi, in una fulminea consapevolezza
malata, comprendo che non mi sta
implorando di dire qualcosa.
No. Mi sta
implorando esattamente del contrario. Di non dire nulla. Di restare in
silenzio. Di scappare lontana, fingendo che le sue parole non esistano. Fingi ancora. Fingi. Salvati.
È quello che
mi fa in mille pezzi, come se davvero fossi in trappola e non ci fosse mai
stata data né scelta, né possibilità. Qualsiasi cosa io faccia, qualsiasi cosa
io dica o non dica… io lo dilanierò, ugualmente. Nello stesso identico modo. Ed
allora scoppio in lacrime, singhiozzo e trovo contro la mia schiena l’albero
familiare di poco fa, quello sotto il quale lo stavo curando e sotto il quale
ero virtualmente al sicuro: potevo ancora andare via, prima che tutto mi
esplodesse in faccia. Nascondo il viso nelle palme aperte e poi sento i suoi
passi avvicinarsi, fermarsi di fronte a me, chiudermi stretta tra la corteccia
e il suo corpo, come se solo così, solo stringendomi, possa far fermare il
tempo e non farmi piombare la condanna di Adamar sulla testa.
Come se,
come sempre da quando mi conosce, mi facesse scudo con tutto sé stesso a tutto
quello che minaccia di farmi del male. Persino sé stesso.
Piango,
singhiozzo, e non mi azzardo a muovermi, non voglio neanche respirare. Le mani
mi chiudono il viso, lo nascondono pietose, mi impediscono di vedere il suo
viso scolpito da quelle parole.
Ti amo. Lui mi ama.
Le sue
braccia mi cingono alla vita, sprofondo con il viso nel suo petto ferito, ferita la pelle, ferito il sangue, ferito il
cuore, e resto con le mani sul viso, pur di impedirmi di sentire il suo
odore, pur di confonderlo nelle lacrime, pur di non smettere di respirarlo come
la cosa sola esistente. Si piega su di me, il viso nell’incavo della mia
spalla, e le sue lacrime scivolano lungo la pelle del mio collo, facendomi
rabbrividire, costringendomi a non impormi minimamente di smettere di piangere,
pur di non lasciarlo solo in tutto questo. Il suo peso su di me è così forte,
come se d’un tratto non avesse più forza e si abbandonasse del tutto, che, non
riuscendo più a reggerlo in piedi, scivolo con la schiena contro l’albero e
ricado seduta sulle foglie secche.
Ilai mi tiene
ancora stretta al suo petto, mi respira nei capelli, mi implora con voce
spezzata: “E non ti azzardare a rispondere, a parlare, a dirmi niente, mi hai
capito?”, nego con il capo, singhiozzo, mi sforzo di dirgli qualcosa ed ancora
le lacrime confondono le parole, e lo squarcio dentro fa rovinare fuori quelle
poche preimpostate ed asettiche che mi sono trovata per caso, tra quelle di
convenzione e quelle di abitudine.
Ilai mi
stacca il viso da sé, mi guarda piangendo a sua volta, tenta goffamente di
asciugarmi le lacrime con i pollici, con il dorso delle mani, con le labbra:
“Mi hai capito, Hermione? Non ti azzardare a dirmi niente, non te lo permetto.
Vattene con lui, amalo, mi hai capito, amalo… perché devi tornare, domani devi
tornare. Ed allora dimentica, non ti ho mai detto niente, non ci pensare… devi
tornare. Devi tornare. Dimentica, non è vero… non ti amo, mi hai capito? Io non
ti amo… era una bugia…”.
Nega con il
capo come un bambino piccolo, come se quelle parole se le potesse rimangiare
sul serio, come se potessero sparire così come sono nate. È febbrile,
disperato. Lascia la presa sul mio viso, e si stringe violentemente le mani nei
capelli, strappandoseli dal capo. L’unica cosa che non riesce a smettere di
fare, è muovere la testa a destra e a sinistra, negando, spergiurando,
implorando che mi dimentichi che cosa ha detto e finga che non esista.
Mi spezza il
cuore ancora più di quanto abbia già fatto, e lo immobilizzo, prendendogli il
viso tra le mani, cancellando le sue lacrime con le dita come ha fatto con me.
Lui si aggrappa ai miei polsi, mentre sussurro protettiva: “Ilai, smettila, per
favore. Calmati, guardami…”.
Torna a
guardarmi, mi accarezza gli zigomi, sfiora con le dita la pelle della nuca e i
capelli, e tinge gli occhi di fallace decisione mentre mi fissa negli occhi,
come a trapassarmi da parte a parte, come a cercare di convincermi sul serio:
“Io non ti amo”. Gli sfioro il viso, piangendo, annuisco come se effettivamente
fossi davvero certa di quello che sta dicendo, come se mi avesse
definitivamente persuasa.
Gli bacio la
fronte, gli accarezzo i capelli, non lascio che sfugga i miei occhi: “Shhh,
tranquillo. Calmati”.
“Non ti amo”
ripete ancora, la fronte contro la mia, gli occhi però disperatamente aperti,
fissi nei miei come frecce alla ricerca di un bersaglio.
“Lo so.
Neanche io” glielo garantisco, veloce, rapida, con decisione, con ferocia, con
coraggio.
“Io non ti
amo” sussurra di nuovo, stanco, sfibrato, gli occhi che non riescono a stare
aperti sotto il peso delle lacrime, le dita sul mio viso che sussultano e
tremano.
“Neanche io”
bisbiglio gentile, gli occhi chiusi, le mani bagnate che lo accarezzano
rassicurante, calma e paziente, mentre il mio respiro si confonde caldo con il
suo.
Lo bacio
prima ancora di capire che cosa sto facendo, lo bacio prima ancora che la voce
della ragione mi ingiunga che è sbagliato, lo bacio prima ancora di capire che
così farà ancora più male dopo.
Lo bacio con
la stolta consapevolezza che sto morendo, e che tutto mi è concesso. Lo bacio
con tutto l’amore che gli ho negato, e che non potrò mai dargli.
Lo bacio,
come non ho potuto baciare Draco ore fa. Lo bacio, come non ho potuto salutare
mio figlio prima di morire. Lo bacio, come tutti quei baci mai dati a Ron, a
Dean, ad Hayden.
Sento che
trasale sgomento nel sentire le mie labbra premere contro le sue. Sento persino
che cerca di allontanarmi. Sento, poi, la quieta stasi eccezionalmente dolce di
sentirsi baciato da me per la prima volta in assoluto, senza che sia stato lui
a cominciare, dandomi alibi e scuse.
Sento che
capisce che non mi posso fermare o allontanare, neanche con il pensiero,
neanche per un momento.
E poi sento
che si arrende, sento che non ce la fa, sento che dischiude le labbra e sento
che finalmente lo assaporo intimamente, completamente, follemente. Sono rapida,
folle, disperata, e lui mi risponde nello stesso identico modo in un bacio che
non ha nulla di gentile, quieto o dolce, diversamente da come è stato fino ad
ora tra me e lui.
Sempre soffi di amore gentile per paura che ci
capitassimo nel cuore.
Ora invece è
mangiarsi l’anima a vicenda, strapparsela di dosso prima che ce la strappi
qualcun altro. Stringo le mie braccia attorno alle sue spalle, gli rovino
addosso, accolgo le sue mani sulla mia schiena, mentre giocano con la pelle
riarsa. E piango, e non smetto, e non mi faccio domande, e lo bacio e basta, e
gli gravo con il mio peso addosso, prima che con bramosia, con desiderio, con
foga, lui inverta le posizioni e mi rovesci sulle foglie secche che si
frantumano al mio tocco. Lo sento con una parte remota della mia testa scendere
sul mio collo, baciarmi la linea delle clavicole e poi, con decisione violenta
e febbrile, strapparmi di dosso la camicia, mentre scende sul mio seno, respira
sul mio petto, bacia la mia pelle.
E mi chiedo,
spogliandolo a mia volta, perché me ne sia privata fino ad ora, perché non
l’abbia preso prima di adesso… e non ricordo il motivo, faccio forza sulla mia
memoria ma non ricordo il perché. Esco e rientro dentro a me stessa, come se
perdessi coscienza a tratti, come se fossi nel buio di un mare lontano dove la
luce di un faro fiorisce a fiotti fulminei nella tempesta. Mi sento nuda ed
infreddolita tra le sue braccia, lo sento nudo ed infreddolito tra le mie,
eppure è come se fosse tutto troppo luminoso per tenere gli occhi aperti, ed
allora li chiudo, e lo sento entrare in me, e so che è lui, e so che lo sento,
e so che è dentro di me fino ad un punto nascosto e celato della mia anima, ma
nello stesso tempo è come se non ci fosse, è come se mi cingesse il mare, o la
terra, o la sabbia, o l’Universo tutto, e io non esistessi più. Sotto le
palpebre chiuse, nella trama di luce accecante, si intrecciano immagini e
suoni. E mentre lo sento spingersi più a fondo dentro di me, quelle immagini assumono
chiarezza, consistenza, lapidarietà di dogmi di fede. Si accompagnano alle sue
parole, alla sua voce sofferta, all’eco delle sue spinte in me che quasi non
percepisco più, quasi si spengono, quasi muoiono come ad assomigliare al
dondolio di un’altalena o al ritmo di un’onda spumosa di mare.
È così che doveva andare,
dice. E non capisco che sta dicendo, so solo che non riesco ad aprire gli
occhi, so solo che c’è troppa luce, e lui ripete ancora “E’ così che doveva andare”. Ondeggio come se fossi immersa in
oceano caldo, annegando in sprazzi di piacere e deserti di dolore. Ed
improvvisamente, nel mio sguardo umido e fosco, quelle immagini che tenevo
fuori mi filtrano nel cuore, tramortendomi, svegliandomi, facendomi annaspare.
Un paio di mani calde si poggiano sulle sue spalle,
facendola voltare su sé stessa, prima di stringerla forte per la vita. Come se
fosse un pezzo di vetro che continua ad andare in pezzi, cerca la
ricomposizione dei suoi frammenti ed abbraccia Ilai davanti a lei, chiudendo le
braccia attorno alle sue spalle. Singhiozza nella sua camicia, mentre lui le
accarezza piano i capelli.
“Ti avevo promesso che ti avrei portato via…” bisbiglia
delicatamente, non smettendo un secondo di abbracciarla “Ma sei tu che devi
chiedermelo adesso… puoi andare via, adesso?”.
Serro gli
occhi chiusi, lasciando sfuggire delle lacrime sospese, mentre rivivo quel
ricordo come se fosse accaduto ad un’altra persona: quello del giorno in cui
andai alla scuola elementare di Serenity per scoprire la verità su Draco e
Raissa. Quello in cui avevo detto di no ad Ilai, quello in cui avevo insistito
per sapere che cosa fosse successo. Stavolta, però, la voce di Ilai, dolce come
una ninna, mi culla altrove, mi porta in un posto ed in un tempo in cui non
sono mai stata.
Doveva andare in un altro modo.
Lo ripete
ancora e l’immagine cambia, diventa diversa da quello che ricordo essere
successo.
“Ma sei tu che devi chiedermelo adesso… puoi andare via,
adesso?”.
“Devo andare via, Ilai. Per favore, ti prego… portami
via… portami via da qui… ”.
La voce di
Ilai è dolce, malinconica. Dovevo
portarti via, quel giorno. Non dovevo chiedertelo e basta. Dovevo macchiarmi
del mancato rispetto di te e del tuo cuore. Dovevo strapparti via da qui, con
Alex, e portarti via. Tenerti con me. Restare con te, sempre. Non rispettarti
affatto, non rispettare quello che volevi. Sarebbe stato tutto diverso.
Succede
tutto così rapidamente, come se vedessi delle scene proiettate con il tasto
dell’avanzamento veloce, che non riesco più a capire dove sono o che cosa sta
accadendo. Non sento più Ilai dentro di me: lo sento ovunque, dappertutto
attorno a me. Afferro qualche immagine come se fossero pesci sguscianti,
baluginanti nel bianco.
Io a casa
sua in Finlandia. In quel letto bianco e rosso che aveva diviso con Tatia. Il
viso bianco di dolore, gli occhi rossi, come se mi acclimatassi perfettamente
ai colori della stanza. Lo sguardo ostinatamente fisso fuori dalla finestra, le
labbra dischiuse come se facessi fatica a respirare. La pelle trasparente di
chi è profondamente cagionevole, ma i tratti tutto sommati normali di chi ha la
malattia nel cuore, e non nel corpo. Vedo Alex, ed è a quel punto che davvero
singhiozzo e gemo come una bestia ferita, aggrappandomi alla sua immagine con
tutta la forza possibile: lo vedo ciondolare attorno al mio letto, cercare di
attirare la mia attenzione, ottenere in risposta solo sorrisi spenti. Vedo poi
Ilai prenderlo per mano, portarlo in giardino a giocare con Anya, sua sorella. Sarebbe stata dura all’inizio, continua
la voce di Ilai nella mia testa, e lo sento spingersi di tristezza ancora più a
fondo dentro di me, e non so davvero più che cosa sia, se carne, spirito, fiato
o sogno, sarebbe stato impossibile
all’inizio, perché il cuore non lo curi facilmente, non lo curi velocemente,
forse non lo curi mai davvero. Specie se uno hai il cuore che hai tu, che ami
una volta ed è per sempre. E nelle notti, dormendo su un divano, sentendo il
tuo respiro nella stanza accanto, mi sarei pentito di averti portato con me perché
mi sarei reso conto che non potevo strapparti amore dal cuore, non più, non per
me. Sarebbe stato uno stillicidio, una spina dentro. Eppure, non avrei potuto
fare a meno di te. Neanche se tu ormai eri solo quel respiro sottile da
uccellino nella stanza accanto. Ed un giorno avrei sognato Tatia, mi avrebbe
preso per mano. E mi avrebbe detto che facevo bene, che dovevo tenere duro, che
dovevo avere pazienza, che chi ama così ama sempre di nuovo. Non ci avrei
creduto. Ma non avrebbe fatto differenza o caso. Ti avrei amata lo stesso,
avrei amato un impercettibile movimento delle sopracciglia a sentirmi entrare,
avrei amato come non sobbalzassi a sentirmi entrare nella stanza, riconoscendomi.
Avrei amato il tuo passo leggero, come se temessi di disturbare. Avrei amato
persino le tue lacrime, se le potevo cancellare io. Ed avrei amato tuo figlio,
come se fosse il mio. Ci avrei visto solo te in lui e ci avrei inventato me in
lui, dimenticandone una paternità che non fosse quella che favoleggiavo per
lui.
Le immagini
riprendono, acquisiscono colore e velocità, e io rifiorisco come un bocciolo di
rosa. Più colore nelle guance, più rossore sulle labbra, più dolcezza nello
sguardo. Il letto finalmente lontano, abbandonato. Una stanza accanto a quella
di Ilai, qualche sorriso sparuto ma davvero sincero. Una corsa nell’erba, mentre
inseguo Alex che scappa da me ridendo. E lui, Ilai, lontano, la spalla poggiata
sul tronco di un albero, che mi guarda schermandosi gli occhi dal sole.
Un giorno avrei davvero pensato che ne eri uscita. Che ne
eri fuori. Che ce l’avevi fatta. Vi avrei portato vicino al fiume dove avevamo
davvero parlato la prima volta in cui eri venuta a Tampere. Avrei spiato
continuamente il tuo viso, come se temessi che fosse semplicemente troppo, che
magari non eri ancora pronta per uscire, che in realtà sarebbe stato meglio
aspettare ancora. E tu avresti avuto il volto bagnato del sole pallido del
maggio della Finlandia, ancora un po’ troppo freddo, ancora un po’ slavato, ma
almeno lievemente tiepido, almeno tenuamente mite. Saresti rimasta ad occhi
chiusi per un po’, come ad assaporare i profumi ed i rumori che non sentivi più.
Ed Alex ti avrebbe tirato una manica del vestito azzurro che portavi, perché avresti
sempre portato l’azzurro adesso, perché il rosso ti ricordava una vita che non
avevi più e io mi sarei rassegnato a non vedertelo addosso mai più. Avresti
aperto gli occhi, gli avresti sorriso, lui ti avrebbe detto una frase scherzosa
che ti avrebbe fatto reagire, vogliosa di vivere finalmente. L’avresti
inseguito, correndo nell’erba, sfilandoti le scarpe, calpestando rugiada e
facendo un salto per evitare dei fiori rossi. Lo avresti acciuffato dopo
qualche metro, facendogli il solletico per poi abbracciarlo, e vi avrei visti
lontani da me ma finalmente vicini. E mi sarei detto che potevi anche andartene
domani, tornare alla tua vita… ma ne valeva la pena. Ne era valsa la pena. Ti
avrei guardato, schermandomi gli occhi dalla luce del sole. Saresti tornata
indietro, dopo aver preso Alex in braccio. E il cuore mi avrebbe fatto un salto
in petto a vedere quel sorriso rivolto a me. L’avrei nascosto in un colpo di
tosse studiato, prima dell’effetto che aveva su di me quel sorriso. Il fiatone,
le guance rosse, con tuo figlio in braccio, mi avresti detto solo: “Andiamo a
casa, adesso…”.
Una casa
dalla porta azzurra, con una sola stanza da letto. Un letto dalla testata
bianca, con una foto di me con Seth, Pansy e Dean. Un’altra accanto di Ilai con
Alex. Due sole tazze sul tavolo, una blu chiaro ed un’altra più scura. Io con i
capelli più chiari e più lunghi, una cartellina di documenti in mano, un paio
di occhiali dalla montatura d’osso sul naso. Alex più alto, più robusto, con un
broncio spavaldo, mentre mi guarda con le braccia incrociate. “Mamma, io non ho
più bisogno della babysitter! Ho otto anni! ”. “Effettivamente tra poco dovrò
farti la barba…”. Risata di gola. Risata profonda. Risata vera. “Ed allora
portami con te! Perché non posso venire con te ed Ilai?”. Rossore, morso sul
labbro inferiore, sorriso timido. “Ti prometto che tornerò presto a casa…”.
Mi avresti detto che prendevi una casa da sola con Alex.
Mi avresti spezzato il cuore. Ma ti avrei lasciato fare. Te l’avrei lasciato
fare, e quel silenzio per casa sarebbe stato insopportabile, tremendo, fastidioso,
odioso. Avrebbe avuto eco e rimbombo nella notte, e vuoto e risucchio di anima
nel giorno. Però sarei stato felice, davvero. Ti avrei aiutato ad appendere le
foto alle pareti, ed avrei sbuffato di nascosto quando avresti scelto il letto
più ingombrante del mobilificio. Ci avremmo perso un pomeriggio a montarlo,
prima di mangiare un panino seduti per terra perché dovevano ancora consegnarti
le sedie. E, finita, la tua casa avrebbe profumato di mele e cannella, perché
Alex aveva rovesciato una boccetta di profumo nell’ingresso e, da allora, avrei
associato sempre quell’odore a te. Avresti ricominciato a lavorare, saresti
corsa da me a raccontarmi che lo adoravi, che non lavoravi da troppo tempo, che
di fronte al tuo ufficio facevano il cappuccino aromatizzato al caramello
migliore del mondo. Me ne avresti portato uno ogni tua pausa pranzo. Saremmo
usciti spesso con Alex. Cinema, luna park, museo della scienza. Ed una sera
qualunque, con tuo figlio addormentato sulla schiena, mi avresti detto senza
guardarmi: “Sono esausta di programmi da bambini! Ogni tanto avrei bisogno di
fare l’adulta… magari con te… ”. Avrei spalancato gli occhi, mi sarebbe andato
di traverso il respiro e tu saresti arrossita, avresti mugugnato qualcosa e poi
ti saresti ritratta imbarazzata, dicendo che c’era un doppio senso grosso come
una casa nella tua frase, ma volevi solo dire che avevi voglia di uscire con
me, da sola. Ti avrei chiesto se ne eri sicura, non ci avrei creduto davvero. E
mi avresti risposto dolce: “Non credi che sia arrivato il momento? Per me e per
te?”.
Un bacio al
sapore di caramello. Il buio di una casa dalla porta azzurra. Una risata
soffocata. Una porta chiusa su un bambino addormentato profondamente accanto ad
una ragazzina con l’apparecchio ai denti. Un divano che cigola terribilmente,
ed allora fare piano, in silenzio. Il suo corpo contro il mio, il mio viso tra
le sue palme. Sentirlo dentro, sentirlo davvero, come non sono sicura davvero
di sentirlo adesso, come sono certa di non sentirlo più adesso. La sua voce
spezzata da un gemito più forte di un altro. “Dimmelo solo una volta che mi ami
quanto hai amato lui”. “Non amerò nessuno come ho amato lui”. Un sobbalzo, lui
che tenta di alzarsi. Un bacio più profondo. Un sussurro sulla spalla di lui.
“Non voglio più amare nessuno come ho amato lui. Voglio amare tutto come amo
te”.
Forse la prima volta in cui saremmo usciti, ti avrei
portata a vedere un film in bianco e nero di quelli che ti piacciono tanto.
Però il terrore che fosse qualcosa che avessi già visto con lui o con un altro,
mi avrebbe fatto scegliere alla fine una commedia sciocca e stupida, tutto pur
di non vederti adombrare come tutte le volte che ripensavi a lui. Sarebbe stato
un film che ti avrebbe fatto irritare enormemente, perché sei femminista,
ambientalista o chissà che altro, e quel film sarebbe stato un’apoteosi di
luoghi comuni che detesti. E quindi niente ristorante di lusso prenotato in
anticipo. Avrei saputo che la cosa migliore era farti mangiare un hamburger in
una tavola calda, almeno potevi fare una conferenza su “come i film demoliscono
l’immagine della donna, figuriamoci se sono tutte così idiote come quella, io
per esempio al suo posto…”. Ti avrei ascoltato, perché se mi distraevo sarebbe
stato peggio, te ne saresti accorta, avresti messo su il tuo broncio da pesce
palla. Ma forse mi sarei distratto lo stesso ed allora te la saresti presa.
Però, ad un certo punto, dopo un continuo tentativo di farti parlare di quello
che non avevo ascoltato, mi avresti stretto la mano, così, dal niente, dicendo
che per farmi perdonare dovevo offrirti una cioccolata al caramello. Sarebbe
stato il sapore del primo vero bacio che ci saremmo dati senza provare dolore.
Mi sarebbe scivolato in gola, riempiendomi come un affamato. Ed allora avrei
dimenticato decenza, pudore, decoro, onore. E non avrei rifiutato quando mi
avresti invitato in casa tua, implorandomi di fare silenzio perché Alex dormiva
con la babysitter. Piccoli rumori soffocati, come due adolescenti impauriti dal
genitore… e ti avrei avuto su quel divano che ti avevo aiutato a scegliere e
che ora avrei voluto grande, comodo, silenzioso. Ma ti avrei baciato lo stesso
le dita ad una ad una. Avrei fatto lo stesso di tutto per non farti male, per
non schiacciarti, per spiare ogni ombra del tuo viso affinché sparisse,
morisse. “Dimmelo solo una volta che mi ami quanto hai amato lui”. Mi sarebbe
venuto fuori così, di istinto, mentre venivo dentro di te. E tu mi avresti
spezzato il cuore, dicendo che nessuno sarebbe stato come lui. E me lo avresti
ricucito, dicendomi che non volevi amare mai più come avevi amato lui.
Colori,
tutto è pieno di colori: e la voce di Ilai si fa più tenue nella mia testa,
come se d’improvviso stesse sparendo, stesse scomparendo, stesse evaporando.
Cerco di afferrarla, cerco di stringerla a me, cerco di stringerlo a me, ma non
c’è niente da fare. Diventa sempre più flebile, tenue. E piango, ancora,
sempre, mentre ancora, sempre, ogni immagine mi si conficca in un punto morbido
del cuore che non sapevo di avere più. Due fedi uguali, una più piccola e
l’altra più grande, entrambe di oro rosa. Fiori azzurri e bianchi. Un abito
lungo di satin, Anya che mi sistema un velo sulla testa piangendo. Ed un parco
d’estate con pochi amici, lui che mi aspetta dopo un tappeto blu. Alex più grande
ancora, ormai quasi adolescente, che mi porta all’altare. E io che sorrido a mio
figlio e ad Ilai, e poi getto un’occhiata distratta alle sue spalle, come se
fossi preoccupata per qualcosa. E poi sorrido ancora, rassicurata. Una bimba di
poco più di tre anni, capelli biondi, occhi nocciola-verdi, un vestitino giallo
limone, un broncio dispettoso. “Tatia non mi perdonerà mai per non averle fatto
fare la damigella”. Un sorriso, la mano guantata che stringe quella di Ilai.
Lui che sorride ancora, come mai l’ho visto fare. “Sarà alta un metro scarso…
ma non esiste essere più vendicativo di nostra figlia. Non credo che arriverai
viva al buffet…”.
E a quel
punto, sento risate, lacrime, canzoni, pioggia, baci, sorrisi, grida, compleanni,
urla, temporali, risolini, fruscii, rimproveri, gorgheggi, musica … vita che
scorre e passa, vita che in realtà non viene, vita che finisce. Ed io finisco
con essa assieme a lui. Sparisce la luce, sparisce il sole, sparisce tutto. E
ricompare lui, di fronte a me, le lacrime negli occhi. E non capisco perché io
sia vestita, e non capisco perché tutto sia bianco attorno, e non capisco dove
sia tutto il resto, e non capisco perché non riusciamo a smettere di piangere
occhi negli occhi, lacrime nelle lacrime. E non capisco nemmeno perché lui non
parli, eppure lo senta distintamente nella testa, nel cuore, dappertutto, mentre se ne sta con la
fronte poggiata alla mia, gli occhi aperti, le labbra serrate.
Questo era quello che ci meritavamo. Questa era la scelta
che dovevamo concederci di vedere. Questo è quello che non avremmo mai. E mi
sarebbe anche andato bene darti a lui, consegnarti di nuovo a lui, ma non darti
alla morte, ad un demone che ti faccia a pezzi. Ed allora sai che c’è? Non mi
interessa morire, salvarmi, tornare, andare, venire, vivere ancora. Non mi
interessa. Sia come sia. La mia vita era quella con Tatia, e non l’avrò. La mia
vita era quella con te, e non l’avrò lo stesso. Ci può anche essere un altro
destino là fuori, piccola, ma non mi interessa. Ci possono essere mille vite,
ma non mi interessano. Vorrei averti strappata via al destino di martire che ti
hanno dipinto addosso. Vorrei averti strappato via da lui, fregandomene del
resto, persino di te, facendo l’egoista, lo stronzo, l’insensibile, il
bastardo. Ma io non sono questo, no? Non lo sarò mai, vero? Non c’è destino che
ti possa cambiare, in fondo, da quello che sei dentro. Un destino che da tondo
ti renda quadrato. Un destino che da Ilai Radcenko ti faccia rinascere Draco
Malfoy. Un destino che ti leghi alla sola donna che non avrai mai e che ti
faccia morire con lei. Sebbene lei non l’avrà nessun altro, mai. Solo la morte
l’avrà: e la morte, come una maledetta e dannata ladra, ha preso l’abitudine di
togliermi tutto di dosso. Compresa te, che eri vita, meraviglia, terra alla
fine del mare appena scoperta. Compresa te, che eri riscatto, redenzione,
liberazione, ricompensa, premio. Ma non c’è mai niente di giusto al mondo. E
dovremmo smettere davvero di vivere così, tu ed io, a cercare sempre quello che
è giusto. E dovrei smettere io di fantasticarti qui, adesso, mia in un solo
istante, prima della scure del boia sulle nostre teste.
Tu, tutto questo non lo saprai mai. Perché non sono
questo, io. Sono quello che ti lascia andare, quello che ti dice che devi fare
ciò che credi, quello che non ti dirà mai nulla più del necessario.
Non lo saprai mai. Non lo sai. E in fondo non serve che
tu lo sappia.
In fondo ti è sempre bastato uno nella tua vita in
assoluto.
“Ti basta uno nella tua vita… in assoluto…”.
Tutto si lacera
con la forza di un uragano che si infrange sulla costa. Un enorme frastuono
nelle orecchie, e poi mi ritrovo di nuovo nel giardino di Draco, con Ilai di
fronte. Il volto tumefatto, i lividi che gli mangiano il viso, le labbra riarse
dal sangue, il colorito grigiastro. E io sono di fronte a lui, di nuovo, la
garza che mi è scivolata dalle mani, atterrando sulle foglie secche, dopo
l’allusione non voluta che ho fatto a Draco. Mi guardo attorno sbigottita, la
luce dell’alba è ancora lontana, sono perfettamente vestita, ho i capelli in
ordine, nessun bacio ha sfiorato le mie labbra, nessun ti amo ha varcato quelle di Ilai.
Sono di
nuovo qui a medicargli le ferite come quando? Un’ora fa, un anno fa, una vita
fa? Lo guardo ad occhi spalancati, le lacrime affacciate alle ciglia, il labbro
inferiore che mi trema senza controllo, mentre non riesco a capire che cosa sia
successo, se io abbia sognato, se sia stata solo la mia immaginazione, se
semplicemente io non stia impazzendo. Mi sento venire meno come se stessi
perdendo i sensi, e mi aggrappo di nuovo alla camicia di Ilai, guardandolo
disperatamente, alla ricerca di aiuto, spiegazione, soccorso.
“Che c-cosa
è…?” balbetto, non potendomi impedire di piangere ancora, gli occhi fissi nei
suoi, mentre cerco ancora di capire che cosa sia successo.
Ma lui
fraintende la mia espressione, pensa che sia terrore per quello che ha detto o
la confusione volubile che lo tiene ancorato a me.
Sorride
tristemente, mi accarezza la fronte e sussurra con stanchezza: “Non ti preoccupare,
era solo un commento stupido. E non ti preoccupare anche per me. Me la caverò.
Pensa solo a tornare sana e salva, ok?”.
Non
aspettando la mia risposta, si alza e torna verso la casa.
Lasciandomi
lì con i frammenti di una vita mai vissuta tra le mani.
E senza
capire se quella vita l’ho vista davvero o è stato solo un sogno.
… ed è lì
che, non so nemmeno quanto tempo dopo, mi trova Helder. Ancora seduta sotto
quell’albero, una mano poggiata sulla corteccia del tronco, lo sguardo
incantato e perso sul muschio sotto le mie scarpe. Sebbene la senta arrivare,
sebbene con la coda dell’occhio la veda avvicinarsi, non riesco comunque a
muovermi, ad alzarmi da terra, a fare qualsiasi cosa.
Sono
prosciugata da tutte le mie forze.
Helder di
primo acchito non si accorge di niente, si avvicina cauta forse solo perché
teme che io sia spezzata dalla prova imminente, o preoccupata per Alex, o arrabbiata
per il coinvolgimento di Ilai.
Perciò non
si cura granché di trovarmi seduta per terra, apparentemente lontana mille
miglia con i pensieri.
È prudente
ed attenta anche quando mi rivolge la parola, sussurra come se avesse paura di
disturbare: “Herm, manca poco all’alba… mi serve il
ciondolo di Tatia per individuare dove si trova Alex… ora mi serve che…”. Poi d’improvviso
si interrompe, la vedo aggrottare la fronte in preda alla confusione e alla
preoccupazione, ed allora mi impongo di sollevare lo sguardo simulando un
sorriso statico e tirato, mentre faccio leva sul braccio per alzarmi in piedi.
Le ginocchia mi tremano ancora, ma riesco per fortuna a reggermi ancora
diritta, quindi annuisco senza convinzione e faccio per muovermi per tornare
verso la casa. Il mio passo è ancora malfermo, traballante, incerto, ma lei non
mi sente empaticamente. Può scambiarlo per qualsiasi altra cosa, non per la sua
vera ragione. La vera ragione. Sicuramente
non lo può collegare ad Ilai. È Draco che mi ha sempre reso così, mai il
ragazzo russo dallo sguardo gentile. E neanche sono del tutto convinta che sia
stato davvero lui e non io. Non sono neanche convinta che sia davvero successo qualcosa. Fermo il
flusso di immagini che di nuovo mi colpiscono nella memoria, ed accenno un
cenno del capo ad Helder adesso di fronte a me, fingendo che significhi che
sono pronta ad andare. Ma Helder, invece, resta con la fronte corrucciata, mi
studia senza ritegno e fa un gesto d’impazienza rabbiosa ed impotente,
probabilmente perché non riesce a sentire che cosa provo. I suoi occhi difatti
sono del suo solito colore, non del mio. La Titanca funziona ancora, sono cieca
all’Empatia. Per fortuna. Quando le
passo accanto, mi afferra per un polso costringendomi a fermarmi. Mi guarda
ancora, sospettosa, alla fine l’Empatia è solo un surplus per lei. Mi conosce,
sa chi sono e sa anche che non è normale che io sia così… apatica.
Deve essere
successo qualcosa. Qualcosa che lei non sa.
Qualcosa che nessuno sa. Qualcosa che nessuno può sapere.
Me lo chiede
senza peli sulla lingua, senza esitazione, non lasciandomi il polso, come se
temesse che le possa sfuggire: “Che cosa ti è successo, Herm?!”.
Scrollo le spalle cercando di rassicurarla, non
dirò mai a nessuno che cosa è successo. A nessuno. Non lo deve sapere nessuno.
Neanche io.
Me ne devo dimenticare.
Se me ne dimentico, non è mai esistito.
Per quanto
però mi sforzi di fare uscire la voce e di dire una cosa qualunque per
rafforzare la mia fallace indifferenza, le corde vocali non rispondono ai
comandi. Me ne sto bellamente in silenzio, con il labbro che trema irrefrenabile,
gli occhi lucidi e la testa che si limita a negare debolmente.
Helder
allora alza la voce, si preoccupa sul serio, stringe di più la presa sul mio
polso, scuotendomi appena: “Non farmi preoccupare per favore! Che cosa è
successo?!”.
“N-nulla…
n-niente, s-sto bene…” assicuro con improvvisa risoluzione, sebbene non possa
impedirmi di balbettare e di avere una voce pigolante e gracchiante. Serro le
spalle e decido perlomeno di sincerarmi che quello che ho supposto sia
corretto. Sospiro a fondo ed aggiungo con un tono di voce casuale, ma
fastidiosamente tremante alle mie orecchie: “Volevo solo chiederti una cosa
prima di andare…”.
“Tutto
quello che vuoi…” mi rassicura lei, pensando alla prova, pensando a mio figlio.
Mi lascia il polso e mi guarda in attesa, un filo di apprensione negli occhi
che non accenna a spegnersi.
“Quello che
state f-facendo ad…” inizio, ma la voce mi manca al momento di pronunciare il
suo nome. Respiro, cerco di darmi un contegno, cerco di nascondere il
singhiozzo che già mi sta raggiungendo la gola. Riprendo con voce più stabile:
“Quello che state facendo… ad…”, ancora mi fermo, ancora la voce si spezza,
Helder mi guarda ancora ed improvvisamente il volto le si tinge di una
consapevolezza diversa, marcata, scavata.
Non lo deve sapere nessuno. Se non lo sa nessuno, se me
ne dimentico, non è mai esistito.
Mi agito,
terrorizzata che capisca qualcosa. Ed allora finalmente la voce esce fuori
limpida: “Quello che state facendo ad I-Ilai… mi potrebbe permettere di sentire
i suoi pensieri? F-forse di vi-viverli addirittura?”. Riprendo fiato come se
fossi stata sott’acqua, il mio respiro decelera ed anche il mio viso riprende
colore.
Le spalle di
Helder si afflosciano come se avesse perso il sostegno del corpo. Eppure non
esita a rispondermi con finta nonchalance: “Probabilmente sì… qualche cosa di
confuso, fino a quando non siete vicini… qualche pensiero mozzicato. Stavamo
aprendo la connessione con la tua mente, ti ho già spiegato come dovrebbe
succedere, no? Deviamo la connessione che abbiamo con te su di lui. Probabilmente
qualcosa sarà fluito da lui a te… in modo totalmente inconsapevole. Radcenko
non può rendersene conto, sei cieca anche per lui. Ma dovrebbe essere finito
adesso… abbiamo finito, la connessione è stabilita. Siete Assonanti alchemici.
Un po’ di Telepatia empatica… ma niente di così forte se non siete stati
vicini. E tu… non gli sei stata vicina,
vero?”. Me lo chiede con un’ombra di panico, di terrore, di ansia.
Che significa essere vicini?
Che cosa significa in fondo?
Siamo stati solo vicini… e quindi… io…
No.
Non lo deve sapere nessuno. Se non lo sa nessuno, se me
ne dimentico, non è mai esistito.
Rispondo
velocemente, troppo velocemente,
quasi incespicando nelle parole: “No. Assolutamente no. Ho sentito solo alcuni
voci confuse nella testa. E ho pensato ai Karkaroff… o al Segno di Fuoco…
quindi era lui. L’avevo immaginato. Sentivo che parlava di sangue ed avevo
pensato che fossero Zabini e Nott, ed invece era lui, nella mia testa… bene,
almeno non sto impazzendo del tutto… meno male che è passato allora… non sta
bene spiare la privacy di una persona…”, mi esce fuori una risata spasmodica,
idiota, maledettamente somigliante ad un rantolo da moribonda, quindi cambio
subito discorso ed aggiungo: “Hai bisogno del mio sangue, hai detto? Draco te
l’ha già dato? Come credi che funzionerà il ciondolo? Farà luce oppure…”.
“Herm…”. La voce di Helder mi interrompe e suona come un
proiettile sparatomi al centro del torace.
Non lo deve sapere nessuno. Se non lo sa nessuno, se me
ne dimentico, non è mai esistito.
“No…”
rantolo con le lacrime agli occhi, sollevando il palmo furiosa verso di lei
“No, niente Herm. Niente Herm.
Niente di niente, Helder… basta…”.
Lei per
tutta risposta mi ignora e mi stringe di nuovo il polso con nuova decisione,
soffiandomi contro poche parole con voce tonante: “Gli sei stata vicina, vero?
Hai sentito i suoi pensieri?”.
Mi divincolo
velocemente dalla sua presa, mettendo qualche passo tra me e lei, come se non
ne sopportassi la vicinanza. Ed è così, assurdamente è così. Sono allo stremo,
ormai. Persino la morte, adesso, mi sembra riposante. La odio per non avermi
avvisato. La odio per avermi trascinato in tutto questo. La odio perché so che
potrebbe mentirmi, pur di preservarmi integra al massimo per affrontare Adamar.
“Non è mai
successo…” le dico, guardandola con livore negli occhi “Se non mi chiedi
niente, se non sono costretta a dirti bugie, non è mai successo… rispetta
almeno questo, per favore…”.
“Tu non
capisci, Herm!” inveisce lei guardandomi lacerata
“Era la sua mente! Non eri tu! Qualsiasi cosa sia successa, qualsiasi cosa tu
abbia visto… era la sua mente, non eri tu!”.
Rido senza
ritegno, amaramente, duramente, come se mi avesse raccontato una brutta storia
dell’orrore.
“Avanti,
allora…” aggiungo senza allegria, senza lacrime, senza emozione che non sia
rabbia ed odio “Avanti allora… dimmelo, adesso. Dimmi la verità. Dimmi che
quella che ho visto era solo la sua immagine di me, e non ero davvero io. Dimmi
adesso che io sicuramente non avrei fatto nulla di ciò che ho visto. Dimmi
adesso che è solo quello che lui voleva, e non quello che volevo io. Giurami
con tutta la lealtà di questo mondo che io non mi sarei mai comportata così e
che non avrei mai avuto un dubbio, un incertezza, un ripensamento. Dimmelo,
dai, giuramelo…io non posso dirlo a me stessa. Ma tu a quanto pare sì, vero?
Dimmelo allora… convincimi… ”, lei fa
per aprire le labbra per rispondermi una cosa qualunque che non voglio sentire,
che non mi interessa. Estraggo la bacchetta, gliela punto contro, la vedo
esitare spaventata come se non mi riconoscesse.
“Non mi
interessa che tu mi fabbrichi delle scuse idiote per assolvermi da quello che forse avrei potuto fare…” sibilo
minacciosa, la bacchetta puntata contro i suoi occhi “Non mi interessa che cosa
avrei fatto se davvero tutto quello che ho visto fosse successo. Non mi
interessa giustificarmi, o avere alibi, scuse. Non mi interessa… e neanche ne
ho bisogno…”, abbasso la voce, cerco di trattenerla ferma, ma comunque trema un
po’ mentre aggiungo: “Io non avrei dovuto sapere quello che provava. Quello che
sentiva. Aveva il diritto che fosse un segreto suo. E non lo potrò più guardare
come lo guardavo prima sapendo che cosa ha dentro… sapendo che cosa mi avrebbe
dato… sapendo che cosa avrebbe voluto dirmi davvero e che cosa non ha mai
permesso che io sapessi… sapendo che cosa sente, guardandomi… io… non dovevo
portarmi anche questa colpa, dentro. Io… non dovevo avere anche questo rimorso…”,
rido ancora come un’isterica, una spostata, una delirante pazza, la bacchetta
che quasi mi sfugge dalle mani. Ed alla fine mastico fuori una sola incerta
sillaba di quello che mi si sta accartocciando dentro: “Ma non è il rimorso la
parte peggiore. Non è il senso di colpa. È il rimpianto… ed il dubbio. Non dovevo avere anche questo dubbio…
che davvero avrei dovuto dare una possibilità a quello che prova per me…”.
Non lo deve sapere nessuno. Se non lo sa nessuno, se me
ne dimentico, non è mai esistito.
Abbasso la
bacchetta, la rimetto nella tasca dei pantaloni, mi volto per tornare dentro.
Dandole le
spalle, le dico davvero il mio ultimo desiderio. Il mio testamento.
“Io domani
non tornerò. Morirò con Draco, come doveva essere. Ma Ilai deve tornare
indietro. Se morirà con me, ti perseguiterò da qualsiasi inferno dovessi
capitare…”.
Quello che
succede dopo, nella mezz’ora che impieghiamo per localizzare Alex e per
organizzare gli ultimi dettagli, mi scorre indifferente davanti come se neanche
esistesse.
Tutti ormai
sono svegli, esagitati, affaccendati a svolgere i loro compiti.
Io al
contrario sono gelida come un pezzo di ghiaccio. Me ne sto seduta sul divano
del salotto a braccia incrociate, aspettando solo il momento in cui avrò il
segnale per poter andare.
Ignoro dove
sia finita Helder, rispondo a monosillabi alle domande di Seth e Dean.
Draco scende
dal piano di sopra, si siede accanto a me ed immediatamente si accorge che è
successo qualcosa. Mi guarda incerto stringendo gli occhi grigi.
“Che è
successo, Granger?” chiede senza preamboli, studiandomi con attenzione.
“Niente…” sorrido
mio malgrado, non è mai esistito “Voglio solo farla finita con questa storia…”.
“Non lo dire
a me…” borbotta lui chiudendo gli occhi ed appoggiando la schiena al divano
“Poi uno si chiede come mai Potter sia venuto fuori così disturbato… ti si squaglia il cervello a vivere con il complesso
del prescelto…”. Azzardo una risata
lievemente più sincera, scuotendo il capo incredula, sebbene speri solo che non
indaghi più di tanto. So che non si è bevuto quello che ho detto. Mi accorgo
subito che segue il mio sguardo sfuggente quando Ilai entra nella stanza.
Non è mai esistito.
La prova che
Draco abbia intuito qualcosa mi arriva quando, in un momento di stallo in cui
tutti sono altrove a pianificare dettagli della nostra missione suicida, mi
chiede innocente: “Allora hai salutato Radcenko?”. Sussulto, non lo deve sapere nessuno, non è mai
esistito.
Ha la voce
assolutamente banale del genitore che chiede al figlio se ha ringraziato dopo
un regalo. E lui dubito che sappia usare una voce impersonale del genere,
resettata sul cortese e sull’ educato, neanche per rimproverare
bonariamente sua figlia. Figuriamoci se possa usarla con me: ha capito che è
successo qualcosa e con Ilai.
Non è mai esistito. Mi dimenticherò che sia mai esistito.
Ma qualcosa è successo. Sì… qualcosa. Draco non mi
chiederebbe nulla altrimenti. Che cosa è successo, allora? Fantasie, ecco.
Sciocche fantasie. Una vita di fantasia.
Il resto… non è mai esistito.
Concentrandomi
quindi solo sui pensieri di Ilai e sul fatto che innocentemente voglio
nasconderli solo perché suoi privati, rispondo tranquillamente inarcando un
sopracciglio: “Mi stai davvero facendo la domanda che ho sentito?”.
“Certo, amore…” asserisce lui con strafottenza,
poggiando un braccio sullo schienale del divano con noncuranza, prima di
mormorare stoico: “Non siamo in una fase di riconciliazione
universale dove una qualsiasi mia domanda inopportuna può passare per
semplice tentativo di fare conversazione
ante mortem? E non invece per curiosità
morbosa, possessività paralizzante
e tendenze omicide irrisolte di
Mangiamorte riscoperto che sceglie le sue vittime tra i russi?”.
Mi massaggio
stancamente le tempie, rispondendo con voce fiacca: “Dovrei anche risponderti,
dopo che mi hai detto che ti piace
fantasticare sul suo cadavere?”.
“Ma io
parlavo dei Karkaroff, mica di Radcenko… quel gran bravo ragazzo…” blatera
scioccato, portandosi una mano al cuore come se lo avessi ferito profondamente,
prima di guardarmi come se fossi una specie di strega che pronuncia eresie su
eresie “Sei proprio malpensante, Granger…”.
Certo come no. Stava proprio pensando ai Karkaroff. Ha
appena guardato Ilai come se lo volesse impalare.
“Esiste una
risposta qualunque che tronchi questa conversazione prima che ti ammazzi io?”
chiedo con un sorriso falso, decisa a prendere questo discorso come l’ennesimo
tentativo di punzecchiarmi e non altro. Non posso pensare che davvero la voglia
una risposta. Draco, ovviamente, non ci sta ad assecondarmi neanche per una
volta, neanche ad un passo dalla morte, neanche se lo implorassi. Poggia la
nuca sullo schienale del divano, guarda il soffitto e biascica seriamente:
“Probabilmente non esistono risposte giuste
o sbagliate, Granger… ma esistono decine di risposte che vorrei davvero
sentire adesso… scegline una a caso ed andiamo serenamente incontro alla
morte…”, torna a guardarmi dall’alto verso il basso con un sorriso storto,
aggiungendo canzonatorio: “Guarda, giurin giurello che farò anche verosimilmente finta di crederti…”.
“Una
risposta a caso tra cosa, esattamente?”
chiedo con un filo di voce, il cuore che mi va su e giù in gola.
“Le bugie,
Granger…” mi risponde lui con ovvietà, schioccando la lingua e ritornando
seduto compostamente “Scegli una stronzata qualunque… e dimmela…”.
Mi stringo
nelle spalle distogliendo lo sguardo da lui, pensando persino per qualche
istante davvero ad una bugia da raccontargli.
Perché tanto sono diventata una Cantastorie, mi invento
qualsiasi cosa pur di non dire la verità.
Poi,
mordendomi il labbro inferiore, mi accorgo che non ho una scorta di nuove
menzogne a portata di mano. Ci vorrebbe troppa fantasia, troppo coraggio,
troppa faccia tosta. E del resto io a lui non posso mentire mai più.
Allargo le
spalle con leggerezza, dicendo cauta: “Non avevamo finito di raccontarci bugie?
Non era questa la fase della… come avevi detto… della riconciliazione universale?”.
“No. La
riconciliazione universale è eludere la
verità…” sussurra lui, di nuovo senza guardarmi, poi i suoi occhi tornano
per un po’ nei miei, grigi come il mare a dicembre “Non credo di averla mai
voluta da te la verità, figuriamoci adesso che sto per tirare le cuoia. Quindi
credo che le bugie caschino a fagiolo…”.
“Ci possiamo
limitare alle omissioni allora?”
bisbiglio con un filo di fiato, senza più forze e nemmeno coraggio, con un tono
di voce implorante, da preghiera, piegandomi come un giunco secco su di lui.
Appoggio la fronte sulla sua spalla ad occhi chiusi, come se davvero lo stessi
scongiurando di non farmi parlare, come non mi sono piegata davvero in tutta la
mia vita. A suo modo, come sempre, lo capisce. Lo sento sussultare, come se
fosse autenticamente sorpreso ed al contempo sconvolto. Poi, lenta, la sua mano
si arrampica sulla mia nuca, avvicinandomi a sé. Sorrido, mentre resta di nuovo
con le labbra solo poggiate sulla mia fronte, parlando con finta irritazione:
“Non è tanto onesto da parte tua… temo che mi scateni la curiosità morbosa e
tutto il resto… ma d’accordo… effettivamente l’omissione mi impedisce di fare la faccia di quello che ti crede
mentre biascichi scuse… meno sforzo e più energie per il demone. Sei una grande
stratega, Granger…”.
Sorrido
ancora dandogli un colpetto sul fianco, mormorando sarcasticamente: “Sei tu
quello che non mi ha mai dato credito come Capo degli Auror…”.
“Ti prometto
che ti darò tantissimo credito d’ora in
avanti…” ridacchia lui sempre con la bocca sulla mia fronte, facendomi
rabbrividire, per poi concludere ironico: “E’ davvero un’enorme sfortuna che il
mio d’ora in avanti sia di poche
ore…”. Sorrido ancora scuotendo il capo, poi, non appena sento dei passi nel
corridoio, mi tiro bruscamente a sedere ed anche Draco torna eretto, sebbene
con molta più lentezza di me.
Lo sento
ancora guardarmi di sottecchi, però resto dritta con lo sguardo limpido.
A rientrare,
però, è Helder, non Ilai. Resto immobile ed indifferente a guardarla, mentre a
disagio mi chiede di bagnare il ciondolo di Tatia con il sangue mio e di Draco.
Annuisco con il capo, senza aggiungere altro. Il ciondolo a contatto con il
sangue si illumina leggermente come se stesse effettivamente reagendo a
qualcosa. Quindi la tesi di Dean era giusta. Helder poi mi esorta ad esprimere
il desiderio con voce tonante e decisa. Voglio
trovare mio figlio.
La goccia di
sangue d’unicorno persa durante il parto che Tatia mi ha lasciato, non mi
delude. All’interno di essa compare una sorta di ago che somiglia a quello di
una bussola. Punta in una direzione ben precisa.
Verso Alex.
A quel punto
non ci resta che seguirla.
Ci muoveremo
tutti assieme, per poi dividerci progressivamente man mano che individuiamo il
luogo preciso dove si trovano i Karkaroff. Prima lasceremo Kevin che disporrà
il cordone di sicurezza per i babbani. A quel punto, dopo qualche chilometro,
sarà il turno dei maghi e delle streghe che devono lanciare i Patronus come
protezione, ed infine gli Empatici che devono comunicare con Ilai. Quando ci
muoviamo per lasciare la casa di Draco, intravedo fuori dal cancello un grande
serpentone di gente di cui solo alcuni sono miei conoscenti. Ovviamente ci sono
Harry, Ron, Ginny, Natalie, Dean e Kevin, nonché altre persone di cui intuivo
la presenza come Luna, Nott e Neville, ma comunque siamo almeno sul centinaio
di persone tra Empatici e maghi che hanno reclutato Daphne e Ginny.
Stranamente, all’ appello manca proprio Blaise Zabini che avevo visto in casa
qualche ora fa. Non me ne preoccupo onestamente, di fondo credo che non avesse
nessuna voglia di restare qui ed aiutarci.
Credo che
fosse venuto solo per vedere Pansy… e quello che deve aver visto, non deve
essergli piaciuto affatto.
Dopo che ho
raccolto i miei pochi bagagli, mentre Draco è andato a salutare per l’ultima
volta Serenity, resto ad osservare tutta la gente appostata fuori dalla
finestra, una mano sull’intelaiatura della tenda. Sento una sensazione familiare
di calore sulla nuca, come quella di una mano piccola e sottile.
So
esattamente che cosa significa, ormai è come se ci avessi fatto l’abitudine, mi
aiuta persino a sentirmi più tranquilla.
È Tatia, anche lei a suo modo mi vuole salutare.
Sorrido ad
occhi chiusi, come se solo così potessi vederla.
Mi ritrovo a
parlarle come se fosse davvero qui.
Sono
pensieri fugaci e confusi che non distinguo neanche io: assomigliano a
rassicurazioni, a richieste di perdono e a confessioni. Mi pizzicano gli occhi,
provando colpa, vergogna ed imbarazzo, ma la mano di Tatia sulla mia testa non
mi lascia mai, come se mi garantisse la remissione dei miei peccati, il
perdono, l’assoluzione.
Sebbene sia io che non posso perdonare me stessa.
Rassicurata
superficialmente, mi ritrovo di nuovo a pensare alla bambina che ho visto, alla
figlia mia e di Ilai che portava il suo nome. Stranamente mi ricorda quello che
aveva scritto lei nella sua lettera, sulla visione che aveva avuto, sulla
bambina di nome Charlotte che non aveva mai potuto avere da suo marito. Lo
considero quasi un segno strano che entrambe, prima di morire, abbiamo avuto
negli occhi e nel cuore il ricordo di una figlia di Ilai che non abbiamo mai
davvero avuto.
Questa cosa,
invece che agitarmi e farmi sentire ancora più condannata, mi rende più
tranquilla come se ancora mi sentissi meno sola, come se anche lei avesse
provato quello che provo io.
Ovvio che lo provava. Moriva anche lei uccisa, molto
prima di quando fosse il momento, lasciando una selva di cose in sospeso.
Rimpianti, rimorsi e ricordi.
Ed anche lei moriva, essendo…
Sobbalzo
ancora, riaprendo bruscamente gli occhi: la stretta tiepida non mi lascia,
quasi invogliandomi a terminare i miei pensieri, ma invece di nuovo li serro
forte dentro di me.
Non lo deve sapere nessuno. Se non lo sa nessuno, se me
ne dimentico, non è mai esistito.
Quasi a
preservare quel senso di pace che però Tatia mi ha indotto, incanto la sua collana
perché non mi si sfili dal collo. Voglio averla con me, fino all’ultimo.
È solo a
quel punto che la presa calda mi lascia. Grazie
Tatia.
Respiro
profondamente, scrollo il capo e mi allontano dalla finestra.
Naturalmente
adesso in continua successione come le tappe di una via crucis, so
perfettamente che cosa altro mi aspetta: i
saluti. È forse per quello che, inconsciamente, cerco Draco con lo sguardo
mentre sto uscendo dal salotto. Sarà duro non trasformare quelli che agli altri
dovranno sembrare degli arrivederci,
in addii. Ho bisogno che ci sia lui
con me, adesso. Finalmente lo intravedo mentre scende le scale, sfregandosi gli
occhi lucidi dopo il saluto a Serenity.
Quando mi
vede però in attesa sotto le scale, scuote velocemente il capo, assumendo
un’espressione neutra.
“Sei
pronta?” sussurra gentile, fermandosi di fronte a me. Annuisco con decisione,
sfiorandomi la collana con le dita. Senza aggiungere altro, con naturalezza, mi
prende la mano, intrecciando le dita con le sue. Abbasso lo sguardo guardando
le nostre mani legate assieme, tentando al contempo di nascondere il rossore
che mi ha già infiammato il viso.
“Insieme?”
sospira Draco, una mano sulla maniglia della porta d’ingresso e l’altra stretta
forte nella mia.
“Fino alla
fine del mondo…” sussurro, guardandolo negli occhi e ripetendo la frase che lui
ha detto a me prima di dormire “Anche se fosse stanotte”.
Usciti nella
luce del primo mattino, con il cielo ancora così grigiastro da dare l’illusione
di essere sospesi in un tempo eternamente fermo, la prima persona che ci
troviamo di fronte è quella che, molto probabilmente, ha sempre creduto in me e
Draco molto prima che lo facessimo noi.
Seth.
Ha gli occhi
verdi umidi, tira un po’ su con il naso, però non piange, si sforza con tutte
le sue forze di non farlo. Kevin ha una mano poggiata dolcemente sulla sua
spalla come a tenerlo calmo e tranquillo. In uno slancio d’affetto, che solo a
lui può venire così naturale e spontaneo, allunga le braccia per poi stringere
me e Draco tutti e due nello stesso momento. Draco, ovviamente, rimane rigido e
si limita a dargli fraternamente una pacca sulla spalla. Io, invece, lo stringo
forte a me, cercando di imprimermi come se fossi un pezzo di argilla il calore
del corpo del mio migliore amico.
“Cinque anni
fa…” bisbiglia con voce tremante nel mio orecchio, quando Draco alla fine si è
divincolato dal suo abbraccio “… quando te ne andasti dal Petite Peste…
ricordi?”.
Annuisco solo
con il capo per non affidarmi alla mia voce che non so come potrebbe suonare.
“Ero certo
che ti avrei rivisto dopo tantissimo tempo…” sussurra convincente, staccandosi
da me ed accarezzandomi il capo “… questa volta sono certo che tornerai presto.
Ci rivedremo presto. Ne sono sicuro…”.
Annuisco con un sorriso fingendo di essere convinta delle sue parole, e lo
ringrazio per tutto quello che ha fatto per me.
Lui si
scansa quasi con fastidio, dicendomi che non gli devo nulla.
Staccandomi
da Seth, è il turno di Pansy che, ovviamente, lasceremo qui a causa della sua
gravidanza, in modo da prendersi anche cura delle bambine. Ha gli occhi
vistosamente lucidi, sbatte le palpebre un paio di volte, ma non abbandona mai
il suo sarcastico sorriso. Nel fondo delle sue iridi castane, vedo un dolore
maggiore di quello di chiunque ci sta salutando… come se davvero, come sempre,
lei fosse la sola che comprende che cosa abbiamo dentro io e Draco. E quanto
questo non possa passare per il sentimento puro che serve per sconfiggere
Adamar.
Eppure è
come se ci reggesse il gioco, come farebbe… un’amica.
Sbuffa seccata
guardando me e Draco, prima di borbottare all’indirizzo di lui con uno schiocco
di lingua: “Non ti abbraccio neanche morta, Malfoy… puzzi ancora di carogna…”.
“E io potrei
abbracciarti solo se avessi gli avambracci lunghi un metro e quindici…”
commenta Draco con voce monocorde “Stai già lievitando pericolosamente,
Parkinson… sei stata fortunata una volta a non diventare una mongolfiera umana,
ma farti mettere di nuovo incinta da Thomas è davvero al limite del gioco d’azzardo…”.
Lei, come se
non l’avesse ascoltato, guarda tutti e due con espressione tra il serio ed il
canzonatorio, prima di ribadire stoica: “Sono incinta. Sono debole e
vulnerabile, nonché suscettibile sul mio aspetto. E vi preavverto che il nero… mi cade davvero malissimo sulla
pancia. Quindi vedete di tornare vivi… o firmatemi una dispensa per venire al
vostro funerale vestita di rosso fragola… quello sì che mi sta bene… meglio che ad una Grifondoro, direbbe
qualcuno…”.
Sorrido
nonostante tutto, guardando in tralice Dean che, sicuramente, è l’autore del
complimento. Quando, però, la supero con un cenno del capo che spero riassuma
tutto quello che voglio dire per ringraziarla del suo carattere ruvido e di
quanto mi abbia spronato spesso a reagire, vedo Draco porgersi su di lui ed
abbracciarla, nonostante tutto.
Distinguo
persino qualche parola sparsa, che fingo di non sentire mentre parlo con Dean.
Se la sola persona che può renderti felice così è lui…
non privartene mai.
Quando Draco
si allontana da Pansy dandole un buffetto sulla guancia, alla quale lei alla
fine scoppia a piangere rientrando in casa, lo riaccolgo con un sorriso
incolore, stringendogli la mano e non facendo commenti sulle sue parole di
commiato. Lui sorride in modo sbiadito, poi mi stringe la mano mentre
finalmente lasciamo la villa. Lo vedo soppesarla con tristezza qualche secondo,
lo sguardo grigio fisso su una finestra del primo piano, da cui proviene un
bagliore rosato.
La camera di Serenity.
Non saprei
che altro dire, le parole sono così bastarde che me le conto una per una. Mi
limito a stringergli più forte la mano, sperando che basti. Dopo essersi
lasciati alle spalle la sua casa, camminiamo in silenzio per una ventina di
minuti, guidati dalla luce del ciondolo che, come una bussola, ci indica una
direzione ben precisa. Gli altri, attorno a noi, sono anch’essi silenti anime in
pena e, sebbene siamo così tanti, sembriamo scivolare nella nebbia del primo
mattino come fantasmi in esilio.
Quando più o
meno comprendiamo in che direzione stiamo andando, riuscendo ad isolare
mentalmente le costruzioni che ci sono nei paraggi, comprendiamo che i
Karkaroff ed Alex potrebbero essere nascosti solo in una decina di esse, tutte
ammassate sulla scogliera a strapiombo del mare. Sono vecchie case di pescatori
ormai abbandonate ed in disuso. A torreggiare tra esse, un monastero lasciato
all’incuria da qualche decennio, fatiscente e pericolante. Descrivere a quel
punto un perimetro attorno all’area, diventa abbastanza semplice.
Arriva
quindi il momento di salutare Kevin che è il primo a fermarsi, giudicando
sufficientemente lontano il luogo dove sistemerà i poliziotti babbani per
impedire fughe di notizie, oltre che di imprevisti incidenti. Lo saluto
affettuosamente augurandogli buona fortuna per tutto, e gli chiedo con maggiore
sincerità di quella che avrei per Seth, di prendersi cura di lui qualora non
dovessi tornare. Mi restituisce uno sguardo torbido ma non sorpreso, a
dimostrazione che neanche lui in fondo è così convinto che torneremo. In un
modo strano è più facile salutare una persona che sembra più insicura del mio
ritorno.
Mi permette di
essere più me stessa e di smettere di fingere. È più…rassicurante, ecco.
Dopo aver
lasciato Kevin, ci addentriamo di più in una sterpaglia di vegetazione rada e
sferzata dal vento dove non c’è alcun segno di abitazione. Decisamente meglio
così, nessuno correrà inutili rischi tra la popolazione inerme. Fa freddo,
nuvole basse velano il sole all’orizzonte, mentre il mare geme grigio come un
lenzuolo vecchio. La luce calda del ciondolo, alla fine, individua nel
monastero abbandonato il luogo in cui si trova Alex. È una specie di roccaforte
sul mare, da cui si accede attraverso una minuscola lingua di terra erosa dalla
salsedine. Ovvio che abbiano scelto questo posto per nascondersi… ci vedranno
subito arrivare potendosi accedere solo da una direzione. Non possono temere
attacchi da altri lati, né tantomeno dal mare: non si può attraccare, le onde
sbatterebbero lo scafo contro gli scogli, ed anche riuscendoci, la parete di
roccia è alta una quarantina di metri. Impossibile arrampicarsi. L’accesso è
anche problematico dall’alto: troppo vento per scope, ippogrifi o altro. E
dubito che non abbiano ripetuto il trucco dell’impedimento alla
Smaterializzazione che usarono per rapire Alex.
L’unico
accesso è appunto la fascia di terra sparsa di cespugli brulli.
Basterebbe
vederci in compagnia o con qualcosa che non gradiscono per scappare o fare del
male a mio figlio.
Come ha
detto Helder ieri, effettivamente il nostro punto a favore è che non ci
aspettano così presto. Probabilmente ci pensano ancora a lambiccarci il
cervello su come liberare Alex. Certamente non pensano alla Solutio
Damnationis.
Nei
successivi quindici minuti ci limitiamo a studiare bene la situazione, cercando
di nasconderci quanto più possiamo negli anfratti rocciosi: la mancanza di
alberi rende problematico celarci alla vista dei Karkaroff. E siamo in numero
tale da metterli sicuramente in allarme. Quando più o meno abbiamo concordato
su come muoverci e su come sistemare i cordoni di sicurezza di maghi ed
empatici, comprendiamo che forse la cosa migliore è che loro si sistemino dopo
che noi siamo entrati e non prima. Dovranno essere veloci, rapidi e fulminei
nel prendere posizione, ma ci daranno il vantaggio di arrivare meno visibili.
E, avendone pochi di vantaggi, meglio sfruttare al massimo quelli che abbiamo.
Questo,
però, ovviamente significa che dobbiamo salutarli tutti adesso.
E significa
anche che gli Empatici dovranno abbassare i parametri vitali di Ilai ben prima
del previsto: se i Karkaroff guardassero fuori, devono vedere un corpo, non lui
vivo e vegeto che cammina al nostro fianco. Chiudo gli occhi annuendo,
cosciente che, dopo quello che ho vissuto stamattina a contatto con la sua
mente, nessun discorso potrebbe fargli cambiare idea.
Helder ha un
viso che simula un’accorata richiesta di perdono, ma non riesco a guardarla più
del necessario mentre spiega come dobbiamo muoverci. Non ci riesco proprio.
Non posso
neanche immaginare come potrò vederlo morire.
Con la certezza che non lo rivedrò mai più.
O muoio io, o muore lui, o moriamo entrambi: non si
scampa.
Dio… non lo rivedrò mai più.
Quella nuova
improvvisa rivelazione mi serra il respiro in gola, mentre Ilai chiude gli
occhi e trascorre il tempo successivo in uno stato catatonico di evidente
concentrazione. Ma la sola cosa che riesco a pensare, sono le ferite che ha sul
torace, le ecchimosi che ha sul volto, per non parlare di quella tosse
convulsa.
Lo spio,
mentre respira piano e tenta di meditare come gli hanno insegnato Helder e gli
altri.
Ho
l’illusione che, fino a quando sentirò il suo respiro, potrò respirare
tranquilla a mia volta.
Darei di tutto per restare sospesa in questo istante.
Il respiro di Ilai. Il respiro di Draco.
Tutti e due che respirano ancora.
Però i
secondi passano, si affannano l’uno sull’altro. E qualcuno già si allontana,
salutandoci e prendendo posizione. L’angoscia mi fa bagnare la nuca di sudore,
mentre non so più neanche dove guardare per non sentirmi in colpa. Ilai di fronte a me. Draco accanto a me.
Ed è alla
fine è Helder che guardo, ad occhi socchiusi, livorosi, rancorosi, sperando
quasi per un miracolo dell’Empatia che senta i miei sentimenti, e senta quanto
la detesto, e comprenda quanto non la perdonerò mai per avermi fatto conoscere
i pensieri di Ilai.
Non lo deve sapere nessuno. Se non lo sa nessuno, se me
ne dimentico, non è mai esistito.
Sentendomi
vicina all’implosione come se stessi andando in overdose, decido di
allontanarmi per un attimo con la scusa di volermi concentrare da sola per
qualche secondo. Fingo persino un calo di potere magico, non so nemmeno che
dico pur di essere lasciata in pace. E torno a respirare solo quando,
semi-nascosta da un cespuglio di menta, mi raccolgo le ginocchia al petto e
finalmente non ho più nessuno dei due davanti ai miei occhi.
Cerco di
calmarmi, cerco di respirare a fondo… ma ad ogni inspirazione, li sento entrare
sempre più dentro di me.
Non lo deve sapere nessuno. Se non lo sa nessuno, se me
ne dimentico, non è mai esistito.
Ma io lo so
ormai.
Non c’è più
niente da fare. Ogni paravento, ogni bugia, ogni scusa… è distrutta, lacerata,
fatta a pezzi. E persino la resa, sebbene amara, sebbene odiosa, sebbene
impossibile anche solo da pensare, ormai è quasi necessaria pur di non
scoppiare come un palloncino.
Un piccolo
sassolino su una montagna: una piccola ammissione. E tutto precipita come uno
smottamento, trascinandomi dietro.
.
.
Odio Helder
perché mi ha dimostrato che Raissa aveva ragione su di me.
E io non
l’avrei saputo se non avessi visto i pensieri di Ilai.
Se non fosse la puttana che è, se si fosse
accontentata solo di Ilai… tu almeno saresti stato salvo… ed invece vi vorrebbe
entrambi, quella cagna…
Ciò che mi rende
così furiosa è qualcosa di enormemente semplice, che Helder, neanche con
intenzione, mi ha sbattuto in faccia.
Ho sempre
saputo di amare Draco. Non c’è nulla che mi farà cambiare idea, mai, neanche la
morte. Però, potevo ignorare quello che provavo per Ilai e nascondermelo sotto
il naso pur di non vederlo. L’ho sempre trattato con una sorta di lasciva
indifferenza e di ben studiato fatalismo, affastellando parole nella testa come
definizioni che significassero tutto e niente, ma evitando quelle che
contassero davvero. Era sempre importante altro:
mio figlio, naturalmente.
E poi Draco,
ovviamente. A suo modo, Ron. E i miei amici.
Io ed Ilai,
in fondo, siamo solo come quei soldati che tornano dalla guerra e si legano ai
loro commilitoni. Due sopravvissuti. Bastava questo a farmi relegare quello che
sentivo per lui sotto mille “non so che
provo”, oppure “non ho tempo adesso”,
pensando solo che tutto fosse condizionato dalle circostanze e che, a non
poterle eliminare quelle circostanze, allora non si poteva neanche ragionare. Era come indagare la purezza
dell’acqua quando era mescolata con l’olio. Era un semplice e contorto ragionamento
astruso fatto per ipotesi.
E quindi, a
quel punto, potevo tranquillamente fingere con me stessa che fosse solo questo
pantano di dolore ad unirci, che fosse stato sempre solo questo tra me e lui,
che essere Assonanti alchemici ci facesse questi effetti strani, che Tatia a
suo modo ci manovrasse per tenerci uniti, che mi piacesse fisicamente e questo
complicasse le cose.
Mi andava
bene così, presa com’ero dall’assolutezza di quello che è sempre Draco per me.
Mi andava
anche bene riconoscere un bisogno di
lui, che mi condannava debole ed instabile, ma tutto sommato mi giustificasse:
ho perso mio figlio, ci manca che non mi aggrappi a chi si prende cura di me.
Avrei sempre
creduto questo, questo e basta, se
non fosse stato per stamattina. Ho continuato a pensare questo, mentre ero con
Draco, mentre ero con Ron.
… e ora,
invece, non lo posso neanche lontanamente pensare, o supporre, o inventarmelo
mentalmente così da crederci.
Da quando ho
conosciuto i pensieri di Ilai, non posso più farlo. Quell’istinto a volerlo
contraccambiare pur non potendo, pur sapendo che c’era Draco, pur essendo
vicina a morire, ha messo tutto in chiaro nella mia testa. Per poco, per il
battito di ciglia di quei pensieri nella mia testa, per la prima volta ho
desiderato davvero di vivere quella vita con lui. Ho sognato qualcosa di caldo,
confortante e semplice, non questo strazio continuo di dilaniarmi il cuore in
questo amore per Draco, che sembra così lontano dalle idee semplici di casa, famiglia, affetto, cura, tenerezza.
Con Draco è
sempre fuoco mescolato al veleno, passione mescolata all’odio, pace armata dove
hai anche paura di respirare, e poi ti scoppia il cuore, e poi ti si spezza.
Ed oggi per
la prima volta, davvero ho dubitato che potessi ancora sopportare che il mio
cuore si spezzasse ancora.
Ho visto la
vita assieme ad Ilai, quella che comunque non avrò mai… e mi sono chiesta
davvero perché non mi sono data modo di sceglierla, perché non l’avessi presa
in considerazione fino a quel momento. Non avevo risposte. Non le ho ancora.
Di fondo… è quello che ho sempre voluto.
Di fondo… è quello che non ho mai avuto.
Di fondo… so che quella vita, probabilmente, io con Draco
non la avrò mai.
Comunque vada. Comunque sia.
E lì, nel
tormento di scoprire che invece era solo fantasia e sogno, in quel maledetto
strappo che da allora avverto nel fondo di me stessa, ho capito che non era
solo la voglia di pace come sempre ho pensato. No. Non era stato solo lasciarsi
andare ad un sogno al sapore di caramello, perché magari si è molto stanchi e
provati. Non era stato farsi un viaggio mentale nella pelle di qualcun altro, e
vedere cosa succede e che si prova a nascere in un altro destino. Non era stato
un esperimento da custodire come qualcosa di cui ridere, o gioire, o rifuggire sconfitti.
Magari fosse
stato solo questo. E del resto, è intuibile che, se mi si è conficcato nella
testa e nel cuore, non poteva essere solo questo.
Non lo deve sapere nessuno. Se non lo sa nessuno, se me
ne dimentico, non è mai esistito.
Però ho cercato
ancora di non vedere. Ho cercato ancora di fare finta che tutto non stesse lì,
grande e terribile, a prendersi gioco di me.
Fino ad ora,
quando li ho visti assieme. Fino a quando ho capito che non potevo fingere più,
perché il pensiero di lasciare o uno o l’altro, mi straziava nello stesso modo.
Tutto è
diverso… tranne questo. Non ce la faccio
a lasciarli.
Ed allora la
verità mi si è avvicinata, coprendo l’ultimo passo che mi mancava.
La verità,
quella che se ne stava davanti ai miei occhi sin da quando avevo rischiato
l’ira di Draco pur di dirgli che avevo bisogno di Ilai, era terribilmente
semplice.
È
terribilmente semplice.
Io sono innamorata di Ilai.
Lo amo. E non ci posso fare niente.
In un modo
profondamente diverso da come amo Draco, ovvio, non amerò nessuno come amo
Draco. Però alla fine non cambia che sono innamorata anche di Ilai. È come
essere innamorate di due modi diversi d’amore: inconciliabili, incompatibili,
eppure tutte e due vitali. Non li avrai mai entrambi nella vita, è impossibile:
dovresti scegliere e sapere che cosa rischi, buttandoti in una cosa o
nell’altra.
Questo era ciò che dovevo davvero scegliere.
Questo è ciò che mi hanno tolto.
Questo è ciò che mi avrebbe reso diversa da Raissa.
Questa era la mia scelta.
Dare il mio
cuore ad una persona che, sono certa, non smetterà di spezzarlo… ma lo farà
battere più forte di quanto possa essere possibile per molti?
O invece
darlo a chi se ne prenderà cura, lo proteggerà e lo tratterà come la cosa più
preziosa al mondo… impedendoti però anche di sentirtelo scoppiare nel petto?
So cosa
volevo da ragazzina: l’amore senza aggettivi, illogico e tutto il resto. E so
anche che quest’amore mi ha fatto letteralmente a pezzi per cinque anni.
So che,
intimamente, dentro… lo desidererò per sempre. Ed intimamente, dentro,
desidererò sempre anche di essere serena ed in pace.
Ecco, cosa è
Draco, per me. Ecco, cosa è Ilai, per me.
Ad amare il
primo, sono abituata da anni. Ad amare il secondo, mi sono rassegnata adesso.
Per quello
odio Helder: me l’ha sputato in faccia. Come si possono amare due persone
assieme?
Le puttane,
le vanesie, le vanagloriose, le vanitose amano due persone, assieme.
Non io.
Io no.
Io no.
Ed invece
no: morirò da puttana e da spergiura, sebbene non ho fatto nulla che mi renda
colpevole, sebbene sia solo dentro che so tutto questo, sebbene solo il cuore
sia il mio assassino e il mio confessore, sebbene non ho fatto promesse o
giuramenti a nessuno dei due.
Però fa
comunque schifo. Moriranno entrambi immaginando che io ami esclusivamente
l’altro. Fa schifo perché non posso inventarmi alcun conforto né per uno, né
tantomeno per l’altro.
Ilai pensa
che sarà solo e per sempre Draco, e che io non lo ami affatto.
Draco pensa
che quello che provo per Ilai è più puro, e che io non lo ami affatto.
Ecco perché
fa schifo. Ecco perché questa è l’ultima volta che ci penso.
Non lo deve sapere nessuno. Se non lo sa nessuno, se me
ne dimentico, non è mai esistito.
Lo
seppellisco di nuovo, perché mi meritavo il tempo e il modo di fare una scelta.
E, se questa scelta mi è preclusa, questo sarà sempre e per sempre solo affare
mio: nessuno lo dovrà sapere, mai, anche se un giorno impossibile che non vedo
affatto, fossi viva e potessi davvero farla questa scelta. Se fosse Draco, non
saprebbe mai quanto inaspettatamente ero anche innamorata di Ilai. Se fosse
Ilai, non saprebbe mai quanto inevitabilmente avrei sempre Draco dentro.
Sono cose
queste a cui una donna si abitua presto, quando cresce.
È il
compromesso mozzicato con te stessa che ti fa andare avanti, nelle pause
doverose tra i momenti in cui menti pietosamente al tuo cuore e agli altri.
Io non potrei sopportare mai che qualcun altro mi veda
per come mi vedo io adesso.
Torno
indietro con uno sguardo pulito, innocente, limpido. Tutti i miei sentimenti
repressi e sepolti li metto piuttosto nel discorso che faccio a tutti prima di
andare. Ringrazio la gente che è accorsa qui per aiutare noi e nostro figlio,
anche se ci conosceva appena, mi faccio promettere che non correranno rischi
inutili contro i Karkaroff, e a tutti affido Alex affinché sia in salvo.
Alla fine,
mentre gli altri vanno a prendere posizione, restano solo Harry, Ron, Natalie,
Ginny e Dean.
Dean è il
primo che mi si avvicina, ha lo sguardo terso e lucido, eppure sicuro. Mi
stringe forte tra le braccia, spingendomi a piangere prima ancora che me ne
renda conto, mentre non mi dice assolutamente niente e se ne sta in silenzio,
come se qualsiasi parola fosse semplicemente inutile. Quando si stacca da me,
mi sorride e mi dà un buffetto sulla guancia aggiungendo scherzoso: “Mi prenderò cura di mio genero come se fosse mio figlio…”. Capisco come sempre il suo riferimento neanche troppo oscuro ad
Alex come futuro marito di Charisma, sorrido ed annuisco con il capo, asciugandomi
le lacrime con il palmo della mano. Mi ha detto, a suo modo, la sola cosa che
davvero per me è importante, e cioè sapere che farà da padre ad Alex se non
dovessi tornare.
Il resto, in
fondo, lo sappiamo entrambi.
Quello che
però a quel punto mi sorprende davvero è che fa un paio di passi in direzione
di Draco, spingendomi a guardare la scena con una punta di ansia, dato che non
sono così amici da salutarsi in modo struggente ed affettuoso. Draco stesso,
infatti, lo guarda con la bocca arricciata e le sopracciglia aggrottate. Dean,
però, calmo e tranquillo, armeggia con la sua mano destra, sfilandosi qualcosa
che, imperturbabile, lancia verso Draco in un piccolo lampo di metallo
argenteo. Draco, istintivamente, lo afferra e si trova tra le mani un anello
pesante, doppio, d’oro bianco, con una pietra dura e lucida di colore nero. Io,
con un brivido, riconosco l’anello, ma mi sembra un gesto così assurdo che
resto in silenzio. Draco ugualmente non dice nulla, sebbene non sappia di che
si tratta. Dean, scrollando le spalle, aggiunge casuale: “E’ la sola cosa che
mi ha lasciato mio padre. L’unica”.
“Vorrebbe
essere una specie di portafortuna, Thomas?” chiosa Draco, rigirandosi l’anello
tra le mani, senza però alcuna ironia velenosa o retrogusto amaro nelle parole.
“Vorrebbe
essere un prestito… e non a fondo
perduto…” mastica serio Dean, guardandolo di lato “Devi riportarmelo indietro,
Malfoy. E’ la cosa a cui tengo di più al mondo… pretendo che tu torni vivo abbastanza
da restituirmela…”.
Lo sguardo
di Draco viene velato da un’ombra scura, quasi un pensiero segreto di
preoccupazione e di ansia, come se d’improvviso fosse davvero teso dalla
possibilità che lui non possa restituire quel regalo. E non si parla solo
dell’anello e della possibilità che, morto lui, chissà che fine faccia. Sono
certa, conoscendolo, che Draco improvvisamente sia dilaniato da un gesto di
fiducia che non si aspettava, come mai si aspetta nulla di positivo da nessuno
nei suoi confronti. Alla fine, fa solo
un sorriso storto e chiude l’anello nella mano, accogliendo di nuovo il solito
salvifico sarcasmo, spezzato da una bugia misericordiosa: “Ci mancherebbe che
non te lo restituisco, Thomas. Non mi faccio seppellire con un pezzo di
ferraglia vecchio ed antiestetico”.
“Sei un
bravo furetto ammaestrato, Malfoy…” sorride un po’ tristemente Dean, scrollando
le spalle e voltandosi per raggiungere gli altri, gli occhi più lucidi di
prima.
È sposato con Pansy Parkinson, sa perfettamente che cosa
dicono davvero in cinque parole che sembrano solo insulti.
Draco guarda
per un po’ l’anello nella sua mano, soppesandolo come se fosse pesantissimo,
poi con sicurezza lo infila all’anulare destro. Fingo con perizia di non averlo
visto e lo lascio allontanarsi, mentre mi appresto a salutare Harry e gli altri,
a cui lui rivolge solo qualche parola veloce di stanco rancore stantio. Le
prime che saluto, abbracciandole entrambe con calore, sono Ginny e Natalie. Mi
sembra quasi naturale unirle assieme in questo unico abbraccio, come se fossero
sorelle. Si profondono in raccomandazioni ed in rassicurazioni sul fatto che
sicuramente tornerò indietro e che non devo preoccuparmi di Alex. La mia sola
risposta è una frase semplice: “Prendetevi
cura di loro…”, alludendo ad Harry e Ron. Natalie sobbalza un po’ ed arrossisce,
come se si vergognasse a parlarne con me, però cerco di farle capire con lo
sguardo quanto sia sollevata dal fatto che ci sia lei adesso nella vita di Ron.
È quando
arriva il momento di salutare lui ed Harry che le mie difese crollano
completamente. Salutarli per andare incontro alla morte sembra un eco infinito
di centinaia di altri momenti che abbiamo vissuto sin da quando ci siamo
conosciuti in quel bagno, ad undici anni. Abbiamo sfidato sempre la morte,
rischiando la vita in milioni di modi diversi, tutti accomunati dalla sola
costante di essere sempre assieme. Era quello l’anatema per tornare a casa,
sani e salvi, sempre. Invincibili, immortali, invulnerabili. Sembra adesso un
infinito gioco di parti e specchi che ci riporta indietro di anni ed anni. Ma
stavolta la costante della nostra indefessa resistenza alla morte non c’è. Loro
non ci saranno, loro resteranno qui: io sarò sola lì fuori. E, nonostante la
vita ci abbia diviso tanto e spesso in questi anni scavandoci distanze addosso,
sembra davvero assurdo adesso non vedermeli alla mia destra ed alla mia
sinistra, come angeli, come guardie, come fratelli.
Singhiozzo e
lascio che loro due, ormai ben più alti di me e dei bambini che ricordo, mi
abbraccino forte, chiudendomi tra le loro braccia. Harry mi accarezza piano la
schiena dandomi dei piccoli colpetti incoraggianti, la faccia affondata nel mio
collo. Ron, cautamente, delicatamente, respira nei miei capelli e mi bacia la
fronte con affetto.
“Sarà come
tutte le altre volte…” sussurra con un filo di voce Harry, tenendomi stretta
“Sarà come sempre. Tu che fai un paio di abracadabra a cui nessuno aveva mai
pensato… e tutto finisce in una bolla di sapone…sarà come tutte le altre volte, Hermione…”.
“Noi ci
saremo lo stesso…” aggiunge Ron con un filo di voce, rischiarandosi la voce
roca “Noi… ci saremo sempre, Mione…”.
Annuisco
forte, mormorando qualcosa che non intendo neanche io perfettamente nelle mie
orecchie ovattate. Forse li dico che li voglio bene, forse li chiedo scusa,
forse li ringrazio, forse chiedo loro di occuparsi di Alex. O forse non dico
niente e mi limito a pensarle quelle parole senza riuscire ad aprire bocca, tra
le lacrime che mi strozzano le parole in gola. So solo che, quando mi lasciano
andare, il calore del loro abbraccio mi è rimasto dentro un pochino, mescolato
al loro profumo sugli abiti. Sento davvero di non essere sola adesso.
Li lascio
andare con Ginny e con Natalie con un sorriso mesto, salutandoli con la mano
aperta, affidandoli ad un destino o ad un Dio misericordioso che possa sempre
vegliare su di loro, se non posso farlo più io. Li auguro felicità, gioia,
serenità, amore: li auguro tutto quello che si meritano.
Mi asciugo
ferocemente gli occhi rossi, passandoci sopra le mani aperte e respirando a
lungo con la bocca aperta per cancellare i singhiozzi dal petto. Mi guardo
attorno, presagendo che adesso mi è rimasta solo Helder da salutare: la vedo
infatti a pochi metri da me, le braccia lungo i fianchi, lo sguardo basso, le
spalle contratte. Con un sospiro profondo, mi avvicino a lei con lentezza,
cercando di tenere a bada quella spinta alla rabbia che ho nei suoi confronti e
che, in fondo, devo cercare di seppellire in me stessa, visto che non la
rivedrò mai più. Mentre la raggiungo, però, noto qualcosa che per un attimo mi
fa fermare, aggrottando la fronte e tenendomi la mano stretta al torace. Nel
tempo che ho impiegato a salutare Harry e Ron, Draco si è allontanato molto di
più di quanto mi fossi accorta… ma soprattutto non è da solo. È con Ilai. È con
lui che sta parlando, l’espressione scura, ampiamente restituita da Ilai che, a
sua volta, lo guarda teso e nervoso.
È così
strano vederli impegnati in una conversazione che la cosa mi risulta subito
strana e sospetta, al punto da spingermi ad osservarli di sbieco. Cerco di
leggere il labiale inutilmente. Quando Helder mi si avvicina e comincia a
ricapitolarmi le fasi del nostro piano, non la ascolto neppure, per quanto sono
presa dal capire che cosa sta succedendo.
“… Malfoy fingerà di averti voluto consegnare
per salvare Alex…” sta continuando a ripetere Helder con voce monotona,
evidentemente comprendendo che non la sto ascoltando “Dirà, probabilmente, cose
odiose per esaltare il concetto… e getterà loro il presunto cadavere di
Radcenko. Mostrati distrutta per quello che sta dicendo Malfoy, imploralo,
scongiuralo… e mostrati disperata per la morte di Radcenko…più credono che ami
lui e meno penseranno a qualcosa come la Solutio damnationis…”.
“Certo,
certo…” mormoro distrattamente, ancora presa dalla vista di Draco ed Ilai
assieme.
“… ma tu non
avrai bisogno di fingere che ami Ilai
Radcenko, vero?” commenta Helder con una scrollata di spalle, guardandomi
obliqua. Finalmente intendo le sue parole come se mi raggiungessero solo adesso,
e mi volto verso di lei, sussultando e sgranando gli occhi in un moto di
nervosismo ansioso, la schiena attraversata da scariche elettriche.
Non lo deve sapere nessuno. Se non lo sa nessuno, se me
ne dimentico, non è mai esistito.
Mi ritrovo
di nuovo a minacciarla con lo sguardo, come se temessi che possa mettersi ad
urlare quella verità, sbattendola in faccia a Draco, ad Ilai e a me stessa che,
ancora, disperatamente, voglio tenerla fuori dalla mia testa.
Helder
solleva le palme in un moto di difesa, poi apre le braccia in gesto impotente e
sorride amara: “L’ho capito subito. E non c’entra l’Empatia… una come te… orgogliosa come te, convinta sempre di
poter fare tutto da sola… potevi avere così bisogno di una persona solo se ne
fossi innamorata… ed io te l’avrei augurato con tutta me stessa, se era la cosa
di cui davvero avevi bisogno… ed invece per colpa di questa storia che ho
cominciato io con lo Zahir… sono costretta a sperare che sia sempre più forte
quello che provi per Malfoy…”, Helder sorride ancora e si lascia sfuggire delle
lacrime rabbiose che, nonostante tutto, mi fanno sgonfiare l’astio e l’ansia
come se fossi stata punta da un ago: “… però non ne sono pentita. Magari sono
solo egoista… e voglio solamente che torni a casa, sana e salva…”.
Annuisco con
il capo, masticandomi in gola le lacrime e limitandomi ad accarezzarle un
braccio, non ancora del tutto pronta per abbracciarla e perdonarla del tutto.
Quel gesto piccolissimo, però, è come se l’assolvesse e perdonasse.
È lei,
allora, che si sporge su di me e mi stringe forte. Mio malgrado, con un nuovo
scoppio di pianto, l’abbraccio a mia volta, lasciando scappare via l’astio
fuori da me e cercando di ricordarmi solo il bene che ha fatto per me in cinque
anni, nonché quello che ancora farà per mio figlio, salvandolo.
“… per
favore…” mormoro piangendo, piegandomi su di lei “Salva Alex, Helder. E riporta
indietro Ilai… fai di tutto per riportarlo indietro… io… non ho potuto salvare
Draco… ma almeno lui… per favore, riportalo indietro…”. Helder mi rassicura
sommariamente, lasciandomi alla fine andare.
Mi volto su
me stessa asciugandomi il volto con i palmi delle mani, e faccio qualche passo
incerto, gli occhi coperti dalle dita. Poi, mi ricordo di Draco ed Ilai e
sollevo lo sguardo preoccupata, cercandoli.
Non sono più
assieme.
Di fronte a
me, c’è solo Ilai.
È di nuovo
in piedi, le gambe ben piantate al suolo e leggermente divaricate, cosa che lo
fa assomigliare ad un militare in attesa di attaccare. Ha la mascella serrata,
le braccia conserte ed un’espressione dura sul viso. I suoi occhi sono
ostinatamente rivolti alle mie spalle, in un punto ben preciso che guarda come
se lo volesse incendiare con lo sguardo. Prima però che possa voltarmi su me
stessa per capire di che si tratti, il suo viso torna a me, riempiendosi di un
calore soffuso e di un sorriso che non gli arriva agli occhi.
Lo guardo
ancora senza capire, mentre sussurra dolcemente guardandomi con tenerezza: “Prosti menya… do svidaniya sladkaya…”.
Non capisco
che cosa mi stia dicendo, sta parlando in russo. Nonostante non abbia
assolutamente capito che cosa mi stia dicendo, il tono con cui dice quelle
parole mi spinge automaticamente a singhiozzare, comprendendo, come se mi
stesse scrivendo quelle parole addosso, che mi sta dicendo addio.
Eppure non
riesco a muovermi nella sua direzione, non riesco a salutarlo davvero, non
riesco a dirgli forse un’ultima parola che sia un’eco sciocca ed inconsistente
di quello che ho scoperto di provare per lui, senza pure che mi disveli,
riveli, mostri apertamente.
Ilai
dismette quel sorriso dolcissimo che sarà l’ultima cosa che mi ricorderò di
lui. E torna a guardare alle mie spalle, arcigno, duro, irrigidendosi ancora
come una statua di sale.
Chiosa
severo, la voce come un taglio nella carne viva: “Non voglio che lei veda. Me
l’hai promesso, Malfoy. Portala via”.
E io capisco
troppo tardi che cosa sta succedendo.
Mi volto
furiosamente su me stessa, impugnando la bacchetta, incrociando gli occhi di
Draco, immobile, alle mie spalle.
La bacchetta
puntata alla mia schiena, l’espressione fraternamente gemella a quella di Ilai.
Tutto è diverso… tranne questo.
Lo imploro
con gli occhi comprendendo che non farò in tempo a reagire, che è troppo tardi,
che già sento vibrare la bacchetta dell’incantesimo che mi sta per scagliare
addosso.
Ma Draco mi
ignora, contrae la mascella, ringhia l’incanto con voce ferma e caustica.
“Stupeficium!”.
La scarica
di luce rossa si infrange nello spazio tra i miei polmoni: proprio nel centro
del cuore.
Perdo i
sensi, scivolando in un manto nero di tenebra.
Cosciente
solo per una cosa.
… non vedrò mai più Ilai Radcenko vivo.
Il mio
risveglio non è dei migliori.
Anche se dubito ormai di poter avere un risveglio
migliore.
Sono
sollevata di malagrazia da un braccio ed il contraccolpo mi fa spalancare gli
occhi intimorita. Attorno a me ci sono grida, urla, risate, e per un attimo non
capisco dove mi trovo, né tantomeno che cosa sto facendo. La testa mi pulsa
orribilmente come se fosse vessata da un martello pneumatico e gli occhi sono
annebbiati, come se ci fosse calata su una calugine amorfa. Mi guardo attorno
le orecchie che ronzano, ed allora improvvisamente mi tendo come la corda di
una chitarra. Sono nell’androne di un palazzo vecchio quasi completamente
demolito dall’incuria del tempo: rade piante secche crescono nelle
intercapedini delle rocce bianche e grigie, descrivendo un ambiente triste e
mesto. Il sole è nascosto da una coltre spessa di nubi e fa ancora un freddo
indemoniato, troppo inconsueto e strano per il mese di luglio.
Quando
riconosco la presa familiare sul mio braccio, quelle dita affusolate, sottili eppure forti che, sebbene ora siano
affondate nel mio braccio, hanno la perizia attenta e dolce di non farmi
davvero male… inizio con una punta di disagio ed ansia a capire dove sono e
che cosa è successo. I miei riflessi per fortuna reagiscono ben prima di me,
non appena con la coda dell’occhio individuo nella cornice scrostata di un
balcone quasi del tutto franato, le figure silenziose e spaventose dei
Karkaroff. Dimitri, come sempre, con il suo aspetto autoritario, il sorriso
sadico ben modellato sulle labbra chiuse, le braccia incrociate al petto,
l’espressione vogliosa ed implacabile. Raissa, con gli occhi spalancati,
sgranati, sconvolti, le lacrime che scorrono sul viso di alabastro, le mani
strette alla gola come se soffocasse, le gambe che cedono e la fanno cadere in
ginocchio. È quella vista a farmi capire simultaneamente che cosa sta guardando
alle mie spalle e a farmi finalmente sentire la voce di Draco che urla
improperi, insulti, invettive contro di me, rea di avergli nascosto un figlio e
di essersi innamorata di un altro. Mi sforzo di non ascoltare quello che sta
dicendo Draco, mi sforzo solo di fingere di essere stata catturata, tradita,
umiliata. Mi divincolo con tutte le mie forze dalla presa di Draco, sebbene
appunto lui stia fingendo ed in realtà potrei liberarmi abbastanza facilmente.
Mi sforzo di non concentrarmi sulle sue parole se non nella misura di apparirne
sconvolta, sgomenta, così da rispondere a suon di preghiere ed appelli accorati
in nome di nostro figlio.
È un bel
teatrino, è un bello spettacolino. E Dimitri ne pare così oltremodo soddisfatto
da non interromperci neanche per un momento, mentre si pregusta tutto con una
smorfia di puro piacere sul volto, inumidendosi lascivo le labbra. Raissa, del
resto, è completamente assente, è come se neanche ci stesse ascoltando. Ed è lì
ovviamente che scatta il colpo di grazia: la presa di Draco si fa un attimo più
forte sul mio braccio, mi guarda negli occhi come stesse per chiedermi se sono
pronta e riceve da me in risposta un minuscolo segno di accenno con il capo.
Grazie per preoccuparti di questo. Grazie Draco.
Grazie per capire che non sono pronta. Né mai lo sarò.
“… quel figlio di puttana…” mi sputa Draco
addosso, guardandomi con un ghigno crudele e velenoso “Quello che ti volevi
fare da settimane… non lo rivedrai più, Granger…”. Draco ride in modo sguaiato
ed io non ho bisogno neanche di mettere su un’espressione autenticamente
devastata.
Perché è
vero che io non rivedrò più Ilai.
Non lo rivedrò più.
Però ci
aggiungo un tocco di consapevolezza dilaniata e distrutta dal pensiero che
Draco possa aver ucciso la persona che amo. Ed è allora che Draco mi getta con
violenza sul corpo di Ilai.
Neanche
adesso devo fingere: non c’è bisogno. La vista del suo corpo martoriato,
escoriato, ferito, come se non fossero passati pochi minuti da quando l’ho
visto, mi strazia come se mi stessero tirando gli arti in due direzioni
differenti.
Perdonami Tatia.
Perdonami… se te l’ho portato via, in tutti i modi
possibili.
Mi getto su
di lui, lo abbraccio piangendo, urlo maledizioni ai Karkaroff e a Draco stesso,
simulo persino un tentativo di scuoterlo per svegliarlo ed un massaggio
cardiaco per rianimarlo. Provo anche la respirazione bocca a bocca ed
onestamente non so quanto questo aggiunga valore alla mia recita, o se non sia
solo una goffa ricerca di alibi per baciarlo un’ultima volta. Solo che questa
volta, le sue labbra sono fredde, gelide, immobili. Ed alla fine questo mi fa a
pezzi più di tutto il resto. Sfibrata, mescolando la vera disperazione a quella
falsa, affondo il viso nel suo petto, nascondendomi alla vista di tutti,
coperta dai miei capelli. E sospiro di sollievo quando sento un minuscolo,
brevissimo, battito, provenire dalle profondità del suo torace. I Karkaroff non
si sono ancora avvicinati a lui, non deve essere stato ancora necessario
mandarlo del tutto in arresto cardiaco.
Sento Draco
prendere tempo, chiedere di vedere Alex per capire come stia, prima di consegnarmi
a loro. Sobbalzo, la schiena rigida, sperando con tutte le mie forze di poter
rivedere mio figlio un’ultima volta. Ma i Karkaroff sono di altro avviso:
vogliono prima vedere se Ilai sia davvero morto.
Mentre ci
raggiungono levitando nell’aria come se fossero fatti di vento, Draco muove
impercettibilmente il capo nella mia direzione, facendomi capire che è arrivato
il momento. Ha il viso distrutto, gli occhi lucidi… e comprendo che non abbiamo
modo di aspettare che ci mostrino Alex. Dobbiamo lanciare la Solutio
damnationis, mentre saranno ragionevolmente distratti dall’esame del corpo di
Ilai.
Gli
Empatici, in collegamento con Ilai stesso, si accorgono subito dell’intenzione
dei Karkaroff. E con uno spasmo, scoppiatomi in bocca come l’ennesimo singhiozzo,
mi accorgo che quel minuscolo battito nel petto di Ilai è scomparso. Adesso… è morto sul serio.
Sebbene sia
distrutta, sebbene non riesca neanche a respirare, resto vigile ed attenta
mentre Dimitri calcia con malagrazia il corpo di Ilai e Raissa uggiola
fastidiosa, piangendo a dirotto e strappandosi le vesti. Come un fuoco
d’artificio che esplode nel cielo nero, io e Draco riconosciamo il momento
propizio: estraiamo le bacchette ed urliamo con tutta la forza che abbiamo in
corpo: “SOLUTE DAMNATIONEM!”.
Dimitri e
Raissa gemono, fremono, si scagliano contro di noi per tapparci la bocca.
Inutilmente.
Pochi
secondi… e spariscono alla nostra vista, sostituiti da un buio spesso ed
intenso che ci avvolge completamente.
Nel silenzio
nero l’unica cosa che sento e percepisco è il mio fiato corto, spezzato,
assieme a qualche altro singhiozzo che mi sfugge ancora dalle labbra.
“Draco?” lo
chiamo spaventata, non afferrando assolutamente nulla attorno a me, se non
questo gelido buio totale.
“Sono qui…”
mi rassicura lui da un punto non meglio precisato alle mie spalle, sento il suo
respiro sulla nuca. Rabbrividisco, prima che lui mi chieda sommariamente: “Stai
bene?”. Annuisco con il capo prima di capire che lui comunque non riesce a
vedermi, e ripeto il mio assenso con la voce.
“Sai dove
dobbiamo andare adesso?” chiedo con un filo di voce, cosciente della sua
presenza dietro di me, mentre angosciata da questo buio totale ho l’impressione
di essere diventata cieca o di essere stata sepolta viva sottoterra. Draco forse
avverte la tensione nella mia voce ed immediatamente con naturalezza mi stringe
la mano, mentre sudo freddo. La intreccio grata con la mia, contenta di non
essere sola in tutto questo.
“No,
Granger… non lo so…” mormora lui con voce sconfitta, uno spostamento d’aria che
mi informa che forse si sta guardando attorno alla ricerca di un po’ di luce
“La prima volta non è stata così. Non ho neanche prettamente incontrato Adamar… sentivo solo la sua voce…”.
“E quindi
che facciamo?”.
“A parte
interrogarci su quando il demone farà l’allacciamento
alla corrente elettrica?” biascica lui nervosamente, la sua mano che si
contrae impercettibilmente “Non lo so. Magari dobbiamo chiamarlo oppure…”. Ci
interrompiamo a disagio, quando nella nostra testa esplode una sorta di litania
lamentosa, un canto, una voce stucchevole e femminile che sussurra: “Andate avanti. Camminate dritto…”.
“… oppure
ascoltiamo la voce da bambina indemoniata
che ci è misteriosamente apparsa in testa…” commenta malevolo Draco, iniziando
a camminare nella direzione indicata dalla voce, la mano sempre stretta nella
mia a guidarmi e a precedermi. Il buio non diventa meno totale mentre
camminiamo, restando così fitto che non riesco assolutamente a distinguere
nulla. Sembrano dei cunicoli sotterranei, ai nostri lati avverto la presenza
imponente di pareti di roccia scavate, nonché di tanto in tanto il suono di
acqua che goccia. Ma, per il resto, non ho più la pallida idea di dove siamo.
Dopo una
decina di minuti abbondanti in cui abbiamo continuato a camminare nel perfetto
silenzio, sento la necessità impellente di dire una cosa qualunque, pur di
rompere quest’ansia che mi sale per quello che stiamo per affrontare.
“Ti ha
chiesto Ilai di schiantarmi?” chiedo asciutta, rivolgendomi a quel silenzio
odoroso di terra bagnata che so essere lui.
La sua mano
nella mia si fa ghiacciata, mentre borbotta caustico: “Credi che tragga piacere dallo schiantarti, così, a
titolo gratuito? Ovvio che me l’ha chiesto Radcenko. Non voleva che tu vedessi…
che cosa gli stava per accadere… ma
aveva bisogno interamente della sua energia magica per il trattamento degli
empatici… e per quello l’ha chiesto a me, Granger… ”.
“E’ stato
così… brutto?” chiedo con un filo di
voce, la gola secca.
Draco ghigna
in modo fastidioso alle mie orecchie, prima di biascicare acido: “Qualsiasi
cosa abbia passato Radcenko… è un delicato
sonnellino nel prato in confronto a che cosa stiamo per passare io e te…”,
poi abbassa il tono di voce, suonando ancora tra il minaccioso ed il derisorio:
“So che avevi bisogno di lui, Granger…
ma ormai sarà il caso di lasciarlo andare, non credi? Se tutto va bene… lui si salverà e si troverà un’altra
mogliettina adorabile da condannare a morte… e se tutto va male… bè, almeno vi siete lasciati con ottimi ricordi… un romantico addio in russo… e te schiantata da quel bastardo del
tuo ex… davvero… una favola moderna… sono
quasi invidioso…”.
Le sue
parole, come sempre, mi feriscono più all’interno di quanto ammetterei ad alta
voce. Sa perfettamente come colpirmi al cuore quando vuole. Risbattermi in faccia che avevo bisogno di
lui. Pungolarmi sulla possibilità che si rifaccia una vita senza di me.
Innervosirmi con l’insinuazione per cui Tatia sia morta per colpa sua.
Minimizzare quello che siamo. Però me ne sto in silenzio, non replicando e
sorprendendo persino Draco, che conosce adesso un silenzio ben più inquieto.
Io devo
lasciare andare Ilai, devo lasciare andare tutti adesso: la mia ultima realtà
definitiva è Adamar, non c’è altro a cui pensare.
Continuo a
camminare in silenzio non replicando più nulla, avvertendo le dita di Draco che
si contraggono nella mia mano come se fosse lui, adesso, a voler parlare.
Ma, in ogni
caso, non ne avrebbe né modo, né possibilità.
Finalmente
il lungo corridoio di pietra che stavamo percorrendo, viene falciato da una
luce calda che mi fa strizzare gli occhi dopo tanta oscurità. Io e Draco ci
incamminiamo in quella direzione, i sensi all’erta, pronti a qualsiasi attacco.
Ma ciò che ci aspetta, alla fine di quella che si rivela essere una galleria di
pietra aperta su uno spazio aperto e luminoso, ci lascia letteralmente senza
parole.
La prima
cosa che noto è un profumo meraviglioso, soave… che non credo di aver mai
sentito. Assomiglia a quello degli agrumi, delle zagare in Sicilia, ma
infinitamente più dolce, più penetrante, più inebriante, come se fosse
mescolato a qualche aroma zuccherato di cannella, vaniglia, caramello fuso. Non
può esistere un odore del genere in natura. È paradisiaco, sazia quasi la gola
e lo stomaco solo respirandolo. La seconda cosa di cui mi rendo conto, mentre
la luce si fa più intensa, quasi accecante, è che lo spazio su cui si apre la
galleria è qualcosa di francamente… impossibile
da pensare, considerando che stiamo per affrontare un demone millenario.
Al termine
della galleria, infatti, ci troviamo in un enorme e meraviglioso prato verde,
circondato da floride colline ricoperte di fiori. Ha un aspetto curato, eppure
naturale, sublime, come se non ci avesse mai respirato singolo uomo. Il cielo è
terso, luminoso, di una nettezza azzurra così abbacinante da farmi chiedere se
ho mai visto prima il sole. Sembra una giornata primaverile delle più stupende
che possa conoscere l’Inghilterra… lontano, tra gli alberi di salice,
gorgheggia un fiumiciattolo trasparente che sfocia in un laghetto coperto di
ninfee. Ed è seguendo la linea del fiume che intravedo finalmente un enorme
casa in stile georgiano, ricoperta interamente da mattoni rossi, con camini
alla destra e alla sinistra del tetto, un portico centrale con una piccola
finestra rotonda superiore, finestre all’inglese e balconi in ferro finemente
lavorati. Sembra così… meravigliosamente perfetta da farmi dubitare seriamente
che esista.
Forse, io e
Draco siamo già morti e non ce ne siamo accorti… questo, non sembra l’inferno.
Ma esattamente il contrario.
È solo dalla
mano gelida di Draco nella mia che resto cosciente di me stessa, ricordandomi
che forse è l’inferno proprio perché non ne ha assolutamente l’aspetto. Questo
posto è solo una pianta carnivora che, con grande sfavillio di colori e suoni,
vuole intrappolarci al suo interno. Draco appare meravigliato e titubante
esattamente come me, dandomi conferma che la sua esperienza con il demone è
stata completamente diversa da quanto sta succedendo adesso.
Se mai era
possibile, la nostra perplessità sbigottita aumenta esponenzialmente quando ci
rendiamo conto che non siamo propriamente soli al momento. Di fronte a noi,
infatti, proprio sotto l’architrave della porta d’ingresso della casa, c’è
qualcuno. La sua presenza è così impalpabile e leggera che non l’abbiamo
avvertita fino ad ora, sembra persino non respirare. Distinguo a malapena nel
nitore della giornata un cenno del capo che vuole essere un invito ad essere
seguita. E quindi, con riluttanza e nervosismo, ci avviciniamo a passi lenti e
guardinghi, studiando bene la figura esile.
Che non sia
Adamar, è evidente: certo, Draco conosce solo la sua voce, ma Helder l’ha
sempre apostrofato al maschile. E questa invece è una… donna. Per un attimo, penso che possa essere comunque lui che
magari ha cambiato aspetto… ma, non so perché, sono perfettamente convinta e
consapevole che non si tratti di lui. La guardo con attenzione mentre mi
avvicino, sembra nata per essere inserita in questo clima ottocentesco. È una
donna bellissima sulla trentina d’anni, forse solo lievemente più grande di me.
Non è molto alta, eppure sembra comunque imponente, autoritaria, statuaria. Ha
un fisico asciutto, proporzionato, avvolto in un abito completamente bianco che
riluce come se fosse fatto di luce pura. Ancora, è perfettamente in stile
ottocentesco: è plissettato sulla gonna lunga e non molto ampia, si arriccia e
stringe sotto il seno, descrivendo la linea della vita sottile con una fila
regolare di piccole perle bianche. Le maniche a sbuffo lasciano scoperte le
braccia lunghe, la cui pelle, come per il viso, è candida, vellutata, senza
alcun segno di imperfezione e discromia. Non ha alcuna ruga d’espressione,
niente, come se appunto neanche respirasse e fosse una bellissima statua di cera.
Solo dai fremiti delle lunghe ciglia nere che racchiudono due penetranti occhi
azzurri dalla forma un po’ allungata, si potrebbe intuire che è viva. Sul
collo, alcune ciocche dei suoi capelli biondo ramati sfuggono con cura
impeccabile dalla crocchia che le raccoglie la chioma, impreziosendo così la
linea ferma delle clavicole. I capelli nascondono quasi completamente un
ciondolo dalla forma rotonda. È la prima cosa che guardo di lei non appena mi
avvicino con Draco: è il cameo di una rosa bianca, lucido come un pezzo di
ghiaccio.
Quando parla
le sue labbra si muovono appena. Eppure la sua voce ha un colore cristallino,
pulito, squillante. Da ragazzina.
Sembra di sentire una cascata di campanelli che tintinnano.
“Il signor
Malfoy e la signorina Granger?” domanda educata e gentile come una perfetta
padrona di casa. Annuisco con sospetto, non prima che abbia gettato un’occhiata
a Draco. Da come accoglie la voce con assoluta indifferenza, comprendo che,
come avevo intuito, non siamo di fronte al demone Adamar.
“Sua
Eccellenza vi sta attendendo…” mormora, scandendo con decisione la parola Eccellenza, come se potessimo dubitare
di chi sta parlando “Vogliate farmi la grazia di seguirmi in casa… è un luogo
più appartato in cui discutere della vostra
situazione…”. Intimorita e messa a disagio dalla fredda cortesia impostata
della donna, la seguo all’interno della casa con Draco che sbuffa, le mani
affondate nelle tasche dei pantaloni: “… la prossima volta dovrò noleggiare uno
smoking per venire a crepare davanti a questo qui…”.
Roteo gli
occhi, spero che nessuno l’abbia sentito.
Gli ambienti
della casa sono modesti e dall’aspetto antico: prevale il legno in noce che
ricopre di pannelli le pareti color avorio. Ogni centimetro del pavimento è
ricoperto da tappeti di colore rosso, arancio, marrone: tutti toni caldi.
Passiamo di fronte a molte camere perfettamente arredate, dove la costante è
sempre la presenza di enormi librerie e di arazzi dall’aspetto prezioso. Il
senso di stranezza per lo scenario che ci troviamo di fronte, non fa che acuire
la mia ansia: più la casa sembra confortevole ed accogliente e più ho
l’impressione che Adamar non abbia bisogno di incutere paura con scenari tetri
e raccapriccianti. E questo può voler dire solo una cosa, vista la mia esperienza
da ex Capo degli Auror.
Non ne ha bisogno.
È
perfettamente in grado di pretendere rispetto e di scatenare timore senza
ricorrere ad espedienti. Questa casa, questa tranquillità, questa donna calma e
pacata, sono solo raffinati mezzi di distrazione. O vezzi estetici.
Ci può fare
a pezzi, in qualsiasi modo. Non ha bisogno di null’altro che sé stesso.
E ciò,
ovviamente, mi agghiaccia.
Avrei di
gran lunga preferito altro piuttosto che questo.
Dopo qualche
minuto di silenzio, ci fermiamo di fronte ad una pesante porta di legno
intarsiata. La donna la apre con discrezione, camminando all’interno in modo
ancora più lieve di quanto non abbia fatto fino ad ora e ci invita di nuovo a
seguirla con un cenno della testa. Io e Draco entriamo, riconoscendo una stanza
che ha tutte le fattezze di uno studio antico. La parete vicino alla porta è
completamente occupata da una gigantesca libreria piena di tomi preziosi,
dall’aspetto sdrucito e rovinato, mescolati a libri decisamente più moderni
dalle copertine agili e colorate. Di fronte, sulla parete opposta, ci sono tre
grandi finestre quadrate da cui si intravede il giardino. Alla nostra destra,
c’è un piccolo salottino con un tavolo basso, mentre le poltrone e il divano
sono foderate di velluto rosso sangue. La stanza è ancora avvolta da quel
profumo gradevole ed intenso, che qui però assume degli accenti ancora più
penetranti che danno alla testa. Ma soprattutto noto immediatamente, in
contrasto con gli ambienti antichi, la presenza di uno stereo moderno che riproduce
della musica lirica. Ascoltando le noti possenti e la voce poderosa del tenore,
faccio immediatamente mente locale. E lucevan le stelle. La Tosca di Puccini.
Vengo
sconvolta dai brividi, mentre il tenore gorgheggia devastato e dilaniato.
Svanì per sempre il sogno mio d'amore...
l'ora è fuggita,
e muoio disperato!
E non ho amato mai tanto la vita!
… il canto di un uomo condannato a morte, che nel momento
in cui sta per lasciare vita ed amore, capisce quanto ami entrambi. Amore. E
vita.
Non può essere
una scelta casuale, constato con disperazione amara e rabbiosa. Ovvio.
Ed è già un
indizio su come agisce questo mostro.
La donna che
ci ha guidato fino ad ora, prende posto alla nostra sinistra dove finalmente
noto una scrivania ingombra delle cose più varie con una prevalenza per i
manufatti in cristallo.
E lì, seduto
tranquillamente, c’è… un uomo.
Sussulto
leggermente dalla sorpresa e dalla contemporanea ansia immediata che mi
comunica: sento ogni centimetro della mia pelle rabbrividire e gelare di sgomento
al contraccolpo dall’enorme potere magico che scaturisce da lui. La mia mano
inconsciamente corre spaventata al polso di Draco che stringo con paura,
facendo qualche passo indietro. Draco chiude la sua mano sulla mia, ha la pelle
fredda e sudata. Non ho mai sentito niente del genere in vita mia, nulla… ed ho
incontrato Voldemort, il Signore Oscuro che ha distrutto questa terra per anni.
Era un
bambinetto in confronto.
Incontrando
Voldemort, certo, se ne poteva avere paura…
ma non così. Adamar non sta facendo assolutamente nulla, è solo seduto e ha
le mani incrociate elegantemente sotto il mento… eppure, quello che sprigiona
dal suo corpo… è un potere immenso, nero, oscuro, che penetra in ogni poro
della mia pelle, facendomi sentire spacciata e pronta all’implosione. E
contrariamente a Voldemort, non ha neanche un aspetto ferino e mostruoso. Nulla
del genere. È apparentemente un uomo normalissimo, sulla quarantina, dal corpo
slanciato ed alto. Ha i capelli castano scuro un po’ lunghi sulla nuca, con
qualche riccio scomposto; scuro è anche il rado pizzetto che gli copre il
mento. Gli occhi sono penetranti, taglienti, audaci, e splendono di una luce
verde smeraldo. Veste come la donna alle sue spalle in modo decisamente
antiquato: pantaloni beige leggermente larghi sui fianchi, una camicia bianca,
un fazzoletto al collo di velluto verde, un gilet ed una giacca dello stesso
colore. Non mi è dato naturalmente di sapere o intuire se questo sia il suo
aspetto da millenni, o se invece abbia il viso di Grindelwald,
l’uomo di cui ha preso in prestito il corpo.
Oppure se anche questo aspetto apparentemente normale sia
solo un meccanismo per mostrarsi ai nostri occhi.
Da quello
che sento del suo potere, potrebbe anche mostrarsi con l’aspetto più comune per
rassicurarci, e poi colpirci infido alle spalle. Al momento, sembra il più
normale dei padroni di casa: affascinante, gentile, curato, preoccupato persino
di fare una buona impressione.
Con le mani
larghe e forti fa segno con un sorriso alle due sedie di fronte alla scrivania,
invitandoci ad accomodarci.
“Buongiorno
Miss Granger. Buongiorno Signor Malfoy…” esordisce con un sorriso serafico,
alternando lo sguardo prima su di me e poi su Draco. Sotto la scrivania
continuo a stringere il polso di Draco, incapace di lasciarlo andare sotto lo
sguardo di Adamar. Il demone fa una pausa ad effetto, sospirando in modo
teatrale prima di soffiare fuori con voce entusiasta: “Sono onorato di
conoscervi finalmente di persona…”. Da come sento vibrare le vene di Draco
sotto la pelle del suo polso, comprendo che ha riconosciuto perfettamente la
sua voce. È davvero lui, se mai ci fossero dubbi. Ha una voce cavernosa, roca,
profonda, ma comunque pastosa e melodiosa: non ho mai sentito una voce simile.
Sembra il suono di un’arpa.
Si adatta
perfettamente alle note liriche che continuano a riempire la stanza.
Sbatto le
palpebre per qualche secondo, incespicandomi nelle parole: “Tu…”, mi sento
irrispettosa e, scornata come una bambina ripresa dalla mamma, mi correggo
velocemente in preda al panico: “Lei…
è Adamar?”.
Lui fa un
nuovo instancabile sorriso dolciastro, guardando la donna alle sue spalle e
facendole un incomprensibile cenno d’intesa con il capo, a cui lei risponde con
un sorriso timido. Poi torna a guardarmi con paterna pazienza: “Ne è sorpresa? Comprendo le frustranti
limitatezze della vostra cultura così avvezza alle etichette. Suppongo che,
avendo conferito principalmente con la misera progenie empatica, abbiate
maturato l’idea che avessi un aspetto ben differente e che avessi residenza in
un luogo diverso…”, finge di rifletterci su per qualche secondo umettandosi le
labbra e gettandomi uno sguardo divertito, prima di continuare con voce
scontata, come se volesse umiliare la mia deduzione spiccia: “Un demone dovrebbe avere protuberanze sul
capo, un miasma sulfureo a circondarlo e magari anche un volgare oggetto a tre
punte in mano, come se approntasse delle balle di fieno. Quindi dovremmo anche
essere nelle viscere della terra e non in questo luogo ameno…”, abbraccia in un
ideale sguardo tutta la lussuosa stanza nonché la vista serena che penetra
dalla finestra. Poi sembra avere una provvidenziale illuminazione e prosegue: “Ammetto
che però questo argomento è esatto. Siamo vicino al centro incandescente del
vostro pianeta… ma non per mia volontà di emulare qualche infernale divinità.
Semplicemente perché è uno dei pochi luoghi liberi dalla presenza umana…”.
Chiude gli occhi sognante, sembra vagheggiare qualcosa di lontano anni e vite
fa: “Adoravo l’Himalaya: così
inospitale, algida e persino pervicace nel suo isolamento. Ma poi sono arrivati
gli escursionisti… un paio di spiacevoli
incidenti… e ho deciso di ritirarmi qui…”.
Tremo al
pensiero di chi possa averlo casualmente incontrato e non ho dubbi nel
comprendere che cosa sia accaduto a queste sciagurate persone.
La sua voce
è amabile e tranquilla, sempre impostata su questo tono volutamente forbito che
si snoda in un linguaggio formale ed accademico, ma sembra perfettamente
consapevole di chi è, di che cosa fa e della sua natura demoniaca. Non fa
assolutamente nulla per nasconderla, la esibisce anzi come se ne fosse
sommamente fiero ed orgoglioso.
“Come
facciamo noi allora a sopravvivere al centro della Terra?” chiede Draco allora
noncurante, come se stesse chiedendo del tempo. Lo guardo sconcertata dal suo
sangue freddo. Non so se sia la sua solita spavalderia arrogante che vuole
mettere a tacere la paura, oppure se semplicemente ricorda perfettamente come è
parlare con questo… demone… ed allora
riesce a simulare calma e coraggio.
“Raffinata deduzione, signor Malfoy…” si
complimenta Adamar con vivo entusiasmo, sporgendosi sulla scrivania per
guardare meglio Draco “Ricordavo la sua spavalda arroganza, nonché la sua
intelligenza decisamente sprezzante. E lei dovrebbe ricordare perlomeno la mia…
voce, giusto?”.
“La ricordo”
commenta sintetico Draco con una punta di amarezza sarcastica nella voce.
Adamar
sorride sardonicamente massaggiandosi una tempia con le dita in modo
volutamente disattento. Il guizzo di un tendine della mascella mi informa, però,
che si sta innervosendo. La gola mi si secca, mentre metto a fuoco il modo che
ha di guardare Draco.
Ostile, rancoroso, sospeso tra la voglia di farlo a pezzi
e quello di capire come funziona.
Ha più o
meno lo sguardo che mi tributava sempre Dimitri, escludendo ovviamente alcuna
componente di attrazione sessuale. Non so come faccia Draco a starsene seduto
calmo e tranquillo, visto anche che il repentino cambio d’umore di Adamar è percettibile
anche dall’improvvisa onda calda del suo potere che ci si infrange addosso,
come mare su rocce. Poi si smonta così com’è nata: Adamar dismette il suo
sguardo acceso, fa un gesto di noncuranza con la mano e sorride rassicurante,
suonando solo lievemente infastidito mentre arriccia il naso e le labbra con
nobiltà e distacco: “Non abbiamo vissuto
la migliore delle esperienze io e lei, signor Malfoy. Helena Greengrass che si
intromette nella sua prova, lei che si ritira… confesso di esserne rimasto
molto indispettito… ha incontrato un mio profondo disappunto avere a che fare
con lei… non per questo non risponderò alla sua insolente domanda.”, fa una pausa ad effetto studiata ad arte per
dare enfasi alle sue parole e verificare se siano andate a segno. Draco resta a
braccia incrociate, ma quel luccichio dello sguardo che cela un retaggio di
prudenza cauta, soddisfa profondamente l’ego di Adamar. Difatti, con tono più
rilassato, prosegue tranquillo e lieve: “Avvertite una temperatura tollerabile,
riuscite a respirare in modo adeguato, vedete… tutto questo…”, allarga le braccia comprendendo idealmente la casa
ed il panorama fuori dalla finestra, escludendo invece volutamente sé stesso e
la donna con lui “…perché io voglio che
sia così. Lo chiami pure un retaggio della mia disgraziata esistenza umana,
ma potrei definirmi un esteta. Sapete
quanti artisti ho personalmente… patrocinato?
La ricerca della bellezza è un mio punto debole. Uno dei miei momenti più
sereni di questo lunghissimo arco vitale fu al confine tra il Lancashire e il North Yorkshire, nel 1840, in una magione
come questa… per questo traggo profondo piacere nella rievocazione mentale di
quell’atmosfera bucolica”. Si ferma a lungo a questo punto, quasi innescandoci
la curiosità di chiederci che cosa sia successo in questo suo passato secolare
per renderlo così felice e voglioso di reminiscenze persino nel vestiario. Ma,
naturalmente, non riceve alcuna domanda ulteriore: non siamo venuti qui perché
ci racconti la storia della sua depravata vita. Draco risponde con una
scrollata noncurante delle spalle, spingendomi ancora a chiedermi che razza di
piacere perverso tragga nel provocarlo così apertamente. Dal canto mio, stringo
le palpebre ed annuisco impercettibilmente con il capo, sperando che sia
sufficiente.
È un uomo
incredibilmente vanitoso, orgoglioso e presuntuoso: e questo, paradossalmente,
mi rassicura alquanto.
Ha un fondo
di umanità con cui posso ancora trattare, intuendo da che lato debba prenderlo
per non indispettirlo eccessivamente.
Peccato che
questo Draco ancora non lo capisca: non dico che Adamar ci tratterà bene se facciamo
i cortesi e gli educati, sottoponendoci ad una prova facile da superare. Ma
sappiamo per certo dall’esperienza dei Dubois che, se capisce di essere
imbrogliato o preso in giro, reagisce in modo efferato. Potrebbe persino
ammazzarci qui, con una semplice scrollata di spalle, non iniziando neanche la
Solutio damnationis. In fondo… chi mai potrebbe punirlo per questo? I Custodi
dell’Ordine? Lo fanno stare al suo posto da millenni… probabilmente non
reagirebbero neanche eccessivamente se ci uccidesse… sicuramente non al punto
da eliminarlo. Magari, Adamar sa anche fino a dove può tirare la corda con
loro… specie considerando che la corda sono due fragili umani di carne e
sangue, come me e Draco.
Siamo già
nelle sue mani… sarà anche il caso di rendere quelle mani ancora più vogliose
del nostro sangue di quanto già non siano?
È il mio
spirito da Auror a parlare: se sai già di essere in condizione di inferiorità,
cerchi di guadagnare miserrime posizioni di vantaggio per andartene con
dignità.
Non sputi e
disprezzi tutto, maledicendo di stare per morire.
Ma Draco è
un Serpeverde: fa del disprezzo il suo ornamento preferito.
Tra i due,
quella prudente sono sempre stata io.
E del resto
non so neanche propriamente come Draco sia sopravvissuto in questi anni, visto
quanto poco attento è.
Lo guardo
con la coda dell’occhio cercando di fargli capire il mio messaggio.
Adamar
sembra soddisfatto dalla mia espressione di partecipazione superficiale e
riprende accorato, rivolgendosi ancora a Draco: “Non priverei mai lei e la sua deliziosa compagna di questo armonioso
spettacolo. Una donna dalla così conclamata fama merita il migliore dei
trattamenti possibili…”, rabbrividisco leggermente, stringendomi nelle spalle
quando la sua attenzione torna a me.
Ha il viso
costernato sinceramente mortificato, mentre sussurra suadente, lasciando che un
raggio di sole gli tagli a metà il viso: “Mi è dispiaciuto non conoscerla
personalmente quando ha creato lo Zahir, Miss Granger. Sa che mio malgrado non
posso occuparmi più di queste pratiche…”, con un brivido improvviso mi rendo
conto che, se la storia non fosse andata com’è andata e i Custodi non gli
avessero tolto lo Zahir, effettivamente sarebbe stato lui a vendermi quella
distruzione dell’anima. Gemo silenziosamente rievocando ancora quell’antico
errore, e le mie dita impercettibilmente toccano ancora il polso su cui si
stringeva l’infernale monile. Draco studia le mie mosse, ma resta immobile,
forse per non attirare l’attenzione di Adamar con un gesto rivolto a me che
simuli debolezza. Stacco quindi le dita dal polso, rischiaro lo sguardo e torno
a guardare Adamar che assume un tono estasiato: “Una persona che era sotto il
mio controllo l’ha vista in occasione di una qualche celebrazione presso il
luogo di lavoro del signor Malfoy… era all’apice del suo potere.
Irriconoscibile, implacabile. Aveva la chioma corvina ed occhi della medesima
tonalità…”. Sussulto sgranando gli occhi: la sera della festa al Petite peste,
quando ero sotto il controllo dello Zahir ed incendiai lo scantinato di Draco.
Forse uno dei giorni peggiori della mia vita fino a
quello in cui mi hanno tolto Alex.
Qualcuno che
era sotto il suo controllo… era a quella festa… lui mi ha visto tramite quegli
occhi servili…
Non vi ha mai ignorato, scoppia
di ricordo la voce di Helder nella mia testa.
“Mi dolgo
davvero di non averla potuta seguire nella sua vicissitudine…” prosegue Adamar
con un sorriso addolorato ed assolutamente sincero, cosa che mi fa ancora di
più inorridire “Non vedevo uno Zahir d’Amore da secoli nonché una tale oscura
maestria nel gestirlo. Ammetto che, se fossi stato ancora umano, l’avrei
persino desiderata…”, Adamar fa una risata timidamente modesta, come se stesse
parlando di qualcosa di volutamente enfatico ed impossibile, seppure esibisca
il contegno puro ed innocente di un adolescente innamorato. Dubito, però, che
sia rimasto qualcosa di così umano in lui da fargli autenticamente desiderare
una donna. Credo che l’abbia detto solo ed esclusivamente per mettermi a
disagio: me ne accorgo dall’occhiata lasciva che mi lancia e da quella
accondiscendente e soddisfatta con cui fissa per un attimo le mani contratte di
Draco sulla scrivania.
Innervosita,
sollevo fieramente il mento guardandolo storto.
D’accordo giocare alle tue regole, demone… ma queste
regole non implicano che tu mi renda il tuo giocattolo mentale.
Adamar
prosegue con un lampo di trionfo nello sguardo, come se si fosse
improvvisamente ricordato di qualcosa di importante: “Le buone maniere mi impongono però prima di tutto di porgerle i miei
ringraziamenti, Miss Granger...".
"Ringraziamenti?" chiedo sgomenta, aggrottando le
sopracciglia. Non posso neanche immaginare che cosa diamine possa aver fatto
per meritare i suoi ringraziamenti.
Qualcosa di
riprovevole senz’altro.
Per questo sono sbigottita oltre misura quando Adamar chiosa ovvio: "Per
avere contribuito alla distruzione del Signore Oscuro. Mi tediava la sua
presenza... terribilmente emotivo, ossessionato e tormentato…”, le mie dita si
artigliano attorno ai braccioli della sedia su cui sono seduta, mentre i
polpastrelli descrivono la trama in rilievo degli intarsi. Tutto potevo
immaginarmi tranne che un ringraziamento simile… e specie in questa forma. È
come se avesse marcato enormemente la differenza esistente tra lui ed il male
comune, al punto che può permettersi di definire un mostro come Voldemort
semplicemente come emotivo. E non è assolutamente un aggettivo che avrei
coniato sull’incubo di metà della mia vita.
È evidentemente al di là del male… ed al di là del bene.
Al di là di
qualsiasi cosa mortale.
Si massaggia stancamente le tempie, ispirando un senso di pietosa
comprensione nella donna alle sue spalle che, per il resto, è rimasta sempre
immobile. Adamar quindi prosegue in modo volutamente pietoso come a voler
instillare affetto nei suoi confronti: “Era causa di continue emicranie. Ero
sul punto di intervenire di persona, quando lei e i suoi compagni l'avete
annientato. Le sono riconoscente…". Persino la donna mi guarda con
espressione cautamente sollevata, come se anche lei mi ringraziasse dell’aver
liberato il suo padrone da quella indicibile fonte di irritazione.
Getto un’occhiata in tralice a Draco che, a sua volta, mi restituisce
uno sguardo fosco e torbido, non prima di un ennesimo segno di indifferenza nel
viso contratto. Non basta questa sua rassegnazione arrogante, però, a mozzarmi
le parole in gola.
Non quando si parla della causa della morte di tanta gente che amo.
È quindi inevitabile per me dire a voce più alta ed acuta del normale: "Perché
allora non l'ha fermato prima?".
Adamar mi soppesa con lo sguardo con solenne pazienza non prima di aver
guardato la sua compagna con espressione indecifrabile, poi si sporge su di me
con fare complice e cospiratorio come se stesse per confidarmi un segreto. Non
indietreggio neanche di un centimetro, lo sfido con gli occhi a continuare. Ho
silenziosamente rimproverato Draco fino ad ora per il modo in cui si era
approcciato nei suoi confronti, temendo ritorsioni. Ma adesso, con la nettezza
abbacinante di un fulmine, comprendo che non voglio andarmene prendendo tempo e
simulando pazienza. Posso essere sgusciante e viscida, acquattandomi nell’ombra
e mostrando inveterato rispetto… ma se parla di me. O di Draco. Ma dargli anche
un minimo alibi di malcelata accettazione a quello che fa… non esiste al mondo.
Adamar sussurra in modo suadente, lo sguardo fisso sulle mie labbra,
l’ombra sprezzante del solito sorriso: "Esaudire un desiderio del signore
Oscuro avrebbe significato la distruzione di questo pianeta, Miss Granger. E la
vostra razza deve essere controllata, non annientata. Ed ammetto la mia
assoluta debolezza nell'essere ancora interessato al destino della vostra
progenie degenerata. Inoltre per diversi anni è stato un alleato. Contribuiva
a risolvere la sovrappopolazione di questo pianeta. Tutti quegli eccidi...
hanno spazzato via molta frenesia umana dal globo...”.
Le mie mani si aggrappano di nuovo ai braccioli della sedia come se
stessi per cadere per terra. Con una parte remota della mente, sento un
movimento di Draco alla mia sinistra che pare sconvolto e sbigottito,
esattamente come me. Voldemort era un suo… alleato. Ammazzava persone… e gli
impediva di essere eccessivamente disturbato dai sentimenti umani.
Poi è
diventato lui stesso una fonte di disagio… ed è stato grato che morisse.
È così che
ragiona. È così che vive: vorrebbe un mondo ammantato di silenzio, poco importa
chi sia a renderlo tale.
Se Dio o il
diavolo.
La mia espressione evidentemente palesa in modo inequivoco i miei
pensieri, perché Adamar si fa indietro con la schiena e guarda fuori dalla
finestra, esibendo uno sguardo d’improvviso stanco ed annoiato: “Non pretendo
che lei capisca. La moralità è un raffinato esercizio di perversione della
vostra stirpe. Una finezza lessicale che io, al contrario di voi, non posso
permettermi. Mi creda, ho ancora rimembranza di essa, la conoscevo bene nel
tempo in cui ero umano. Ma adesso, dopo millenni, la trovo così laidamente
inopportuna nel vostro mondo guasto da considerarla semplicemente una vetusta
abitudine borghese. Da puritani, da individui con scarsa visione del disegno
unitario. È come pretendere di guarire il cancro con uno sciroppo per la tosse.
Sono libero da tempo immemore da tali corruzioni del buoncostume. Perciò
comprenderà che, dal mio punto di vista, il gran numero di omicidi perpetrati
da Lord Voldemort ha potuto falcidiare una moltitudine di sentimenti
assolutamente disturbanti e molesti. E' stato... riposante, Miss
Granger. Lo devo ammettere. Ogni tanto, persino un’entità come me può trarre
piacere da cose come questa…”.
“E’ una cosa… disgustosa…” esplodo prima di potermi fermare,
mentre Draco fa un buffo cenno di gola, traducibile più o meno con “Stavi
rimproverando me… e poi sei decisamente molto più brava di me a farlo
incazzare”. Sbuffo, senza guardarlo.
Adamar torna a noi con espressione autenticamente divertita, ridendo
gaiamente. Ma nelle tenebre dei suoi occhi, è visibile qualcosa di sinistro e
di molto meno cortese. Rabbia. Me ne accorgo dalle vibrazioni che si
trasmettono ad alcuni manufatti di cristallo, sulla sua scrivania ingombra.
Tremano come se fossero impauriti.
“Mia cara…” ride affabilmente, guardandomi con dolcezza finta, una mano
contratta sulla scrivania “Non mi diventi come il suo sgarbato compagno.
Non ricevo molte visite, almeno non qui. E sono sempre stato affascinato
dall’arte sublime della conversazione. Ho sentito molto parlare di lei, Miss
Granger, so che ha delle doti dialettiche molto spiccate. Non troverò una
conversatrice così mirabile per molto tempo. Mi conceda perlomeno questa
parentesi di piacere in una vita di così opprimente fatica…”, la sua
voce si colora anche di una venatura volutamente ironica, accompagnandosi ad un
impercettibile movimento delle sopracciglia che mostra arroganza e presunzione.
Aggiunge quindi ovvio: “Mi preme anche sottolineare che finanche dura il mio
diletto, nonché il mio interesse in voi, potrò evitare di domandarvi che ci
facciate qui. Giungendo a dover prematuramente troncare le vostre speranze ed
aspettative di vita…”. La sua minaccia pare così gentile che, per un attimo,
passa quasi inosservata alle mie orecchie. Poi deflagra con potenza, seccandomi
la gola e ricordandomi con potenza che cosa siamo venuti a fare qui.
A morire,
sicuramente. Ad uccidere lui, irrealisticamente.
“Quindi conversiamo, sarà decisamente meglio per tutti…” soggiunge gaio
con un nuovo irritante sorriso, prima di chiedere con calma facendo un gesto
alla donna alle sue spalle: “Tè?”.
La donna fa comparire praticamente dal nulla, senza l’ausilio di alcuna
bacchetta, un vassoio con un servizio da tè antico di rame scuro, con delicati
intarsi. Per pochi secondi, in un gesto così semplice e casalingo, anche in lei
si rivela un enorme potere magico. Poggia il vassoio sulla scrivania porgendoci
due tazze dall’odore invitante. È Earl Grey, lo riconosco dall’odore di
bergamotto. Eppure, per un secondo, titubo all’idea di bere l’intruglio
preparato dall’affascinante tuttofare di un demone millenario: potrebbe anche
essere avvelenato. Poi, ricordo con tempismo che comunque vada, quest’essere mi
ha in suo potere. Non è nel suo stile propinarmi una bevanda avvelenata. Un
rimedio così banale per qualcuno di così potente è decisamente idiota.
Sorseggio quindi con calma il tè, attenta a non scottarmi.
Draco, invece, lo porta alle labbra ma non vuota la tazza.
“Domando scusa…” soggiunge d’improvviso Adamar profondamente contrito,
poggiando la sua tazza sulla scrivania con un piccolo clangore metallico “Non
vi ho presentato la mia diletta Eva. L’ho detto, troppa poca conversazione in
questi anni…”. La donna fa un cenno vezzoso con il capo come a volersi
presentare, sebbene sia stata presente in questa stanza fino ad ora. La luce
del sole che entra dalla finestra fa scintillare il cameo della rosa bianca al
suo collo.
Prendendo al volo l’occasione di tergiversare e di assecondare almeno
per ora la sua indole ciarliera di modo da capire quante più cose possibili su
di lui, chiedo non senza una buona dose di curiosità prendendo un lungo sorso
di tè: “Lei è… umana?”.
Adamar pare
sinceramente soddisfatto dalla mia domanda come se fossi un’alunna diligente e
rispettosa, e squadra Eva dalla testa ai piedi con uno sguardo frammisto tra il
rispetto, l’adorazione e la soddisfazione personale. Lei si ritrae umile,
piegando la testa.
“Lei è la
sola umana degna di vivere sul vostro pianeta…” sussurra Adamar, non distogliendo
un attimo lo sguardo da lei come se ne fosse infinitamente rapito “Per questo
le ho dato il nome della prima miseranda femmina della vostra specie, sperando
che un giorno tutto il mondo diventi come lei…”, i suoi occhi tradiscono una
vena reale di emozione, somigliante a quello che in un uomo chiamerei palpito
di cuore. Ma in verità, ancora, dubito che sia questo. Ha la gestualità di una
persona, non i pensieri e le intenzioni. Quindi sicuramente c’è sotto altro.
Torna quindi a guardarmi e previene le mie domande in modo quasi meccanico: “Ma
se mi chiede se Eva è come me, oppure se sia come lei, Miss Granger… la
risposta è quasi, per entrambe le
cose…”.
Quasi…
Quasi umana… quasi demoniaca… che cosa diamine è, allora?
Improvvisamente
tutto della donna mi pare clamorosamente artificioso, inumano, impossibile. La
pelle liscia, i capelli privi di imperfezioni, lo sguardo trasparente, i gesti
lenti. Persino la collana che porta al collo e con cui ora giocherella con due
dita. Non poteva essere umana… era naturale… cosa è allora?
“Mi ricordi,
Eva, cara, come ti chiamavi prima?” le chiede Adamar, poggiandole con
naturalezza e confidenza una mano sul fianco, esortandola ed invogliandola alla
risposta. Eva pare emozionata dal contatto, o almeno così dice la sua smania
improvvisa di rispondere. Eppure i suoi occhi restano assolutamente
indifferenti.
“Mi faccia pensare, Eccellenza… è passato così tanto tempo…”.
“Credo quasi trecento anni…” ride Adamar con il tono di voce di un uomo
avanti con gli anni che vagheggia sul tempo perduto.
“Non ho avvertito un secondo di queste decadi con lei, Eccellenza…”
mormora lei sicura, azzardandosi per la prima volta a guardarlo in viso, una
traccia di rossore sul viso pulito. Adamar le risponde con un sorriso a suo
modo grato, a suo modo persino romantico, da cavalier cortese. Ma so che non
prova amore… so che non prova niente… e quindi ancora di più, mi stringo alla
mia tazza ormai tiepida, chiedendomi come faccia a dissimulare così bene queste
emozioni umane. Eva ha un singulto negli occhi chiari, che sembra incredulo e
perplesso come se facesse fatica a ricordare e a capacitarsi che quello che
rammenta sia vero: “Adesso ricordo. Lucille Dubois. Mi chiamavo così…”.
I sensi mi si mettono subito in allerta.
Angelique e
Francois Dubois. I primi e gli unici che hanno provato la Solutio Damnationis,
prima di noi. Quelli che il nostro cortese ospite… ha fatto a pezzi.
La voce incerta chiedo dubbiosa, convinta che non possa trattarsi delle
stesse persone: “Dubois… come i fratelli della Solutio
Damnationis?”.
“Memoria
eccellente, mia cara” si compiace Adamar, guardandomi deliziato ed azzardandosi
persino ad un entusiastico battito di mani, causandomi un ulteriore spasmo
nello stomaco per quanto mi sia impossibile immaginare un collegamento tra lui
e le vittime della sua peggiore ferocia. Peraltro ha parlato di trecento anni… questa donna ha trecento anni… che il diavolo
ti renda davvero eternamente giovane?
Con i tempi
ci siamo.
Angelique e
Francois vissero durante la Rivoluzione Francese. Così ci ha detto Helder.
Di fronte al mio sbigottimento, Adamar spiega con lentezza enfatica: “Eva
era la sorella maggiore di Angelique e Francois. Empatica anche lei, come tutta
la sua famiglia. Aborrì ciò che fecero ai suoi congiunti… la creazione del
sentimento incestuoso di amore… e quando morirono, comprese la portata della
mia missione. Mi pregò di prenderla al suo servizio, di vincolare la sua vita
alla mia, di esistere fino a quando avessi bisogno di lei, di essere mia
ancella, compagna e confidente. Ammetto che all’inizio ero dubbioso, non ho mai
avuto bisogno di assistenza. Ma quando Lucille ebbe l’ardimento di pormi una
richiesta di cui nessun uomo mi ha ancora reso oggetto… mi soggiogò… una donna
dalla così consapevole lungimiranza non credo che sia ancora nata…”.
Lucille, o meglio Eva, ha un nuovo sorriso di profondo piacere, sembra
inarcarsi come un gatto che riceve le fusa: “Lei mi lusinga,
Eccellenza…”.
“Cosa… le chiese?” sussurro spaventata con un filo di voce.
Adamar fa un sorrisino beffardo, saputo, profondamente arrogante,
soppesandomi con un’espressione di profonda superiorità morale e fisica. Si
guarda persino le unghie per qualche istante ostentando nonchalance, e sorride
quietamente ad Eva che gli risponde calorosamente. Poi, sporgendosi, bisbiglia
bieco: “Silenzio del cuore. Eva mi chiese il silenzio del cuore. Totale,
irreprensibile, insondabile, invalicabile. Non voleva provare più nulla che non
fosse la devozione per me…”, rabbrividisco paralizzata, la sensazione di mille
granchietti ghiacciati che arrancano sulla schiena, sul collo, sulla nuca, sul
cuoio capelluto, ovunque.
Come uno
Zahir. Ma totale.
Ci ho quasi
rimesso la sanità mentale, perdendo un solo sentimento. Come deve essere stato…
perdere tutto… tranne l’adorazione religiosa per un demone?
Mi stringo nelle spalle, cercando di fermare il tremore improvviso che
mi ha preso le membra, costringendomi anche a serrare i denti. Non riesco
neanche più a guardare Eva, immaginando il tetro gelo che sente dentro: ho come
l’impressione che quegli occhi calmi e serafici possano succhiarmi via l’anima
dal corpo.
Adamar prosegue soffuso con il tono di una confidenza tra amici:
“Lucille sapeva che una parte di lei avrebbe continuato a provare avversione
per l’uccisione dei suoi fratelli. Quindi prese questa giudiziosa risoluzione.
E devo concedere che la sua cooperazione è stata oltremodo remunerativa in questi
secoli… Eva ha meno reticenze di me a viaggiare, trasmette la memoria della mia
esistenza a chi ha in sé la capacità di invocarmi. Se non fosse per lei,
probabilmente non avrei più menzione in questo mondo. Da una parte i babbani e
la loro fetida tecnologia, rinnegante di qualsiasi cosa incomprensibile alle
loro piccole e sciocche menti; e dall’altra parte i maghi, che non hanno la più
basilare conoscenza dell’origine dei loro poteri, nonché delle loro vite. Non
mi sorprende dunque che vi lasciate manovrare a scadenze regolari da tiranni in
cappuccio. Eva è diventata essenziale…”, ha un sorriso da diavolo, da mostro,
da inferno, oscuro e nero come la notte che fa rilucere gli occhi come se
fossero di fuoco liquido. Si fa indietro con la schiena, guardando Eva con una
risata, a cui lei risponde con uguale ilarità come se stesse raccontando un
aneddoto divertente: “…ma del resto avrei dovuto intuirlo da come sbrigò la
questione con quel tale inglese… Dorian Grey… fu davvero un momento… soddisfacente…”.
Impallidisco, mi ritraggo su me stessa e chiudo senza accorgermene la
mia mano sulle labbra fredde. Dorian Grey… una creatura da romanzo.
Un uomo che vendette l’anima… per essere eternamente giovane. E ne morì
devastato dal vizio e dall’immoralità.
Non era una storia. Non era un romanzo.
Era… vero.
Vendette l’anima a… lui.
Che
speranze… abbiamo io e Draco? Quali… se del suo potere malvagio e cancerogeno è
metastatizzata da millenni l’intera umanità?
La sensazione di impotenza, di terrore, di disgusto, diventa una
cascata di sudore freddo sulla schiena, inasprita ed esacerbata dalla visione
di Eva ed Adamar che continuano a sogghignare spensierati, come se stessero
rievocando qualcosa di sommamente ilare. Asciugo freneticamente i palmi sudati
sul tessuto dei pantaloni che porto, ricavandone solo un ulteriore sensazione
di fastidio bollente, mentre il respiro aumenta di frequenza e diventa sempre
più simile ad un rantolo scomposto, come se stessi andando in apnea.
È allora che, naturale come un angelo custode, la mano di Draco copre
la mia, la stringe forte e mi restituisce calma e coraggio. Lo guardo
terrorizzata, il viso cinereo, il respiro che non ne vuole sapere di
sciogliersi, gli occhi lucidi, l’ansia che mi gonfia il petto. Draco non fa
altro che simulare un lungo respiro profondo, costringendomi quasi ad imitarlo,
per poi scuotere impercettibilmente il capo, come se mi dicesse silenziosamente
di smettere di fare domande. Ha ragione. Io sarò anche stata il Capo degli
Auror… ma come conosce lui il male… non lo conosce nessuno.
Non si deve
mai lasciarlo parlare, fare domande, cercare di capirlo… ti trascina in basso
all’inferno, senza darti scampo alcuno.
Lui… il
male, lo conosce da anni.
Per quello è
stato zitto. Per quello non ha chiesto niente. Per quello ha esibito arroganza
tracimante rabbia.
Per non
farlo parlare… per non darsi spacciato,
per recuperare coraggio.
Non siamo
qui a cercare di resuscitare il bene. Siamo qui per battere il male.
E il male
non lo si sta ad ascoltare.
Accarezzo con il pollice il palmo della sua mano annuendo, dando segno
e cenno che ho capito che cosa mi sta dicendo.
Draco lascia la mia mano prima di commentare scocciato: “Possiamo arrivare
al punto della questione? Non siamo venuti qui a fare conversazione, o ad intrattenerti
amabilmente…”.
Adamar ha un moto di stizza nervoso, mentre viene interrotto dalla sua
piacevole rievocazione di atrocità con Eva. Ci guarda con espressione
disgustata, come se fossimo delle specie di ratti, storcendo le labbra in una
smorfia elegante di disapprovazione mentre osserva Draco. Ma stavolta non trova
alcun gesto di biasimo o rimprovero in me: anzi gli rimando lo sguardo al
mittente con forza.
“Signor Malfoy, se conoscesse le dinamiche della biologia, saprebbe
benissimo che al topo non conviene richiamare l’attenzione sull’appetito del
felino…” mormora seriamente, non prima di un raffinato ghigno di scherno
dipinto sulle labbra sottili “La sua compagna ha avuto decisamente più
buonsenso di lei, con il suo delizioso silenzio e la sua vereconda curiosità…
ma visto che ci tiene così tanto, possiamo anche dedicarci alle questioni che
più da vicino ci competono…”, prende fiato e ci dedica un’espressione neutra
come se fossimo appena entrati in casa, mentre incrocia le mani sulla
superficie del tavolo ed aggiunge sardonico: “A cosa devo il piacere della
vostra visita?”.
“Come a cosa devo il piacere?!” reagisce Draco con violenza, sbattendo
i pugni sulla scrivania e facendo incrinare lievemente una statuina antica “La
Solutio damnationis, razza di mostro! Siamo qui per questo! Non credo che ci
abbia lasciato molta scelta, bastardo… i Karkaroff hanno nostro figlio… e a
quanto pare ti sei sempre bellamente impicciato delle nostre questioni…”.
Spaventata dalla sua reazione, nonché enormemente di più dalla
ritorsione di Adamar, chiudo la mano sulla spalla di Draco cercando di
calmarlo, mentre spio con la coda dell’occhio la reazione del demone. Adamar
però non fa altro che sistemare la statuetta spostata dall’impeto di Draco,
rimettendola al suo posto, per poi sfregarsi con stanchezza annoiata una tempia
con due dita.
“Ah signor Malfoy, lei e la sua indignazione facile…” si rivolge
a me con espressione pietosa e compassionevole “Mi dica, Miss Granger, come
interloquisce con lui? Deve essere davvero snervante…”, non nego che
sono fortemente tentata dal rispondere piccata che non è una passeggiata di
salute stare nella stessa stanza con Draco Malfoy e un demone che giocano a
punzecchiarsi come ragazzini, ma soprassiedo, esibendo un’espressione incolore.
Draco, intanto, appoggia di nuovo la schiena alla poltrona, apparentemente più
calmo.
“So perfettamente che siete qui per questo motivo, vi ho sentito mentre
pronunciavate l’incantesimo davanti ai signori Karkaroff…” mormora scocciato
Adamar, schioccando la lingua con fastidio “Ma ho sperato che la nostra piccola
conversazione vi avesse dato il sufficiente tempo materiale per comprendere
quanto sia vano quello che siete venuti a cercare qui. Vi lascerei persino
tornare indietro se mi confessaste in tutta sincerità che avevate decisamente
sottovalutato le dimensioni di tutto quello che vi potrebbe accadere, se
doveste porre la vostra vita e la vostra anima in mano mia…”. Lo guardo con un
sopracciglio inarcato: non è che avessimo granché scelta se non questo.
L’abbiamo chiarito a noi stessi ed ai nostri cari in tutte le maniere
possibili. Non avevo alcuna priorità di venire qui, anzi. Quindi le sue minacce
sono abbondantemente inutili, giunti qui. Non ho nulla in comune con la causa
degli Empatici e, nel mio sano egoismo, potevo anche pensarlo ad infelicitare
la Terra con la sua presenza, purché non toccasse chi amo. Ma non ce l’ha
permesso. La dissuasione, adesso, è un semplice giochetto mentale… sembra che
gli piacciano, in fondo. Per questo ne vengo abbastanza irritata, incrociando
le braccia al torace in modo meccanicamente seccato.
“Ci risparmieremmo molti fraintendimenti nonché fastidi e disagi se
decidessimo di essere sinceri gli uni con gli altri. Quindi pretenderò da voi
la stessa dose di adeguata onestà che adesso vi tributo…” inizia con voce
monocorde Adamar ruotando lievemente con il busto, fino ad avere il panorama
della finestra davanti agli occhi e non più noi due, come se d’improvviso ci
trovasse repellenti “Vi riconosco un attaccamento genuino l’uno nei confronti
nell’altra, non siete vittime di un artificioso affetto indottovi come accadde
per gli sfortunati fratelli Dubois. Ma è il vostro solo punto a favore. L’unico.
Vi ho già detto che adoro le metafore? Rendono complicate immagini molto più
gestibili da qualsiasi tipologia di mente. Ve ne pongo una, dunque. La gazzella
è vittima e preda naturale del leone. Se le dessimo un’arma da fuoco, avrebbe
ogni mezzo per potersi difendere. Peccato che non saprà mai come utilizzare il
mortifero utensile. Ecco dunque cosa siete voi due con la Solutio damnationis.
Avete un’arma di incredibile potenza, ma non ne conoscete minimamente
l’utilizzo. Molto deplorevole. Gli Empatici ha una strana quanto
inconsueta abitudine ad indirizzarmi individui di cui io possa fare macero. La
Solutio damnationis mette alla prova un’emozione umana che ho già incontrato e
non distrutto per ben due volte. Nondimeno, gli uomini si sono incaponiti a
volermi battere con l’amore. Madornale errore, ne converrete anche voi. Siete molto
più puri ed eburnei nel disprezzo, nell’odio, nel rancore. L’amore è
un’emozione troppo multiforme, da potersi considerare pura per alcuno.
Necessita di vitale e quotidiano sostentamento di una gamma così ampia di
sentimenti positivi, da disgustarmi profondamente. Fiducia, speranza, forza,
coraggio, persino una certa ardimentosa dose di sano istinto al sacrificio e al
compromesso. E mi duole ammetterlo, ma il vostro sentimento è manchevole di
ognuna di queste gradazioni. Non eleviamo un’attrazione sessuale ed un becero
attaccamento emozionale ad un grande amore. Neanche in due individui del tutto
particolari come voi. D’accordo, avete doti complementari ed elevatissime
rispetto alla media della vostra razza. Ma non si esalta una mosca bianca in
uno stormo di insetti neri: è pur sempre un parassita che si nutre di letame,
mi scuso per la volgarità di questo infelice paragone. Analizziamo i fatti con
discernimento, volete?”, fa un lungo respiro profondo e torna finalmente a
guardarci, un’ombra di sorriso sulle labbra. Ha un ultimo sguardo per Eva, lei
non ha minimamente cambiato espressione a nessun accenno ai suoi famigliari.
Adamar quindi prosegue spavaldo: “I fratelli Dubois erano due Empatici dei più
valenti, vennero a me dopo mesi di estenuante addestramento, avevano nozioni e
preparazione incredibilmente accurate riguardo alla mia intera vita e alla
gamma dei miei poteri. Erano persino adorabili nelle loro pose militaresche e
nelle loro menti mute, così che io non conoscessi nulla dei loro pensieri e delle
loro debolezze. Erano oggetto di un sentimento oltremodo limpido, non come il
vostro così sporcato da emozioni negative. Scardinai le loro difese in dodici
ore. Ci avrei anche messo meno ma volevo punire la loro incredibile
supponenza. Prima demolii interamente le loro menti, annegandoli nella paura. E
quando non erano null’altro che fragili gusci tremanti di bieco terrore,
polverizzai le loro inermi membra umane. Ricordo ancora la fragranza del sangue
della ragazzina, Angelique. Mora di bosco e miele di lavanda. Dolcissima”.
Annaspo con un brivido all’espressione goduriosa e voluttuosa del
demone che sembra stia pregustando di nuovo quell’aroma fragrante. Mi porto la
mano alle labbra in preda ad un sinistro conato di vomito, che reprimo a
stento. Ad incentivare la mia sensazione, è sempre l’assoluta mancanza di
reazione di Eva.
“Che cosa sei, oltre ad un pazzo visionario?” esplode Draco con una
risata disgustata, guardandolo torvo “Un vampiro, anche?!”.
“Ah no, signor Malfoy. Fu semplice frenesia rabbiosa” lo corregge
bonariamente Adamar con un gesto noncurante della mano “Non riuscii a
contenermi dal farli letteralmente a pezzi. Mi creda, lei e Miss Granger non
correte almeno questo rischio. Non mi state ingannando, non siete così
ottusamente sciocchi. Se giungessimo davvero alla Solutio damnationis, avrei
enorme rispetto delle vostre spoglie umane. Concederei alle vostre famiglie il
ristoro di una degna sepoltura. Non vi state burlando di me, sento l’eco di un
affetto che vi ha unito e che ha generato il vostro adorabile figlioletto…”.
“Di cui lei ha avuto responsabilità nella nascita, non è così?” sputo
fuori tagliente, come se stessi ingurgitando veleno.
È la sola cosa che davvero sento come fastidiosamente perforante nel
mio cervello, persino più del pensiero di morire. Draco, accanto a me, ha un
movimento deciso della mano. La contrae e la rilassa un paio di volte, come se
si stesse trattenendo dallo spaccare qualcosa.
“Certo, Miss Granger. Dovevo esaudire le volontà della piccola Astoria
Greengrass. E nondimeno la richiesta della giovane Astoria era
straordinariamente incline ai miei stessi desideri, caso più unico che raro… del
resto ciò che è opposizione si concilia e dalle cose differenti nasce
l’armonia più bella, e tutto si genera per via di contrasto… lo diceva
Eraclito, un grande filosofo…” mi risponde Adamar con calma guardandomi in
tralice. Ha negli occhi qualcosa che mi sfugge, qualcosa che non comprendo,
specie in quella citazione colta che sembra attaccata con un pretesto. E che mi
fa congelare repentinamente sul posto.
La richiesta
di Astoria… quella di avere un bambino Malfoy… era incline ai suoi desideri.
Quali
desideri, maledizione?
Adamar fa volutamente sfuggire il filo di quell’allusione, proseguendo
atono: “La mia natura demoniaca non ha ancora
debellato tracce di una fervida e discutibile curiosità di stampo umano. Non so
se compiacermene o esserne ripugnato. Tale stranezza del mio temperamento è
stata ampiamente soddisfatta dalla nascita del vostro Alexander. Un fanciullo
eccezionale. Non ho mio malgrado alcuna dote di preveggenza del futuro, ma è
davvero semplice comprendere che diventerà un valente membro della sua stirpe.
Ha ereditato quanto di migliore aveste entrambi, ma c’è qualcosa di interamente
suo che potrebbe diventare fonte di enorme potere magico. La vostra avventura
con i signori Karkaroff mi ha consentito di conoscerlo molto prima del tempo
previsto, ne sono davvero lieto. Sarebbe nato probabilmente solo tra molti
anni… o non sarebbe nato affatto. Ma il mio intervento ha facilitato la sua
venuta al mondo. Avete generato vostro figlio in modo consenziente, ma ho reso
lei, Miss Granger, e mi scusi la crudezza di questo discorso, semplicemente più
fertile in quel dato momento. Non ha motivo di esserne colpita più di quanto
non sia prevedibile, visto l’enorme divario che caratterizza me e lei, nonché i
nostri potenziali, le nostre velleità, le nostre intenzioni. Mi creda, altri
non sono stati così fortunati da essere stati così marginalmente interessati
dal mio operare. In fondo, avete compiuto le vostre scelte con il massimo grado
di libero arbitrio possibile, eravate autenticamente attratti l’uno dell’altra,
persino… come si direbbe nel vostro caso?”, soppesa un attimo le parole con
espressione fintamente meditabonda, prima di pronunciare caustico: “Giusto…
eravate innamorati, scusatemi. È una
parola così abusata nel vostro mondo che la rigetto nel suo utilizzo. Dunque
gioite della nascita di quello che probabilmente resterà il vostro unico e
pertanto indiscutibilmente speciale erede. In un modo del tutto consequenziale,
dovreste anche porgermi i vostri ringraziamenti. Ma ho rimembranza della natura
fallacemente marcia che vi contraddistingue. Quindi non pretenderò alcun
omaggio in tal senso. Ribadirò solamente che è stata vostra specifica volontà
entrare nella mia orbita d’azione. Lei, Miss Granger, con lo Zahir. Il Signor
Malfoy, richiedendo il mio intervento.
Roteo gli occhi con una risatina, mormorando ironica, mentre incrocio
meccanicamente le braccia: “Ha parlato di essere onesti gli uni con gli altri,
no? Ed allora perché non ammette che ha sempre avuto un interesse in Draco?!
Perché non ammette che lo ha seguito da quando ha tradito i suoi genitori?”.
Un tremolio sulla mascella di Adamar mi informa immediatamente che devo
aver detto qualcosa di clamorosamente sbagliato, che l’ha infastidito
profondamente. La sua mano sinistra si stringe a pugno violentemente sulla
scrivania, come se si stesse trattenendo furiosamente dal chiudermele attorno
al collo. La nuca mi si inzuppa di sudore freddo, mi tiro indietro inutilmente
con la schiena e la mia mano corre alla bacchetta, come se effettivamente ci
fosse qualcosa da fare contro una sua reazione d’ira. Draco, a sua volta, si
sporge protettivo su di me, chiudendomi il polso con la mano e parandomi alla
sua vista con la sua figura. Gli stringo una manica della camicia come una
bambina, mentre fuori il panorama idilliaco che vedevamo cambia, si trasforma.
Il cielo viene solcato da pesanti nubi nere comparse all’improvviso che iniziano
a rovesciare acqua mista a grandine sui vetri delle finestre, sul tetto, sul
prato. Contemporaneamente si solleva un vento furioso, malsano, inumano, che
sembra voler scardinare la casa dalle fondamenta. Sbatte contro gli scuri come
una bestia in trappola, ambendo a noi e alla nostra distruzione. La sala cala
nel buio, la musica che ci ha accompagnato fino ad ora si interrompe
bruscamente sull’acuto della soprano. Mi aggrappo a Draco che mi stringe con il
braccio la vita, mentre nell’avvicendarsi dei lampi e dei tuoni, vedo solo gli
occhi sinistri di Adamar, adesso stranamente più allungati e dalla pupilla
sottile come quella di un gatto. Scintilla l’iride di oro facendoci luce,
mentre un’aura di colore nero l’avvolge completamente facendo ondeggiare i suoi
abiti. Un paio di soprammobili si infrangono, scaraventando di cristallo su di
noi. Draco mi copre, un frammento gli taglia la camicia all’altezza del
braccio, urlo preoccupata e spaventata chinandomi su di lui.
La voce di
Adamar supera la pioggia, il tuono e il rumore del cristallo che si rompe,
mentre urla con voce mostruosa: “Le solite paranoie umane. La solita indefessa
alterigia di ergersi al di sopra dei propri stessi simili nella convinzione di
essere diversi, migliori, speciali, unici. Non lo siete! Non lo siete mai
stati! Siete tutti identica feccia di universo che, per pura clemenza divina,
continuate ad insudiciare il globo! Rigurgiti di misericordia e di cattiveria,
impegnati a sbattere gli uni contro gli altri come cani rabbiosi! Come potrei
minimamente nutrire interesse in uno di voi? Che non sia un interesse allo
zittirvi per sempre, al rendervi creature mute ed incapaci di creare nocumento
a voi stessi?! Formiche, scarafaggi, ratti… che vomitano odio come amore, e che
in virtù di ciò da cui si lasciano manovrare, ammazzano, violentano, uccidono,
distruggono. Interesse… io proverei
interesse?! Dovreste solo che ringraziare che sia vincolato ad un codice di
onore che neanche nelle vostre più rosee aspettative di comprensione potreste
minimamente apprezzare, altrimenti vi avrei già estirpato tutti da questa
terra!”.
Nel suo
ultimo singulto di rabbia, la finestra si rompe ed il vento si abbatte nella
stanza, agitando fogli di carta e rovesciando oggetti a caso in un turbine
selvaggio. Quando ormai penso che è vicinissimo ad ucciderci, Draco si china su
di me chiudendomi tra le mie ginocchia e il suo corpo. Mi stringe forte al suo
torace proteggendomi la testa, ed a mia volta, mi stringo alle sue braccia, il
rumore del vento che mi impedisce di avere altri pensieri se non quello che,
per una sciocca arroganza, me ne sto andando prima ancora di aver davvero
provato la Solutio Damnationis.
Poi, soffice
come una piuma, la voce di Eva esplode di campanelle come se non stesse
succedendo assolutamente niente. Piatta, pacata, con il tono paziente di una
madre, dice soave: “Eccellenza, si calmi. È solo un’umana, non può comprendere…
non si agiti nel cercare di spiegare…”.
Tutto cessa
all’improvviso repentinamente.
Il rumore
della pioggia, il vento, il fragore degli oggetti distrutti. Quando Draco ha il
coraggio di lasciarmi andare ed io ho quello di aprire gli occhi, tutto è
tornato al suo posto. Il sole splende di nuovo fuori dalla villa, la finestra è
intatta, Adamar è di nuovo un attraente padrone di casa dallo sguardo giocondo
ed educato. Niente più occhi da diavolo: il respiro però non accenna a
decelerare nel mio petto. Continua furioso e forsennato e la mia mano si
artiglia a quella di Draco, incapace di lasciarlo andare. Discretamente, senza attirare
l’attenzione del demone, Draco mi accarezza il dorso della mano con il pollice
come a cercare di rassicurarmi. Gli getto un’occhiata che vorrebbe essere
ugualmente tranquillizzante, ma mi esce fuori solo un sorriso tremulo ed un
pigolio strozzato. Persino la sua camicia è perfettamente integra.
È il demone che abbiamo visto adesso, non la sua
incantevole copertura.
Ed è stata la cosa peggiore che abbia mai visto in vita
mia.
“Hai
ragione, Eva, mia cara. Un’imperdonabile défaillance…” mormora Adamar,
voltandosi per guardare la sua compagna che gli rimanda un sorriso
accondiscendente, inclinando la testa di lato
“Un’ammissione di collera è implicitamente un riconoscimento di
uguaglianza con queste infime creature…”. Senza cambiare espressione, si volta
su sé stesso e torna a guardare me con le sopracciglia sollevate per il
dispiacere. Il terrore che mi mostri di nuovo quegli occhi orribili mi fa
serrare nella mia la mano di Draco, fino probabilmente a bloccargli la
circolazione.
“Mi scusi
anche lei, Miss Granger. Ho perso la nozione di me stesso…” sussurra accattivante,
esibendo un tono così mortificato da spingermi quasi ad implorarlo di perdonare
me invece per averlo così sconsideratamente innervosito. Per fortuna, quella
considerazione fugace riesce a riportarmi alla ragione ed alla calma. Riprendo
a respirare normalmente, mostrandomi superiore e largamente non impensierita
dal suo scoppio infantile di nervosismo. Lascio la mano di Draco solo per
esibirmi in un gesto noncurante e distratto, quasi dicendo che non è nulla.
“Lei
d’altronde è solo l’affascinante pappagallino della gente empatica…” chiosa
convincente, scoccandomi uno sguardo di compassione che contribuisce ad
eliminare la paura e a far risorgere la voglia di spaccargli la faccia “Lei mi
ripete diligentemente solo ciò che ha sentito dire. Non posso darle eccessive
responsabilità o volizioni nelle sue inopportune e scorrette supposizioni…”.
Evito di rispondergli altro, ma gli scocco uno sguardo spavaldo e per nulla
intimorito, a dimostrazione che la sua sceneggiata precedente è stata un abile
trucchetto, ma niente più di questo.
Riprende
quindi il filo del discorso, spiegando con convinzione: “Non ho mai avuto
interesse in Draco Malfoy. Se poi dobbiamo parlare di interesse alla vostra volgare e semplicistica maniera… è sempre
stato solo quello di… metterlo a tacere…”,
sussulto lievemente ma cerco di non darlo a vedere. Draco, invece, resta
assolutamente inerme, le braccia incrociate, come se questo discorso non lo
riguardasse affatto.
Adamar
riflette per qualche secondo, poi argomenta i suoi pensieri come se si
sforzasse di farceli intendere alla perfezione: “Si immagini una notte in cui è
particolarmente spossata da una lunga giornata di lavoro, finalmente è a letto
e il silenzio l’avvolge dolce e totale. Si immagini che, d’un tratto, nella
stanza irrompa il fastidioso gocciolare di un rubinetto che perde. Lo ignora,
chiude gli occhi, nasconde la testa sotto il cuscino e cerca di addormentarsi.
Ma il tediante suono si ostina a ripetersi costante nelle sue orecchie,
destandola ed impedendole di dormire. Ecco
cosa è Draco Malfoy per me…”.
“Io sarei
presente nella stanza al momento…” sbuffa Draco infastidito “Potremmo anche
evitare di definirmi un rumore fastidioso…”.
“Mi scusi,
signor Malfoy…” sogghigna Adamar, guardandolo con autentico divertimento “Era
il solo modo di rendere il concetto semplice e digeribile anche per voi. Lei
non è un’eccezione così rara, non è un qualcosa di così unico della sua specie.
Devo dire di essere stato molto tormentato da personaggi come lei in passato. L’evoluzione della società umana ha
notevolmente accelerato e diversificato le modalità di espressione dei
sentimenti umani, difficilmente riuscite al momento a tacitare ciò che sentite
e provate. Avete decine di strambe diavolerie con cui esprimere ciò che di
abietto vi scorre dentro. Io colgo soprattutto l’inespresso, il represso, il
nascosto. Ciò che non confessate neanche a voi stessi, nel silenzio e nel buio
delle vostre camere. Ebbene, secoli fa, nulla si esprimeva di personale, i
cuori scoppiavano di infami segreti e di passioni nefaste, credo fosse a causa
di un’educazione fortemente nobiliare e resa bigotta dalla religione. Ora non è
più così, incontro altri problemi nella mia quotidiana gestione della vostra
razza… ma non ne parlerò adesso con voi. Ebbene i sentimenti repressi, essendo
celati, sono ben più forti. E mi causano terribile insofferenza ed
incommensurabile assillo. I sentimenti espressi sono invece scocciature tutto
sommato tollerabili. Dunque, se incontro un individuo che ha ricevuto
un’educazione di vetusto stampo e dunque è abituato alla repressione di sé,
alla noncuranza, all’indifferenza, può ben comprendere quanto tarlo mi
provochi, specie se è ormai uno dei pochi su questa Terra…”, non capisco
minimamente dove voglia andare a parare con il suo discorso. Non sta dicendo
nulla di così singolare da qualificare come poteva essere interessato a Draco.
Adamar quasi
previene, però, le mie rimostranze, mentre soggiunge: “Però, potreste
giustamente obiettare che anche in Oriente vi sono ancora forme di educazioni
similari e non ne traggo il medesimo tormento. E a quel punto, vi spiegherei
sommariamente che Draco Malfoy è abituato alla noncuranza di sé… ma non è lo
stesso per il suo cuore…”.
È a quel
punto che taccio improvvisamente chiudendomi nelle spalle, ricordandomi con una
nitidezza accecante prima rimasta sepolta, che siamo qui davanti a questo
demone a farci sviscerare il cuore e l’amore che dovremmo provare l’uno per
l’altra. Quello che sta dicendo… non è per me una novità. Lo è certamente meno
per Draco che, in tono violentemente veemente, chiede con foga: “Che diamine
significherebbe?!”. Adamar mi lancia uno sguardo d’intesa, che si traduce
persino in una scrollata di spalle d’impotenza e di presunto riconoscimento
della banalità della domanda del mio compagno.
Ho sempre
saputo che Draco finge continuamente un disinteresse puro per ogni cosa, ma
che…dentro… non è affatto così.
Ribolle, rifiorisce ed annaspa di centinaia di cose diverse, da far impazzire.
Paradossalmente, Draco Malfoy è una delle persone più sensibili che conosco: ha
una lucida e meravigliosa attenzione per qualsiasi particolare ispirante la più
ampia gamma di sentimenti. Abbraccia amore come accoglie odio, non rinnega mai
nulla di quello che sente e prova. Ma, siccome è semplicemente… troppo… molto più delle persone normali…
fa finta di non accorgersene. È un meccanismo di difesa: il solo modo che gli
hanno insegnato.
Ovvio che,
se Adamar lo percepisce, per lui sia stato un tormento ed un desiderio continuo
tacitarlo. Sporcando la sua anima, spingendolo a chiedere il suo aiuto, lo
avrebbe ucciso quel massacrante riflesso di viva umanità.
E, visto come lo guarda… come si guarderebbe un dolce…
non penso che si sia ancora arreso a quell’idea.
“Signor
Malfoy, la sua continua provocazione nei miei confronti sarebbe persino ilare
se comprendesse quanto abbia io e sempre il coltello dalla parte del manico…”
sorride bonario Adamar, fissando Draco con compassione dolciastra “Devo forse
rivelare quanto e cosa provi per quella donna, che le siede accanto? Quanto
confonde costantemente adorazione e desiderio, con rabbia e rimpianto? Prova
così tante cose nello stesso momento da ammattirmi…”, mi piego su me stessa
quasi a volermi rendere invisibile e cancellarmi da questa conversazione,
mentre Draco si muove a disagio sulla sedia come se temesse che dica qualcosa
di più del necessario. Adamar sorride ancora serafico, poggiando il mento sulle
mani incrociate e snocciolando con voce ferma: “Da quando è qui, è stato preoccupato per lei, infastidito da lei, affascinato da lei, infuriato
con lei. E tutto questo, sempre, nell’arco di pochi secondi. Se non crede che
ne possa ricevere indubitabile oltraggio, allora dovrò ripetere il mio
ragionamento di poco fa con termini ben più semplici… è sempre stato così per
tutto ciò che ha riguardato Hermione Granger…”. Non sollevo lo sguardo neanche
per caso fingendomi profondamente interessata alla moquette verde smeraldo. Non
sta dicendo nulla di nuovo, né per me, né tantomeno per Draco immagino. Eppure
il terrore che vada a scavare in qualcosa di così profondo da non voler essere
ancora né sentito, né affrontato a viso aperto da me o da lui, mi fa soffocare
di vergogna ed imbarazzo. Ed è assurdo che adesso tema più questo, piuttosto
che concretamente l’ipotesi che ci ammazzi su due piedi.
“Per questo
ho compiuto l’enorme errore di valutazione di considerare lei, signor Malfoy,
completamente scevro da sentimenti per l’incantevole donna che le siede
accanto…” si giustifica frettolosamente Adamar, riprendendo a parlare con voce
tranquilla, Draco continua a dimenarsi sulla sedia come se fosse punto
dall’ansia di interromperlo “Ha celato l’amore a sé stesso fino a quando ha
potuto. Lo cela ancora adesso, sebbene per motivi differenti. Tornando a noi,
crede che un sentimento simile, sporco per lei al punto da rinnegarlo sempre e
da accettarlo solo quando ne ho può fare più a meno, possa davvero nuocermi in
qualche modo? Parliamoci chiaro, signor Malfoy. La osservo da così tanti anni
che posso ardire di parlarle in modo franco…”. Fa una terribile e lunghissima
pausa, studiata al punto tale da indurmi ansia anche solo con il senso
dell’attesa.
Persino il
tempo sembra sospeso. Non sento neanche più il suono degli uccelli, fuori dalla
finestra.
Quando
riprende a parlare, ha una voce completamente diversa, che faccio fatica a
riconoscere e che mi fa drizzare la schiena. E’ lenta, lamentosa, scandita,
sporcata da un accenno quasi di pianto malinconico somigliante ad una nenia o
ad una ninna nanna. Ma è storpia, storta, orrendamente grottesca e
cantilenante, al punto da spingere a chiudere gli occhi per un contraccolpo
sonnolento.
Quando
sollevo lo sguardo, seguendo le sue parole, vedo che Draco non si muove più. E’
immobile, fermo, grigiastro nel volto e con le labbra bluastre. Lo guarda con
gli occhi spalancati, le labbra semi-socchiuse e l’espressione stravolta.
Preoccupata, sconvolta, mi volto verso Adamar sgomenta e noto finalmente che ha
di nuovo quegli orribili occhi di poco fa.
Dorati, con
la pupilla stretta.
Continua a
parlare con voce monotona e monocorde, come se stesse soffiando fuori una
filastrocca vecchia: “Lei, signor Malfoy, non è semplicemente nato per questo. Per le relazioni, per
l’impegno costante di prendersi cura di qualcuno, per essere genitore. Mi
creda, incontra tutta la mia compassione in questo, l’umanità è da sempre
terribilmente incline a dare rilevanza a tali dimessi palliativi per la
solitudine a cui intimamente siete obbligati. Ed anche lei, nel suo profondo,
ha un’aspirazione perenne a vincere il suo endemico stato di eremo, ma… semplicemente
non le riesce. Crede di essere maturato dai tempi di Helena Greengrass?
Certo che sì, si prende cura della sua adorabile e vezzosa figlioletta, ha una
magione rispettabile e curata, adorna le pareti di foto del suo passato…”.
Sta cercando di suggestionarlo, sta cercando di
convincerlo… che ha ragione…
Draco
diventa sempre più bianco in viso, temo quasi che spirerà senza che io possa
impedirlo e senza che cambi espressione. Mi guardo attorno, spaventata,
cercando qualcosa che io possa fare per fermare la litania del demone. Ma un movimento
impercettibile di Eva alle spalle di Adamar mi fa supporre che mi ammazzerebbe
lei stessa se osassi fare qualcosa. La sfido con lo sguardo, non mi spaventa
affatto ed anzi estraggo la bacchetta mostrandole che non ho assolutamente
paura di misurarmi con lei.
Eva, però,
volutamente mi ignora, muove solo le labbra un paio di volte, sillabando
qualcosa. E semplicemente così, in pochi soffi di fiato, annulla ogni mia
energia. Ogni mia volontà.
Improvvisamente…
è come se dovessi solo ascoltare, solo stare ferma, solo sapere che non è
questo che ucciderà Draco Malfoy, solo rassicurarmi che non accadrà nulla di
irreparabile.
Mi lascio
andare passivamente a quella forza sconosciuta, mentre Adamar continua a
parlare convincente, raccontando quella che, a suo modo, ritiene la verità.
Quella che
anche Draco, ormai livido, ha sempre ritenuto essere la verità.
Quella che
persino io, a mio modo contrastato ed indocile, ho spesso sperato che non fosse
la verità.
“Io e lei
sappiamo che non è così, signor Malfoy…” continua Adamar, lanciandomi uno
sguardo obliquo di soddisfazione di fronte al mio gelo calmo “Avanti… non
divertiamoci in un triviale giochetto nel quale ci fingiamo migliori di quello
che siamo. Lei rovina tutto ciò che ama, lo fa a pezzi perché è convinto di non
poter essere sul serio oggetto di affetto e di sentimenti sinceri. Dissemina di
trabocchetti il sentiero per arrivare a lei, gloriandosi della facilità con cui
gli altri individui sovente vengano sopraffatti dalla raffinatezza signorile
delle sue tagliole. Prospera e fruttifica in infeconde storie da letto, come
quella con la procace signorina Karkaroff. Avrei davvero benedetto una vostra
unione. Un tale carico di rancoroso insulto alla vita e all’amore meritava una
possibilità. A lei, signor Malfoy, non interessa essere amato: interessa
dimostrare che non è degno di esserlo.
Ci pensi. Ci rifletta su. La donna che le siede accanto… è un’amazzone. Una guerriera. Ha lottato per lei dal giorno in cui
sciaguratamente ha capito di amarla. Ha messo persino al mondo il vostro erede
ed era sola, senza alcuna evidenza di rincontrarla. Invece, signor Malfoy, lei
è sempre fuggito. Le ha persino offerto in dono un anello maledetto per indurla
alla ritirata. Il suo inconscio è straordinariamente autorevole nella
premeditazione dei suoi fallimenti. Nondimeno, se vogliamo essere del tutto
schietti, non è neanche propriamente una sua esclusiva mancanza. È lapalissiano
che non sappia che significa lasciarsi amare, dato che i suoi stessi genitori,
scegliendo la sicurezza ed il potere al suo posto, le hanno dimostrato
precipuamente che non era degno di essere amato. Un’efficiente profezia, la
loro. Preconizzatori di quello che lei, prima o poi, avrebbe fatto loro. Credo
che si dica occhio per occhio, dente per dente: curiosa espressione che denota
rozzezza, ma indubbiamente è un sintagma lessicale potente. Le metafore sono
l’unica cosa salvabile della vostra comunicazione sciatta, ve l’ho già detto,
vero?”, ha un sogghigno che gli lascia scoperti i denti bianchi, come se si
affannasse a calarglieli nella pelle del collo. Quell’ombra maledetta nello
sguardo, quell’improvvisa certezza che potrà
anche non ucciderlo fuori ma lo sta ammazzando
dentro, rompe con il fragore del vetro rotto l’incanto indottomi da Eva.
L’ansia, l’angoscia e la preoccupazione tornano prepotenti nel mio petto,
mentre Adamar aggiunge venefico verso un Draco ormai ad occhi chiusi,
abbandonato contro lo schienale della poltrona: “L’hanno tradita. E lei ha fatto lo stesso con loro. L’amore
filiale è sempre così dannatamente commovente,
vero, Eva? Come potrebbe lei, dunque, amare a sua volta?”.
La sola cosa
che riesco istintivamente a pensare di fare per metterlo a tacere, è mettermi
ad urlare a mia volta: “Smettila! Lascialo stare! Immediatamente!”.
Le corde
vocali mi vibrano per il contraccolpo, ma per fortuna la nenia del demone si
interrompe: di nuovo i suoi occhi tornano normali, mentre mi tributa uno
sguardo sorpreso e meravigliato, prima di un sorriso derisorio e cautamente
ammirato. Mi avvicino a Draco sfiorandogli la guancia, ma lo vedo
immediatamente riprendere colore, tornare calmo nel respiro e scuotere la testa
come a cancellare quelle parole dalla sua testa. Non so se ci riesca
effettivamente, ma si limita a rispondermi con uno sguardo sofferto ma tutto
sommato sereno.
“Mi scusi
Miss Granger, non volevo ignorarla così a lungo…” mormora serio Adamar,
guardandomi. Noto immediatamente che stavolta tocca a me. Me ne accorgo da come
iniziano a mutare i suoi occhi, da come mi chiamino alla loro vista come se non
ne potessi fare a meno, da come tutto inizia ad apparire lontano e sfocato ad
eccezione della sua voce cavernosa e piagnucolosa.
“Non sia mai
che qualcuno la ignori troppo a lungo, vero?” mi chiede ironicamente, mentre mi
volto verso di lui. Stringo le palpebre in un ultimo singulto di volontà,
cercando di tenere fuori l’eco malvagio delle sue iridi dorate ma lo sento
ugualmente entrarmi nelle ossa, nei pensieri, nel cuore, mentre ripete
carezzevole: “Le riconosco grazia e forza, intelligenza ed ostinazione, ma non
mi dica sul serio che ha mai davvero investito in questa quantomeno inusuale relazione? Lei non è semplicemente
nata per questo. È un’eroina di
guerra, la strega più brillante della sua generazione, la prima della sua
classe. Ho memorie tangibili di lei, sin da quando era solo una bambina. La
seguo fin da allora, sa? Sentivo così tanto parlare di lei, che era diventato
un vezzo irrinunciabile in secoli di monotona osservazione della mediocrità
umana. L’ho vista eccellere nel pianoforte a cinque anni. Avere la meglio su un
troll di montagna ad undici. Risolvere l’enigma del basilisco a dodici. Ho
spesso potuto assistere alle sue mirabolanti imprese, fino alla caduta del
Signore Oscuro e alla sua ascesa come Comandante degli Auror. Aveva una
sfolgorante carriera davanti a sé, bastava allungare la mano per appropriarsene
in modo meritato. Ma lei, mia cara, si è fatta vincere dal tradimento del suo
innamorato. E lì è cominciata la sua discesa negli inferi: e solo così, solo in
questo tortuoso e discutibile modo scelto dal destino, ha potuto incontrare il
signor Malfoy…”. Le sue parole mi convincono come se mi stesse raccontando una
verità da sempre negata a me stessa, come se avesse sempre avuto ragione e io
fossi stata solo troppo cieca per accorgermene. La luce sinistra dei suoi occhi
è d’un tratto così forte che chiudo gli occhi vinta ed arresa, reclinando il
collo sulla sedia. Sento lontana la voce di Draco, ma non riesco ad afferrarla,
schiacciata da quella di Adamar: “Di base, miss Granger, ha semplicemente
abdicato a sé stessa e alla sua natura, per amare un uomo così corrotto e
marcio come il signor Malfoy. Ci rifletta su. Ha sempre candidamente ammesso
con sé stessa di odiare sé stessa, amando lui. La posso però ampiamente
rassicurare rivelandole che, molto probabilmente, il suo sentimento è fiorito
in condizioni estreme in cui non era in pieno possesso delle sue facoltà e doti
intellettive, e dove progressivamente ha cercato giustificazione per le
pulsioni fisiche che aborriva provare per quest’uomo, mascherandole nell’egida
di un profondo ed incontrastabile sentimento. D’altronde è una fanciulla testarda
e caparbia e si deve essere anche impuntata nella missione impraticabile di
salvare un uomo impossibile da redimere. È una caratteristica comune degli
individui di sesso femminile ungersi il capo d’olio sacro ed armarsi di divina
pazienza, convinte di poter cambiare i loro compagni. Le do abbondante merito
di aver sostanzialmente trainato l’esito di questa relazione, nella totale
inerzia del signor Malfoy. Ma non può realisticamente credere che sia sempre
stato questo il suo destino, frustrerebbe enormemente il suo intelletto
pensarlo. È qui per un mero incidente del caso, nonché per la progressiva
deteriorazione della sua sicurezza a causa delle disastrose relazioni con il
signor Weasley e il signor Thomas. Soltanto questa sua versione, mi permetta di
dirlo, difettosa, può concepire di
amare Draco Malfoy. Ci sguazza nel guano di questa vita al di sotto delle sue
reali possibilità perché ha un’indole irritante incline al perfezionismo, e non
perdonerebbe a sé stessa ulteriori errori di valutazione. Dunque, una scelta
clamorosamente errata l’ha trasformata nella sola possibile, l’ha persino
elevata ad un qualcosa di desiderabile che l’ha resa migliore. Ma in fondo a sé
stessa sa che non è così. In fondo a sé stessa, sa che giustifica il suo
sentimento solo per dare un padre a suo figlio ed ancora trovarsi oltremodo
criticabili alibi per perdonarsi di essersi eternamente legata a lui persino
con un bambino, sebbene così grazioso…”. Ha
ragione, sì, ha ragione, ha sempre avuto ragione…
La mia
volontà, ormai, è quasi completamente annullata, mi sento annegare in una sorta
di gelatina stopposa che mi avviluppa i pensieri.
Chiudo gli
occhi enormemente stanca, ma felice e soddisfatta, come se avessi trovato
finalmente la quadra del cerchio e fossi libera infine.
“Mi permetta
di darle un consiglio personale assolutamente disinteressato…” aggiunge ancora
Adamar con il tono dimesso di un vincitore schivo “Ricostruisca sé stessa
mediante il prezioso aiuto del signor Radcenko… ha un bel patrimonio genetico, il signor Radcenko… Aleksandra
Fëdorovna Romanova… sbalorditivo…”, chi diamine è Radcenko? Il nome… questo nome… mi sembra… familiare… “La
ama in modo del tutto sincero…”, ma
certo, che idiota… Ilai Radcenko… il marito di Tatia Krasova…
ora ricordo. Lui è innamorato di me, è vero… sta rischiando la vita per me e
per mio figlio… i miei occhi si aprono appena, come in un’assolata mattina
di domenica dove la riluttanza a svegliarsi confonde veglia e sogno.
Solo che io
non ho davanti a me il sole… ma quegli occhi malati da diavolo.
“A quanto
pare, si è accorta dei suoi sentimenti anche di recente…” insinua Adamar con un
filo di voce appagato, ed è lì che avverto di nuovo la sensazione di un fragore
di vetri nella testa, assieme alla sensazione di uscire dall’apnea.
Ilai. Ilai che mi ama. I suoi pensieri. Il matrimonio.
Nostra figlia. Io che sono innamorata di lui.
“Assonanti
alchemici, un classico. Mi lasci indovinare? Telepatia empatica… deve essere
stato straziante…” prosegue Adamar convincente, ma io ormai non lo ascolto più.
Io che sono innamorata di Ilai. Draco che è qui, Draco
che non lo deve sapere, nessuno lo deve sapere. Neanche io, neanche Adamar,
neanche Ilai. Nessuno lo deve sapere.
Non lo deve sapere nessuno. Se non lo sa nessuno, se me
ne dimentico, non è mai esistito.
Spalanco gli
occhi, torno dritta con la schiena, mentre Adamar termina con voce atona: “Non
deve per forza finire così, mia cara signorina Granger. Torni da lui. Si
dimentichi di una parte di sé che non le appartiene affatto. Sarà straordinariamente
più semplice così… non è stanca di combattere sempre da sola, per un uomo che
non l’amerà mai come merita?”.
Le sue
ultime parole, però, gli muoiono in gola.
Infrangendosi
come il vaso di cristallo che faccio rompere in mille pezzi, il fiato corto,
puntandogli contro la bacchetta.
Adamar,
tornando alla sua forma normale, mi guarda di nuovo con quel senso sdegnoso di
orgoglio frammisto ad ammirazione, nonché ad una punta di quieta irritazione e
fastidio. Mentre riprendo fiato mi accorgo che Draco è in piedi, un braccio
teso contro Eva a puntarle la bacchetta in direzione del torace. Anche lei,
nonostante la sua solita maschera impassibile di fierezza fredda, appare
lievemente impallidita. Deduco quindi che Draco non si è fatto incantare dalla
sua magia tranquillizzante ed anzi ha cercato di fermare il demone minacciando
lei. Non so se avrebbe avuto effetto in ogni caso, ma almeno mi rassicura sul
fatto che sia riuscito a contrapporsi alla loro malia. Non appena vede che ho
ripreso lucidità, si avvicina a me chiedendomi sommesso e preoccupato: “Stai
bene?”.
Annuisco
senza forze, la voce ancora in gola ed arenata dal fiatone. Mi specchio nei
suoi occhi grigi, cercandovi tracce della possibilità che abbia udito le parole
di Adamar in riferimento a me ed Ilai. Ma non trovo qualsiasi violento riflesso
che mi farebbe capire che ha intuito qualcosa o che si sta chiedendo che cosa
sia accaduto in riferimento alla telepatia empatica. Quindi, il mio respiro
finalmente si rilassa e calma sotto lo sguardo ancora sommessamente divertito
di Adamar che, invece, dal canto suo ovviamente freme entusiasta.
Lo guardo ad
occhi socchiusi, mentre Draco si erge di nuovo eretto.
Gli ho
offerto, mio malgrado, il mio peggiore nervo scoperto: la consapevolezza di
amare un’altra persona oltre Draco, nonché l’angoscia che lui lo scopra.
Difficile che non usi tutto questo a suo favore, anzi… sarà il suo grimaldello
privilegiato per farmi a pezzi. Probabilmente lo supponeva già, visto com’è
andato a colpo sicuro nominandomi Ilai. Del resto condivide la conoscenza dei
Karkaroff, ovvio che abbia notato che io sia legata ad Ilai.
La Telepatia Empatica… come faceva però a saperlo?
In un modo
però imperscrutabile, comprendo improvvisamente che non è una cosa negativa che
lui sappia questo. Anzi, sorrido interiormente, non lo è affatto. Come
supponeva Helder, più ci crede lontani, più abbassa la guardia. Più è convinto
che il sentimento tra me e Draco sia estinto e più supporrà che sarà facile
distruggerci.
Sbagliando,
naturalmente.
Helder ci ha
spiegato che la sua grande pecca, adesso, è che non riesce appunto ad
immedesimarsi nei sentimenti delle persone. Per lui, quindi, comprendere che io
ami Ilai esclude automaticamente che io ami anche Draco. Invece, questa netta
semplicità non è tipica del cuore di nessuno. Si ama, purtroppo, in decine di
modi diversi e in decine di modalità contemporanee. Ma ovviamente a me conviene
che pensi tutto questo. Certo, sarebbe stato meglio non reagire in modo così
affrettato… ma devo proteggere Draco da questo.
Non lo deve sapere nessuno. Se non lo sa nessuno, se me
ne dimentico, non è mai esistito.
Io posso, a
malapena, convivere con me stessa e con questo segreto.
Lui,
semplicemente, non ce la farebbe.
Del resto,
però… c’è qualcosa che mi sfugge. Dubito che questa sia la Solutio damnationis:
questo giochetto di ipnosi mentale, dove ci dice velatamente quello che noi
stessi già sappiamo. Ne dubito perché in fondo non è poi così impossibile
infrangerlo e la Solutio damnationis… non dovrebbe essere così, altrimenti
avremmo già vinto e tanti saluti. Inoltre, ha un’arma così potente come i miei
sentimenti per Ilai da rivolgere contro Draco… eppure non lo fa. È come se
stesse semplicemente… giocando. È un
demone, certo, magari si diverte così. Ma ha già ampiamente dimostrato di
essere pragmatico. Fa le cose per scopi ben precisi, mettendoci efferatezza
solo se ben finalizzata ai suoi scopi.
Quindi… sta
perdendo tempo.
Perché? Mi
chiedo, soppesandolo con lo sguardo. Poi, sebbene stia guardando l’ennesimo sorriso
soddisfatto del suo volto, comprendo con velocità che cosa sta accadendo.
Vuole convincerci a non provare la Solutio Damnationis.
Vuole che torniamo indietro, capendo di essere spacciati. Non ha messo in mezzo
Ilai per distruggere Draco. No. L’ha messo in mezzo perché vuole darmi un
elemento per tornare indietro.
Mi scappa un
sorriso quasi di trionfo mentre lo squadro senza soggezione, avvolta da un
nuovo ed insperato calore. È così maledettamente potente e dannato e per questo
è difficile accorgersene… ma ha paura della Solutio Damnationis. Ne è
terrorizzato. Ed è l’unica cosa che non pensavo davvero che potesse accadere:
che avessi persino una remota chance di farcela, visto che ci teme.
… e ci teme
perché, in fondo, per lui siamo come due mine vaganti. Non sa davvero che cosa
proviamo l’uno per l’altra. Non lo riesce a capire.
Del resto non lo capiamo neanche noi… figuriamoci se può
capirlo lui…
Non sa
soprattutto che deve temerci per un altro importante motivo. Il più importante.
Nostro figlio.
Io e Draco possiamo essere ai lati opposti della vita,
del mondo e dell’amore, adesso.
Ma c’è una cosa che non ci separerà mai: Alex.
Mentre
continuo ad inseguire il filo logico dei miei pensieri, Draco si rivolge ad
Adamar con voce stufa sillabando un: “Hai finito?”.
Il demone
trasale per la prima volta da quando l’abbiamo incontrato, autenticamente
meravigliato, chiedendo stupefatto: “Che cosa?”. Persino Eva a suo modo sembra sbalordita.
La sola che
invece sorride e sembra assolutamente consapevole di che cosa sta accadendo,
sono io.
Anche Draco l’ha capito. Ha capito che sta facendo.
A suo modo sicuramente…
ma ha capito anche lui.
Lo guardo quasi
orgogliosa, mentre mormora con tono di voce volutamente pedante, incrociando
stancamente le braccia al petto: “Stavo semplicemente chiedendo se hai finito,
perché in caso contrario mi faccio un altro solitario mentale di carte. O
magari la tua sguattera qui mi porta un’altra tazza di tè… almeno ho
un’occupazione mentre continui a ciarlare in maniera inutile…”.
“Ciarlare in
maniera inutile?!” erompe Adamar con una risata nervosa e scandalizzata, mentre
getta uno sguardo sconcertato ad Eva “Negherebbe pertanto che io stia dicendo
la verità, signor Malfoy?”.
“Oh no, mio caro. Le tue argomentazioni
veritiere vanno assolutamente al segno…” commenta Draco, scimmiottando la sua
voce e poggiandosi con un fianco alla scrivania in posa negletta “Fanno persino male. Te lo riconosco. Ma
credi forse che io e la Granger non ci siamo abituati? Credi forse che la nostra relazione sia stata un’allegra
passeggiata tra le rose, per usare una metafora a te gradita? Credi forse che
non abbiamo già provato tutto il male possibile in questi anni? E credi forse
che, dopo quello che io ho fatto a lei e dopo quello che lei ha fatto a me,
esista ancora qualcuno che possa farmi lo stesso male che può farmi lei solo
con una parola? Demone, sei un moccioso che mi punzecchia per
avere il gelato in confronto a lei…”, trattengo il respiro chiudendo gli
occhi, il sorriso di fiducia che si smorza un po’, mentre lui prosegue amaro,
ma indiscutibilmente sincero: “Il bello e il brutto di questa… relazione… è che ho concesso solo a lei
in tutto l’Universo di avere ancora il potere di farmi davvero male. Credimi abbiamo esaurito il male che ci possiamo
fare… consolati che abbiamo esaurito anche il bene che ci possiamo fare,
facendo nascere nostro figlio, quindi l’avrai vinta con questa dannata Solutio
qualche-cosa. Tutto il resto è solo pappa insipida che mi rende al massimo
annoiato”.
Sento l’eco delle
sue parole in un punto soffuso del mio cervello e del mio cuore, ma le lascio
andare concentrandomi solo su quello che ha capito anche lui.
Adamar sta perdendo tempo. Ci sta solo tormentando
inutilmente.
“Lo
sconcerto è qualcosa che non provavo da diversi lustri. Le riconosco il merito
di avermi indotto il ricordo di questa sensazione…” commenta asciutto Adamar,
scoccando a Draco un’occhiata penetrante subito prima di guardare me con un
sorriso storto: “Se lei prova solo noia
al momento, crede che la signorina Granger qui provi la stessa cosa che prova
lei? Magari sta davvero riflettendo sul senso delle mie parole…”. Torno a
guardarlo, come se mi avesse punta un ago, drizzandomi sulla sedia.
“Figuriamoci
se la Granger è d’accordo con me, demone…” dice Draco noncurante, prima di
guardarmi con espressione riflessiva e sorridermi piano, dolcemente. Gli
sorrido a mia volta, arrossendo e dimenticando le parole che ha detto poco fa,
mentre continua delicato non smettendo di guardarmi: “Ma la conosco quell’espressione.
Non è annoiata… anzi. Probabilmente
ha capito qualcosa che a me non è passato neanche per l’anticamera del
cervello. Chiediglielo. Quando si puntella così sui piedi come se non riuscisse
a stare ferma, è perché smania dalla voglia di dirlo…”.
“Il Signor
Malfoy ha ragione, miss Granger?” biascica irritato Adamar “Ha davvero intuito
qualcosa di così nascosto che persino a me è passato inosservato?”.
Guardo Draco
ancora per un secondo, specchiandomi nei suoi occhi, mentre lui annuisce piano,
dandomi coraggio. Poi mi volto verso Adamar, sporgendomi come ha fatto spesso
con me, come se stessi per rivelare un segreto. Mi umetto le labbra prima di
soffiare fuori con la migliore delle mie voci impostate e calme: “Mi creda, mi
duole ammetterlo, ma lei può anche sfoderare una lista ben nutrita dei miei
successi accademici, nonché snocciolarmi tutto ciò che ho provato e sentito in
questi anni, persino nei meandri di me stessa…”, faccio una voluta pausa ad
effetto mentre respiro forte guardandolo negli occhi in modo serio, sapendo che
sta sicuramente pensando di nuovo ad Ilai e sfidandolo di nuovo ad azzardarsi a
farne menzione. Adamar, però, mi scocca un’occhiata distratta, evidentemente
più preso dalle mie parole che da questo, incoraggiandomi a continuare: “Ma qui
quello che mi conosce meglio… è Draco
Malfoy…”. Ancora mi fermo, lasciando quasi che il mio compagno si prenda
tutto il merito della sua osservazione, mentre io tamburello volutamente
disattenta sulla scrivania e mi massaggio lentamente il collo. Poi riprendo
casuale: “Notavo semplicemente, e non nego con una certa dose di curiosità, le
sue argomentazioni per convincerci di essere spacciati. Quasi come a
convincerci a non tentare la Solutio damnationis… perché, se ci considera
inferiori rispetto a lei, ci vorrebbe dissuadere? È così carente in fatto di
divertimento che dovrebbe trarre solo piacere dalla nostra distruzione… o è
diventato un angelo custode dal demone che era? Ce lo dica, perché noi dobbiamo
combattere un demone, non un preoccupato fratello maggiore che elenca i motivi
psicanalitici per cui non siamo fatti l’uno per l’altra. Mi creda, li
conosciamo. E non ha mai fatto alcuna differenza… ci siamo arrivati molto prima
di lei, se è per questo…”.
“Ti avevo
detto che aveva capito qualcosa…”mormora Draco alle mie spalle con voce tra
l’orgoglioso ed il tronfio “Avrò un problema irrisolto con la figura di mio
padre. Ma fare due più due ci arrivo ancora…”.
Adamar
soppesa le nostre parole per qualche secondo, guardandoci in modo
autenticamente confuso e disorientato, cosa che rende il suo bel viso solcato
da una ruga profonda in mezzo agli occhi: “Siete coscienti di non avere un
sentimento in grado di battermi… eppure volete sfidarmi ugualmente? Ammetto di
essere confuso. Ed anche questa è una sensazione nuova… che giornata interessante…”.
“Non è
l’amore che proviamo l’uno per l’altra ad essere assoluto…” biascico con un
filo di voce, ritrovandola poi negli accenti finali per suonare quanto più
chiara possibile: “Quello può essere battuto, annientato, sconvolto. Lo sai tu
e lo sappiamo anche noi. Ma c’è una cosa che non puoi neanche pensare di
toccare, Adamar…”, sospiro a lungo, quasi per nascondere le lacrime e la
nostalgia nel sottofondo di me stessa: “Ed è
l’amore per nostro figlio. Se la Solutio damnationis è il solo modo di
saperlo al sicuro, è il solo modo che avremo di vivere. Fattene una ragione…”.
“Lo vedi che
siamo ancora d’accordo su qualcosa? Dovremmo usarti come terapeuta…” commenta
Draco ironicamente, guardando con finta innocenza Adamar “Che dici, riesci
anche a risolvere il mio perenne conflitto con gli ortaggi arancioni? Mi
sconvolgono perennemente!”. Mi scappa una risata spontanea e non premeditata
che ha l’effetto mio malgrado di smorzare molto dell’aura solenne che avevo
assunto. Però in fondo non me ne pento nemmeno. Qualsiasi risata mi sia
rimasta, meglio che spenda subito.
Adamar resta
ancora in silenzio per qualche attimo, profondamente confuso e turbato. Mi
accorgo del suo stato d’animo, se così si può ancora definire vista la sua
natura non umana, da come cambia lo scenario all’esterno. Il sole scompare
dietro una nebbiolina rada ma coprente, tutto crolla in un’oscurità ghiacciata
ed oscura, come se facesse improvvisamente notte. La brina ricopre i vetri
delle finestre ed un brivido mi fa annaspare di freddo. Eva, dal canto suo, non
fa altro che andare a chiudere le finestre, accendere candele qua e là e
rintuzzare il fuoco di un camino che non avevo notato prima. Lo studio viene
quindi avvolto da una luce liquida e decadente, che scava il viso di Adamar di
profonda riflessione, mentre Draco batte impaziente il piede per terra in
attesa.
Alla fine,
il demone rilassa le spalle ed abbandona le braccia sulla scrivania, apparendo
quasi stanco e demotivato. Poi dice asciutto: “Mi compiaccio del vostro sangue
freddo. E persino della sua ironia inopportuna, signor Malfoy. D’altronde credo
che non sia prerogativa del mio ruolo dissuadere la gente dal suicidio. Se è la
Solutio damnationis quello che volete… ebbene l’avrete… non avrete più alcun
genere di sconto o premura da parte mia… versare sangue magico dei più valenti
mi avrebbe rattristato, lo avrei considerato un tremendo spreco… ma se è quello
che desiderate, così sia…”.
Draco
immediatamente riprende posto accanto a me, sfiorandomi non meno che
casualmente la schiena con una mano, come se mi dicesse intimamente che sta per
cominciare e che dobbiamo essere pronti. Annuisco gravemente con il capo, non
so se a lui o se al demone, e asserisco composta: “Bene… ci dica solo che cosa
dobbiamo fare…”.
Adamar
sbuffa, di nuovo molto meno che elegantemente rispetto a quanto ci abbia
abituati fino ad ora, e poggia il mento sulle mani incrociate, sospirando a
lungo. Poi laconico elenca: “Nulla, in realtà. La Solutio damnationis non è una
prova di abilità, o una corsa campestre, o un duello all’arma bianca. Metterò
alla prova il vostro sentimento. Vincerò dove dimostrerò senza oppugnabile
dubbio che ciò che vi lega è assolutamente sacrificabile in virtù di altro… di
ciò che ritengo essere il vostro autentico
desiderio. E che non contempla primariamente l’altro nella mia opinione.
Portando corruzione sul sentimento che vi anima, fiaccherò progressivamente le
vostre menti. Dalla graduale deteriorazione delle vostre componenti psichiche
deriverà inevitabilmente un decadimento fisico, realisticamente culminato con
la vostra dipartita precoce. Ovviamente dove riuscirete ad opporvi a tale
corruzione di voi stessi, vincerete la prova ed io cesserò di esistere…”, fa di
nuovo una smorfia ben poco raffinata, come se stesse mangiando qualcosa di
disgustoso e come se ancora la questione gli portasse più tedio che
preoccupazione effettiva sulla possibilità di perdere.
Tamburella lievemente
con le dita sulla scrivania, come un impiegato annoiato che spiega l’ennesima
procedura al cliente pedante, sebbene stia realisticamente parlando di come
perderemo la vita e non di come accendere un mutuo con la filiale di una banca.
Fa un cenno distratto ad Eva ancora occupata con le sue faccende, e la donna
ritorna silenziosa al suo posto.
Poi continua
smorto: “Lo stato fisico e mentale in cui terminerete la prova è legato
indissolubilmente al tempo che impiegherete. Più tempo restate bloccati nella
mia opera corruttiva, peggiori saranno le vostre condizioni al vostro improbabile
rientro. Per voi potranno essere trascorsi anni,
ma nel tempo reale potrebbero essere passati solo pochi secondi. Qualora
perdiate, le vostre menti saranno bloccate nell’incanto che vi indurrò. E le
vostre spoglie, come vi ho promesso, saranno ridate alle vostre famiglie…”, la
sua voce diventa noiosa e nasale mentre specifica grave: “Come da accordi con i
Custodi dell’Ordine, per ovviare alla patologica disparità di poteri che ci
caratterizza, vi è concessa una sorta di scappatoia all’incanto che vi somministrerò,
la quale ovviamente è resa segreta per garantire la genuinità della prova…”, ci
riflette su qualche secondo, sfiorandosi la mano con il mento. Un guizzo d’oro
gli si accende nello sguardo, liberando una scarica di potere che mi fa
annaspare a disagio come se mi avesse tolto il respiro per un attimo. Tossisco,
la sensazione di un corpo estraneo in gola, mentre mi accorgo che anche Draco
fa lo stesso.
Un incantesimo. Ci ha fatto qualcosa.
Adamar guarda
Eva, poi conclude soddisfatto recitando compito: “…il giunger palma a palma è il bacio dei pii palmieri…”. Eva
annuisce conquistata, mentre io, che ci sto capendo sempre meno, intuisco solo
che ha mormorato dei versi di Shakespeare.
“Romeo e Giulietta”, se non
ricordo male.
Mi
riprometto di mantenere a mente questa informazione per la prova, sebbene
adesso mi sembri poco importante.
Adamar
allora continua indifferente: “Mi impegno inoltre a consentirvi il ritorno, ove
vinciate… scusate la trafila burocratica… ma come intuite ho superiori a cui
fare riferimento…”.
“Vai
tranquillo, tanto non ci ho capito niente… puoi continuare serenamente per
altre due ore e mezzo…” borbotta Draco, scocciato.
“Che cosa ci
succederà insomma?” chiedo io ugualmente frustrata.
Adamar
ancora non risponde roteando gli occhi esasperato, poi stende la mano sulla
scrivania. Sulla superficie del legno, appare un bagliore dorato che mi fa
strizzare gli occhi infastidita. Quando scompare, noto il più curioso e strano
oggetto che abbia mai visto. Mi sporgo lievemente studiandolo con attenzione,
mentre Draco sbuffa di fronte al mio interesse accademico. Per molti versi
somiglia ad una scacchiera: è difatti un piano dalla forma vagamente
quadrangolare, su cui ci sono diversi tipi di pedine. Ma le somiglianze
finiscono decisamente qui. La prima differenza è il piano d’appoggio: non è a
scacchi bicolori, ma assomiglia ad una strana superficie acquosa, costituita da
quelli che sembrano minuscoli filamenti iridescenti e variamente intrecciati
tra loro. Le pedine, poi, sono tutte dello stesso colore e tipo: trasparenti
come cristallo. Si muovono da sole sulla superficie liquida, come se
pattinassero sul ghiaccio. Le conto mentalmente, raffrontandole ai pezzi che
conosco. Due hanno le stesse fattezze del Re e della Regina e sono le sole assolutamente
immobili sulla scacchiera. Ci sono poi una serie indefinita di Cavalli, divisi
stavolta in pezzi bianchi e pezzi neri. Questi sfrecciano come dannati urtando
spesso gli Alfieri, anch’essi in buon numero. Infine al limitare del perimetro,
ci sono le Torri. Sono tre, tutte dello stesso colore chiarissimo. Una di esse
è illuminata in modo irregolare e pulsante, Adamar la sfiora con un dito con un
nuovo sbuffo infastidito, annuendo e guardando di nuovo Eva che fa un ulteriore
e serio cenno di assenso. Non conto alcun Pedone.
Adamar,
però, a parte l’interesse subito accantonato per la Torre illuminata, sembra
non prestare alcuna attenzione alle pedine in movimento febbrile. Con un nuovo
movimento della mano, sotto lo sguardo esterrefatto mio e di Draco che non
abbiamo mai assistito ad una scena simile, copre di un bagliore nero ed oro la
scacchiera. Dalla superficie lanuginosa, come se ci fosse un doppio fondo
segreto, compare un nuovo pezzo somigliante in tutto e per tutto ad un Alfiere
ma stavolta di colore scuro, opaco, come se fosse bruciato. Adamar lo osserva
pensoso: alcune maglie di quella strana sostanza stopposa restano avviluppate
sul pezzo estratto. Adamar le afferra scientemente e con attenzione con le
dita, dipanandole davanti a sé: adesso quelle strane maglie mi appaiono quasi
simili come consistenza al contenuto di un Pensatoio. Hanno la stessa
stopposità lanosa e fumosa, quasi impalpabile, salvo che splendono d’oro e sono
intrecciate profondamente, proprio come dei fili di seta.
Adamar annuisce
ancora, guardando i fili nella sua mano, e li tocca in tre punti diversi,
sciogliendo altrettanti tre nodi.
Mormora
quindi tra sé e sé, quasi dimenticandosi di noi: “Unum solum in tribus”.
Alla buona,
sforzandomi ancora di capire che cosa diamine stia facendo, traduco mentalmente
il sintagma latino. Uno solo… tra tre.
A quel
punto, Adamar si ricorda di noi come se li fossimo improvvisamente capitati di
fronte, mentre giocherella con i fili adesso perfettamente dritti tra le sue
mani.
Sussurra quindi
enfatico: “Conoscete la storia del battito
di ali di una farfalla che genera un uragano dall’altra parte del mondo?
Voi umani vivete vite caratterizzate da codesti paradossi. Una sola decisione,
una sola singola e minuscola risoluzione differente genera effetti a catena
inimmaginabili…”, guarda con affetto i fili dorati nella sua mano sfiorandoli
con due dita, mentre si rivolge a noi: “Che cosa singolare… se i suoi genitori
non l’avessero tradita, signor Malfoy, Helena Jasmine Greengrass non sarebbe venuta
al mondo…”.
“Che cosa?!”
chiede Draco con un piccolo sobbalzo, domandandosi probabilmente come me che
cosa c’entri questa supposizione adesso.
“Intuitivo a
ripensarci…” riflette tra sé e sé Adamar, chiaro ormai solo a sé stesso e molto
meno a noi due “Se Narcissa e Lucius fossero stati due genitori ben più legati
al loro figlioletto di quanto lo sono stati sul serio, non avrebbero
partecipato attivamente alle missioni del Signore Oscuro, neanche quando un
erede non era ancora nato. Magari per amore della loro futura famiglia o per
semplice quieto vivere, faccia lei. Quindi si sarebbe reso necessario che
qualcuno subentrasse al loro posto. Qualcuno come… i Greengrass. E sarebbe stato oltremodo comune che Lara Greengrass,
incinta del suo primogenito, lo perdesse deprecabilmente in una delle suddette
missioni… spogliando il mondo della possibilità di conoscere una terza sorella,
prima di Daphne ed Astoria…”.
“Non capisco
perché ci sta dicendo tutto questo…” chiedo ancora spaesata, gli occhi che
continuano a corrermi sulla scacchiera.
Ancora i
pezzi si muovono a casaccio, descrivendo trame di luce torbida nel reticolo di
fili su cui scivolano.
Adamar posa
i fili che aveva tra le mani sulla scrivania, prima di guardarci ferino e
sussurrare con voce bassa: “Siete figli del tradimento.
Quello che lei, Miss Granger, ha subito dal signor Weasley. E quello che lei,
Signor Malfoy, ha patito a causa dei suoi genitori. Le vostre decisioni sono
corollari di questo. Vi siete incontrati ed innamorati per questo. Siete
persino diventati differenti a causa di questo…”, ci lancia una lunga occhiata
penetrante, la luce delle candele mangiano il suo viso rischiarando i suoi
occhi di bagliori aurei. Spaventata mi accorgo che, di nuovo, la pupilla si sta
restringendo.
Afferro la
mano di Draco stringerla forte nella mia, cosciente che non la lascerò in
qualunque inferno ci dovesse scagliare.
“Mi limito
solo a raddrizzare il corso degli eventi…” prosegue Adamar conciliante con un
sorriso perfido sul viso, gli occhi ormai di nuovo demoniaci “Senza queste
sciagurate circostanze, non avreste nemmeno lontanamente concepito di nutrire
qualcosa di rasente la stima l’uno per l’altra. Non ne avreste mai sentito il
bisogno… se non fosse stato per l’incantevole Alfiere russa…”.
Continuando
a non capire di che cosa sta parlando e neanche a chi si riferisca con
l’appellativo di Alfiere russa, mi
accorgo invece di come la luce dei suoi occhi diventi sempre più sinistra,
malata, accecante, costringendomi a chiudere gli occhi mentre mi nascondo nel
petto di Draco. Lui mi stringe forte a sé, sussurrandomi qualcosa nell’orecchio
che però non riesco a sentire.
Adamar
infatti urla, spaventoso e terribile come il diavolo in persona: “Vi darò tutto
quello che avete sempre sognato nel fondo di voi stessi, senza osare
esprimerlo, data la sua ormai oggettiva impossibilità… e semplicemente sarete voi a non voler più tornare indietro…”.
La luce
diventa fortissima, peggio del sole a mezzogiorno.
Sembra
accecarmi anche i pensieri.
Il bianco
avvolge la mia testa, il mio cuore, tutto.
È come se la
mia memoria fosse sfogliata come un libro, mentre lui si affanna dolorosamente
a strappare pagine su pagine. Il dolore è così forte che mi metto ad urlare,
dilaniata.
Prima che
tutto diventi inesistente dentro di me, avverto la sensazione orribile di uno
strappo allaltezza del fianco destro come se mi trascinassero da qualche
parte, strattonandomi lontano.
Draco urla
il mio nome, a mia volta lo chiamo, perdendo la presa su di lui come se
sparisse. Piango annaspando, cercando di allungare le mani nella sua direzione.
… ma
semplicemente lo perdo.
Mi perdo.
Non lo rivedrò mai più.
La voce di
Adamar suona canzonatoria e terribile.
“Siete solo due pedine in un gioco molto più grande di voi”.
Poi, probabilmente, smetto di esistere.
“Se non finisci in Grifondoro ti diserediamo” intervenne
Ron, “ma non voglio metterti pressione”.
“Ron!”.
Lily e Hugo risero, ma Albus e
Rose erano serissimi.
“Non dice davvero” li rassicurarono Hermione e Ginny, ma
Ron si era distratto. Intercettò lo sguardo di Harry e accennò di nascosto a un
punto a una cinquantina di metri da lì. Il vapore per un attimo si diradò e tre
persone si stagliarono nitide contro la nebbiolina fluttuante.
“Guarda chi c'è”.
Era Draco Malfoy con moglie e figlio, un cappotto scuro
abbottonato fino alla gola. Stava cominciando a stempiarsi, il che enfatizzava
il mento appuntito. Il ragazzino gli assomigliava quanto Albus
assomigliava a Harry. Draco si accorse che Harry, Ron, Hermione e Ginny lo
guardavano, fece un brusco cenno di saluto e si voltò.
Hermione fece un passo
indietro, si toccò la tempia a disagio, aveva avuto l’impressione che qualcuno
la stesse chiamando. Si guardò attorno smarrita per un secondo, chiudendo gli
occhi e frenando una improvvisa ed inopportuna vertigine. A Londra faceva
decisamente troppo caldo, per essere settembre.
“E così quello è il piccolo Scorpius”
commentò Ron sottovoce. “Cerca di batterlo in tutti gli esami, Rosie. Per
fortuna hai il cervello di tua madre”.
“Ron, per l'amor del cielo” ribatté Hermione, un po'
seria un po' divertita. “Non cercare di metterli contro ancora prima che la
scuola sia cominciata!”.
“Hai ragione, scusa” concesse Ron, ma non riuscì a
trattenersi e aggiunse: “Non dargli troppa confidenza, Rosie. Nonno Arthur non
ti perdonerebbe mai se sposassi un Purosangue”.
Hermione scoppiò a ridere, una
chiara risata cristallina e tersa. La vertigine era passata, così come la
sensazione di strappo all’altezza del fianco destro.
Mentre James tornò con la notizia
che Victorie e Teddy si stavano baciando, Hermione portò la mano al collo
toccandosi il ciondolo che portava sulla camicia.
Lo faceva sempre quando aveva
l’impressione che tutto fosse a posto.
Era un ciondolo antico, dalla
luce rossastra.
Una goccia di sangue di Unicorno solidificata, persa
durante il parto.
Considerazioni
finali e spoilerose sull’intero capitolo
Mi ha terrorizzato
pubblicare questo capitolo. Davvero. Chi mi segue via Facebook,
questo lo sa. Però per la prima volta più che scrivere appunto lì chiarendo le
cose, ho preferito e preferisco farlo qui così che tutti possano leggere.
Ovviamente, siccome sarà una pappa psicanalitica su me stessa e su come intendo
questa storia, siete liberissimi di skippare a piè pari questa parte,
semplicemente con il mio sommo ringraziamento per esserci ancora e per
sopportare i miei ritardi. Però se invece, volete sapere perché questo è stato
il capitolo più difficile da scrivere fino ad ora, perché le cose sono andate
così e tutto il resto, se magari siete delusi o arrabbiati e vi chiedete se
siete ancora in una Dramione e che ne è delle mie
promesse di happy ending… magari riesco a spiegarmi
continuando a scrivere.
Ecco… il terrore di
questo capitolo.
Non c’entra Adamar,
ovvio: io, Adamar, lo adoro, credo che sia uno dei migliori personaggi che mi
sono trovata a creare fino ad ora, senza presunzione o altro. Sapete che non mi
appartiene. Ma mi è piaciuto scrivere tantissimo di lui, della sua apparenza
elegante e vittoriana, del suo accento, nondimeno della sua malvagità. Ma, per
chi mi segue appunto, ha letto qualche spoiler su di lui già a giugno. La sua
scena in forma di dialogo esisteva già da allora… quindi ovvio che il mio
terrore non era Adamar. È stato complicato scrivere di lui perché il suo
incontro è disseminato di indizi su quello che accadrà nel seguito di HALFT. È stato
anche complicato perché ci sono tanti indizi su ciò che accadrà nella prova. Perché
sì, è evidente dove Hermione e Draco sono finiti.
La mia storia, di
fondo, si distingue per due particolari da quella della Rowling.
I tradimenti: Narcissa
e Lucius che tradiscono Draco. Ron che tradisce Hermione.
Da lì è nato tutto.
Adamar ha eliminato i
tradimenti e le loro conseguenze.
Quindi…
… siamo di nuovo nel
mondo della Rowling. Tutto è andato esattamente come nel libro.
Non è cambiato niente.
Siamo in quel futuro.
Ma sebbene questo vi
faccia supporre quanto Adamar sia infernale e quanto io sia contorta… ancora
non è stato Adamar il problema.
Il problema è stato
Ilai Radcenko.
Ora, come spesso
spiego in altre sedi, questa storia ormai per me significa essere trascinata
avanti ed indietro dalla volontà di questi personaggi: sembra strano,
inconcepibile, magari persino pretestuoso visto che è solo una fanfiction. Ma io ormai questi personaggi li conosco come e
meglio di me stessa, spesso mi portano dove vogliono loro. Spesso è come se non
dovessi inventare ciò che accade, ma solo raccontarlo e testimoniarlo come se
me lo narrassero loro. Certo, ho i miei piani e i miei progetti: ma come
reagiscono a questi piani e questi progetti, spesso è esclusiva volontà loro.
Ilai Radcenko era un
pretesto per introdurre Tatia Krasova, che era a sua
volta un pretesto per legare Raissa e riagganciarla. Mi sono scelta un bel prestavolto per Ilai appunto (per chi non mi segue per
altra via, è questo il prestavolto di Ilai http://media.tumblr.com/tumblr_lt1dmwKanJ1qzmb4oo1_500.gif)
ma tanto per vezzo. Non è che me lo dovevo portare dietro. Poi le cose sono
andate diversamente, senza premeditazione. Come mi sono portata dietro senza
premeditazione Pansy e Dean che ormai idolatro alla follia, così mi sono
portata dietro Ilai. In sette capitoli (che nella media di questa storia
praticamente non sono niente) Ilai è diventato qualcosa di centrale, mio
malgrado, al punto che ho “dovuto” pensare ad un modo per lasciarlo andare.
Perché, e qui c’è anche uno spoiler, è l’ultima volta che abbiamo visto Ilai.
Non lo vedremo più se non nel seguito. Quindi questo era un addio. Per come
l’ho concepito, mi immaginavo che non avrebbe detto nulla ad Hermione prima
della prova: né rivelazioni sui suoi sentimenti, né considerazioni su quelli
per Draco, tantomeno rimostranze per quello che stava passando a causa degli
Empatici. L’avrebbe lasciata andare e basta. Per questo mi è venuto in mente il
trucco della Telepatia empatica: è solo la sua mente, quindi, che Hermione vede.
Quello che lui vorrebbe fare senza remissione di colpa, orgoglio ed onore.
Confessarle che l’ama, dirle cosa pensa del suo rapporto con Draco, persino
arrabbiarsi con lei per averlo trascinato in mezzo a questo marasma,
prendersela con Tatia che ha intrecciato i loro destini. E poi la fantasia
dell’averla finalmente, vagheggiando su un futuro che non hanno appunto avuto.
Ilai però non sa che tutto questo, Hermione l’ha vissuto con lui. Non lo
immagina nemmeno: e nella mia idea iniziale, questo era solo un pretesto e modo
per far sapere a lei che Ilai ne era innamorato, senza che lui effettivamente
glielo dicesse. Ho scritto tutta la loro storia fittizia con il magone, con
“Over the love” dei Florence and the Machine in loop
e la lacrima facile, arrivando a non dormire pur di finire. E poi ho finito. E
tutto doveva finire e basta. Un po’ di senso di colpa di Hermione, e via tutto
dritto. Ed invece no. Hermione, letteralmente, se n’è andata per conto suo,
come vi ho già spiegato che mi accade spesso. Si è arrabbiata con Helder in un
modo che mai le ho visto fare. Si è chiusa in questo silenzio e questa
negazione assoluta di ciò che le era successo. Ha fatto ogni sforzo possibile
per dimenticare cosa aveva visto. È stato… naturale scriverla così. E io, come
forse persino voi leggendo, pensavo: “Ma scusa? Perché questa cosa ti sta
sconvolgendo tanto? È lui che ti ha immaginato così, tu che c’entri? Pensa a
Draco, piuttosto! Pensa ad Adamar, piuttosto!”. Lei mi dava retta cinque
secondi… e poi di nuovo ci ripensava. La lingua che batte dove il dente duole,
direbbe qualcuno. Mi sono fermata, ho preso tempo, comprendendo che c’era
qualcosa che mi stava sfuggendo di mano: ed è stata, giuro, la prima volta in
tutta la storia, in cinque anni, che mi è accaduto. E mi ha terrorizzato:
perché stavo uscendo dal seminato, perché questa è una Dramione,
perché forse non mi avreste capita come volevo farmi capire, perché potevo
impelagarmi in un vicolo cieco da cui non uscire più, se non a patto di
incoerenza e di volubilità. Ed Hermione non è mai stata né incoerente, né
volubile. E lì… è arrivato il consiglio di Demetra. Glielo ho chiesto, ed
ancora la ringrazio, perché lei non legge questa storia, non ne sarebbe stata
condizionata. E perché stimo quello che scrive e come scrive in modo viscerale.
“Devi ricordarti sempre che hai un debito verso questi personaggi”. Lei mi ha
detto questo. Era così giusto e vero, che mi ha schiarito la mente. Ho un
debito verso questi personaggi, verso quello che sentono e che provano, e che
non posso schermare o censurare solo perché io non sono d’accordo, o perché ho
paura che non siano capiti, o perché i piani erano altri. No. Se mi hanno
portato qui, un motivo c’è. Ed allora, piano, approfittando di una maledetta
cervicale che mi ha allontanato dal computer per settimane, ho riletto tutti
gli ultimi capitoli. E la risposta stava lì ad un passo. Ci stavo solo girando
attorno, come una trottola impazzita. Hermione che si fida subito di questa
persona, che gli racconta tutto, che si lascia baciare due volte, che ammette
di averne bisogno. Ma soprattutto è stato il capitolo 40 ad aprirmi gli occhi.
Prima lei che pensa: “…sono
talmente assorbita dal pensiero di mio figlio da non potermi dibattere nel
dissidio, solo accennato dal corpo e dalla mente, di chiedermi se desidero di
più un altro bacio da Ilai o un singolo abbraccio da Draco. E’ facile
rispondere, adesso: rinuncerei ad ognuno di loro con il sorriso più chiaro ed
aperto del mondo, se in cambio riavessi Alex.(…) Io posso essere solo
l’assassina dei Karkaroff, adesso, non di altri. Tantomeno di loro due… specie
considerando quanto, in un modo così diversamente scomodo, ami tutti e due. Li
amo alla maniera stupida di una bimba di cinque anni: basta che esistano in
qualche parte del mondo per farmi stare tranquilla. Ormai, però, sono ben oltre
i concetti banali di essere innamorata o altro”. Glielo avevo già fatto dire inconsciamente, ma il pensiero di Alex
era ovviamente più forte di tutto il resto. Poi lei incontra Draco, parla con
lui, esce fuori la questione di Ilai. Ed Hermione non ha incertezze. Lo
definisce così: “ Bisogno: ecco che cosa è, oggi, Ilai per me. E’ un
bisogno, al pari di dormire, mangiare e bere. Un bisogno creato dalle
circostanze attuali, sicuramente, ma che non cambia natura. È fame di aria nei
polmoni, perché lui riesce a farmi respirare; è sete di calore allo stomaco,
perché lui riesce a farmi calmare; è insonnia di riposo della mente, perché lui
mi mantiene salda in me stessa. Non so questo che significhi, non so questo che
cosa sia, non so se possa chiamarsi amore, affetto, ossessione, attrazione o
semplice pazzia. Ma è un bisogno, adesso, insormontabilmente realizzabile solo
da Ilai. Nel bene e nel male, lui è tutto quello che Draco non mi ha mai dato. E
che non ho mai cercato, intendiamoci… nonostante cinque anni fa le cose non
fossero facili, non sentivo la necessità di qualcuno che mi mettesse a posto. Ero
già a posto: disoccupata, con un brillante destino da cameriera, sconquassata
dal presente da babbana, separata dai miei amici e
dalla mia vita, e poi innamorata di quello che sarebbe sempre stato l’uomo
sbagliato… ero comunque a posto.
Non
necessitavo di qualcuno che mi sorreggesse, o mettesse assieme i miei pezzi, se
non nel modo quotidiano in cui comunque si ha sempre necessità di dividere la
propria vita con qualcuno. E Draco, questo l’ha fatto… per dieci giorni in cui
mi sembrava comunque di non avere bisogno di nulla, tranne che di lui, ma l’ha
fatto. Però, Pansy aveva ragione: quello era l’inizio, era un passo, ma era
solo il primo. L’amore… quello sarebbe venuto dopo. E’ stato sbagliato
costruirmi la vita su quei dieci giorni… specie quando ho capito che, adesso,
da madre e da donna, io avevo un bisogno diverso. Più viscerale, più intimo,
maggiormente legato al fatto che non ero più forte come un tempo… specie
adesso. Ron non riusciva a vedermi diversa da quella che sono sempre stata: la
ragazzina saccente e sicura, che fingevo di essere. Per questo, lui non placava
quel mio bisogno che, per molto, non ho saputo nemmeno esistente, concentrata
com’ero su Alex. Draco, forse, potrebbe anche farlo, ma parliamo ormai di
ipotesi: avrei dovuto fare un atto di fiducia se Raissa non fosse mai esistita,
figuriamoci adesso. Ilai ci riesce, senza che nemmeno pensi di chiederlo. Per
questo, è la sola persona di cui sento davvero di avere necessità estrema
adesso”. Stava tutta qui la risposta.
Hermione si era innamorata di Ilai e io nemmeno me ne ero accorta. Si era lei
stessa abilmente nascosta ai miei occhi, esibendo la preoccupazione e l’ansia,
l’incertezza e la rabbia. Ed io non me ne ero accorta. Ecco perché reagiva in
quel modo. I pensieri di Ilai le avevano mostrato che quella vita lei, in
fondo, la voleva, la desiderava. Perché Ilai è tutto quello che Draco non è e
non sarà mai. E viceversa Draco è tutto quello che Ilai non è e non sarà mai. A
quel punto, confessato quello, per me è andato tutto a posto. Ha ripreso a
scorrere tutto. Non stavo più tradendo nessuno, nascondendomi dietro un dito,
nemmeno l’intenzione di questa storia. E l’intenzione, in aperta antitesi con
il titolo, è che l’amore non è una bella fiaba romanzata. Il primo passo per
farlo finire, distruggere, annientare, è credere che sia più perfetto di quanto
siamo noi. Così, noi non sopravvivremo ad esso. Prima si capisce questo, e
prima si ama davvero. Prima Hermione capiva che è innamorata anche di Ilai, e
prima può ricominciare. Prima si rendeva conto di cosa manca a lei e Draco, e
prima poteva andare avanti, anche nella sfida con Adamar. Adesso facciamo che
io debba rispondere ipoteticamente ad una persona che legge questa storia solo
perché è una Dramione: puoi continuare a leggerla
sperando nel lieto fine? Sì. Perché con i problemi di Draco ed Hermione, Ilai
c’entra poco: è solo una conseguenza. Inevitabile, ma una conseguenza. Ed è una
scelta: l’amore ha tantissimi modi di vita. Hermione deve solo capire quale
vuole. Draco non sarà mai Ilai, non sarà mai quello che lei ha visto nella sua
mente, fa parte persino del suo fascino e della malia che ha su di lei. Può
accettarlo? Può abbracciare tutto di lui? Ne è pronta? Solo se conosceva fino
in fondo cosa si stava lasciando indietro, poteva avere la consapevolezza di
questa scelta. Per fare un paragone spiccio: se mi chiedono di scegliere tra la
luce e la notte, ma io ho vissuto solo di giorno, non saprò mai fare una vera
scelta. Ecco, per chi è Dramione inside ed ha odiato
questo capitolo e pensa di Hermione che sia ipocrita e chissà che altro (“Te la
prendi per Raissa, tu hai fatto di peggio, che grande amore eh!”)… ecco
pensatela così. Se non approfondivo quello che provava per Ilai, sarebbe
rimasto per sempre un punto di domanda anche in un futuro Dramione.
Se siete poi Hermione addicted inside, bé… probabilmente la potete anche capire. Difficilmente una
soffre così per cinque anni, e resta immutabilmente innamorata della stessa
persona come il primo giorno. Non sarebbe realistico. Si aprono sempre delle
crepe, e qualcuno spesso si insinua in quelle crepe. Ed onestamente,
immedesimandosi in Hermione, ancora e difficilmente si potrebbe reagire con
piena indifferenza ad Ilai se Draco non è (in questo preciso istante, non parlo
del futuro) un contraltare sufficiente. Amiamo Hermione proprio perché è
contradditoria e vera, o spero almeno che sia così. Soffre perché non può
scegliere ed è terrorizzata che qualcuno la veda così: è questo, per me almeno,
il bello di lei. È sempre tesa a fare la cosa giusta e corretta, sebbene spesso
non sia semplicemente possibile essere sempre corretti. Se siete poi tra quelle
quattro o cinque persone che amano Ilai, credo che questo capitolo vi sia
piaciuto, lui ha avuto una sorta di rivalsa di cui, d’accordo, non sa nulla, ma
che esisterà per sempre. Gli abbiamo dato un bel addio, sebbene ammetto che mi
mancherà molto. Ma è sopravvissuto ben oltre le premesse, quindi sono davvero
contenta di quello che ha dato a me e ad Hermione. Gli devo molto.
Che dire… se state ancora
leggendo anche questa postilla ultra-logorroica, ne sono felice e contenta. Ci
tenevo a chiarire. Se avete domande, sapete dove trovarmi. Sto iniziando a
rispondere alle recensioni dello scorso capitolo e a quelle per “Sanguine”, non
ne ho avuto modo fino ad ora. Ma come sempre… grazie.
Altra inutile
postilla: questo capitolo prende il suo nome da una canzone di Lykke Li, di nome appunto “No rest
for the wicked”. Potete trovarla qui con il testo: https://www.youtube.com/watch?v=2eeGQuyEYTw
. E’ praticamente Hermione che parla. Non potevo chiamare questo capitolo in
altro modo.
Cassie.