Libri > Harry Potter
Segui la storia  |       
Autore: Cassie chan    18/11/2014    17 recensioni
ATTENZIONE: non tiene conto degli eventi del settimo libro...!!Sono passati alcuni anni dalla fine della guerra, ed Hermione Jane Granger vive estromessa dal suo mondo, quello della magia, a causa di una condanna ricevuta tempo prima. Fidanzata delusa, disoccupata cronica, cinica perenne, Hermione ormai dispera dell'arrivo del principe azzurro. Ma quando arriva, non è facile riconoscerlo nelle fattezze affascinanti ma DECISAMENTE irritanti di Draco Lucius Malfoy, specie se babbano anche lui... ma la vita è decisamente strana e può anche capitare che ci si imbatta in una piccola fiaba, proprio quando si credeva di vivere in un incubo...:) PUBBLICAZIONE CAPITOLO 51 : 14 LUGLIO 2020
Per seguirmi con più costanza: https://www.facebook.com/groups/putaspellonhereyes/
Genere: Comico, Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ginny Weasley, Harry Potter, Lavanda Brown, Ron Weasley | Coppie: Draco/Hermione
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'THE "HAVE A LITTLE FAIRY TALE" SAGA. '
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Draco ed Hermione sono riusciti a fuggire dalla trappola tesa da Astoria, alias Summer Layton, che si è alleata con Pucey e Montague, gli assassini di sua sorella Helena, per uccidere entrambi dopo aver compreso il legame che unisce i due. Hermione, ancora parzialmente sotto il controllo dello Zahir che Astoria, con l’inganno, le ha fatto creare, è senza voce e sotto il pesante rischio di essere nuovamente controllata dalla Greengrass, che vuole che uccida Draco. Quest’ultimo l’ha portata a casa di Pansy Parkinson, per proteggerla, prima di recarsi in un luogo sconosciuto, senza riuscire a parlare con Hermione e senza sapere che la ragazza è innamorata di lui e che l’effetto dello Zahir è parzialmente sopito. Draco per aiutare Hermione a tornare sé stessa, ha convocato una sua vecchia conoscenza, la figlia di Igor Karkaroff, Raissa, che le ha detto che l’unico modo per tornare libera, sarebbe concentrarsi sull’amore che Draco nutre per lei. E per farlo, le mostra i ricordi che Draco ha su di lei, conservati da Blaise Zabini per farli vedere a Serenity, qualora fosse accaduto qualcosa a Draco stesso. Ma, mentre Hermione sta rivivendo i ricordi di Draco, essi sembrano scomparire nel nulla. Al suo risveglio, Hermione apprende che cosa Draco sta facendo: si è rivolto ad un demone, Adamar, per ottenere i poteri necessari per difendere Hermione e Serenity da Astoria. Il prezzo per tale demone sono i suoi ricordi di Hermione stessa, la cosa più preziosa che ha, per questo essi sono scomparsi. Se Draco fallisse la prova oppure decidesse di ritirarsi dalla stessa, Adamar gli restituirebbe i suoi ricordi. Ad Hermione, non resta che aspettare che Draco ritorni. Insidiata da Dimitri il fratello di Raissa ed oramai vicina a perdere le speranze, una sera di pioggia, Hermione distingue un’ombra nel vialetto d’ingresso della casa di Pansy. È Draco che misteriosamente è riuscito a tornare. I due finalmente si riuniscono e passano la notte assieme. Trascorrono dieci giorni assieme di perfetta felicità: decidono di contattare Harry per rivelargli la loro situazione, ma il Ministro è ignaro che Astoria abbia una spia nella sua cerchia più fidata. Nonostante i tentativi di Blaise e Draco, la spia non viene individuata e, quindi, sono costretti ad usare Daphne Greengrass e una sua passata relazione con il Ministro, per contattare Harry, in modo che non lo sappia nessuno. Daphne verrà avvicinata da Pansy, la sera del suo compleanno, quando dà una festa a casa sua. Nella stessa occasione, Draco chiede ad Hermione di sposarlo: la ragazza, raggiante, sta per accettare, ma vedendo l’anello con cui Draco la chiede in moglie, che è lo stesso anello di Helena, crolla e decide di prendersi del tempo per pensare, dilaniata dal dubbio che Draco non la ami quanto abbia amato Helena stessa. I due si lasciano momentaneamente, ed Hermione esce nel giardino della villa. Intanto nel futuro, dopo cinque anni, Hermione è tornata a casa di Pansy Parkinson assieme a Seth e a suo figlio Alex. Pansy, che adesso è sposata con Dean, però, non sa dove Draco sia. Dean, però, le rivela che Draco, cinque anni prima, è andato via da lì con Raissa Karkaroff, la sorella di Dimitri. Hermione, sempre più vicina a perdere le speranze, ricordando gli eventi degli anni passati, ripete che la sera del compleanno di Pansy è stata l’ultima sera in cui ha visto Draco. Quella sera, infatti, Hermione venne rapita da Dimitri Karkaroff che si era alleato con Astoria, Pucey e Montague, proprio per separarla da Draco e farne la sua “regina”. La crudeltà e la determinazione di Dimitri a fare sua Hermione, si spingono al punto di catturare anche Hayden, l’amico babbano che Hermione frequentava precedentemente, ferendolo gravemente e rendendolo incapace per sempre di camminare. Nella sua prigionia nel castello di Dimitri, però, Hermione apprende di essere incinta di Draco, cosa che spinge Astoria, sterile e desiderosa di fare suo l’ultimo erede dei Malfoy, cosa che sicuramente le garantirebbe la possibilità di riavere Draco, a prendere tempo con Dimitri e ad ingiungergli di non toccare Hermione nel tempo della gravidanza. La ragazza, però, dopo dieci giorni, viene liberata dalla prigionia da Helder, la sua amica Empatica, Harry e Ron, ma durante la fuga, batte violentemente la testa, restando in coma per tre mesi. Al suo risveglio, si trova in Italia, dove gli amici la tengono nascosta, fingendo persino un matrimonio con Ron, fino a quando Hermione apprende della morte di Dimitri ed Astoria, potendo tornare in Inghilterra con suo figlio per cercare Draco. Una traccia per trovare Raissa risiede inaspettatamente in un incontro che Draco, incalzato da Adamar durante la sua prova, aveva fatto nell’aldilà: una donna di nome Tatia Krasova gli aveva chiesto di riferire ad Hermione il suo nome in modo che si ricordasse di lei. Hermione, però, non la conosce. Cinque anni dopo, tuttavia, Hermione, Dean, Pansy e Seth scoprono che Tatia Krasova era una profetessa, il cui nome era stato celato e nascosto da Raissa, strappando la pagina di un libro, testimoniando quindi un probabile contatto tra le due. Tatianon voleva che Hermione si ricordasse di lei cinque anni prima, ma in quel momento, alla scoperta del gesto di Raissa. Hermione riesce a scoprire dell’ultima dimora di Tatia Krasova: era in Finlandia dove era sposata con un uomo di nome Ilai Radcenko. A casa di Tatia, Hermione trova una lettera destinata a lei dalla ragazza e scritta ben dieci anni prima e dove lei le dice tutto quello che le è accaduto, rivelandole anche che Raissa sente ancora Ilai di cui è innamorata. Tatia era un’amica d’infanzia di Dimitri e Raissa, sebbene fosse più piccola di loro, i tre erano cresciuti assieme come fratelli. Tatia da sempre dotata di un fortissimo potenziale magico, aveva da sempre attratto l’indole scientificamente curiosa dei fratelli Karkaroff, specialmente di Dimitri, che ne era ossessionato molto più che innamorato. Quando però Tatia ed Ilai si erano innamorati, Raissa aveva finito per uccidere casualmente Tatia e Dimitri le aveva fatto promettere di aiutarlo a fare sua una donna che suscitasse in lui lo stesso interesse che gli aveva provocato Tatia, altrimenti avrebbe rivelato ad Ilai il nome dell’omicida della moglie. Hermione quindi, conosciuta la verità, ritorna in Inghilterra con Ilai, Dean, Seth e Pansy, ma giunta a casa di Draco, scopre una cosa straziante: Serenity chiama Raissa mamma. Interrogando con il Veritaserum la bambina, scopre che Draco sta addirittura per sposare Raissa stessa; distrutta, Hermione decide di andarsene senza incontrare Draco e di partire per la Finlandia con Ilai, a cui la lega una complicità sempre più stretta. Ma, alla festa di paese dove è andata con suo figlio e i suoi amici prima di partire, qualcuno dal palco chiama il vincitore del secondo premio di una lotteria. Viene annunciato a gran voce il nome di Serenity, facendo presagire che la bambina non sia ovviamente da sola. Ma l’attesa di Hermione si rivela vana: Serenity non è con Draco, ma con Raissa che, pazza di gelosia nell’aver intuito un legame tra Ilai ed Hermione, usa un Incantesimo per far comparire Dimitri, mai morto e sempre più ossessionato da Hermione. Le ordina di uccidere Draco ed Ilai e lega Alex a sé stesso, di modo che qualsiasi cosa gli succeda, accada al bambino: Hermione ha solo tre giorni per impedire che l’assimilazione diventi definitiva e che Dimitri non si suicidi, trascinandosi dietro anche il figlio. Tornata a casa di Draco, Hermione distrutta ricambia il bacio di Ilai, poco prima che Draco ricompaia nella sua vita. L’incontro tra i due non è idilliaco. Entrambi si sentono traditi l’uno dall’altra, in virtù dei legami intanto sorti tra Hermione ed Ilai, e tra Draco e Raissa. Le cose peggiorano, quando in modo rocambolesco e a causa dell’intervento dei Karkaroff, Draco scopre prima che Hermione gliene possa fare parola, che Alex è anche suo figlio. La scoperta lo distrugge emotivamente e psicologicamente, minando forse per sempre la fiducia nei confronti di Hermione. Il clima diventa ancora più complicato e ingestibile, quando Draco ed Hermione apprendono dall’Empatica Helder di essere finiti nell’occhio del ciclone di una guerra millenaria tra il demone Adamar e gli Empatici. Non potranno sconfiggere i Karkaroff e riprendersi il loro figlio, se non supereranno una prova imposta dal demone che testerà il sentimento che li unisce. Il loro amore, difatti, cinque anni prima, assieme alla creazione e distruzione dello Zahir e al ritiro dalla prova di Adamar a cui si era sottoposto Draco, ha scatenato una serie di eventi che li designa come unici possibili vincitori nei confronti del demone: solo loro possono invocare la Solutio damnationis, lo scioglimento della dannazione, ossia la distruzione di ogni potere concesso da Adamar nonché della sua stessa esistenza. La prova è però complicata, difficile, dura, e Draco ed Hermione disperano di potercela fare, visto come si è deteriorato il loro rapporto. La Solutio damnationis è però l’unico modo per sconfiggere Adamar, e liberarsi del potere dell’onniscienza dei Karkaroff, in modo da eliminarli. Nel piano di Helder, trovano posto tutti i loro amici, riuniti per salvare il piccolo Alex Malfoy. La prova potrebbe avere conseguenze mortali per il pianeta, oltre che per loro due e per Ilai Radcenko, che deve fingersi morto con un complicato meccanismo biologico ed empatico, per ingannare i Karkaroff. Nonostante tutto, sebbene siano certi di non potercela fare e rassicurati sul destino dei loro figli qualora la prova vada male, Draco ed Hermione accettano di sottoporsi alla Solutio damnationis. Dopo essersi chiarita con Ron, Hermione parla con Serenity, raccontandole di suo “fratello” Alex. Ma proprio durante la conversazione con la bambina, mentre mostra a Draco le fotografie del loro figlio, dal suo album di foto ne compare una di lei con Draco, scattata e conservata di nascosto da cinque anni prima. È allora che Draco mostra ad Hermione un libro di favole disegnato da lui, per Serenity. Ogni principessa del libro ha il volto di Hermione. È la molla per la peggiore delle rivelazioni possibili. Sebbene entrambi sono consci di essere ancora profondamente legati l’uno all’altra, Draco ed Hermione affrontandosi si rendono conto di essere innamorati del loro passato, più che di loro stessi al momento. Troppo dolore e rancore è intercorso tra loro, e purtroppo ormai non sanno se potranno recuperare loro stessi vista l’imminente prova con il demone. Disperando di poter tornare vivi, in un clima di tregua indotto dalle circostanze, restano assieme per la loro ultima notte.

 

 

“Devi ricordarti sempre che hai un debito verso questi personaggi”.

Dedico questo capitolo a Demetra, per tutto quello che mi ha detto mentre scrivevo questo capitolo, ricordandomi perché sono una pseudo-scrittrice.

 

 

Capitolo 45 – No rest for the wicked

 

Quando Draco esce dalla stanza si porta via tutto. Luce, calore, pace.

Il primo istinto che mi colpisce svogliato alla bocca dello stomaco, è di stendermi sul letto alle mie spalle ancora impregnato del suo profumo e di nascondermi sotto le coperte fino all’alba.

Forse, non è stata una buona idea restare da sola.

L’indolenza minaccia di paralizzarmi mentre aspetto chissà che cosa piangendo, disperandomi, sprecando tempo e basta. Respiro quindi a fondo, con una mano sul torace, decisa, cercando di darmi coraggio e di focalizzare tutte le mie energie sul tempo che mi resta.

Due ore. Mancano due ore all’alba.

Mi guardo attorno spaesata, apparentemente ho tantissimo da fare… ma niente, davvero, con cui riempire il tempo. Un po’ di vento notturno mi scompiglia i capelli soffiando dalla finestra e costringendomi a trattenerli con una mano. Un gemito di profumo diverso mi raggiunge le narici. Odore di fiori, fresco, gentile, dolce. Nella luce pigra della lampada azzurra sul comodino di Draco, noto qualcosa che inspiegabilmente attira la mia attenzione addormentata. Aggrotto le sopracciglia in direzione del profumo insolito ed allungo un braccio verso un libro che forse Draco stava leggendo, prima di addormentarsi. Ne riconosco subito la copertina con un tonfo al basso ventre.

Orgoglio e pregiudizio.

Sorrido in modo triste, malinconico, ripensando alle parole di Draco di poco fa.

Quando ho pensato che fossi andata via ho comprato come un’idiota Orgoglio e pregiudizio, ma l’ho richiuso dopo tre capitoli

Forse, non riuscendo a dormire, ha cercato di andare oltre nella lettura.

A fare da segnalibro, una piccola peonia bianca incantata con la magia perché sia così piccola da stare in un libro, sia sempre in fiore e sia sempre meravigliosamente bella. La sfioro con le dita, è soffice e fragile come velluto. Con curiosità, nel nitore accecante che emana, noto una piccola macchietta nerastra.

La studio meglio, avvicinando il fiore al viso. Il profumo è così dolce che mi stringe il cuore. Sussulto stringendo le spalle: non è una macchiolina. È una piccolissima serie di lettere, calcate delicatamente con l’inchiostro nero di una piuma. H.J.G..

Ed è la prima volta nella vita che so che non sono le iniziali di Helena, ma le mie.

Una peonia bianca per alcuni significa una ragazza indimenticabile per bellezza ed arguzia.

In Oriente, simboleggia coraggio: i guerrieri se lo tatuavano a grandi petali sulla pelle.

In Occidente, simboleggia il matrimonio, il coronamento di un amore scelto dal destino.

Per gli antichi, proteggeva dal male.

E per altri ancora, è un fiore che significa rabbia.

Quale significato hai scelto tu, Draco, da associare a me?

Accarezzo i petali del fiore con sconforto comprendendo che non lo saprò mai: l’incantesimo sulla peonia mi impedisce anche di capire se l’abbia sempre avuta, o l’abbia colta solo stanotte. Nel dubbio, in ogni caso, la nascondo nelle pieghe degli abiti che indosserò per affrontare Adamar, come se stessi portando con me un amuleto magico.

Con quell’odore ancora nel naso a solleticarmi gli occhi di lacrime, decido prima di tutto di lasciare un messaggio alle persone che amo. Dubito di riuscirle a salutare degnamente adesso, visto che io e Draco abbiamo concordato di tenere per noi quanto consideriamo impossibile tornare. Trovo la mia bacchetta sulla libreria di fronte al letto di Draco. Probabilmente l’ha portata qui dopo il nostro scontro nel ripostiglio. Estraggo quindi una scatolina di argento smaltato in cui riponevo gli anelli quando non li indossavo, per conservarli al sicuro in valigia. E la incanto perché, come fece Helena ormai sei anni fa, trattenga il suono della mia voce e lo trasmetta, una volta aperta, ai miei genitori e ai miei amici. Piango naturalmente, ma cerco di tenere ferma la voce per impedire che ricordino questo di me. Soffoco le lacrime nel palmo quando non riesco a parlare e, ad ognuno di loro, lascio un messaggio, un ringraziamento, una raccomandazione, una frase affettuosa.

Concludo con una comune esortazione. Per favore, prendetevi cura di Alex e Serenity.

Con lui, con mio figlio, non parlo. Ho altro in mente. Non può sentire che cosa ho detto agli altri, non adesso. Quindi, ancora a costo di lacrime e di un sapore amaro in gola che mi induce a tossire spasmodicamente, scrivo una lunga lettera e la nascondo nel libro del Piccolo Principe che ho ancora in valigia. La incanto perché, come fece Tatia con me, solo Alex la possa leggere e non prima del giorno del suo diciassettesimo compleanno.

Lo considero il tempo ottimale perché lui possa conoscere tutta la verità.

Gli dico tanto, troppo: che lo amo, che sono fiera di lui, che sono certa che è diventato tutto quello che voleva diventare, che sicuramente ha già una ragazzina che gli fa battere il cuore, che suo zio Dean è fissato che questa ragazzina sia Charisma. Gli dico che, qualunque persona sceglierà di essere, con chiunque decida di condividere la vita, io sarò dalla sua parte. Gli dico di amare sempre, e non pentirsene mai, perché io non mi sono mai pentita di aver amato.

Né te e neanche tuo padre.

E gli dico che, dovunque sarò, non smetterò mai di stargli accanto.

Nessun Dio o diavolo potrà impedirmelo.

Con cura, ripongo la lettera nel libro che, a sua volta, nascondo nella valigia. Sistemo sul letto i vestiti di Alex, li piego con attenzione per l’ultima volta, sbattendo continuamente le lacrime per impedirmi di crollare. E, con maniacalità, compilo una lista per Pansy e Dean su tutto ciò che devono sapere su Alex: i vestiti che adora, i suoi libri preferiti, cibi o medicinali a cui è allergico, malattie che ha già contratto, vaccinazioni, fratture, patologie pregresse mie o di Draco, altre vicende mediche accadute durante la gravidanza e il parto. Ripiego la lista in due e la sistemo accanto alla scatolina incantata, al libro del Piccolo Principe e alla lettera per Alex. Quando finisco, respiro di nuovo. La luce all’esterno è lievemente più chiara.

Per eliminare le tracce di quel pianto, mi faccio una lunga doccia con acqua bollente, godendomi il tepore sul mio corpo. L’acqua nelle mie orecchie non riesce, però, ad ovattare del tutto i miei pensieri che ripetono con accenni duri e strozzati una sola litania.

Fa male. Fa malissimo.

Scuoto il capo a tenerli fuori da me stessa, mentre mi asciugo velocemente. Indosso un paio di jeans corti ed una camicia rossa, così che possa sentirmi me stessa. Per lo stesso motivo, impulsivamente, punto la bacchetta contro i miei capelli e li ordino di ricrescere: ricadono adesso in morbide onde sulle mie spalle. Assomiglio alla mia me stessa della guerra contro Voldemort, cosa che voglio prendere assolutamente come un buon presagio.

L’ultima cosa che faccio, prima di scendere di sotto ed indossare la mia migliore maschera di calma e seraficità, è poggiare sul letto la scatola di latta azzurra con le novecento e tredici lettere per Draco.

Sono tue. Sono sempre state tue.

A far compagnia al ricordo dei miei cinque anni in Italia, c’è anche l’anello di Narcissa Black. È giusto a questo punto, visto che non è mai stato davvero mio, che io lo lasci a Serenity.

Il mio solo bagaglio è la collana di Tatia, l’anello di Ron con la pietra rossa e la peonia bianca di Draco.

Quando mi chiudo alle spalle la porta della camera di Draco, mi sorprende il silenzio del corridoio e del resto della casa. Tutti evidentemente devono essersi addormentati. I miei passi riecheggiano forte, quindi decido di andare in giardino così da evitare di svegliare qualcuno e di dover intrattenere conversazioni che non ho la forza di tenere. La porta della camera di Serenity è chiusa, mi fermo a disagio davanti ad essa.

Immaginando Draco e Serenity lì, abbracciati, in quel letto piccolo e femminile al profumo di ciliegia e lavanda.

Li invidio, come li avevo invidiati anni fa a Wonderland, stretti in quel vincolo d’amore da cui mi ero sentita esclusa.

Invidio Draco, perché ha una figlia da stringere, prima di morire.

Invidio Serenity, perché ha lui da stringere, prima di perderlo.

Cancellando quei pensieri, continuo a camminare nel corridoio, sentendo con una parte della mia mente qualcuno parlare a mezza bocca. Il sangue è troppo, è davvero troppo. Aggrotto le sopracciglia guardandomi attorno ed intravedo Theodore Nott che parlotta con Blaise Zabini, tenendo un libro in mano. Probabilmente qualche stupido racconto dell’orrore: come se non ne stessi vivendo uno sulla mia stessa pelle. Li studio con silente rimprovero, borbottando a mezza bocca, ma loro non si curano di me, sbuffando rumorosamente guardandomi. Per tutti loro, in fondo, oggi è solo una gita nella memoria con i vecchi compagni di scuola. Scendo di sotto, dove c’è un’aria stagnante di sonno e pace. Pansy è profondamente addormentata, distesa su un fianco sul divano, una mano sulla pancia ancora inesistente. Ha sul viso un sorriso che non le ho mai visto, meraviglioso, luminoso e bellissimo: libero. Fa inspiegabilmente sorridere anche me, anche se non so da che cosa sia causato, se dalla gravidanza, oppure da… altro. Dean è seduto sul tappeto, un braccio piegato e poggiato sul bracciolo del divano a poca distanza dalla testa della moglie, su cui tiene una mano aperta come a proteggerla anche nel sonno. Ha la bocca spalancata, russa un po’, eppure non credo che sia mai stato così felice. Mi porterò questo ricordo stupendo di loro, di quello che sono, di come avrei voluto somigliarli anche solo un po’. Mi guardo attorno nel resto del salone, il cuore gonfio di una sensazione insopprimibile tra la tristezza e la tenerezza. Ron si è addormentato anche lui, vestito di tutto punto, seduto sull’altro divano a braccia incrociate, un’espressione aggrottata sul viso. Natalie dorme serena accanto a lui, la guancia poggiata sulle sue ginocchia. Elias, invece, riposa nel passeggino poco distante. È sporgendomi oltre che ho la sensazione davvero di stare per crollare: sul tappeto, per terra, Seth russa della grossa con le braccia e le gambe spalancate stile stella marina. Attaccate ai suoi fianchi, una a destra ed una sinistra, ci sono Charisma e Lily profondamente addormentate a loro volta. Sul petto, però, c’è un’altra bambina che non credo di aver mai visto. È bionda, ha la pelle chiarissima ed indossa un vestitino di lino bianco con la stampa di ravanelli fucsia. Sorrido, anche se non me l’avessero presentata, saprei perfettamente chi è.

Kara, la piccola di Luna Lovegood.

È venuta anche lei quindi…

Dal numero di giochi sparsi in giro e dalla faccia di Seth, impiastricciata con i pennarelli per farlo somigliare ad un panda, deduco che devono aver giocato fino a crollare esausti.

Sarai un buon padre, in fondo.

Anche lui, sono felice di poterlo ricordare così.

Quel senso di pienezza tra i polmoni che rischia però di gonfiare il muscolo cardiaco al punto di farlo esplodere, mi spinge a correre fuori nel giardino, a contatto con la luce chiarissima dell’alba ormai imminente e con il vento che spira il vociare inesauribile delle rondini che si risvegliano. Riprendo fiato, poggiandomi con la fronte al tronco di una magnolia, chiudendo gli occhi sofferente. J

Una serie di rumori soffocati però mi costringono a riaprire le palpebre immediatamente, mentre aggrotto le sopracciglia e ne cerco l’origine. Sembrano provenire da un punto imprecisato alle mie spalle dietro alcuni alberi che descrivono una piccola radura seminascosta del giardino di Draco. Incuriosita o forse semplicemente vogliosa di distrarmi, faccio qualche passo in quella direzione, uscendo dal sentiero che descrive il perimetro della proprietà ed addentrandomi nel terreno brullo e coperto da aghi di pino. Mentre sposto qualche ramo basso che minaccia di farmi sbattere la testa, mi rendo conto del punto preciso da cui arrivano i rumori soffocati che, ancora, non distinguo pienamente. È dalla parte opposta rispetto alla casa, in un angolo completamente nascosto dalla vegetazione. Non appena i suoni assumono una dimensione lievemente più chiara mostrandosi somiglianti a rantoli confusi, penso semplicemente ad un animale sofferente ed afferro la bacchetta, pronta sia a curare la bestiolina, che a difendermi da un probabile attacco.

Quando però scosto con attenzione un ulteriore ramo basso di pino marittimo ed aggiro un altro paio di alberi, la vista che mi compare davanti agli occhi mi agghiaccia il sangue nelle vene, costringendomi a fare qualche passo indietro, come se ne avessi avuto un contraccolpo sordo al centro esatto del petto.

Di fronte a me, con un ginocchio poggiato sul fogliame secco ai piedi di un grande albero, non c’è alcuna bestia ferita.

C’è Ilai.

Ha il volto emaciato, scavato: la pelle del viso è terrea, bianca, ma segnata da profonde macchie violacee che somigliano terribilmente a lividi ed ematomi non riassorbiti. Inspiegabilmente sembra persino dimagrito ed anche meno alto del consueto, mentre è così piegato al suolo. Non sembra assolutamente il ragazzo che ho baciato ventiquattro ore fa e che mi ha cullato nel sonno: non ha più nulla di quella placida e serafica sicurezza, ma un’espressione addolorata e completamente devastata dalla sofferenza fisica. Non si è ancora accorto di me, quindi ho tutto il tempo di rendermi conto di che cosa sta accadendo. I versi che ho sentito… era lui. Chino al suolo, tossisce ancora un paio di volte, il torace completamente sconquassato dai sussulti.

La mano che si tiene premuta sulle labbra si bagna di sangue che gronda copioso dalla sua bocca, allargando sempre di più una già ampia chiazza sul terreno, di cui non mi ero ancora accorta.

È lì che comprendo la gravità della situazione e che, senza ulteriori indugi, corro verso di lui, chinandomi in ginocchio alla sua altezza e prendendo il suo viso tra le mani così da poterlo guardare in faccia.

“Ilai! O mio Dio!” gemo in preda all’ansia e all’angoscia, mentre lui mi guarda con le pupille dilatate per il terrore. Trattiene ancora la mano insanguinata sulla bocca e sembra reprimere a fatica un ulteriore accenno di tosse che minaccia di esplodergli in petto. Poi, accorgendosi della mia attenzione per la mano sporca del suo sangue, sembra cercare di fare un cenno noncurante e disinteressato che voglia rassicurarmi, ma nessuna sillaba lascia le sue labbra come se fosse anche in debito di ossigeno.

“Ilai… che ti succede?” chiedo ancora disperata, i pollici che cercano di cancellare il sudore freddo che gli impregna la pelle fredda del viso, poi con fermezza lo costringo a spostarsi verso un albero vicino così che possa appoggiare la schiena contro il tronco. Lui asseconda i miei movimenti con lentezza come se fosse esausto, e continua a premere la mano sulla bocca.

Il sangue continua a gocciare tra le dita, mandandomi nel panico. 

“Vieni qui, siediti, riposa… hai bisogno di acqua? Vado a prendertela…” dico stupidamente, completamente disorientata, non capendo nulla di quello che sta succedendo e non riuscendo nemmeno a capire l’origine dell’emorragia. Mi guardo attorno cercando aiuto, portando alla memoria nozioni di primo soccorso che si affannano l’una sull’altra senza alcun senso. Siamo troppo lontani dalla casa, devo tornare indietro da sola… e se lui intanto… proteggilo, Hermione, per favore proteggilo… come faccio… io… Tatia… glielo ho promesso… deve… vivere, come faccio?

Il mio cervello va completamente in corto circuito e la sola cosa che continuo a pensare è a portargli quella maledetta acqua, che non so che diamine di utilità potrebbe davvero avere con una cosa del genere. Faccio quindi per alzarmi in piedi per correre verso la casa, quando sento la mano di Ilai chiudersi sul mio polso fermandomi. I capelli mi sbattono in faccia, facendomi ricordare di averli di nuovo lunghi e restituendomi un po’ di chiarezza mentale, accucciando il panico in un angolo di me stessa. La pelle della sua mano… è ancora calda. È ancora la sua.

Lo guardo in viso, una calugine di lacrime che mi impedisce di metterlo bene a fuoco. La dirado sbattendo furiosamente le palpebre. Ha il viso lievemente più roseo, meno pallido. Il sangue… ha smesso di scorrere. La mano resta sporca, ma riesce finalmente a staccarla dalla bocca senza che nuovi conati possano scuoterlo dall’interno. Il petto però si alza e si solleva ancora troppo velocemente: lo vedo quindi poggiare sofferente la nuca contro il tronco dell’albero, dopo aver lasciato il mio polso ed avermi fatto cenno con la mano di restare dove sono. Portandomi i capelli indietro con entrambe le mani per fermare il tremore nelle dita, mi chino di nuovo e mi avvicino a gattoni nuovamente a lui, studiando il suo viso e le ombre che ne mangiano la salute. Ed è lì che, seguendo una traccia di sudore che scivola lungo la mascella morendo nel collo, noto qualcosa che di primo acchito non avevo notato. Senza rendermene conto, mi avvicino ancora a lui, approfittando del fatto che stia riprendendo fiato ad occhi chiusi con la testa ancora poggiata mollemente al tronco dell’albero. Non riuscendo ancora a capire di che si tratta, le dita che mi tremano convulsamente, sposto con delicatezza i lembi solo accostati della sua camicia aperta per i primi tre bottoni a lasciare scoperta un’ampia porzione del torace. Quel movimento fa trasalire Ilai che, d’improvviso, spalanca gli occhi e ferma le mie mani, stringendomi per i polsi.

Iniziando finalmente a comprendere di che cosa si tratta, la mia voce ingiunge minacciosa e colma di livore: “Cosa… sono? Fammi vedere…”.

Ilai nega con il capo ancora incapace di parlare: ha gli occhi più chiari di prima, eppure appaiono ancora spalancati, terrorizzati. E comprendo subito che non è il dolore a tenerli sbarrati e dilatati su di me… come anche poco prima, quando mi ha vista arrivare. Non era la sofferenza, no.

Non voleva che me ne accorgessi. Non voleva che lo sapessi.

“Fammele vedere subito!” urlo allora sull’orlo delle lacrime, stringendo i pugni e digrignando furiosa i denti.

Ilai trasale, si stringe nelle spalle, ha un sussulto nelle mani che ancora stringono i miei polsi. I suoi occhi assumono una piega carezzevole, tenera, come se ancora cercasse di calmarmi solo con lo sguardo, dato il mutismo che l’apnea del respiro ancora gli impone e i rantoli del dolore ancora non del tutto scomparso. Restiamo per qualche secondo immobili, io in ginocchio di fronte a lui, le dita ancora artigliate al colletto della sua camicia, mentre lui mi tiene ancora per i polsi, il respiro affannoso e spezzato. Il sangue vischioso sulla sua mano sporca la mia pelle, lo sento scivolare caldo lungo il braccio.  E’ ancora caldo, tremendamente caldo.

Sospiro a lungo, gli occhi fissi nei suoi.

Alla fine, la tensione delle sue mani si allenta appena, accompagnata da un lungo e trattenuto respiro che rilascia tutt’assieme con evidente e malcelata rassegnazione. Finalmente libera di muovermi, sebbene le sue mani siano ancora saldamente ancorate sui miei polsi, riapro con attenzione e delicatezza la sua camicia, deglutendo a disagio per la contemporanea intimità di quel gesto che si mescola con lo sgomento neonato per le sue condizioni.

Il cuore mi sprofonda in petto, mentre annega in un’incandescente lava melmosa di pena che sembra subito trovare corrispondente nell’immagine che vedo di Ilai. La pelle, che dovrebbe proteggere quel cuore di cui ho sentito mio il battito troppe volte, è mangiata da lunghi e profondi segni di bruciature da cui fuoriesce l’odore acre e nauseabondo della carne in suppurazione. Le striature rossastre e lucide attorno alle ferite rimarcano come l’infezione si stia diffondendo ai tessuti circostanti, contaminando il sangue. La porzione di tessuto necrotico è estesa, ampia, uniforme… parte dall’incavo del cuore e si irradia tutt’attorno nello spazio occupato dai polmoni.

Il respiro mi si affanna subito, diventando veloce, irato, incomparabilmente nervoso e furibondo. Sento lo sguardo di Ilai addosso, sento le sue mani sui miei polsi allentare la loro stretta e renderla molto più dolce e gentile, eppure nella mia testa sento solo le parole di Helder e la sua spiegazione di come avrebbero utilizzato Ilai nel loro piano contro Dimitri e Raissa, inscenandone una presunta morte.

Sarà possibile modulare la gamma delle tue emozioni, fino ad indurti stati di sofferenza, di dolore, di disperazione, di angoscia, in proporzione tale… da mandarti in arresto cardiaco. Attraverso i tuoi occhi, vedremo quando i Karkaroff saranno vicini a te o ausculteranno il tuo cuore… ed allora ti indurremo l’arresto cardiaco. Almeno fino a quando Hermione e Draco avranno invocato la Solutio damnationis… dopo… ripristineremo il tuo battito normale ed il naturale corso delle tue sensazioni. Il tuo cuore potrebbe non farcela comunque… potrebbe non resistere a questo sovraccarico di emozioni, come non potrebbe resistere a questi ritmi forsennati. Ti alleneremo, certo, a sopportarlo, ma dipende dalla forza del tuo organismo… e tu… potresti morire sul serio, Ilai…

“E’ quella cosa che ti ha imposto Helder, non è così?” esplodo alla fine furibonda, collegando tutti i pezzi e rendendomi maledettamente conto di come, presa dal mio sciocco egoismo, ho concesso che iniziassero ad allenarlo per questo mascherato suicidio. Mi stacco da lui alzandomi in piedi, non riuscendo più neanche a guardarlo, la colpa e il dolore che minacciano di detonare dall’interno riducendomi a brandelli.

Come ho potuto… come dannazione ho potuto lasciarlo da solo? Come ho potuto permettere che accadesse… e a lui, poi?

Vado avanti ed indietro come una fiera in gabbia, prendendo a calci in modo isterico sassi e foglie, prima di biascicare a denti stretti: “Ti sta riducendo in queste condizioni, vero? Ma sì, tanto in fondo avevano bisogno di te morto… e ben presto ti uccideranno sul serio, no?”.

“Non è niente…” la voce di Ilai mi sorprende, facendomi trasalire ed inchiodare sul posto come se fossi stata fulminata. È la sua solita voce, calda, dolce, tenera… un po’ più flebile del solito, meno salda. Ma è sempre la stessa… respingo l’ondata di automatico sollievo che provo nel risentirla, nonché quella spinta assolutamente inconscia ed ineluttabile che come sempre mi spinge a sentirmi più calma e serena.  

“Sembra più grave di quello che è…” aggiunge Ilai con tono casuale, cercando di sollevarsi in piedi e rinunciandoci per un nuovo tremito del torace che cerca di non farmi notare inutilmente.

La vista di lui debole ed affaticato rintuzza la mia furia, spingendomi ad urlare ancora, i pugni chiusi: “Sei un medico! Sei un dannatissimo medico! Credi che non lo sappia che potresti evitarti di soffrire se volessi?! Credi che non lo sappia?! Non puoi fare nulla! E’ questa la realtà!”. Ogni tratto di sofferenza sul suo viso, ogni residuo di sangue sulle sue labbra, invece che indurmi ad una sana e pietosa compassione, mi infiamma di rabbia come benzina sul fuoco: è più forte di me, non riesco a farne a meno. L’impotenza determinata dalle sue condizioni e dal fatto di non essermi accorta prima di come stava, si traducono in una morsa insopportabile alla bocca dello stomaco, che, in mancanza di sfogo, usa lui come incomprensibile bersaglio.

Ilai si solleva in piedi e, noncurante e distratto, aggiunge in tono calcolato: “Certo che posso fare qualcosa. Solo… non per conto mio…”. Di fronte al mio silenzio stizzito, si affretta ad una sommaria spiegazione dopo un nuovo e rantolato sospiro: “La mia borsa… quella di cuoio nero. C’è una bottiglietta di colore verde smeraldo. Falla riscaldare un po’… e versaci tre cucchiaini di cardamomo, sette di tarassaco ed uno di arnica. E portamela qui con delle bende.”.

Senza indugi e neanche un’ulteriore parola, mi affretto a tornare indietro verso la casa, alla ricerca della sua borsa. Ovviamente ho riconosciuto immediatamente gli ingredienti che mi ha detto di prendere, nonché la pozione che dovrei preparare: una blanda pozione rinfrescante e purificante contro le scottature. Le mani mi tremano dal nervoso, mentre preparo il medicamento cercando di non sbagliare. La casa è ancora avvolta nel silenzio, ma quando sento un tramestio di passi dal piano superiore immediatamente gelo sul posto, terrorizzata che sia Draco. So che non sto facendo nulla di male, so anche che naturalmente Ilai è in queste condizioni perché sta cercando di aiutare noi due a salvare Alex. E quindi Draco dovrebbe mostrarsi solo che riconoscente e preoccupato, esattamente come me. Dubito però che, nonostante la ritrovata tregua che ci siamo imposti, vivrebbe la cosa così. Del resto, la succitata tregua ha senso anche e soprattutto perché abbiamo evitato di chiarire davvero ciò che potrebbe renderci nemici.

Ed uno dei primi punti sarebbe stato proprio quello che provo per Ilai.

Mentre mescolo distrattamente la pozione azzurrina che sobbolle in un contenitore di rame, mi lascio andare di nuovo ad un profondo sospiro.

Avessi più tempo, avessi più vita davanti, sarei dovuta giungere ad una conclusione su quello che sento per Ilai: mettere un punto, aprire porte, concedermi possibilità, negarle in tronco.

Tutte cose che allo stesso identico modo mi atterriscono.

Invece, la codardia che la morte vicina mi impone, mi spinge a liquidare questi pensieri come assolutamente sgraditi e inutili. Non avrò alcun genere di futuro, è un puro esercizio di retorica immaginare con chi avrei preferito viverlo quel futuro.

La sola cosa che sento adesso di dover fare è lasciare libero Ilai: consentire che, dopo l’inferno che gli ho riversato addosso, lui sia in grado senza remore e colpe di non addossarsi responsabilità per la mia morte, ma di accettarla in modo abbastanza sereno, andando avanti per la sua strada. Dovrei recidere il filo rosso che Tatia ha tessuto per noi e consegnarlo ad un destino pacifico ed innocente, dandogli la mia somma benedizione per un riscatto dal dolore in un luogo e tempo dove possa curare le sue già incancrenite ferite.

Purtroppo, e qui ancora la rabbia rischia di farmi bruciare le dita con la punta della bacchetta, Helder è stata di altro avviso, avviluppando nello stesso infame fato di morte non solo me e Draco, ma anche Ilai che in fondo è un innocente estraneo.

Come faccio quindi a morire serena, se so che anche lui sta rischiando la vita?

Come faccio se so con certezza che la previsione di Tatia, quella sulla sua morte se avesse affrontato da solo i Karkaroff, non sia vicina ad avverarsi?

Come posso ripagare tutta la sua dolcezza, sicurezza, comprensione, facendogli rischiare la vita? Ed allora, più o meno inconsciamente, torno a pensare che magari una risposta onesta sui miei sentimenti sarebbe il minimo che dovrei tributargli, visto quello che sta passando. E lì i miei pensieri ancora di più si incartano, spingendomi ad ulteriore nervosismo verso Helder.

Come in trance, affollata dai ragionamenti, termino di preparare la pozione, prendo l’occorrente per una medicazione dalla borsa di Ilai e torno a passi spediti nel giardino, fino al punto dove è nascosto. Il sole non è ancora sorto, manca poco ormai, l’orizzonte è bianco e grigio di luce occulta. Ilai sembra stare un pochino meglio. Ha il volto più disteso e in mia assenza sembra essersi pulito del sangue sul viso e sulla mano. Anche il respiro ansante sembra essere scomparso. Accoglie il mio arrivo con un sorriso sereno ma fioco, a cui non rispondo, infuriata come sono. Mi inginocchio rapida accanto a lui, trasfigurando una foglia affinché diventi una ciotola di legno scuro in cui riverso il medicamento. A testa bassa, senza aggiungere altre parole, intingo la garza nel liquido azzurro e mi avvicino a lui, senza guardarlo. Con una vampata di imbarazzo, mi rendo conto che, per curarlo a dovere, dovrei perlomeno sbottonare il resto della camicia.

Con il viso che mi va in fiamme, capisco con vergogna che non sono affatto pronta e preparata ad una cosa del genere. Medito se sia possibile medicarlo anche senza sfilargli l’indumento, ma la porzione di pelle visibile non è nemmeno lontanamente quella più ferita ed escoriata. Maledicendo ancora Helder e rimproverandomi silenziosamente per la mia stupida timidezza che non ha alcun motivo di venire fuori proprio adesso, resto immobile con la garza in mano che goccia antipatica sulla mia gamba.

Quando ormai sono quasi pronta a battere in ritirata per l’imbarazzo e per la stupidità, sento un verso di gola proveniente da Ilai.

È curiosamente simile ad una risata arrochita.

Inspiegabilmente un’ondata di calore mi avvolge da capo a piedi, restituendomi calma e serenità e portandomi persino una piega ilare sulle labbra. Scuoto il capo come a scacciare fuori i pensieri e mi riaccosto a lui mordendomi il labbro inferiore, mentre cerco contemporaneamente di non guardarlo in faccia e di simulare nella mia goffa operazione di soccorso le movenze professionali che ho spesso visto in Ginny. Faccio quindi scivolare i bottoni rimasti fuori dalle asole, cercando di apparire disinvolta alla vista del suo torace, poi con lentezza esasperata dall’impaccio apro un po’ la camicia. Un tocco gentile ma deciso da parte di Ilai sulla pelle interna del mio polso, mi informa con sollievo che basta così. Con ritrovata padronanza di me stessa, inizio con delicatezza e paura di fargli del male a passare la garza imbevuta sulla pelle ferita. Ilai si lascia andare prima ad un verso quieto di fastidio e poi ad un singulto di sollievo quando la pozione inizia a fare effetto. Respiro di sollievo, l’odore di lui torna prepotente nelle mie narici, sostituendo quello fastidioso e dolciastro della carne in putrefazione. Per qualche minuto compio le mie operazioni in silenzio, beandomi del ritrovato ritmo normale della respirazione, nonché dell’aspetto delle escoriazioni che migliora notevolmente. Attorno a noi gli animali notturni si ritirano nelle loro tane e quelli diurni ancora riposano beati nelle cadenze regolate dalla natura: è un attimo di perfetto silenzio al profumo di resina e legno di pino, che mi lascia dentro la sensazione di essere rimasta sola al mondo assieme a lui senza più nessuno attorno.

Persino i pensieri sembrano essersi volatizzati, annullati nel movimento meccanico di bagnare la garza, strizzarla un po’ e passarla sulle ferite aperte.

“Grazie” sussurra Ilai quieto dopo qualche secondo. La mia mano si ferma, restando poggiata sul suo petto.

“Potevi farlo benissimo da solo. Mi stai prendendo in giro…” mormoro spazientita, comparando in modo sommario la salute della pelle della mia mano e lo stato raggrinzito e malato della sua “Serve solo a curare i sintomi delle bruciature e a mitigare il loro aspetto. Non la causa…”, mi stacco con un moto sdegnato e chioso drastica: “Adesso mi chiederai di portarti della camomilla così da calmare la tosse? O un bel bicchiere di latte e miele?”.

Ilai si abbandona di nuovo a quella risata roca e infinitamente triste che ha l’effetto di far evaporare ogni mio accenno di rabbia, svuotandomi e rendendomi solo inerme e frastornata. Ancora, nonostante tutto, non riesco minimamente a pensare di sollevare il viso, neanche quando sussurra con voce dolce: “Sarei stata un bravo medico”.

“Non cambiare discorso…” mastico amara, spiandolo dal basso a palpebre semichiuse “Mi basta uno che faccia così nella mia vita”.

L’allusione a Draco mi esce fuori dalle labbra prima ancora che me ne renda conto, prima che comprenda con chi sto parlando, prima che non mi scoppietti nel cervello ed attorno a noi con la forza insolente e prepotente di un petardo acceso. La garza mi scivola dalle mani, cadendo con un tonfo soffuso sul pavimento di foglie.

“Ti basta uno nella tua vita… in assoluto…”.

La sua voce non ha niente di rancoroso o di recriminatorio. Sarebbe stato meglio se mi stesse accusando di qualcosa. Decisamente meglio. È invece asciutta, amara, velata di malinconia, ma senza alcun tono di autocommiserazione. È semplicemente vera, reale ed onesta, come sempre è stata, come se semplicemente mi stesse spiegando con logica razionale che il sole è caldo e il ghiaccio è freddo. Eppure ha l’effetto devastante di un calcio ben calibrato agli stinchi, pronto a mozzarmi il fiato e a mangiarmi il respiro.

Guardami in faccia, per favore. Almeno questo.

Sento quella preghiera nella mia testa, pronunciata con un tono al contempo stentoreo e funereo seppur delicato e lieve, al punto che neanche sembrano i miei di pensieri. Sollevo piano lo sguardo, le spalle contratte e strette, spiando con colpa il suo viso che trovo inaspettatamente rivolto al mio. I colori dei suoi occhi sembrano improvvisamente diversi, più caldi e luminosi. Ha la pelle fragrante di miele ed ambra, scintille di caramello negli occhi, fiorisce di sanità il respiro calmo e rilassato. Persino le ferite sembrano meno spaventose, comprese le ecchimosi sparse che aveva sul volto. Sembra esattamente lo stesso di sempre, nessuna traccia di sofferenza e dolore.

Inaspettatamente, però, anche ciò che ci circonda sembra cambiare, come se si adeguasse a lui. L’aria stagnante e sospesa del primo mattino è sostituita dalla luce dorata e profumata di un pomeriggio d’estate che fa tralucere le foglie come se fossero trasparenti. Ogni ombra si accuccia quieta e gentile, risorgono fremiti di farfalle e crepitii gentili di usignoli, il vento alita fresco di muschio ed erba.

Penso solo che sia l’alba ormai imminente, vengo presa dall’ansia di parlare, di spiegarmi, di non lasciarlo andare così.

“Non devi fare questo per me…” biascico con voce rotta, le lacrime affacciate negli occhi, afferrando un lembo del colletto della sua camicia “Per Alex. Non è giusto che tu soffra così. Non puoi rischiare la vita per me, non te lo permetto…”, respiro senza fiato con titubanza, sputando fuori: “…in fondo…”.

“In fondo con questa storia io non c’entro nulla?” completa lui prontamente, ancora senza alcuna traccia di rabbia o livore, ma con quella mansueta consapevolezza che mi fa ancora più male “Io non sono… nessuno, giusto?”.

Le mie mani sussultano, rabbrividiscono, stringendosi a lui, prima che erompa scandalizzata, come se lo avessi sentito bestemmiare: “Che cosa?! Ti ho mai fatto credere una cosa del genere? Ti ho fatto mai pensare che tu non sia niente per me?”.

Ilai non replica nulla, resta immobile ed in silenzio come se le mie parole non avessero neanche raggiunto le sue orecchie, ma fossero invece scivolate lontane come acqua da una cascata. La mascella è stretta e contratta, ma ancora inaspettatamente nei suoi occhi non c’è traccia di rabbia, livore e tantomeno di quella sana pena che mi spingerebbe a reagire stizzita e nervosa. È fiero come il sovrano legittimo che viene trascinato in catene al patibolo, ma non abbassa lo sguardo per guardare negli occhi il suo boia. Non tinge neanche un’eco delle sue parole di un velato rimprovero o piuttosto di una qualsiasi sfumatura di accusa: si limita a constatare i fatti e basta, apparentemente senza alcun trasporto emotivo. Con perizia chirurgica, disseziona i miei sentimenti, sentenziando poi, clinicamente consapevole, l’impossibilità che io guarisca dal mio cancro terminale.

Non sono abituata a tutto questo, non ci sono abituata. Sono drammaticamente abituata ai segni esteriori che Draco mi dà, alle sue espressioni apparentemente fredde, ma celanti i suoi intimi pensieri che si rivelano, d’improvviso limpidi, in un cenno del capo, in un’alzata di sopracciglia, in una parola sfuggita.

Sono anche abituata alla chiarezza rancorosa di Ron, come ero abituata alla superficiale profondità di Dean.

Ilai non è così, è completamente diverso. È geloso di sé stesso, specie della sofferenza, del dolore, della rabbia… delle sensazioni negative, insomma. È sempre teso a dare un’immagine di sé di distensione e trasparenza. Ed è sicuro, inflessibilmente sicuro di sé e di ciò che lo circonda, mentre collega particolari e dettagli ed arriva alle conclusioni con uno spirito d’osservazione acuto ed affilato. E vive della teoria che ha interiorizzato.

Un po’… come… me.

Mi chiedo improvvisamente se sia venuto a cercarmi, se abbia intuito che ero con Draco, se pensa che le cose adesso con il padre di mio figlio siano a posto, se è convinto che ci siamo riappacificati.

E mi rendo conto che al momento non saprei che dire se mi facesse una domanda diretta sullo stato in cui siamo. E’ facilissimo per me e Draco capire dove siamo: abbiamo un passato di gradazioni di grigio nel definire noi stessi che ci aiuta a non dover e voler trovare definizioni.

Ma Ilai è bianco o nero.

Per i suoi gusti, ha vissuto fin troppo nell’aura dell’irrisolto, dell’atteso, dell’inspiegabile.

Se l’ha accettato fino ad ora, è stato solo per me.

Ma ora basta. Neanche io valgo questo sacrificio di quello in cui crede.

Mi andrebbe bene anche così se non fosse per questa maledetta spina dentro che mi impedisce di lasciarlo andare con una incantata bugia, piuttosto che con la verità.

Fargli credere che tra me e Draco è tutto risolto, che lui non ha mai contato troppo per me… sarebbe una bugia. Ma lo libererebbe, lo salverebbe, gli permetterebbe di farsi una rapida ragione della mia morte. La verità, invece, lo legherebbe ancora.

Ma poi… in fondo… io la conosco questa verità?

Sono davvero in grado di dirgli che cosa è per me?

Sono davvero disposta a lasciar andare parole che non torneranno più indietro da me, innocue ed inoffensive?

Mi stringo nelle spalle a disagio, incapace di fare o dire qualsiasi cosa per la prima volta nella mia vita: con Draco so sempre che fare e che dire. Al massimo, non voglio dirlo o farlo.

Ora, invece, ogni gesto ed ogni parola sono armi a doppio taglio.

Ilai guarda superficialmente le mie dita sul colletto della sua camicia ancora artigliate neglettamente, come se si reggessero a stento. Le stringe di scatto tra le sue con un movimento veloce e rapido, senza neanche tornare ai miei occhi. Non faccio neanche in tempo a rendermi conto di che cosa sta accadendo o a percepire quell’ombra piacevole di calore delle sue mani, che lui le lascia andare, facendomi immediatamente intuire che voleva solo che mi staccassi dal suo petto. In silenzio, con calma, mentre lo osservo di sbieco ad occhi sgranati, lo vedo alzarsi in piedi con decisione, chiudersi la camicia e fare qualche passo come se stesse tornando indietro verso la casa.

Ancora seduta sul fogliame sparso e secco, mi volto di scatto su me stessa seguendo la sua schiena che inizia piano ad allontanarsi. Un raggio improvviso e subdolo di sole mi ferisce gli occhi, costringendomi a socchiudere le palpebre.

Sole. Alba. Tra poco è finita.

“Aspetta…” mi sollevo in piedi in modo così brusco da avere un capogiro. La sua schiena che si ferma mentre mi ascolta, calma un po’ di quell’insopportabile panico ansioso nello stomaco.

“Aspetta…” ripeto senza fiato, una traccia di lacrime inesplose nella voce flebile.

Che cosa dovrebbe aspettare, adesso? Scuse, promesse, rassicurazioni, addii?

Lascialo andare Hermione, basta. Smettila una dannata volta.

… sarà sempre Draco no? Sarà sempre lui, vero? È così che l’hai sempre pensata e sempre la penserai. Ed allora lascialo andare. Smettila.

Contraggo le spalle con ritrosia mentre quell’esortazione interiore si perde nel fondo di me stessa, baluginando debole ed inascoltata nell’incoerenza maciullata che è diventato adesso il mio cuore.

Ilai si lascia andare ad una risata priva di allegria che ha l’effetto di rompere l’incantesimo quieto a cui si era sottoposto. Si volta verso di me, incredulo, sorpreso, più vivo di quanto l’abbia mai visto. Serra ancora la mascella, si scompiglia i capelli con risentimento come se esitasse solo per dignità sepolta a strapparseli dal capo. Respiro di nuovo sollevata, forse perché mi merito che lui sia arrabbiato con me, o perché con il livore riesco ad averci meglio a che fare.

O semplicemente, ho bisogno di sentire quello che prova per me, qualsiasi cosa sia.

Ilai ancora ridacchia, allarga le braccia in un gesto di contemporanea resa ed afflizione, poi le fa ricadere mollemente lungo i fianchi, sfibrato e stanco. Mi guarda dal basso delle ciglia nerissime, prima di sussurrare con voce dura: “Perché? Perché non è abbastanza sentire il suo odore addosso a te? Non è abbastanza vedere che è già cambiata la tua voce, o come mi guardi, o come mi sfiori? O devo sorbirmi anche la pietà, la colpa, la pena? Risparmiamelo. Almeno questo, per favore… risparmiamelo…”.

Un brivido si arrampica gelido sulla mia schiena, non ha mai usato questo tono di voce con me. Credo anzi che non l’abbia mai usato con nessuno neanche una volta nella sua vita. Neanche con Draco, seppure era percettibile dalla contrazione dei muscoli delle spalle quanto in realtà avesse voluto essere molto meno che pacato ed educato. Con me a maggior ragione è sempre stato dolce, calmo, gentile. In un modo che mi ha fatto abituare alla sua voce, così da ripetermela nella testa come una ninnananna quando avessi timore o ansia. Ora, questa voce nuova, ferrea ed arcigna, non la riconosco. Neanche le parole che mi ha detto, le ho davvero sentite. È bastato il tono per farmi rabbrividire, mentre mi chiudo la mano sul petto, stringendo la camicia rossa.

Io davvero traggo fuori il peggio dagli uomini.

Cosa speravo? Cosa pensavo in fondo? La morte vicina può rendermi vigliacca ed egoista, può avvicinarmi Draco, può farmi perdonare da Ron: ma non può darmi tutto. Certo non può darmi lui, qualsiasi maledetta cosa io davvero voglia da lui.

Questo qualcosa che non permetterò a me stessa di conoscere compiutamente. E tantomeno a lui.

Una parte di me neanche tanto piccola è rincuorata dalla sua rabbia: sarà molto più facile e semplice accettare la mia morte se mi odia.

Respiro a fondo, cercando di tornare lucida. Come poco prima con Draco, mi impongo di dire tutto ciò che so che potrebbe tenerlo lontano. Così da salvarlo da me stessa. Così da liberarlo.

Nascondo nel fondo di me stessa la forza, la decisione, l’orgoglio, la determinazione. Fingo un’insopportabile tremore della voce, una debolezza volubile, l’acuto singulto di una donna capricciosa che non sa neanche lei che cosa vuole dalla vita.

Forse in fondo è davvero così… o forse ho paura davvero ad ammettere con me stessa che cosa voglio.

Non importa quale sia la risposta.

Devo solo lasciarlo andare.

Faccio tremare il mio labbro inferiore con uno studiato broncio da bambina, mentre pigolo fastidiosa persino alle mie orecchie: “Non è cambiato niente tra me e te. Niente…”, lascio che un singhiozzo calcolatamente falso ed eccessivamente patetico interrompa le mie parole. Mi asciugo le lacrime e mi giustifico sommariamente: “Le cose… sono sempre state chiare, dall’inizio. Non è mutato di una virgola quello che sentivo per lui… e quello che sento per te…”.

Ilai scrolla il capo con un sorriso diverso da quello che gli ho sempre visto addosso.

Il suo sorriso consueto è malinconico, un po’ triste, spruzzato sempre di un po’ di amarezza mai del tutto ripudiata. Adesso invece indossa un sorriso storto che non arriva agli occhi, più simile ad un ghigno ferino. Un sorriso che mi fa rabbrividire e chiudere nelle spalle come se fossi al centro esatto dell’inferno. Respira a fondo con espressione saputa, scuotendo il capo come se non credesse alle sue orecchie, come se avessi profuso e difeso la più menzognera delle eresie.

Come se avesse capito che cosa sto facendo.

Sgrano gli occhi, non può essere che l’abbia capito, e resto improvvisamente a secco di parole, terrorizzata e spaventata. Non posso tenerlo lontano nell’unico modo che conosco: le bugie, a celare la verità. E la verità è scomoda, sgusciante, viscida.

Non posso permettermi di capire sul serio che cosa provo per te.

Mi basta Draco. Mi basta lui. Mi basta il dolore che mi provoca lui.

Mi deve bastare lui.

Basterà ad uccidermi che debba perdere lui.

Non farmi pensare ad altro, adesso.

Ti prego.

Mi abbraccio goffamente, sfregando le mani sulle braccia, ancora un intollerabile freddo nelle ossa.

Ilai solleva il capo, chiude gli occhi e poi li riapre, spiando dei ritagli di cielo tra le chiome degli alberi. Ha la voce incerta, farinosa, soffocata, quando riprende a parlare non guardandomi neanche per sbaglio: “Tatia diceva che ogni uomo ha cinque destini. Quello del cervello: la mente, la ragione, il calcolo. Quello del cuore: l’affetto, l’onore, l’amore. Quello delle ossa: gli avi, la tradizione, i doveri. Quello del fegato: l’istinto, l’intuizione, la premonizione. Quello del sangue: il caso, l’occasione, l’opportunità…”, prende fiato, sorride come se inseguisse un ricordo lontano, tira su con il naso.

Poi, d’improvviso, i suoi occhi lasciano il cielo, sfuggono i miei, si incatenano al tappeto di foglie secche che calpesta con ferocia, spostando il piede avanti ed indietro come in preda ad un tic nervoso. Sibila irrequieto, la voce che a malapena mi raggiunge le orecchie per quanto è rancorosa e fioca: “Lei mi ha detto di ricordare la cannella bruciata… cucinava una torta di mele, stava aggiungendo la cannella alla crema pasticcera, mi dava le spalle ed era china sul fornello della cucina. Aveva una schiena ampia, abbronzata. Seguivo le linee che univano nei ed efelidi, con la voglia di baciarle una ad una. Mi ero incantato ad osservare quella piccola donna bambina che era mia moglie: i suoi piedi nudi, la schiena scoperta, i capelli castani lisci, la pelle olivastra. Poi un odore strano: la cannella che bruciava. Mi avvicino a lei. Aveva gli occhi vacui, persi, lontani. L’ho scossa per le spalle, le ho allontanato la mano dal fuoco, l’ho fatta sedere. Mi ha guardato come se non mi vedesse, piangeva. Ogni uomo ha cinque destini. Non si sa se li incontrerà tutti. Le persone tranquille ne vivono e scelgono uno. Quelle felici ne trovano uno che ne comprende cinque. Tu ne avrai tre. Sangue, cuore, fegato. Io sono stata il sangue. Ci sono altre due vite, fuori di me, dopo di me, al di là di me. Questo mi disse. Poi chiuse gli occhi, finse di tornare alla normalità, come se non ricordasse la visione. Ma la sua schiena tremava, i piedi tremavano, la pelle tremava tutta. La baciai, facemmo l’amore sul tavolo sporco di farina. Non mi importava del destino, era lei il cuore. Lo era sempre stato…”.

Lo osservo senza capire, stringendomi ancora, gli occhi sbarrati. I suoi finalmente tornano al mio viso, stringe i pugni, ha la pelle del volto chiazzata e plumbea come se si stesse trattenendo dal colpirmi. Stento a riconoscerlo, mi sembra di trovarmi di fronte ad una persona completamente nuova. E di cui non so assolutamente che cosa aspettarmi e che cosa temere.

Un brivido freddo mi trapassa da parte a parte, facendomi rendere conto che sono io che l’ho ridotto così. Continuo a guardarlo, il cuore che mi fa inaspettatamente così male da darmi l’impressione che si sia spezzato a metà. Ed ero davvero certa e sicura che ormai quello che c’era da soffrire, io l’avessi già alle spalle. Invece non si smette mai.

Non smetto mai di fare male a chi… a chi tengo, a chi voglio bene, a chi amo?

Sussulto serrando gli occhi a contenere quella spinta di domande affollate nella testa, mentre Ilai fa qualche passo incerto verso di me, i pugni sempre chiusi, l’espressione di un gargoyle di pietra. Nemmeno riesco a ritrarmi, a farmi indietro, a sottrarmi al suo viso stravolto e al suo sguardo feroce. Resto saldamente incollata al suolo, come se improvvisamente fossi ansiosa che mi uccida meritatamente lui, e non Adamar. La sua voce è ormai modulata su uno sbigottimento incancrenito, su una disperazione malvagia che mi colpisce come un’onda lunga, frantumandomi come se fossi di sabbia e sale. Azzarda persino una risata amara, mentre sputa fuori cercando risposte nei miei occhi: “E poi Tatia mi lascia e scrive una lettera a te… muore, e scrive una lettera a te. A te che non eri nessuno per me. Come io che adesso non sono nessuno per te. E dice: “Ricordati della cannella bruciata”. Ed allora… dimmelo… quale sei tu? Quale destino sei tu?”.

Me lo chiede sul serio ormai a pochi passi da me, sempre con i pugni serrati, l’espressione stralunata. Noto ancora un rivolo di sangue ferirgli le labbra, e mi sembra adesso inconcepibile che io quelle labbra so di che cosa sanno, ne so perfettamente il sospiro e il sapore, so anche come sarebbe stato desiderarle, so che non mi sono concessa davvero di volerle. Però, ora, quella dimensione sembra una fantasia di purgatorio in questa parentesi di limbo infernale. La sua rabbia, il suo livore, la sua determinazione a darmi colpe, dovrebbe solo che rendermi felice e contenta.

Invece la determinazione con cui mi sputa addosso questa domanda senza alcun retro pensiero ironico, senza remore, senza coscienza del futuro o memoria del passato, ma come se davvero mi chiedesse che cosa siamo l’uno per l’altra, mi inchioda come un Cristo in croce.

Balbetto il suo nome e basta, incapace anche solo di pensare ad una miserrima risposta che possa farlo fluire lontano da me.

L’ho già legato a me. È già legato a doppio filo a me. Morirò io… e morirà anche lui.

Indipendentemente se si salvi o meno, ammazzerò una parte di lui.

Io… sarò per lui quello che è stato Draco per me.

E sarà una condanna. Per sempre.

Se non si può stare assieme, diventa una condanna.

Non c’è nessuno che lo possa sapere meglio di me.

E io non sono riuscita a salvare almeno lui.

Un vento improvvisamente caldo mi soffia un riverbero di polvere sul viso, obbligandomi a sfregare gli occhi, mentre mi chiedo dove sia finita l’alba e il tempo stesso. Tutto resta congelato, niente si muove a strapparmi via da qui, così da impedirmi di versare queste lacrime confuse nella polvere del vento, mentre ancora fingo pateticamente che io non abbia nulla di cui dolermi adesso.

Ilai abbassa la voce, mi guarda di lato come se non sopportasse la vista dei miei occhi lucidi e sospira come ispirato: “O meglio… non sei un destino. Sei una maledizione. Una disgrazia. Questo sei. La colpa di aver fatto uccidere la donna che amavo che torna indietro a punirmi…”, sobbalzo e chiudo gli occhi, come se mi avesse pugnalata. Diventa sempre meno lucido mentre parla, cammina avanti ed indietro come un prigioniero prima della pena capitale. Ha la voce distratta di chi parla con i morti, di chi bestemmia i vivi, di chi è vittima di rimorsi perversi e crudeli: “…ma a quanto pare non era abbastanza, non era abbastanza perdere la donna che amavo per colpa di Karkaroff. No, non era abbastanza… magari semplicemente sono io che non sono mai abbastanza…”. Mi guarda d’improvviso con irrazionale chiarezza, un sorriso bieco sul viso: “Questo allora sei tu. Un maledetto incidente sulla strada della mia vita. Mi danno sempre qualcosa e me la tolgono…”. Non riesco più neanche a fingere di non stare piangendo, mi appoggio all’albero alle mie spalle, soffoco i singhiozzi nel palmo aperto della mano, mentre lui bestemmia il cielo, Tatia, me. Tutte e due assieme, nello stesso maledetto calderone di odio e dolore.

“Questo volevi dire, Tatia? Questo volevi dire? Che ho il destino di masticare cose mai mie?” urla con il fiato che si spezza, gli alberi testimoni silenti e il cielo una cappa argentata “Perché sei venuta da me in Finlandia, eh, Hermione? Perché non te ne sei stata a casa tua, nella tua bella vita, eh, a sognare quell’uomo che ti ammazza anche solo guardandoti, respirandoti vicino, eh? Perché non mi hai lasciato in pace? Perché non mi lasci in pace? Io sono quello che guarisce le ferite, che si accontenta delle briciole, che va anche bene così…”, la sua voce si abbassa di nuovo, diventa solo un rantolo scomposto ed incomprensibile: “Va anche bene morire domani, basta che torni viva e salva e sua… questo sono io… e tu sceglierai sempre lui, sempre lui, che ti spezza il cuore che io ti rimetto assieme. Questo è il destino, Tatia? Questo era il destino?”.

“Smettila! Sei ingiusto!” mi ritrovo a gridare senza averlo premeditato, senza che io mi sia resa conto di essermi staccata dall’albero e di essermi fermata davanti a lui.

Solo con l’anelito spavaldo della sopravvivenza, prima che finisca di farmi a pezzi.

“Nessuno ti ha mai trattenuto! Potevi… potevi andartene quando volevi!” farfuglio ancora, spiando i suoi occhi alla ricerca di un minuscolo segno di cedimento che mi farebbe affondare ancora di più con le mie parole nel suo fianco scoperto “Puoi andartene anche adesso! Fallo! Vattene! Ti prego, vai via!”.

Lui mi guarda con una nuova crudeltà che gli distorce il viso in tratti persino sadicamente divertiti. Rabbrividisco, percependolo più vicino di quanto mi aspettassi: persino quel metro che mi separa da lui mi sembra d’improvviso troppo poco, come per paura che davvero mi faccia del male. 

“Avrei davvero avuto quest’alternativa?” sussurra con voce salda, una replica deforme di quello che mi disse settimane fa, quando volevo andare con lui in Finlandia.

L’ho davvero pensato? Ho davvero pensato di andare via con quest’uomo che non conosco affatto?

Questa nuova paura prosciuga tutta la fiducia incomparabilmente immediata che avevo per lui.

Ma, poi, all’improvviso, come il sole che torna dopo un’eclisse, come l’aria che d’un tratto si fa più tiepida e leggera, il suo viso dismette rabbia e disperazione e torna calmo, impassibile, freddo. Più simile a quello a cui sono abituata. Abbandona le braccia lungo i fianchi, mi guarda con il dolore dell’incomprensione che ha velato la sua espressione mentre mi sentiva chiedergli di andare via.

Non può farlo. Non può andare via. È condannato. Come… me.  

Torna sé stesso, come se il livore fosse fluito fuori dal suo corpo al pari del veleno succhiato via di una vipera. Si bagnano di una patina di lacrime i suoi occhi scuri, ringiovanendolo e rendendolo più simile ad un bambino.

Si arrende, si lascia andare… e mi fa più paura adesso di quanto non mi abbia fatto mentre urlava.

“Credi che ce l’abbia un’alternativa?” mormora al vento, sollevando un braccio come ad accarezzarmi il viso, ma fermandosi subito dopo scuotendo il capo.

Guardo la sua mano, e poi il suo viso, il cuore che mi soffoca in gola.

“Sei una stupida…” aggiunge lieve, ed è tenero, dolce, bellissimo. No, non esserlo, odiami, torna ad odiarmi, ti prego. “Sei tanto intelligente e bellissima, e tutto… ma sei una stupida…”, non guardarmi così, “Credi davvero che me ne sarei mai potuto andare via? In qualunque momento? Adesso? Domani? Mai?”.

“Perché, maledizione, perché?” chiedo ed urlo, grido, stringo i pugni, come a voler recuperare quel soffio nefasto di odio che lo animava fino a poco fa. E che era la miglior cosa possibile.

Lo era… perché io che fingo una debolezza che non ho e lui che finge di odiarmi, erano le sole bugie pietose che potevamo concederci, come carinerie dell’addio.

La verità farà molto più male delle bugie.

Perché è a quel punto che lui urla molto più forte di me, molto più forte di quanto abbia fatto prima, senza che i suoi occhi cambino, senza che si nasconda più, senza che metta ancora bugie a guardia armata del suo cuore. 

“Perché ti amo!”.

Non mi potrà mai odiare. Non se ne potrà mai andare.

Mi sembra che il mondo stesso abbia preso a tremare dal contraccolpo del suono delle sue parole, ed io, sciocca, piccola, inconsistente, posso solo tremare a mia volta, come una foglia nella tempesta, attaccata all’albero padre solo per un peduncolo fatuo di puntiglio. Respira a fatica come se fosse in apnea, come se quelle due parole fossero una corda attorno al collo che impicca e toglie vita. Il mondo, alla fine, è bianco e nero: non c’è più alcun confortante grigio, dietro al quale nascondersi.

Non c’è più niente.

Dischiudo le labbra mentre lui mi guarda spaventato, atterrito, implorandomi con lo sguardo. E vorrei davvero sapere che cosa dire, vorrei davvero che tutte le parole non si fossero prosciugate come un rigagnolo sporco, inaridendomi dentro, lasciandomi riarsa e secca come steppa. E poi, in una fulminea consapevolezza malata, comprendo che non mi sta implorando di dire qualcosa.

No. Mi sta implorando esattamente del contrario. Di non dire nulla. Di restare in silenzio. Di scappare lontana, fingendo che le sue parole non esistano. Fingi ancora. Fingi. Salvati.

È quello che mi fa in mille pezzi, come se davvero fossi in trappola e non ci fosse mai stata data né scelta, né possibilità. Qualsiasi cosa io faccia, qualsiasi cosa io dica o non dica… io lo dilanierò, ugualmente. Nello stesso identico modo. Ed allora scoppio in lacrime, singhiozzo e trovo contro la mia schiena l’albero familiare di poco fa, quello sotto il quale lo stavo curando e sotto il quale ero virtualmente al sicuro: potevo ancora andare via, prima che tutto mi esplodesse in faccia. Nascondo il viso nelle palme aperte e poi sento i suoi passi avvicinarsi, fermarsi di fronte a me, chiudermi stretta tra la corteccia e il suo corpo, come se solo così, solo stringendomi, possa far fermare il tempo e non farmi piombare la condanna di Adamar sulla testa.

Come se, come sempre da quando mi conosce, mi facesse scudo con tutto sé stesso a tutto quello che minaccia di farmi del male. Persino sé stesso.

Piango, singhiozzo, e non mi azzardo a muovermi, non voglio neanche respirare. Le mani mi chiudono il viso, lo nascondono pietose, mi impediscono di vedere il suo viso scolpito da quelle parole.

Ti amo. Lui mi ama.

Le sue braccia mi cingono alla vita, sprofondo con il viso nel suo petto ferito, ferita la pelle, ferito il sangue, ferito il cuore, e resto con le mani sul viso, pur di impedirmi di sentire il suo odore, pur di confonderlo nelle lacrime, pur di non smettere di respirarlo come la cosa sola esistente. Si piega su di me, il viso nell’incavo della mia spalla, e le sue lacrime scivolano lungo la pelle del mio collo, facendomi rabbrividire, costringendomi a non impormi minimamente di smettere di piangere, pur di non lasciarlo solo in tutto questo. Il suo peso su di me è così forte, come se d’un tratto non avesse più forza e si abbandonasse del tutto, che, non riuscendo più a reggerlo in piedi, scivolo con la schiena contro l’albero e ricado seduta sulle foglie secche.

Ilai mi tiene ancora stretta al suo petto, mi respira nei capelli, mi implora con voce spezzata: “E non ti azzardare a rispondere, a parlare, a dirmi niente, mi hai capito?”, nego con il capo, singhiozzo, mi sforzo di dirgli qualcosa ed ancora le lacrime confondono le parole, e lo squarcio dentro fa rovinare fuori quelle poche preimpostate ed asettiche che mi sono trovata per caso, tra quelle di convenzione e quelle di abitudine. 

Ilai mi stacca il viso da sé, mi guarda piangendo a sua volta, tenta goffamente di asciugarmi le lacrime con i pollici, con il dorso delle mani, con le labbra: “Mi hai capito, Hermione? Non ti azzardare a dirmi niente, non te lo permetto. Vattene con lui, amalo, mi hai capito, amalo… perché devi tornare, domani devi tornare. Ed allora dimentica, non ti ho mai detto niente, non ci pensare… devi tornare. Devi tornare. Dimentica, non è vero… non ti amo, mi hai capito? Io non ti amo… era una bugia…”.

Nega con il capo come un bambino piccolo, come se quelle parole se le potesse rimangiare sul serio, come se potessero sparire così come sono nate. È febbrile, disperato. Lascia la presa sul mio viso, e si stringe violentemente le mani nei capelli, strappandoseli dal capo. L’unica cosa che non riesce a smettere di fare, è muovere la testa a destra e a sinistra, negando, spergiurando, implorando che mi dimentichi che cosa ha detto e finga che non esista.

Mi spezza il cuore ancora più di quanto abbia già fatto, e lo immobilizzo, prendendogli il viso tra le mani, cancellando le sue lacrime con le dita come ha fatto con me. Lui si aggrappa ai miei polsi, mentre sussurro protettiva: “Ilai, smettila, per favore. Calmati, guardami…”.

Torna a guardarmi, mi accarezza gli zigomi, sfiora con le dita la pelle della nuca e i capelli, e tinge gli occhi di fallace decisione mentre mi fissa negli occhi, come a trapassarmi da parte a parte, come a cercare di convincermi sul serio: “Io non ti amo”. Gli sfioro il viso, piangendo, annuisco come se effettivamente fossi davvero certa di quello che sta dicendo, come se mi avesse definitivamente persuasa.

Gli bacio la fronte, gli accarezzo i capelli, non lascio che sfugga i miei occhi: “Shhh, tranquillo. Calmati”.

“Non ti amo” ripete ancora, la fronte contro la mia, gli occhi però disperatamente aperti, fissi nei miei come frecce alla ricerca di un bersaglio.

“Lo so. Neanche io” glielo garantisco, veloce, rapida, con decisione, con ferocia, con coraggio.

“Io non ti amo” sussurra di nuovo, stanco, sfibrato, gli occhi che non riescono a stare aperti sotto il peso delle lacrime, le dita sul mio viso che sussultano e tremano.

“Neanche io” bisbiglio gentile, gli occhi chiusi, le mani bagnate che lo accarezzano rassicurante, calma e paziente, mentre il mio respiro si confonde caldo con il suo.

Lo bacio prima ancora di capire che cosa sto facendo, lo bacio prima ancora che la voce della ragione mi ingiunga che è sbagliato, lo bacio prima ancora di capire che così farà ancora più male dopo.

Lo bacio con la stolta consapevolezza che sto morendo, e che tutto mi è concesso. Lo bacio con tutto l’amore che gli ho negato, e che non potrò mai dargli.

Lo bacio, come non ho potuto baciare Draco ore fa. Lo bacio, come non ho potuto salutare mio figlio prima di morire. Lo bacio, come tutti quei baci mai dati a Ron, a Dean, ad Hayden.

Sento che trasale sgomento nel sentire le mie labbra premere contro le sue. Sento persino che cerca di allontanarmi. Sento, poi, la quieta stasi eccezionalmente dolce di sentirsi baciato da me per la prima volta in assoluto, senza che sia stato lui a cominciare, dandomi alibi e scuse.

Sento che capisce che non mi posso fermare o allontanare, neanche con il pensiero, neanche per un momento.

E poi sento che si arrende, sento che non ce la fa, sento che dischiude le labbra e sento che finalmente lo assaporo intimamente, completamente, follemente. Sono rapida, folle, disperata, e lui mi risponde nello stesso identico modo in un bacio che non ha nulla di gentile, quieto o dolce, diversamente da come è stato fino ad ora tra me e lui.

Sempre soffi di amore gentile per paura che ci capitassimo nel cuore.

Ora invece è mangiarsi l’anima a vicenda, strapparsela di dosso prima che ce la strappi qualcun altro. Stringo le mie braccia attorno alle sue spalle, gli rovino addosso, accolgo le sue mani sulla mia schiena, mentre giocano con la pelle riarsa. E piango, e non smetto, e non mi faccio domande, e lo bacio e basta, e gli gravo con il mio peso addosso, prima che con bramosia, con desiderio, con foga, lui inverta le posizioni e mi rovesci sulle foglie secche che si frantumano al mio tocco. Lo sento con una parte remota della mia testa scendere sul mio collo, baciarmi la linea delle clavicole e poi, con decisione violenta e febbrile, strapparmi di dosso la camicia, mentre scende sul mio seno, respira sul mio petto, bacia la mia pelle.

E mi chiedo, spogliandolo a mia volta, perché me ne sia privata fino ad ora, perché non l’abbia preso prima di adesso… e non ricordo il motivo, faccio forza sulla mia memoria ma non ricordo il perché. Esco e rientro dentro a me stessa, come se perdessi coscienza a tratti, come se fossi nel buio di un mare lontano dove la luce di un faro fiorisce a fiotti fulminei nella tempesta. Mi sento nuda ed infreddolita tra le sue braccia, lo sento nudo ed infreddolito tra le mie, eppure è come se fosse tutto troppo luminoso per tenere gli occhi aperti, ed allora li chiudo, e lo sento entrare in me, e so che è lui, e so che lo sento, e so che è dentro di me fino ad un punto nascosto e celato della mia anima, ma nello stesso tempo è come se non ci fosse, è come se mi cingesse il mare, o la terra, o la sabbia, o l’Universo tutto, e io non esistessi più. Sotto le palpebre chiuse, nella trama di luce accecante, si intrecciano immagini e suoni. E mentre lo sento spingersi più a fondo dentro di me, quelle immagini assumono chiarezza, consistenza, lapidarietà di dogmi di fede. Si accompagnano alle sue parole, alla sua voce sofferta, all’eco delle sue spinte in me che quasi non percepisco più, quasi si spengono, quasi muoiono come ad assomigliare al dondolio di un’altalena o al ritmo di un’onda spumosa di mare.

È così che doveva andare, dice. E non capisco che sta dicendo, so solo che non riesco ad aprire gli occhi, so solo che c’è troppa luce, e lui ripete ancora “E’ così che doveva andare”. Ondeggio come se fossi immersa in oceano caldo, annegando in sprazzi di piacere e deserti di dolore. Ed improvvisamente, nel mio sguardo umido e fosco, quelle immagini che tenevo fuori mi filtrano nel cuore, tramortendomi, svegliandomi, facendomi annaspare.

Un paio di mani calde si poggiano sulle sue spalle, facendola voltare su sé stessa, prima di stringerla forte per la vita. Come se fosse un pezzo di vetro che continua ad andare in pezzi, cerca la ricomposizione dei suoi frammenti ed abbraccia Ilai davanti a lei, chiudendo le braccia attorno alle sue spalle. Singhiozza nella sua camicia, mentre lui le accarezza piano i capelli.

“Ti avevo promesso che ti avrei portato via…” bisbiglia delicatamente, non smettendo un secondo di abbracciarla “Ma sei tu che devi chiedermelo adesso… puoi andare via, adesso?”.

Serro gli occhi chiusi, lasciando sfuggire delle lacrime sospese, mentre rivivo quel ricordo come se fosse accaduto ad un’altra persona: quello del giorno in cui andai alla scuola elementare di Serenity per scoprire la verità su Draco e Raissa. Quello in cui avevo detto di no ad Ilai, quello in cui avevo insistito per sapere che cosa fosse successo. Stavolta, però, la voce di Ilai, dolce come una ninna, mi culla altrove, mi porta in un posto ed in un tempo in cui non sono mai stata.

Doveva andare in un altro modo.

Lo ripete ancora e l’immagine cambia, diventa diversa da quello che ricordo essere successo.

“Ma sei tu che devi chiedermelo adesso… puoi andare via, adesso?”.

“Devo andare via, Ilai. Per favore, ti prego… portami via… portami via da qui… ”. 

La voce di Ilai è dolce, malinconica. Dovevo portarti via, quel giorno. Non dovevo chiedertelo e basta. Dovevo macchiarmi del mancato rispetto di te e del tuo cuore. Dovevo strapparti via da qui, con Alex, e portarti via. Tenerti con me. Restare con te, sempre. Non rispettarti affatto, non rispettare quello che volevi. Sarebbe stato tutto diverso.

Succede tutto così rapidamente, come se vedessi delle scene proiettate con il tasto dell’avanzamento veloce, che non riesco più a capire dove sono o che cosa sta accadendo. Non sento più Ilai dentro di me: lo sento ovunque, dappertutto attorno a me. Afferro qualche immagine come se fossero pesci sguscianti, baluginanti nel bianco.

Io a casa sua in Finlandia. In quel letto bianco e rosso che aveva diviso con Tatia. Il viso bianco di dolore, gli occhi rossi, come se mi acclimatassi perfettamente ai colori della stanza. Lo sguardo ostinatamente fisso fuori dalla finestra, le labbra dischiuse come se facessi fatica a respirare. La pelle trasparente di chi è profondamente cagionevole, ma i tratti tutto sommati normali di chi ha la malattia nel cuore, e non nel corpo. Vedo Alex, ed è a quel punto che davvero singhiozzo e gemo come una bestia ferita, aggrappandomi alla sua immagine con tutta la forza possibile: lo vedo ciondolare attorno al mio letto, cercare di attirare la mia attenzione, ottenere in risposta solo sorrisi spenti. Vedo poi Ilai prenderlo per mano, portarlo in giardino a giocare con Anya, sua sorella. Sarebbe stata dura all’inizio, continua la voce di Ilai nella mia testa, e lo sento spingersi di tristezza ancora più a fondo dentro di me, e non so davvero più che cosa sia, se carne, spirito, fiato o sogno, sarebbe stato impossibile all’inizio, perché il cuore non lo curi facilmente, non lo curi velocemente, forse non lo curi mai davvero. Specie se uno hai il cuore che hai tu, che ami una volta ed è per sempre. E nelle notti, dormendo su un divano, sentendo il tuo respiro nella stanza accanto, mi sarei pentito di averti portato con me perché mi sarei reso conto che non potevo strapparti amore dal cuore, non più, non per me. Sarebbe stato uno stillicidio, una spina dentro. Eppure, non avrei potuto fare a meno di te. Neanche se tu ormai eri solo quel respiro sottile da uccellino nella stanza accanto. Ed un giorno avrei sognato Tatia, mi avrebbe preso per mano. E mi avrebbe detto che facevo bene, che dovevo tenere duro, che dovevo avere pazienza, che chi ama così ama sempre di nuovo. Non ci avrei creduto. Ma non avrebbe fatto differenza o caso. Ti avrei amata lo stesso, avrei amato un impercettibile movimento delle sopracciglia a sentirmi entrare, avrei amato come non sobbalzassi a sentirmi entrare nella stanza, riconoscendomi. Avrei amato il tuo passo leggero, come se temessi di disturbare. Avrei amato persino le tue lacrime, se le potevo cancellare io. Ed avrei amato tuo figlio, come se fosse il mio. Ci avrei visto solo te in lui e ci avrei inventato me in lui, dimenticandone una paternità che non fosse quella che favoleggiavo per lui.

Le immagini riprendono, acquisiscono colore e velocità, e io rifiorisco come un bocciolo di rosa. Più colore nelle guance, più rossore sulle labbra, più dolcezza nello sguardo. Il letto finalmente lontano, abbandonato. Una stanza accanto a quella di Ilai, qualche sorriso sparuto ma davvero sincero. Una corsa nell’erba, mentre inseguo Alex che scappa da me ridendo. E lui, Ilai, lontano, la spalla poggiata sul tronco di un albero, che mi guarda schermandosi gli occhi dal sole.

Un giorno avrei davvero pensato che ne eri uscita. Che ne eri fuori. Che ce l’avevi fatta. Vi avrei portato vicino al fiume dove avevamo davvero parlato la prima volta in cui eri venuta a Tampere. Avrei spiato continuamente il tuo viso, come se temessi che fosse semplicemente troppo, che magari non eri ancora pronta per uscire, che in realtà sarebbe stato meglio aspettare ancora. E tu avresti avuto il volto bagnato del sole pallido del maggio della Finlandia, ancora un po’ troppo freddo, ancora un po’ slavato, ma almeno lievemente tiepido, almeno tenuamente mite. Saresti rimasta ad occhi chiusi per un po’, come ad assaporare i profumi ed i rumori che non sentivi più. Ed Alex ti avrebbe tirato una manica del vestito azzurro che portavi, perché avresti sempre portato l’azzurro adesso, perché il rosso ti ricordava una vita che non avevi più e io mi sarei rassegnato a non vedertelo addosso mai più. Avresti aperto gli occhi, gli avresti sorriso, lui ti avrebbe detto una frase scherzosa che ti avrebbe fatto reagire, vogliosa di vivere finalmente. L’avresti inseguito, correndo nell’erba, sfilandoti le scarpe, calpestando rugiada e facendo un salto per evitare dei fiori rossi. Lo avresti acciuffato dopo qualche metro, facendogli il solletico per poi abbracciarlo, e vi avrei visti lontani da me ma finalmente vicini. E mi sarei detto che potevi anche andartene domani, tornare alla tua vita… ma ne valeva la pena. Ne era valsa la pena. Ti avrei guardato, schermandomi gli occhi dalla luce del sole. Saresti tornata indietro, dopo aver preso Alex in braccio. E il cuore mi avrebbe fatto un salto in petto a vedere quel sorriso rivolto a me. L’avrei nascosto in un colpo di tosse studiato, prima dell’effetto che aveva su di me quel sorriso. Il fiatone, le guance rosse, con tuo figlio in braccio, mi avresti detto solo: “Andiamo a casa, adesso…”.

Una casa dalla porta azzurra, con una sola stanza da letto. Un letto dalla testata bianca, con una foto di me con Seth, Pansy e Dean. Un’altra accanto di Ilai con Alex. Due sole tazze sul tavolo, una blu chiaro ed un’altra più scura. Io con i capelli più chiari e più lunghi, una cartellina di documenti in mano, un paio di occhiali dalla montatura d’osso sul naso. Alex più alto, più robusto, con un broncio spavaldo, mentre mi guarda con le braccia incrociate. “Mamma, io non ho più bisogno della babysitter! Ho otto anni! ”. “Effettivamente tra poco dovrò farti la barba…”. Risata di gola. Risata profonda. Risata vera. “Ed allora portami con te! Perché non posso venire con te ed Ilai?”. Rossore, morso sul labbro inferiore, sorriso timido. “Ti prometto che tornerò presto a casa…”.

Mi avresti detto che prendevi una casa da sola con Alex. Mi avresti spezzato il cuore. Ma ti avrei lasciato fare. Te l’avrei lasciato fare, e quel silenzio per casa sarebbe stato insopportabile, tremendo, fastidioso, odioso. Avrebbe avuto eco e rimbombo nella notte, e vuoto e risucchio di anima nel giorno. Però sarei stato felice, davvero. Ti avrei aiutato ad appendere le foto alle pareti, ed avrei sbuffato di nascosto quando avresti scelto il letto più ingombrante del mobilificio. Ci avremmo perso un pomeriggio a montarlo, prima di mangiare un panino seduti per terra perché dovevano ancora consegnarti le sedie. E, finita, la tua casa avrebbe profumato di mele e cannella, perché Alex aveva rovesciato una boccetta di profumo nell’ingresso e, da allora, avrei associato sempre quell’odore a te. Avresti ricominciato a lavorare, saresti corsa da me a raccontarmi che lo adoravi, che non lavoravi da troppo tempo, che di fronte al tuo ufficio facevano il cappuccino aromatizzato al caramello migliore del mondo. Me ne avresti portato uno ogni tua pausa pranzo. Saremmo usciti spesso con Alex. Cinema, luna park, museo della scienza. Ed una sera qualunque, con tuo figlio addormentato sulla schiena, mi avresti detto senza guardarmi: “Sono esausta di programmi da bambini! Ogni tanto avrei bisogno di fare l’adulta… magari con te… ”. Avrei spalancato gli occhi, mi sarebbe andato di traverso il respiro e tu saresti arrossita, avresti mugugnato qualcosa e poi ti saresti ritratta imbarazzata, dicendo che c’era un doppio senso grosso come una casa nella tua frase, ma volevi solo dire che avevi voglia di uscire con me, da sola. Ti avrei chiesto se ne eri sicura, non ci avrei creduto davvero. E mi avresti risposto dolce: “Non credi che sia arrivato il momento? Per me e per te?”.

Un bacio al sapore di caramello. Il buio di una casa dalla porta azzurra. Una risata soffocata. Una porta chiusa su un bambino addormentato profondamente accanto ad una ragazzina con l’apparecchio ai denti. Un divano che cigola terribilmente, ed allora fare piano, in silenzio. Il suo corpo contro il mio, il mio viso tra le sue palme. Sentirlo dentro, sentirlo davvero, come non sono sicura davvero di sentirlo adesso, come sono certa di non sentirlo più adesso. La sua voce spezzata da un gemito più forte di un altro. “Dimmelo solo una volta che mi ami quanto hai amato lui”. “Non amerò nessuno come ho amato lui”. Un sobbalzo, lui che tenta di alzarsi. Un bacio più profondo. Un sussurro sulla spalla di lui. “Non voglio più amare nessuno come ho amato lui. Voglio amare tutto come amo te”.

Forse la prima volta in cui saremmo usciti, ti avrei portata a vedere un film in bianco e nero di quelli che ti piacciono tanto. Però il terrore che fosse qualcosa che avessi già visto con lui o con un altro, mi avrebbe fatto scegliere alla fine una commedia sciocca e stupida, tutto pur di non vederti adombrare come tutte le volte che ripensavi a lui. Sarebbe stato un film che ti avrebbe fatto irritare enormemente, perché sei femminista, ambientalista o chissà che altro, e quel film sarebbe stato un’apoteosi di luoghi comuni che detesti. E quindi niente ristorante di lusso prenotato in anticipo. Avrei saputo che la cosa migliore era farti mangiare un hamburger in una tavola calda, almeno potevi fare una conferenza su “come i film demoliscono l’immagine della donna, figuriamoci se sono tutte così idiote come quella, io per esempio al suo posto…”. Ti avrei ascoltato, perché se mi distraevo sarebbe stato peggio, te ne saresti accorta, avresti messo su il tuo broncio da pesce palla. Ma forse mi sarei distratto lo stesso ed allora te la saresti presa. Però, ad un certo punto, dopo un continuo tentativo di farti parlare di quello che non avevo ascoltato, mi avresti stretto la mano, così, dal niente, dicendo che per farmi perdonare dovevo offrirti una cioccolata al caramello. Sarebbe stato il sapore del primo vero bacio che ci saremmo dati senza provare dolore. Mi sarebbe scivolato in gola, riempiendomi come un affamato. Ed allora avrei dimenticato decenza, pudore, decoro, onore. E non avrei rifiutato quando mi avresti invitato in casa tua, implorandomi di fare silenzio perché Alex dormiva con la babysitter. Piccoli rumori soffocati, come due adolescenti impauriti dal genitore… e ti avrei avuto su quel divano che ti avevo aiutato a scegliere e che ora avrei voluto grande, comodo, silenzioso. Ma ti avrei baciato lo stesso le dita ad una ad una. Avrei fatto lo stesso di tutto per non farti male, per non schiacciarti, per spiare ogni ombra del tuo viso affinché sparisse, morisse. “Dimmelo solo una volta che mi ami quanto hai amato lui”. Mi sarebbe venuto fuori così, di istinto, mentre venivo dentro di te. E tu mi avresti spezzato il cuore, dicendo che nessuno sarebbe stato come lui. E me lo avresti ricucito, dicendomi che non volevi amare mai più come avevi amato lui.

Colori, tutto è pieno di colori: e la voce di Ilai si fa più tenue nella mia testa, come se d’improvviso stesse sparendo, stesse scomparendo, stesse evaporando. Cerco di afferrarla, cerco di stringerla a me, cerco di stringerlo a me, ma non c’è niente da fare. Diventa sempre più flebile, tenue. E piango, ancora, sempre, mentre ancora, sempre, ogni immagine mi si conficca in un punto morbido del cuore che non sapevo di avere più. Due fedi uguali, una più piccola e l’altra più grande, entrambe di oro rosa. Fiori azzurri e bianchi. Un abito lungo di satin, Anya che mi sistema un velo sulla testa piangendo. Ed un parco d’estate con pochi amici, lui che mi aspetta dopo un tappeto blu. Alex più grande ancora, ormai quasi adolescente, che mi porta all’altare. E io che sorrido a mio figlio e ad Ilai, e poi getto un’occhiata distratta alle sue spalle, come se fossi preoccupata per qualcosa. E poi sorrido ancora, rassicurata. Una bimba di poco più di tre anni, capelli biondi, occhi nocciola-verdi, un vestitino giallo limone, un broncio dispettoso. “Tatia non mi perdonerà mai per non averle fatto fare la damigella”. Un sorriso, la mano guantata che stringe quella di Ilai. Lui che sorride ancora, come mai l’ho visto fare. “Sarà alta un metro scarso… ma non esiste essere più vendicativo di nostra figlia. Non credo che arriverai viva al buffet…”.

E a quel punto, sento risate, lacrime, canzoni, pioggia, baci, sorrisi, grida, compleanni, urla, temporali, risolini, fruscii, rimproveri, gorgheggi, musica … vita che scorre e passa, vita che in realtà non viene, vita che finisce. Ed io finisco con essa assieme a lui. Sparisce la luce, sparisce il sole, sparisce tutto. E ricompare lui, di fronte a me, le lacrime negli occhi. E non capisco perché io sia vestita, e non capisco perché tutto sia bianco attorno, e non capisco dove sia tutto il resto, e non capisco perché non riusciamo a smettere di piangere occhi negli occhi, lacrime nelle lacrime. E non capisco nemmeno perché lui non parli, eppure lo senta distintamente nella testa, nel cuore, dappertutto, mentre se ne sta con la fronte poggiata alla mia, gli occhi aperti, le labbra serrate.

Questo era quello che ci meritavamo. Questa era la scelta che dovevamo concederci di vedere. Questo è quello che non avremmo mai. E mi sarebbe anche andato bene darti a lui, consegnarti di nuovo a lui, ma non darti alla morte, ad un demone che ti faccia a pezzi. Ed allora sai che c’è? Non mi interessa morire, salvarmi, tornare, andare, venire, vivere ancora. Non mi interessa. Sia come sia. La mia vita era quella con Tatia, e non l’avrò. La mia vita era quella con te, e non l’avrò lo stesso. Ci può anche essere un altro destino là fuori, piccola, ma non mi interessa. Ci possono essere mille vite, ma non mi interessano. Vorrei averti strappata via al destino di martire che ti hanno dipinto addosso. Vorrei averti strappato via da lui, fregandomene del resto, persino di te, facendo l’egoista, lo stronzo, l’insensibile, il bastardo. Ma io non sono questo, no? Non lo sarò mai, vero? Non c’è destino che ti possa cambiare, in fondo, da quello che sei dentro. Un destino che da tondo ti renda quadrato. Un destino che da Ilai Radcenko ti faccia rinascere Draco Malfoy. Un destino che ti leghi alla sola donna che non avrai mai e che ti faccia morire con lei. Sebbene lei non l’avrà nessun altro, mai. Solo la morte l’avrà: e la morte, come una maledetta e dannata ladra, ha preso l’abitudine di togliermi tutto di dosso. Compresa te, che eri vita, meraviglia, terra alla fine del mare appena scoperta. Compresa te, che eri riscatto, redenzione, liberazione, ricompensa, premio. Ma non c’è mai niente di giusto al mondo. E dovremmo smettere davvero di vivere così, tu ed io, a cercare sempre quello che è giusto. E dovrei smettere io di fantasticarti qui, adesso, mia in un solo istante, prima della scure del boia sulle nostre teste.

Tu, tutto questo non lo saprai mai. Perché non sono questo, io. Sono quello che ti lascia andare, quello che ti dice che devi fare ciò che credi, quello che non ti dirà mai nulla più del necessario.

Non lo saprai mai. Non lo sai. E in fondo non serve che tu lo sappia.

In fondo ti è sempre bastato uno nella tua vita in assoluto.

“Ti basta uno nella tua vita… in assoluto…”.

Tutto si lacera con la forza di un uragano che si infrange sulla costa. Un enorme frastuono nelle orecchie, e poi mi ritrovo di nuovo nel giardino di Draco, con Ilai di fronte. Il volto tumefatto, i lividi che gli mangiano il viso, le labbra riarse dal sangue, il colorito grigiastro. E io sono di fronte a lui, di nuovo, la garza che mi è scivolata dalle mani, atterrando sulle foglie secche, dopo l’allusione non voluta che ho fatto a Draco. Mi guardo attorno sbigottita, la luce dell’alba è ancora lontana, sono perfettamente vestita, ho i capelli in ordine, nessun bacio ha sfiorato le mie labbra, nessun ti amo ha varcato quelle di Ilai.

Sono di nuovo qui a medicargli le ferite come quando? Un’ora fa, un anno fa, una vita fa? Lo guardo ad occhi spalancati, le lacrime affacciate alle ciglia, il labbro inferiore che mi trema senza controllo, mentre non riesco a capire che cosa sia successo, se io abbia sognato, se sia stata solo la mia immaginazione, se semplicemente io non stia impazzendo. Mi sento venire meno come se stessi perdendo i sensi, e mi aggrappo di nuovo alla camicia di Ilai, guardandolo disperatamente, alla ricerca di aiuto, spiegazione, soccorso.

“Che c-cosa è…?” balbetto, non potendomi impedire di piangere ancora, gli occhi fissi nei suoi, mentre cerco ancora di capire che cosa sia successo.

Ma lui fraintende la mia espressione, pensa che sia terrore per quello che ha detto o la confusione volubile che lo tiene ancorato a me.

Sorride tristemente, mi accarezza la fronte e sussurra con stanchezza: “Non ti preoccupare, era solo un commento stupido. E non ti preoccupare anche per me. Me la caverò. Pensa solo a tornare sana e salva, ok?”.

Non aspettando la mia risposta, si alza e torna verso la casa.

Lasciandomi lì con i frammenti di una vita mai vissuta tra le mani.

E senza capire se quella vita l’ho vista davvero o è stato solo un sogno. 

 

 

… ed è lì che, non so nemmeno quanto tempo dopo, mi trova Helder. Ancora seduta sotto quell’albero, una mano poggiata sulla corteccia del tronco, lo sguardo incantato e perso sul muschio sotto le mie scarpe. Sebbene la senta arrivare, sebbene con la coda dell’occhio la veda avvicinarsi, non riesco comunque a muovermi, ad alzarmi da terra, a fare qualsiasi cosa.

Sono prosciugata da tutte le mie forze.

Helder di primo acchito non si accorge di niente, si avvicina cauta forse solo perché teme che io sia spezzata dalla prova imminente, o preoccupata per Alex, o arrabbiata per il coinvolgimento di Ilai.

Perciò non si cura granché di trovarmi seduta per terra, apparentemente lontana mille miglia con i pensieri.

È prudente ed attenta anche quando mi rivolge la parola, sussurra come se avesse paura di disturbare: “Herm, manca poco all’alba… mi serve il ciondolo di Tatia per individuare dove si trova Alex… ora mi serve che…”. Poi d’improvviso si interrompe, la vedo aggrottare la fronte in preda alla confusione e alla preoccupazione, ed allora mi impongo di sollevare lo sguardo simulando un sorriso statico e tirato, mentre faccio leva sul braccio per alzarmi in piedi. Le ginocchia mi tremano ancora, ma riesco per fortuna a reggermi ancora diritta, quindi annuisco senza convinzione e faccio per muovermi per tornare verso la casa. Il mio passo è ancora malfermo, traballante, incerto, ma lei non mi sente empaticamente. Può scambiarlo per qualsiasi altra cosa, non per la sua vera ragione. La vera ragione. Sicuramente non lo può collegare ad Ilai. È Draco che mi ha sempre reso così, mai il ragazzo russo dallo sguardo gentile. E neanche sono del tutto convinta che sia stato davvero lui e non io. Non sono neanche convinta che sia davvero successo qualcosa. Fermo il flusso di immagini che di nuovo mi colpiscono nella memoria, ed accenno un cenno del capo ad Helder adesso di fronte a me, fingendo che significhi che sono pronta ad andare. Ma Helder, invece, resta con la fronte corrucciata, mi studia senza ritegno e fa un gesto d’impazienza rabbiosa ed impotente, probabilmente perché non riesce a sentire che cosa provo. I suoi occhi difatti sono del suo solito colore, non del mio. La Titanca funziona ancora, sono cieca all’Empatia. Per fortuna. Quando le passo accanto, mi afferra per un polso costringendomi a fermarmi. Mi guarda ancora, sospettosa, alla fine l’Empatia è solo un surplus per lei. Mi conosce, sa chi sono e sa anche che non è normale che io sia così… apatica.

Deve essere successo qualcosa. Qualcosa che lei non sa.

Qualcosa che nessuno sa. Qualcosa che nessuno può sapere.

Me lo chiede senza peli sulla lingua, senza esitazione, non lasciandomi il polso, come se temesse che le possa sfuggire: “Che cosa ti è successo, Herm?!”. Scrollo le spalle cercando di rassicurarla, non dirò mai a nessuno che cosa è successo. A nessuno. Non lo deve sapere nessuno.

Neanche io.

Me ne devo dimenticare.

Se me ne dimentico, non è mai esistito.

Per quanto però mi sforzi di fare uscire la voce e di dire una cosa qualunque per rafforzare la mia fallace indifferenza, le corde vocali non rispondono ai comandi. Me ne sto bellamente in silenzio, con il labbro che trema irrefrenabile, gli occhi lucidi e la testa che si limita a negare debolmente.

Helder allora alza la voce, si preoccupa sul serio, stringe di più la presa sul mio polso, scuotendomi appena: “Non farmi preoccupare per favore! Che cosa è successo?!”.

“N-nulla… n-niente, s-sto bene…” assicuro con improvvisa risoluzione, sebbene non possa impedirmi di balbettare e di avere una voce pigolante e gracchiante. Serro le spalle e decido perlomeno di sincerarmi che quello che ho supposto sia corretto. Sospiro a fondo ed aggiungo con un tono di voce casuale, ma fastidiosamente tremante alle mie orecchie: “Volevo solo chiederti una cosa prima di andare…”.

“Tutto quello che vuoi…” mi rassicura lei, pensando alla prova, pensando a mio figlio. Mi lascia il polso e mi guarda in attesa, un filo di apprensione negli occhi che non accenna a spegnersi.

“Quello che state f-facendo ad…” inizio, ma la voce mi manca al momento di pronunciare il suo nome. Respiro, cerco di darmi un contegno, cerco di nascondere il singhiozzo che già mi sta raggiungendo la gola. Riprendo con voce più stabile: “Quello che state facendo… ad…”, ancora mi fermo, ancora la voce si spezza, Helder mi guarda ancora ed improvvisamente il volto le si tinge di una consapevolezza diversa, marcata, scavata.

Non lo deve sapere nessuno. Se non lo sa nessuno, se me ne dimentico, non è mai esistito.

Mi agito, terrorizzata che capisca qualcosa. Ed allora finalmente la voce esce fuori limpida: “Quello che state facendo ad I-Ilai… mi potrebbe permettere di sentire i suoi pensieri? F-forse di vi-viverli addirittura?”. Riprendo fiato come se fossi stata sott’acqua, il mio respiro decelera ed anche il mio viso riprende colore.

Le spalle di Helder si afflosciano come se avesse perso il sostegno del corpo. Eppure non esita a rispondermi con finta nonchalance: “Probabilmente sì… qualche cosa di confuso, fino a quando non siete vicini… qualche pensiero mozzicato. Stavamo aprendo la connessione con la tua mente, ti ho già spiegato come dovrebbe succedere, no? Deviamo la connessione che abbiamo con te su di lui. Probabilmente qualcosa sarà fluito da lui a te… in modo totalmente inconsapevole. Radcenko non può rendersene conto, sei cieca anche per lui. Ma dovrebbe essere finito adesso… abbiamo finito, la connessione è stabilita. Siete Assonanti alchemici. Un po’ di Telepatia empatica… ma niente di così forte se non siete stati vicini. E tu… non gli sei stata vicina, vero?”. Me lo chiede con un’ombra di panico, di terrore, di ansia.

Che significa essere vicini?

Che cosa significa in fondo?

Siamo stati solo vicini… e quindi… io…

No.

Non lo deve sapere nessuno. Se non lo sa nessuno, se me ne dimentico, non è mai esistito.

Rispondo velocemente, troppo velocemente, quasi incespicando nelle parole: “No. Assolutamente no. Ho sentito solo alcuni voci confuse nella testa. E ho pensato ai Karkaroff… o al Segno di Fuoco… quindi era lui. L’avevo immaginato. Sentivo che parlava di sangue ed avevo pensato che fossero Zabini e Nott, ed invece era lui, nella mia testa… bene, almeno non sto impazzendo del tutto… meno male che è passato allora… non sta bene spiare la privacy di una persona…”, mi esce fuori una risata spasmodica, idiota, maledettamente somigliante ad un rantolo da moribonda, quindi cambio subito discorso ed aggiungo: “Hai bisogno del mio sangue, hai detto? Draco te l’ha già dato? Come credi che funzionerà il ciondolo? Farà luce oppure…”.

Herm…”. La voce di Helder mi interrompe e suona come un proiettile sparatomi al centro del torace.

Non lo deve sapere nessuno. Se non lo sa nessuno, se me ne dimentico, non è mai esistito.

“No…” rantolo con le lacrime agli occhi, sollevando il palmo furiosa verso di lei “No, niente Herm. Niente Herm. Niente di niente, Helder… basta…”.

Lei per tutta risposta mi ignora e mi stringe di nuovo il polso con nuova decisione, soffiandomi contro poche parole con voce tonante: “Gli sei stata vicina, vero? Hai sentito i suoi pensieri?”.

Mi divincolo velocemente dalla sua presa, mettendo qualche passo tra me e lei, come se non ne sopportassi la vicinanza. Ed è così, assurdamente è così. Sono allo stremo, ormai. Persino la morte, adesso, mi sembra riposante. La odio per non avermi avvisato. La odio per avermi trascinato in tutto questo. La odio perché so che potrebbe mentirmi, pur di preservarmi integra al massimo per affrontare Adamar.

“Non è mai successo…” le dico, guardandola con livore negli occhi “Se non mi chiedi niente, se non sono costretta a dirti bugie, non è mai successo… rispetta almeno questo, per favore…”.

“Tu non capisci, Herm!” inveisce lei guardandomi lacerata “Era la sua mente! Non eri tu! Qualsiasi cosa sia successa, qualsiasi cosa tu abbia visto… era la sua mente, non eri tu!”.

Rido senza ritegno, amaramente, duramente, come se mi avesse raccontato una brutta storia dell’orrore.

“Avanti, allora…” aggiungo senza allegria, senza lacrime, senza emozione che non sia rabbia ed odio “Avanti allora… dimmelo, adesso. Dimmi la verità. Dimmi che quella che ho visto era solo la sua immagine di me, e non ero davvero io. Dimmi adesso che io sicuramente non avrei fatto nulla di ciò che ho visto. Dimmi adesso che è solo quello che lui voleva, e non quello che volevo io. Giurami con tutta la lealtà di questo mondo che io non mi sarei mai comportata così e che non avrei mai avuto un dubbio, un incertezza, un ripensamento. Dimmelo, dai, giuramelo…io non posso dirlo a me stessa. Ma tu a quanto pare sì, vero? Dimmelo allora… convincimi… ”, lei fa per aprire le labbra per rispondermi una cosa qualunque che non voglio sentire, che non mi interessa. Estraggo la bacchetta, gliela punto contro, la vedo esitare spaventata come se non mi riconoscesse.

“Non mi interessa che tu mi fabbrichi delle scuse idiote per assolvermi da quello che forse avrei potuto fare…” sibilo minacciosa, la bacchetta puntata contro i suoi occhi “Non mi interessa che cosa avrei fatto se davvero tutto quello che ho visto fosse successo. Non mi interessa giustificarmi, o avere alibi, scuse. Non mi interessa… e neanche ne ho bisogno…”, abbasso la voce, cerco di trattenerla ferma, ma comunque trema un po’ mentre aggiungo: “Io non avrei dovuto sapere quello che provava. Quello che sentiva. Aveva il diritto che fosse un segreto suo. E non lo potrò più guardare come lo guardavo prima sapendo che cosa ha dentro… sapendo che cosa mi avrebbe dato… sapendo che cosa avrebbe voluto dirmi davvero e che cosa non ha mai permesso che io sapessi… sapendo che cosa sente, guardandomi… io… non dovevo portarmi anche questa colpa, dentro. Io… non dovevo avere anche questo rimorso…”, rido ancora come un’isterica, una spostata, una delirante pazza, la bacchetta che quasi mi sfugge dalle mani. Ed alla fine mastico fuori una sola incerta sillaba di quello che mi si sta accartocciando dentro: “Ma non è il rimorso la parte peggiore. Non è il senso di colpa. È il rimpianto… ed il dubbio. Non dovevo avere anche questo dubbio… che davvero avrei dovuto dare una possibilità a quello che prova per me…”.

Non lo deve sapere nessuno. Se non lo sa nessuno, se me ne dimentico, non è mai esistito.

Abbasso la bacchetta, la rimetto nella tasca dei pantaloni, mi volto per tornare dentro.

Dandole le spalle, le dico davvero il mio ultimo desiderio. Il mio testamento.

“Io domani non tornerò. Morirò con Draco, come doveva essere. Ma Ilai deve tornare indietro. Se morirà con me, ti perseguiterò da qualsiasi inferno dovessi capitare…”.

 

 

Quello che succede dopo, nella mezz’ora che impieghiamo per localizzare Alex e per organizzare gli ultimi dettagli, mi scorre indifferente davanti come se neanche esistesse.

Tutti ormai sono svegli, esagitati, affaccendati a svolgere i loro compiti.

Io al contrario sono gelida come un pezzo di ghiaccio. Me ne sto seduta sul divano del salotto a braccia incrociate, aspettando solo il momento in cui avrò il segnale per poter andare.

Ignoro dove sia finita Helder, rispondo a monosillabi alle domande di Seth e Dean.

Draco scende dal piano di sopra, si siede accanto a me ed immediatamente si accorge che è successo qualcosa. Mi guarda incerto stringendo gli occhi grigi.

“Che è successo, Granger?” chiede senza preamboli, studiandomi con attenzione.

“Niente…” sorrido mio malgrado, non è mai esistito  “Voglio solo farla finita con questa storia…”.

“Non lo dire a me…” borbotta lui chiudendo gli occhi ed appoggiando la schiena al divano “Poi uno si chiede come mai Potter sia venuto fuori così disturbato… ti si squaglia il cervello a vivere con il complesso del prescelto…”. Azzardo una risata lievemente più sincera, scuotendo il capo incredula, sebbene speri solo che non indaghi più di tanto. So che non si è bevuto quello che ho detto. Mi accorgo subito che segue il mio sguardo sfuggente quando Ilai entra nella stanza.

Non è mai esistito.

La prova che Draco abbia intuito qualcosa mi arriva quando, in un momento di stallo in cui tutti sono altrove a pianificare dettagli della nostra missione suicida, mi chiede innocente: “Allora hai salutato Radcenko?”. Sussulto, non lo deve sapere nessuno, non è mai esistito.

Ha la voce assolutamente banale del genitore che chiede al figlio se ha ringraziato dopo un regalo. E lui dubito che sappia usare una voce impersonale del genere, resettata sul cortese e sull’ educato, neanche per rimproverare bonariamente sua figlia. Figuriamoci se possa usarla con me: ha capito che è successo qualcosa e con Ilai.

Non è mai esistito. Mi dimenticherò che sia mai esistito.

Ma qualcosa è successo. Sì… qualcosa. Draco non mi chiederebbe nulla altrimenti. Che cosa è successo, allora? Fantasie, ecco. Sciocche fantasie. Una vita di fantasia.

Il resto… non è mai esistito.

Concentrandomi quindi solo sui pensieri di Ilai e sul fatto che innocentemente voglio nasconderli solo perché suoi privati, rispondo tranquillamente inarcando un sopracciglio: “Mi stai davvero facendo la domanda che ho sentito?”.

“Certo, amore…” asserisce lui con strafottenza, poggiando un braccio sullo schienale del divano con noncuranza, prima di mormorare stoico: “Non siamo in una fase di riconciliazione universale dove una qualsiasi mia domanda inopportuna può passare per semplice tentativo di fare conversazione ante mortem? E non invece per curiosità morbosa, possessività paralizzante e tendenze omicide irrisolte di Mangiamorte riscoperto che sceglie le sue vittime tra i russi?”.

Mi massaggio stancamente le tempie, rispondendo con voce fiacca: “Dovrei anche risponderti, dopo che mi hai detto che ti piace fantasticare sul suo cadavere?”.

“Ma io parlavo dei Karkaroff, mica di Radcenko… quel gran bravo ragazzo…” blatera scioccato, portandosi una mano al cuore come se lo avessi ferito profondamente, prima di guardarmi come se fossi una specie di strega che pronuncia eresie su eresie “Sei proprio malpensante, Granger…”.

Certo come no. Stava proprio pensando ai Karkaroff. Ha appena guardato Ilai come se lo volesse impalare.

“Esiste una risposta qualunque che tronchi questa conversazione prima che ti ammazzi io?” chiedo con un sorriso falso, decisa a prendere questo discorso come l’ennesimo tentativo di punzecchiarmi e non altro. Non posso pensare che davvero la voglia una risposta. Draco, ovviamente, non ci sta ad assecondarmi neanche per una volta, neanche ad un passo dalla morte, neanche se lo implorassi. Poggia la nuca sullo schienale del divano, guarda il soffitto e biascica seriamente: “Probabilmente non esistono risposte giuste o sbagliate, Granger… ma esistono decine di risposte che vorrei davvero sentire adesso… scegline una a caso ed andiamo serenamente incontro alla morte…”, torna a guardarmi dall’alto verso il basso con un sorriso storto, aggiungendo canzonatorio: “Guarda, giurin giurello che farò anche verosimilmente finta di crederti…”.

“Una risposta a caso tra cosa, esattamente?” chiedo con un filo di voce, il cuore che mi va su e giù in gola. 

“Le bugie, Granger…” mi risponde lui con ovvietà, schioccando la lingua e ritornando seduto compostamente “Scegli una stronzata qualunque… e dimmela…”.

Mi stringo nelle spalle distogliendo lo sguardo da lui, pensando persino per qualche istante davvero ad una bugia da raccontargli.

Perché tanto sono diventata una Cantastorie, mi invento qualsiasi cosa pur di non dire la verità.

Poi, mordendomi il labbro inferiore, mi accorgo che non ho una scorta di nuove menzogne a portata di mano. Ci vorrebbe troppa fantasia, troppo coraggio, troppa faccia tosta. E del resto io a lui non posso mentire mai più. 

Allargo le spalle con leggerezza, dicendo cauta: “Non avevamo finito di raccontarci bugie? Non era questa la fase della… come avevi detto… della riconciliazione universale?”.

“No. La riconciliazione universale è eludere la verità…” sussurra lui, di nuovo senza guardarmi, poi i suoi occhi tornano per un po’ nei miei, grigi come il mare a dicembre “Non credo di averla mai voluta da te la verità, figuriamoci adesso che sto per tirare le cuoia. Quindi credo che le bugie caschino a fagiolo…”.

“Ci possiamo limitare alle omissioni allora?” bisbiglio con un filo di fiato, senza più forze e nemmeno coraggio, con un tono di voce implorante, da preghiera, piegandomi come un giunco secco su di lui. Appoggio la fronte sulla sua spalla ad occhi chiusi, come se davvero lo stessi scongiurando di non farmi parlare, come non mi sono piegata davvero in tutta la mia vita. A suo modo, come sempre, lo capisce. Lo sento sussultare, come se fosse autenticamente sorpreso ed al contempo sconvolto. Poi, lenta, la sua mano si arrampica sulla mia nuca, avvicinandomi a sé. Sorrido, mentre resta di nuovo con le labbra solo poggiate sulla mia fronte, parlando con finta irritazione: “Non è tanto onesto da parte tua… temo che mi scateni la curiosità morbosa e tutto il resto… ma d’accordo… effettivamente l’omissione mi impedisce di fare la faccia di quello che ti crede mentre biascichi scuse… meno sforzo e più energie per il demone. Sei una grande stratega, Granger…”.

Sorrido ancora dandogli un colpetto sul fianco, mormorando sarcasticamente: “Sei tu quello che non mi ha mai dato credito come Capo degli Auror…”.

“Ti prometto che ti darò tantissimo credito d’ora in avanti…” ridacchia lui sempre con la bocca sulla mia fronte, facendomi rabbrividire, per poi concludere ironico: “E’ davvero un’enorme sfortuna che il mio d’ora in avanti sia di poche ore…”. Sorrido ancora scuotendo il capo, poi, non appena sento dei passi nel corridoio, mi tiro bruscamente a sedere ed anche Draco torna eretto, sebbene con molta più lentezza di me.

Lo sento ancora guardarmi di sottecchi, però resto dritta con lo sguardo limpido.

A rientrare, però, è Helder, non Ilai. Resto immobile ed indifferente a guardarla, mentre a disagio mi chiede di bagnare il ciondolo di Tatia con il sangue mio e di Draco. Annuisco con il capo, senza aggiungere altro. Il ciondolo a contatto con il sangue si illumina leggermente come se stesse effettivamente reagendo a qualcosa. Quindi la tesi di Dean era giusta. Helder poi mi esorta ad esprimere il desiderio con voce tonante e decisa. Voglio trovare mio figlio.

La goccia di sangue d’unicorno persa durante il parto che Tatia mi ha lasciato, non mi delude. All’interno di essa compare una sorta di ago che somiglia a quello di una bussola. Punta in una direzione ben precisa.

Verso Alex.

A quel punto non ci resta che seguirla.

Ci muoveremo tutti assieme, per poi dividerci progressivamente man mano che individuiamo il luogo preciso dove si trovano i Karkaroff. Prima lasceremo Kevin che disporrà il cordone di sicurezza per i babbani. A quel punto, dopo qualche chilometro, sarà il turno dei maghi e delle streghe che devono lanciare i Patronus come protezione, ed infine gli Empatici che devono comunicare con Ilai. Quando ci muoviamo per lasciare la casa di Draco, intravedo fuori dal cancello un grande serpentone di gente di cui solo alcuni sono miei conoscenti. Ovviamente ci sono Harry, Ron, Ginny, Natalie, Dean e Kevin, nonché altre persone di cui intuivo la presenza come Luna, Nott e Neville, ma comunque siamo almeno sul centinaio di persone tra Empatici e maghi che hanno reclutato Daphne e Ginny. Stranamente, all’ appello manca proprio Blaise Zabini che avevo visto in casa qualche ora fa. Non me ne preoccupo onestamente, di fondo credo che non avesse nessuna voglia di restare qui ed aiutarci.

Credo che fosse venuto solo per vedere Pansy… e quello che deve aver visto, non deve essergli piaciuto affatto.

Dopo che ho raccolto i miei pochi bagagli, mentre Draco è andato a salutare per l’ultima volta Serenity, resto ad osservare tutta la gente appostata fuori dalla finestra, una mano sull’intelaiatura della tenda. Sento una sensazione familiare di calore sulla nuca, come quella di una mano piccola e sottile.

So esattamente che cosa significa, ormai è come se ci avessi fatto l’abitudine, mi aiuta persino a sentirmi più tranquilla.

È Tatia, anche lei a suo modo mi vuole salutare.

Sorrido ad occhi chiusi, come se solo così potessi vederla.

Mi ritrovo a parlarle come se fosse davvero qui.

Sono pensieri fugaci e confusi che non distinguo neanche io: assomigliano a rassicurazioni, a richieste di perdono e a confessioni. Mi pizzicano gli occhi, provando colpa, vergogna ed imbarazzo, ma la mano di Tatia sulla mia testa non mi lascia mai, come se mi garantisse la remissione dei miei peccati, il perdono, l’assoluzione.

Sebbene sia io che non posso perdonare me stessa.

Rassicurata superficialmente, mi ritrovo di nuovo a pensare alla bambina che ho visto, alla figlia mia e di Ilai che portava il suo nome. Stranamente mi ricorda quello che aveva scritto lei nella sua lettera, sulla visione che aveva avuto, sulla bambina di nome Charlotte che non aveva mai potuto avere da suo marito. Lo considero quasi un segno strano che entrambe, prima di morire, abbiamo avuto negli occhi e nel cuore il ricordo di una figlia di Ilai che non abbiamo mai davvero avuto.

Questa cosa, invece che agitarmi e farmi sentire ancora più condannata, mi rende più tranquilla come se ancora mi sentissi meno sola, come se anche lei avesse provato quello che provo io.

Ovvio che lo provava. Moriva anche lei uccisa, molto prima di quando fosse il momento, lasciando una selva di cose in sospeso. Rimpianti, rimorsi e ricordi.

Ed anche lei moriva, essendo…

Sobbalzo ancora, riaprendo bruscamente gli occhi: la stretta tiepida non mi lascia, quasi invogliandomi a terminare i miei pensieri, ma invece di nuovo li serro forte dentro di me.

Non lo deve sapere nessuno. Se non lo sa nessuno, se me ne dimentico, non è mai esistito.

Quasi a preservare quel senso di pace che però Tatia mi ha indotto, incanto la sua collana perché non mi si sfili dal collo. Voglio averla con me, fino all’ultimo.

È solo a quel punto che la presa calda mi lascia. Grazie Tatia.

Respiro profondamente, scrollo il capo e mi allontano dalla finestra.

Naturalmente adesso in continua successione come le tappe di una via crucis, so perfettamente che cosa altro mi aspetta: i saluti. È forse per quello che, inconsciamente, cerco Draco con lo sguardo mentre sto uscendo dal salotto. Sarà duro non trasformare quelli che agli altri dovranno sembrare degli arrivederci, in addii. Ho bisogno che ci sia lui con me, adesso. Finalmente lo intravedo mentre scende le scale, sfregandosi gli occhi lucidi dopo il saluto a Serenity.

Quando mi vede però in attesa sotto le scale, scuote velocemente il capo, assumendo un’espressione neutra.

“Sei pronta?” sussurra gentile, fermandosi di fronte a me. Annuisco con decisione, sfiorandomi la collana con le dita. Senza aggiungere altro, con naturalezza, mi prende la mano, intrecciando le dita con le sue. Abbasso lo sguardo guardando le nostre mani legate assieme, tentando al contempo di nascondere il rossore che mi ha già infiammato il viso.

“Insieme?” sospira Draco, una mano sulla maniglia della porta d’ingresso e l’altra stretta forte nella mia.

“Fino alla fine del mondo…” sussurro, guardandolo negli occhi e ripetendo la frase che lui ha detto a me prima di dormire “Anche se fosse stanotte”.

Usciti nella luce del primo mattino, con il cielo ancora così grigiastro da dare l’illusione di essere sospesi in un tempo eternamente fermo, la prima persona che ci troviamo di fronte è quella che, molto probabilmente, ha sempre creduto in me e Draco molto prima che lo facessimo noi.

Seth.

Ha gli occhi verdi umidi, tira un po’ su con il naso, però non piange, si sforza con tutte le sue forze di non farlo. Kevin ha una mano poggiata dolcemente sulla sua spalla come a tenerlo calmo e tranquillo. In uno slancio d’affetto, che solo a lui può venire così naturale e spontaneo, allunga le braccia per poi stringere me e Draco tutti e due nello stesso momento. Draco, ovviamente, rimane rigido e si limita a dargli fraternamente una pacca sulla spalla. Io, invece, lo stringo forte a me, cercando di imprimermi come se fossi un pezzo di argilla il calore del corpo del mio migliore amico.

“Cinque anni fa…” bisbiglia con voce tremante nel mio orecchio, quando Draco alla fine si è divincolato dal suo abbraccio “… quando te ne andasti dal Petite Peste… ricordi?”.

Annuisco solo con il capo per non affidarmi alla mia voce che non so come potrebbe suonare.

“Ero certo che ti avrei rivisto dopo tantissimo tempo…” sussurra convincente, staccandosi da me ed accarezzandomi il capo “… questa volta sono certo che tornerai presto. Ci rivedremo presto. Ne sono sicuro…”. Annuisco con un sorriso fingendo di essere convinta delle sue parole, e lo ringrazio per tutto quello che ha fatto per me.

Lui si scansa quasi con fastidio, dicendomi che non gli devo nulla.

Staccandomi da Seth, è il turno di Pansy che, ovviamente, lasceremo qui a causa della sua gravidanza, in modo da prendersi anche cura delle bambine. Ha gli occhi vistosamente lucidi, sbatte le palpebre un paio di volte, ma non abbandona mai il suo sarcastico sorriso. Nel fondo delle sue iridi castane, vedo un dolore maggiore di quello di chiunque ci sta salutando… come se davvero, come sempre, lei fosse la sola che comprende che cosa abbiamo dentro io e Draco. E quanto questo non possa passare per il sentimento puro che serve per sconfiggere Adamar.

Eppure è come se ci reggesse il gioco, come farebbe… un’amica.

Sbuffa seccata guardando me e Draco, prima di borbottare all’indirizzo di lui con uno schiocco di lingua: “Non ti abbraccio neanche morta, Malfoy… puzzi ancora di carogna…”.

“E io potrei abbracciarti solo se avessi gli avambracci lunghi un metro e quindici…” commenta Draco con voce monocorde “Stai già lievitando pericolosamente, Parkinson… sei stata fortunata una volta a non diventare una mongolfiera umana, ma farti mettere di nuovo incinta da Thomas è davvero al limite del gioco d’azzardo…”.

Lei, come se non l’avesse ascoltato, guarda tutti e due con espressione tra il serio ed il canzonatorio, prima di ribadire stoica: “Sono incinta. Sono debole e vulnerabile, nonché suscettibile sul mio aspetto. E vi preavverto che il nero… mi cade davvero malissimo sulla pancia. Quindi vedete di tornare vivi… o firmatemi una dispensa per venire al vostro funerale vestita di rosso fragola… quello sì che mi sta bene… meglio che ad una Grifondoro, direbbe qualcuno…”.

Sorrido nonostante tutto, guardando in tralice Dean che, sicuramente, è l’autore del complimento. Quando, però, la supero con un cenno del capo che spero riassuma tutto quello che voglio dire per ringraziarla del suo carattere ruvido e di quanto mi abbia spronato spesso a reagire, vedo Draco porgersi su di lui ed abbracciarla, nonostante tutto.

Distinguo persino qualche parola sparsa, che fingo di non sentire mentre parlo con Dean.

Se la sola persona che può renderti felice così è lui… non privartene mai.

Quando Draco si allontana da Pansy dandole un buffetto sulla guancia, alla quale lei alla fine scoppia a piangere rientrando in casa, lo riaccolgo con un sorriso incolore, stringendogli la mano e non facendo commenti sulle sue parole di commiato. Lui sorride in modo sbiadito, poi mi stringe la mano mentre finalmente lasciamo la villa. Lo vedo soppesarla con tristezza qualche secondo, lo sguardo grigio fisso su una finestra del primo piano, da cui proviene un bagliore rosato.

La camera di Serenity.

Non saprei che altro dire, le parole sono così bastarde che me le conto una per una. Mi limito a stringergli più forte la mano, sperando che basti. Dopo essersi lasciati alle spalle la sua casa, camminiamo in silenzio per una ventina di minuti, guidati dalla luce del ciondolo che, come una bussola, ci indica una direzione ben precisa. Gli altri, attorno a noi, sono anch’essi silenti anime in pena e, sebbene siamo così tanti, sembriamo scivolare nella nebbia del primo mattino come fantasmi in esilio.

Quando più o meno comprendiamo in che direzione stiamo andando, riuscendo ad isolare mentalmente le costruzioni che ci sono nei paraggi, comprendiamo che i Karkaroff ed Alex potrebbero essere nascosti solo in una decina di esse, tutte ammassate sulla scogliera a strapiombo del mare. Sono vecchie case di pescatori ormai abbandonate ed in disuso. A torreggiare tra esse, un monastero lasciato all’incuria da qualche decennio, fatiscente e pericolante. Descrivere a quel punto un perimetro attorno all’area, diventa abbastanza semplice.

Arriva quindi il momento di salutare Kevin che è il primo a fermarsi, giudicando sufficientemente lontano il luogo dove sistemerà i poliziotti babbani per impedire fughe di notizie, oltre che di imprevisti incidenti. Lo saluto affettuosamente augurandogli buona fortuna per tutto, e gli chiedo con maggiore sincerità di quella che avrei per Seth, di prendersi cura di lui qualora non dovessi tornare. Mi restituisce uno sguardo torbido ma non sorpreso, a dimostrazione che neanche lui in fondo è così convinto che torneremo. In un modo strano è più facile salutare una persona che sembra più insicura del mio ritorno.

Mi permette di essere più me stessa e di smettere di fingere. È più…rassicurante, ecco.

Dopo aver lasciato Kevin, ci addentriamo di più in una sterpaglia di vegetazione rada e sferzata dal vento dove non c’è alcun segno di abitazione. Decisamente meglio così, nessuno correrà inutili rischi tra la popolazione inerme. Fa freddo, nuvole basse velano il sole all’orizzonte, mentre il mare geme grigio come un lenzuolo vecchio. La luce calda del ciondolo, alla fine, individua nel monastero abbandonato il luogo in cui si trova Alex. È una specie di roccaforte sul mare, da cui si accede attraverso una minuscola lingua di terra erosa dalla salsedine. Ovvio che abbiano scelto questo posto per nascondersi… ci vedranno subito arrivare potendosi accedere solo da una direzione. Non possono temere attacchi da altri lati, né tantomeno dal mare: non si può attraccare, le onde sbatterebbero lo scafo contro gli scogli, ed anche riuscendoci, la parete di roccia è alta una quarantina di metri. Impossibile arrampicarsi. L’accesso è anche problematico dall’alto: troppo vento per scope, ippogrifi o altro. E dubito che non abbiano ripetuto il trucco dell’impedimento alla Smaterializzazione che usarono per rapire Alex.

L’unico accesso è appunto la fascia di terra sparsa di cespugli brulli.

Basterebbe vederci in compagnia o con qualcosa che non gradiscono per scappare o fare del male a mio figlio.

Come ha detto Helder ieri, effettivamente il nostro punto a favore è che non ci aspettano così presto. Probabilmente ci pensano ancora a lambiccarci il cervello su come liberare Alex. Certamente non pensano alla Solutio Damnationis.

Nei successivi quindici minuti ci limitiamo a studiare bene la situazione, cercando di nasconderci quanto più possiamo negli anfratti rocciosi: la mancanza di alberi rende problematico celarci alla vista dei Karkaroff. E siamo in numero tale da metterli sicuramente in allarme. Quando più o meno abbiamo concordato su come muoverci e su come sistemare i cordoni di sicurezza di maghi ed empatici, comprendiamo che forse la cosa migliore è che loro si sistemino dopo che noi siamo entrati e non prima. Dovranno essere veloci, rapidi e fulminei nel prendere posizione, ma ci daranno il vantaggio di arrivare meno visibili. E, avendone pochi di vantaggi, meglio sfruttare al massimo quelli che abbiamo.

Questo, però, ovviamente significa che dobbiamo salutarli tutti adesso.

E significa anche che gli Empatici dovranno abbassare i parametri vitali di Ilai ben prima del previsto: se i Karkaroff guardassero fuori, devono vedere un corpo, non lui vivo e vegeto che cammina al nostro fianco. Chiudo gli occhi annuendo, cosciente che, dopo quello che ho vissuto stamattina a contatto con la sua mente, nessun discorso potrebbe fargli cambiare idea.

Helder ha un viso che simula un’accorata richiesta di perdono, ma non riesco a guardarla più del necessario mentre spiega come dobbiamo muoverci. Non ci riesco proprio.

Non posso neanche immaginare come potrò vederlo morire.

Con la certezza che non lo rivedrò mai più.

O muoio io, o muore lui, o moriamo entrambi: non si scampa.

Dio… non lo rivedrò mai più.

Quella nuova improvvisa rivelazione mi serra il respiro in gola, mentre Ilai chiude gli occhi e trascorre il tempo successivo in uno stato catatonico di evidente concentrazione. Ma la sola cosa che riesco a pensare, sono le ferite che ha sul torace, le ecchimosi che ha sul volto, per non parlare di quella tosse convulsa.

Lo spio, mentre respira piano e tenta di meditare come gli hanno insegnato Helder e gli altri.

Ho l’illusione che, fino a quando sentirò il suo respiro, potrò respirare tranquilla a mia volta.

Darei di tutto per restare sospesa in questo istante.

Il respiro di Ilai. Il respiro di Draco.

Tutti e due che respirano ancora.

Però i secondi passano, si affannano l’uno sull’altro. E qualcuno già si allontana, salutandoci e prendendo posizione. L’angoscia mi fa bagnare la nuca di sudore, mentre non so più neanche dove guardare per non sentirmi in colpa. Ilai di fronte a me. Draco accanto a me.

Ed è alla fine è Helder che guardo, ad occhi socchiusi, livorosi, rancorosi, sperando quasi per un miracolo dell’Empatia che senta i miei sentimenti, e senta quanto la detesto, e comprenda quanto non la perdonerò mai per avermi fatto conoscere i pensieri di Ilai.

Non lo deve sapere nessuno. Se non lo sa nessuno, se me ne dimentico, non è mai esistito.

Sentendomi vicina all’implosione come se stessi andando in overdose, decido di allontanarmi per un attimo con la scusa di volermi concentrare da sola per qualche secondo. Fingo persino un calo di potere magico, non so nemmeno che dico pur di essere lasciata in pace. E torno a respirare solo quando, semi-nascosta da un cespuglio di menta, mi raccolgo le ginocchia al petto e finalmente non ho più nessuno dei due davanti ai miei occhi.

Cerco di calmarmi, cerco di respirare a fondo… ma ad ogni inspirazione, li sento entrare sempre più dentro di me.

Non lo deve sapere nessuno. Se non lo sa nessuno, se me ne dimentico, non è mai esistito.

Ma io lo so ormai.

Non c’è più niente da fare. Ogni paravento, ogni bugia, ogni scusa… è distrutta, lacerata, fatta a pezzi. E persino la resa, sebbene amara, sebbene odiosa, sebbene impossibile anche solo da pensare, ormai è quasi necessaria pur di non scoppiare come un palloncino.

Un piccolo sassolino su una montagna: una piccola ammissione. E tutto precipita come uno smottamento, trascinandomi dietro.

.

.

Odio Helder perché mi ha dimostrato che Raissa aveva ragione su di me.

E io non l’avrei saputo se non avessi visto i pensieri di Ilai.

Se non fosse la puttana che è, se si fosse accontentata solo di Ilai… tu almeno saresti stato salvo… ed invece vi vorrebbe entrambi, quella cagna…

Ciò che mi rende così furiosa è qualcosa di enormemente semplice, che Helder, neanche con intenzione, mi ha sbattuto in faccia.

Ho sempre saputo di amare Draco. Non c’è nulla che mi farà cambiare idea, mai, neanche la morte. Però, potevo ignorare quello che provavo per Ilai e nascondermelo sotto il naso pur di non vederlo. L’ho sempre trattato con una sorta di lasciva indifferenza e di ben studiato fatalismo, affastellando parole nella testa come definizioni che significassero tutto e niente, ma evitando quelle che contassero davvero. Era sempre importante altro: mio figlio, naturalmente.

E poi Draco, ovviamente. A suo modo, Ron. E i miei amici.

Io ed Ilai, in fondo, siamo solo come quei soldati che tornano dalla guerra e si legano ai loro commilitoni. Due sopravvissuti. Bastava questo a farmi relegare quello che sentivo per lui sotto mille “non so che provo”, oppure “non ho tempo adesso”, pensando solo che tutto fosse condizionato dalle circostanze e che, a non poterle eliminare quelle circostanze, allora non si poteva neanche ragionare. Era come indagare la purezza dell’acqua quando era mescolata con l’olio. Era un semplice e contorto ragionamento astruso fatto per ipotesi.

E quindi, a quel punto, potevo tranquillamente fingere con me stessa che fosse solo questo pantano di dolore ad unirci, che fosse stato sempre solo questo tra me e lui, che essere Assonanti alchemici ci facesse questi effetti strani, che Tatia a suo modo ci manovrasse per tenerci uniti, che mi piacesse fisicamente e questo complicasse le cose.

Mi andava bene così, presa com’ero dall’assolutezza di quello che è sempre Draco per me.

Mi andava anche bene riconoscere un bisogno di lui, che mi condannava debole ed instabile, ma tutto sommato mi giustificasse: ho perso mio figlio, ci manca che non mi aggrappi a chi si prende cura di me.

Avrei sempre creduto questo, questo e basta, se non fosse stato per stamattina. Ho continuato a pensare questo, mentre ero con Draco, mentre ero con Ron.

… e ora, invece, non lo posso neanche lontanamente pensare, o supporre, o inventarmelo mentalmente così da crederci.

Da quando ho conosciuto i pensieri di Ilai, non posso più farlo. Quell’istinto a volerlo contraccambiare pur non potendo, pur sapendo che c’era Draco, pur essendo vicina a morire, ha messo tutto in chiaro nella mia testa. Per poco, per il battito di ciglia di quei pensieri nella mia testa, per la prima volta ho desiderato davvero di vivere quella vita con lui. Ho sognato qualcosa di caldo, confortante e semplice, non questo strazio continuo di dilaniarmi il cuore in questo amore per Draco, che sembra così lontano dalle idee semplici di casa, famiglia, affetto, cura, tenerezza.

Con Draco è sempre fuoco mescolato al veleno, passione mescolata all’odio, pace armata dove hai anche paura di respirare, e poi ti scoppia il cuore, e poi ti si spezza.

Ed oggi per la prima volta, davvero ho dubitato che potessi ancora sopportare che il mio cuore si spezzasse ancora.

Ho visto la vita assieme ad Ilai, quella che comunque non avrò mai… e mi sono chiesta davvero perché non mi sono data modo di sceglierla, perché non l’avessi presa in considerazione fino a quel momento. Non avevo risposte. Non le ho ancora.

Di fondo… è quello che ho sempre voluto.

Di fondo… è quello che non ho mai avuto.

Di fondo… so che quella vita, probabilmente, io con Draco non la avrò mai.

Comunque vada. Comunque sia.

E lì, nel tormento di scoprire che invece era solo fantasia e sogno, in quel maledetto strappo che da allora avverto nel fondo di me stessa, ho capito che non era solo la voglia di pace come sempre ho pensato. No. Non era stato solo lasciarsi andare ad un sogno al sapore di caramello, perché magari si è molto stanchi e provati. Non era stato farsi un viaggio mentale nella pelle di qualcun altro, e vedere cosa succede e che si prova a nascere in un altro destino. Non era stato un esperimento da custodire come qualcosa di cui ridere, o gioire, o rifuggire sconfitti.

Magari fosse stato solo questo. E del resto, è intuibile che, se mi si è conficcato nella testa e nel cuore, non poteva essere solo questo.

Non lo deve sapere nessuno. Se non lo sa nessuno, se me ne dimentico, non è mai esistito.

Però ho cercato ancora di non vedere. Ho cercato ancora di fare finta che tutto non stesse lì, grande e terribile, a prendersi gioco di me.

Fino ad ora, quando li ho visti assieme. Fino a quando ho capito che non potevo fingere più, perché il pensiero di lasciare o uno o l’altro, mi straziava nello stesso modo.

Tutto è diverso… tranne questo. Non ce la faccio a lasciarli.

Ed allora la verità mi si è avvicinata, coprendo l’ultimo passo che mi mancava. 

La verità, quella che se ne stava davanti ai miei occhi sin da quando avevo rischiato l’ira di Draco pur di dirgli che avevo bisogno di Ilai, era terribilmente semplice.

È terribilmente semplice.

Io sono innamorata di Ilai.

Lo amo. E non ci posso fare niente.

In un modo profondamente diverso da come amo Draco, ovvio, non amerò nessuno come amo Draco. Però alla fine non cambia che sono innamorata anche di Ilai. È come essere innamorate di due modi diversi d’amore: inconciliabili, incompatibili, eppure tutte e due vitali. Non li avrai mai entrambi nella vita, è impossibile: dovresti scegliere e sapere che cosa rischi, buttandoti in una cosa o nell’altra.

Questo era ciò che dovevo davvero scegliere.

Questo è ciò che mi hanno tolto.

Questo è ciò che mi avrebbe reso diversa da Raissa.

Questa era la mia scelta.

Dare il mio cuore ad una persona che, sono certa, non smetterà di spezzarlo… ma lo farà battere più forte di quanto possa essere possibile per molti?

O invece darlo a chi se ne prenderà cura, lo proteggerà e lo tratterà come la cosa più preziosa al mondo… impedendoti però anche di sentirtelo scoppiare nel petto?

So cosa volevo da ragazzina: l’amore senza aggettivi, illogico e tutto il resto. E so anche che quest’amore mi ha fatto letteralmente a pezzi per cinque anni.

So che, intimamente, dentro… lo desidererò per sempre. Ed intimamente, dentro, desidererò sempre anche di essere serena ed in pace.

Ecco, cosa è Draco, per me. Ecco, cosa è Ilai, per me.

Ad amare il primo, sono abituata da anni. Ad amare il secondo, mi sono rassegnata adesso.

Per quello odio Helder: me l’ha sputato in faccia. Come si possono amare due persone assieme?

Le puttane, le vanesie, le vanagloriose, le vanitose amano due persone, assieme.

Non io.

Io no.

Io no.  

Ed invece no: morirò da puttana e da spergiura, sebbene non ho fatto nulla che mi renda colpevole, sebbene sia solo dentro che so tutto questo, sebbene solo il cuore sia il mio assassino e il mio confessore, sebbene non ho fatto promesse o giuramenti a nessuno dei due.

Però fa comunque schifo. Moriranno entrambi immaginando che io ami esclusivamente l’altro. Fa schifo perché non posso inventarmi alcun conforto né per uno, né tantomeno per l’altro.

Ilai pensa che sarà solo e per sempre Draco, e che io non lo ami affatto.

Draco pensa che quello che provo per Ilai è più puro, e che io non lo ami affatto.

Ecco perché fa schifo. Ecco perché questa è l’ultima volta che ci penso.

Non lo deve sapere nessuno. Se non lo sa nessuno, se me ne dimentico, non è mai esistito.

Lo seppellisco di nuovo, perché mi meritavo il tempo e il modo di fare una scelta. E, se questa scelta mi è preclusa, questo sarà sempre e per sempre solo affare mio: nessuno lo dovrà sapere, mai, anche se un giorno impossibile che non vedo affatto, fossi viva e potessi davvero farla questa scelta. Se fosse Draco, non saprebbe mai quanto inaspettatamente ero anche innamorata di Ilai. Se fosse Ilai, non saprebbe mai quanto inevitabilmente avrei sempre Draco dentro.

Sono cose queste a cui una donna si abitua presto, quando cresce.

È il compromesso mozzicato con te stessa che ti fa andare avanti, nelle pause doverose tra i momenti in cui menti pietosamente al tuo cuore e agli altri.

Io non potrei sopportare mai che qualcun altro mi veda per come mi vedo io adesso.

Torno indietro con uno sguardo pulito, innocente, limpido. Tutti i miei sentimenti repressi e sepolti li metto piuttosto nel discorso che faccio a tutti prima di andare. Ringrazio la gente che è accorsa qui per aiutare noi e nostro figlio, anche se ci conosceva appena, mi faccio promettere che non correranno rischi inutili contro i Karkaroff, e a tutti affido Alex affinché sia in salvo.

Alla fine, mentre gli altri vanno a prendere posizione, restano solo Harry, Ron, Natalie, Ginny e Dean.

 

Dean è il primo che mi si avvicina, ha lo sguardo terso e lucido, eppure sicuro. Mi stringe forte tra le braccia, spingendomi a piangere prima ancora che me ne renda conto, mentre non mi dice assolutamente niente e se ne sta in silenzio, come se qualsiasi parola fosse semplicemente inutile. Quando si stacca da me, mi sorride e mi dà un buffetto sulla guancia aggiungendo scherzoso: Mi prenderò cura di mio genero come se fosse mio figlio…”. Capisco come sempre il suo riferimento neanche troppo oscuro ad Alex come futuro marito di Charisma, sorrido ed annuisco con il capo, asciugandomi le lacrime con il palmo della mano. Mi ha detto, a suo modo, la sola cosa che davvero per me è importante, e cioè sapere che farà da padre ad Alex se non dovessi tornare.

Il resto, in fondo, lo sappiamo entrambi.

Quello che però a quel punto mi sorprende davvero è che fa un paio di passi in direzione di Draco, spingendomi a guardare la scena con una punta di ansia, dato che non sono così amici da salutarsi in modo struggente ed affettuoso. Draco stesso, infatti, lo guarda con la bocca arricciata e le sopracciglia aggrottate. Dean, però, calmo e tranquillo, armeggia con la sua mano destra, sfilandosi qualcosa che, imperturbabile, lancia verso Draco in un piccolo lampo di metallo argenteo. Draco, istintivamente, lo afferra e si trova tra le mani un anello pesante, doppio, d’oro bianco, con una pietra dura e lucida di colore nero. Io, con un brivido, riconosco l’anello, ma mi sembra un gesto così assurdo che resto in silenzio. Draco ugualmente non dice nulla, sebbene non sappia di che si tratta. Dean, scrollando le spalle, aggiunge casuale: “E’ la sola cosa che mi ha lasciato mio padre. L’unica”.

“Vorrebbe essere una specie di portafortuna, Thomas?” chiosa Draco, rigirandosi l’anello tra le mani, senza però alcuna ironia velenosa o retrogusto amaro nelle parole.

“Vorrebbe essere un prestito… e non a fondo perduto…” mastica serio Dean, guardandolo di lato “Devi riportarmelo indietro, Malfoy. E’ la cosa a cui tengo di più al mondo… pretendo che tu torni vivo abbastanza da restituirmela…”. 

Lo sguardo di Draco viene velato da un’ombra scura, quasi un pensiero segreto di preoccupazione e di ansia, come se d’improvviso fosse davvero teso dalla possibilità che lui non possa restituire quel regalo. E non si parla solo dell’anello e della possibilità che, morto lui, chissà che fine faccia. Sono certa, conoscendolo, che Draco improvvisamente sia dilaniato da un gesto di fiducia che non si aspettava, come mai si aspetta nulla di positivo da nessuno nei suoi confronti.  Alla fine, fa solo un sorriso storto e chiude l’anello nella mano, accogliendo di nuovo il solito salvifico sarcasmo, spezzato da una bugia misericordiosa: “Ci mancherebbe che non te lo restituisco, Thomas. Non mi faccio seppellire con un pezzo di ferraglia vecchio ed antiestetico”.

“Sei un bravo furetto ammaestrato, Malfoy…” sorride un po’ tristemente Dean, scrollando le spalle e voltandosi per raggiungere gli altri, gli occhi più lucidi di prima.

È sposato con Pansy Parkinson, sa perfettamente che cosa dicono davvero in cinque parole che sembrano solo insulti.

Draco guarda per un po’ l’anello nella sua mano, soppesandolo come se fosse pesantissimo, poi con sicurezza lo infila all’anulare destro. Fingo con perizia di non averlo visto e lo lascio allontanarsi, mentre mi appresto a salutare Harry e gli altri, a cui lui rivolge solo qualche parola veloce di stanco rancore stantio. Le prime che saluto, abbracciandole entrambe con calore, sono Ginny e Natalie. Mi sembra quasi naturale unirle assieme in questo unico abbraccio, come se fossero sorelle. Si profondono in raccomandazioni ed in rassicurazioni sul fatto che sicuramente tornerò indietro e che non devo preoccuparmi di Alex. La mia sola risposta è una frase semplice: “Prendetevi cura di loro…”, alludendo ad Harry e Ron. Natalie sobbalza un po’ ed arrossisce, come se si vergognasse a parlarne con me, però cerco di farle capire con lo sguardo quanto sia sollevata dal fatto che ci sia lei adesso nella vita di Ron.

È quando arriva il momento di salutare lui ed Harry che le mie difese crollano completamente. Salutarli per andare incontro alla morte sembra un eco infinito di centinaia di altri momenti che abbiamo vissuto sin da quando ci siamo conosciuti in quel bagno, ad undici anni. Abbiamo sfidato sempre la morte, rischiando la vita in milioni di modi diversi, tutti accomunati dalla sola costante di essere sempre assieme. Era quello l’anatema per tornare a casa, sani e salvi, sempre. Invincibili, immortali, invulnerabili. Sembra adesso un infinito gioco di parti e specchi che ci riporta indietro di anni ed anni. Ma stavolta la costante della nostra indefessa resistenza alla morte non c’è. Loro non ci saranno, loro resteranno qui: io sarò sola lì fuori. E, nonostante la vita ci abbia diviso tanto e spesso in questi anni scavandoci distanze addosso, sembra davvero assurdo adesso non vedermeli alla mia destra ed alla mia sinistra, come angeli, come guardie, come fratelli.

Singhiozzo e lascio che loro due, ormai ben più alti di me e dei bambini che ricordo, mi abbraccino forte, chiudendomi tra le loro braccia. Harry mi accarezza piano la schiena dandomi dei piccoli colpetti incoraggianti, la faccia affondata nel mio collo. Ron, cautamente, delicatamente, respira nei miei capelli e mi bacia la fronte con affetto.

“Sarà come tutte le altre volte…” sussurra con un filo di voce Harry, tenendomi stretta “Sarà come sempre. Tu che fai un paio di abracadabra a cui nessuno aveva mai pensato… e tutto finisce in una bolla di sapone…sarà come tutte le altre volte, Hermione…”.

“Noi ci saremo lo stesso…” aggiunge Ron con un filo di voce, rischiarandosi la voce roca “Noi… ci saremo sempre, Mione…”.

Annuisco forte, mormorando qualcosa che non intendo neanche io perfettamente nelle mie orecchie ovattate. Forse li dico che li voglio bene, forse li chiedo scusa, forse li ringrazio, forse chiedo loro di occuparsi di Alex. O forse non dico niente e mi limito a pensarle quelle parole senza riuscire ad aprire bocca, tra le lacrime che mi strozzano le parole in gola. So solo che, quando mi lasciano andare, il calore del loro abbraccio mi è rimasto dentro un pochino, mescolato al loro profumo sugli abiti. Sento davvero di non essere sola adesso.

Li lascio andare con Ginny e con Natalie con un sorriso mesto, salutandoli con la mano aperta, affidandoli ad un destino o ad un Dio misericordioso che possa sempre vegliare su di loro, se non posso farlo più io. Li auguro felicità, gioia, serenità, amore: li auguro tutto quello che si meritano.

Mi asciugo ferocemente gli occhi rossi, passandoci sopra le mani aperte e respirando a lungo con la bocca aperta per cancellare i singhiozzi dal petto. Mi guardo attorno, presagendo che adesso mi è rimasta solo Helder da salutare: la vedo infatti a pochi metri da me, le braccia lungo i fianchi, lo sguardo basso, le spalle contratte. Con un sospiro profondo, mi avvicino a lei con lentezza, cercando di tenere a bada quella spinta alla rabbia che ho nei suoi confronti e che, in fondo, devo cercare di seppellire in me stessa, visto che non la rivedrò mai più. Mentre la raggiungo, però, noto qualcosa che per un attimo mi fa fermare, aggrottando la fronte e tenendomi la mano stretta al torace. Nel tempo che ho impiegato a salutare Harry e Ron, Draco si è allontanato molto di più di quanto mi fossi accorta… ma soprattutto non è da solo. È con Ilai. È con lui che sta parlando, l’espressione scura, ampiamente restituita da Ilai che, a sua volta, lo guarda teso e nervoso.

È così strano vederli impegnati in una conversazione che la cosa mi risulta subito strana e sospetta, al punto da spingermi ad osservarli di sbieco. Cerco di leggere il labiale inutilmente. Quando Helder mi si avvicina e comincia a ricapitolarmi le fasi del nostro piano, non la ascolto neppure, per quanto sono presa dal capire che cosa sta succedendo.

 “… Malfoy fingerà di averti voluto consegnare per salvare Alex…” sta continuando a ripetere Helder con voce monotona, evidentemente comprendendo che non la sto ascoltando “Dirà, probabilmente, cose odiose per esaltare il concetto… e getterà loro il presunto cadavere di Radcenko. Mostrati distrutta per quello che sta dicendo Malfoy, imploralo, scongiuralo… e mostrati disperata per la morte di Radcenko…più credono che ami lui e meno penseranno a qualcosa come la Solutio damnationis…”.

“Certo, certo…” mormoro distrattamente, ancora presa dalla vista di Draco ed Ilai assieme.

“… ma tu non avrai bisogno di fingere che ami Ilai Radcenko, vero?” commenta Helder con una scrollata di spalle, guardandomi obliqua. Finalmente intendo le sue parole come se mi raggiungessero solo adesso, e mi volto verso di lei, sussultando e sgranando gli occhi in un moto di nervosismo ansioso, la schiena attraversata da scariche elettriche.

Non lo deve sapere nessuno. Se non lo sa nessuno, se me ne dimentico, non è mai esistito.

Mi ritrovo di nuovo a minacciarla con lo sguardo, come se temessi che possa mettersi ad urlare quella verità, sbattendola in faccia a Draco, ad Ilai e a me stessa che, ancora, disperatamente, voglio tenerla fuori dalla mia testa.

Helder solleva le palme in un moto di difesa, poi apre le braccia in gesto impotente e sorride amara: “L’ho capito subito. E non c’entra l’Empatia… una come te… orgogliosa come te, convinta sempre di poter fare tutto da sola… potevi avere così bisogno di una persona solo se ne fossi innamorata… ed io te l’avrei augurato con tutta me stessa, se era la cosa di cui davvero avevi bisogno… ed invece per colpa di questa storia che ho cominciato io con lo Zahir… sono costretta a sperare che sia sempre più forte quello che provi per Malfoy…”, Helder sorride ancora e si lascia sfuggire delle lacrime rabbiose che, nonostante tutto, mi fanno sgonfiare l’astio e l’ansia come se fossi stata punta da un ago: “… però non ne sono pentita. Magari sono solo egoista… e voglio solamente che torni a casa, sana e salva…”.

Annuisco con il capo, masticandomi in gola le lacrime e limitandomi ad accarezzarle un braccio, non ancora del tutto pronta per abbracciarla e perdonarla del tutto. Quel gesto piccolissimo, però, è come se l’assolvesse e perdonasse.

È lei, allora, che si sporge su di me e mi stringe forte. Mio malgrado, con un nuovo scoppio di pianto, l’abbraccio a mia volta, lasciando scappare via l’astio fuori da me e cercando di ricordarmi solo il bene che ha fatto per me in cinque anni, nonché quello che ancora farà per mio figlio, salvandolo.

“… per favore…” mormoro piangendo, piegandomi su di lei “Salva Alex, Helder. E riporta indietro Ilai… fai di tutto per riportarlo indietro… io… non ho potuto salvare Draco… ma almeno lui… per favore, riportalo indietro…”. Helder mi rassicura sommariamente, lasciandomi alla fine andare.

Mi volto su me stessa asciugandomi il volto con i palmi delle mani, e faccio qualche passo incerto, gli occhi coperti dalle dita. Poi, mi ricordo di Draco ed Ilai e sollevo lo sguardo preoccupata, cercandoli.

Non sono più assieme.

Di fronte a me, c’è solo Ilai.

È di nuovo in piedi, le gambe ben piantate al suolo e leggermente divaricate, cosa che lo fa assomigliare ad un militare in attesa di attaccare. Ha la mascella serrata, le braccia conserte ed un’espressione dura sul viso. I suoi occhi sono ostinatamente rivolti alle mie spalle, in un punto ben preciso che guarda come se lo volesse incendiare con lo sguardo. Prima però che possa voltarmi su me stessa per capire di che si tratti, il suo viso torna a me, riempiendosi di un calore soffuso e di un sorriso che non gli arriva agli occhi.

Lo guardo ancora senza capire, mentre sussurra dolcemente guardandomi con tenerezza: “Prosti menya… do svidaniya sladkaya…”.

Non capisco che cosa mi stia dicendo, sta parlando in russo. Nonostante non abbia assolutamente capito che cosa mi stia dicendo, il tono con cui dice quelle parole mi spinge automaticamente a singhiozzare, comprendendo, come se mi stesse scrivendo quelle parole addosso, che mi sta dicendo addio.

Eppure non riesco a muovermi nella sua direzione, non riesco a salutarlo davvero, non riesco a dirgli forse un’ultima parola che sia un’eco sciocca ed inconsistente di quello che ho scoperto di provare per lui, senza pure che mi disveli, riveli, mostri apertamente.

Ilai dismette quel sorriso dolcissimo che sarà l’ultima cosa che mi ricorderò di lui. E torna a guardare alle mie spalle, arcigno, duro, irrigidendosi ancora come una statua di sale.

Chiosa severo, la voce come un taglio nella carne viva: “Non voglio che lei veda. Me l’hai promesso, Malfoy. Portala via”.

E io capisco troppo tardi che cosa sta succedendo.

Mi volto furiosamente su me stessa, impugnando la bacchetta, incrociando gli occhi di Draco, immobile, alle mie spalle.

La bacchetta puntata alla mia schiena, l’espressione fraternamente gemella a quella di Ilai.

Tutto è diverso… tranne questo.

Lo imploro con gli occhi comprendendo che non farò in tempo a reagire, che è troppo tardi, che già sento vibrare la bacchetta dell’incantesimo che mi sta per scagliare addosso.

Ma Draco mi ignora, contrae la mascella, ringhia l’incanto con voce ferma e caustica.

“Stupeficium!”.

La scarica di luce rossa si infrange nello spazio tra i miei polmoni: proprio nel centro del cuore.

Perdo i sensi, scivolando in un manto nero di tenebra.

Cosciente solo per una cosa.

non vedrò mai più Ilai Radcenko vivo.

 

 

Il mio risveglio non è dei migliori.

Anche se dubito ormai di poter avere un risveglio migliore.

Sono sollevata di malagrazia da un braccio ed il contraccolpo mi fa spalancare gli occhi intimorita. Attorno a me ci sono grida, urla, risate, e per un attimo non capisco dove mi trovo, né tantomeno che cosa sto facendo. La testa mi pulsa orribilmente come se fosse vessata da un martello pneumatico e gli occhi sono annebbiati, come se ci fosse calata su una calugine amorfa. Mi guardo attorno le orecchie che ronzano, ed allora improvvisamente mi tendo come la corda di una chitarra. Sono nell’androne di un palazzo vecchio quasi completamente demolito dall’incuria del tempo: rade piante secche crescono nelle intercapedini delle rocce bianche e grigie, descrivendo un ambiente triste e mesto. Il sole è nascosto da una coltre spessa di nubi e fa ancora un freddo indemoniato, troppo inconsueto e strano per il mese di luglio.

Quando riconosco la presa familiare sul mio braccio, quelle dita affusolate, sottili eppure forti che, sebbene ora siano affondate nel mio braccio, hanno la perizia attenta e dolce di non farmi davvero male… inizio con una punta di disagio ed ansia a capire dove sono e che cosa è successo. I miei riflessi per fortuna reagiscono ben prima di me, non appena con la coda dell’occhio individuo nella cornice scrostata di un balcone quasi del tutto franato, le figure silenziose e spaventose dei Karkaroff. Dimitri, come sempre, con il suo aspetto autoritario, il sorriso sadico ben modellato sulle labbra chiuse, le braccia incrociate al petto, l’espressione vogliosa ed implacabile. Raissa, con gli occhi spalancati, sgranati, sconvolti, le lacrime che scorrono sul viso di alabastro, le mani strette alla gola come se soffocasse, le gambe che cedono e la fanno cadere in ginocchio. È quella vista a farmi capire simultaneamente che cosa sta guardando alle mie spalle e a farmi finalmente sentire la voce di Draco che urla improperi, insulti, invettive contro di me, rea di avergli nascosto un figlio e di essersi innamorata di un altro. Mi sforzo di non ascoltare quello che sta dicendo Draco, mi sforzo solo di fingere di essere stata catturata, tradita, umiliata. Mi divincolo con tutte le mie forze dalla presa di Draco, sebbene appunto lui stia fingendo ed in realtà potrei liberarmi abbastanza facilmente. Mi sforzo di non concentrarmi sulle sue parole se non nella misura di apparirne sconvolta, sgomenta, così da rispondere a suon di preghiere ed appelli accorati in nome di nostro figlio.

È un bel teatrino, è un bello spettacolino. E Dimitri ne pare così oltremodo soddisfatto da non interromperci neanche per un momento, mentre si pregusta tutto con una smorfia di puro piacere sul volto, inumidendosi lascivo le labbra. Raissa, del resto, è completamente assente, è come se neanche ci stesse ascoltando. Ed è lì ovviamente che scatta il colpo di grazia: la presa di Draco si fa un attimo più forte sul mio braccio, mi guarda negli occhi come stesse per chiedermi se sono pronta e riceve da me in risposta un minuscolo segno di accenno con il capo.

Grazie per preoccuparti di questo. Grazie Draco.

Grazie per capire che non sono pronta. Né mai lo sarò.

“… quel figlio di puttana…” mi sputa Draco addosso, guardandomi con un ghigno crudele e velenoso “Quello che ti volevi fare da settimane… non lo rivedrai più, Granger…”. Draco ride in modo sguaiato ed io non ho bisogno neanche di mettere su un’espressione autenticamente devastata.

Perché è vero che io non rivedrò più Ilai.

Non lo rivedrò più.

Però ci aggiungo un tocco di consapevolezza dilaniata e distrutta dal pensiero che Draco possa aver ucciso la persona che amo. Ed è allora che Draco mi getta con violenza sul corpo di Ilai.

Neanche adesso devo fingere: non c’è bisogno. La vista del suo corpo martoriato, escoriato, ferito, come se non fossero passati pochi minuti da quando l’ho visto, mi strazia come se mi stessero tirando gli arti in due direzioni differenti.

Perdonami Tatia.

Perdonami… se te l’ho portato via, in tutti i modi possibili.

Mi getto su di lui, lo abbraccio piangendo, urlo maledizioni ai Karkaroff e a Draco stesso, simulo persino un tentativo di scuoterlo per svegliarlo ed un massaggio cardiaco per rianimarlo. Provo anche la respirazione bocca a bocca ed onestamente non so quanto questo aggiunga valore alla mia recita, o se non sia solo una goffa ricerca di alibi per baciarlo un’ultima volta. Solo che questa volta, le sue labbra sono fredde, gelide, immobili. Ed alla fine questo mi fa a pezzi più di tutto il resto. Sfibrata, mescolando la vera disperazione a quella falsa, affondo il viso nel suo petto, nascondendomi alla vista di tutti, coperta dai miei capelli. E sospiro di sollievo quando sento un minuscolo, brevissimo, battito, provenire dalle profondità del suo torace. I Karkaroff non si sono ancora avvicinati a lui, non deve essere stato ancora necessario mandarlo del tutto in arresto cardiaco.

Sento Draco prendere tempo, chiedere di vedere Alex per capire come stia, prima di consegnarmi a loro. Sobbalzo, la schiena rigida, sperando con tutte le mie forze di poter rivedere mio figlio un’ultima volta. Ma i Karkaroff sono di altro avviso: vogliono prima vedere se Ilai sia davvero morto.

Mentre ci raggiungono levitando nell’aria come se fossero fatti di vento, Draco muove impercettibilmente il capo nella mia direzione, facendomi capire che è arrivato il momento. Ha il viso distrutto, gli occhi lucidi… e comprendo che non abbiamo modo di aspettare che ci mostrino Alex. Dobbiamo lanciare la Solutio damnationis, mentre saranno ragionevolmente distratti dall’esame del corpo di Ilai.

Gli Empatici, in collegamento con Ilai stesso, si accorgono subito dell’intenzione dei Karkaroff. E con uno spasmo, scoppiatomi in bocca come l’ennesimo singhiozzo, mi accorgo che quel minuscolo battito nel petto di Ilai è scomparso. Adesso… è morto sul serio.

Sebbene sia distrutta, sebbene non riesca neanche a respirare, resto vigile ed attenta mentre Dimitri calcia con malagrazia il corpo di Ilai e Raissa uggiola fastidiosa, piangendo a dirotto e strappandosi le vesti. Come un fuoco d’artificio che esplode nel cielo nero, io e Draco riconosciamo il momento propizio: estraiamo le bacchette ed urliamo con tutta la forza che abbiamo in corpo: “SOLUTE DAMNATIONEM!”.

Dimitri e Raissa gemono, fremono, si scagliano contro di noi per tapparci la bocca.

Inutilmente.

Pochi secondi… e spariscono alla nostra vista, sostituiti da un buio spesso ed intenso che ci avvolge completamente.

Nel silenzio nero l’unica cosa che sento e percepisco è il mio fiato corto, spezzato, assieme a qualche altro singhiozzo che mi sfugge ancora dalle labbra.

“Draco?” lo chiamo spaventata, non afferrando assolutamente nulla attorno a me, se non questo gelido buio totale.

“Sono qui…” mi rassicura lui da un punto non meglio precisato alle mie spalle, sento il suo respiro sulla nuca. Rabbrividisco, prima che lui mi chieda sommariamente: “Stai bene?”. Annuisco con il capo prima di capire che lui comunque non riesce a vedermi, e ripeto il mio assenso con la voce.

“Sai dove dobbiamo andare adesso?” chiedo con un filo di voce, cosciente della sua presenza dietro di me, mentre angosciata da questo buio totale ho l’impressione di essere diventata cieca o di essere stata sepolta viva sottoterra. Draco forse avverte la tensione nella mia voce ed immediatamente con naturalezza mi stringe la mano, mentre sudo freddo. La intreccio grata con la mia, contenta di non essere sola in tutto questo.

“No, Granger… non lo so…” mormora lui con voce sconfitta, uno spostamento d’aria che mi informa che forse si sta guardando attorno alla ricerca di un po’ di luce “La prima volta non è stata così. Non ho neanche prettamente incontrato Adamar… sentivo solo la sua voce…”.

“E quindi che facciamo?”.

“A parte interrogarci su quando il demone farà l’allacciamento alla corrente elettrica?” biascica lui nervosamente, la sua mano che si contrae impercettibilmente “Non lo so. Magari dobbiamo chiamarlo oppure…”. Ci interrompiamo a disagio, quando nella nostra testa esplode una sorta di litania lamentosa, un canto, una voce stucchevole e femminile che sussurra: “Andate avanti. Camminate dritto…”.

“… oppure ascoltiamo la voce da bambina indemoniata che ci è misteriosamente apparsa in testa…” commenta malevolo Draco, iniziando a camminare nella direzione indicata dalla voce, la mano sempre stretta nella mia a guidarmi e a precedermi. Il buio non diventa meno totale mentre camminiamo, restando così fitto che non riesco assolutamente a distinguere nulla. Sembrano dei cunicoli sotterranei, ai nostri lati avverto la presenza imponente di pareti di roccia scavate, nonché di tanto in tanto il suono di acqua che goccia. Ma, per il resto, non ho più la pallida idea di dove siamo.

Dopo una decina di minuti abbondanti in cui abbiamo continuato a camminare nel perfetto silenzio, sento la necessità impellente di dire una cosa qualunque, pur di rompere quest’ansia che mi sale per quello che stiamo per affrontare.

“Ti ha chiesto Ilai di schiantarmi?” chiedo asciutta, rivolgendomi a quel silenzio odoroso di terra bagnata che so essere lui.

La sua mano nella mia si fa ghiacciata, mentre borbotta caustico: “Credi che tragga piacere dallo schiantarti, così, a titolo gratuito? Ovvio che me l’ha chiesto Radcenko. Non voleva che tu vedessi… che cosa gli stava per accadere… ma aveva bisogno interamente della sua energia magica per il trattamento degli empatici… e per quello l’ha chiesto a me, Granger…  ”.

“E’ stato così… brutto?” chiedo con un filo di voce, la gola secca.

Draco ghigna in modo fastidioso alle mie orecchie, prima di biascicare acido: “Qualsiasi cosa abbia passato Radcenko… è un delicato sonnellino nel prato in confronto a che cosa stiamo per passare io e te…”, poi abbassa il tono di voce, suonando ancora tra il minaccioso ed il derisorio: “So che avevi bisogno di lui, Granger… ma ormai sarà il caso di lasciarlo andare, non credi? Se tutto va bene… lui si salverà e si troverà un’altra mogliettina adorabile da condannare a morte… e se tutto va male… bè, almeno vi siete lasciati con ottimi ricordiun romantico addio in russo… e te schiantata da quel bastardo del tuo ex… davvero… una favola moderna… sono quasi invidioso…”.  

Le sue parole, come sempre, mi feriscono più all’interno di quanto ammetterei ad alta voce. Sa perfettamente come colpirmi al cuore quando vuole. Risbattermi in faccia che avevo bisogno di lui. Pungolarmi sulla possibilità che si rifaccia una vita senza di me. Innervosirmi con l’insinuazione per cui Tatia sia morta per colpa sua. Minimizzare quello che siamo. Però me ne sto in silenzio, non replicando e sorprendendo persino Draco, che conosce adesso un silenzio ben più inquieto.

Io devo lasciare andare Ilai, devo lasciare andare tutti adesso: la mia ultima realtà definitiva è Adamar, non c’è altro a cui pensare.

Continuo a camminare in silenzio non replicando più nulla, avvertendo le dita di Draco che si contraggono nella mia mano come se fosse lui, adesso, a voler parlare.

Ma, in ogni caso, non ne avrebbe né modo, né possibilità.

Finalmente il lungo corridoio di pietra che stavamo percorrendo, viene falciato da una luce calda che mi fa strizzare gli occhi dopo tanta oscurità. Io e Draco ci incamminiamo in quella direzione, i sensi all’erta, pronti a qualsiasi attacco. Ma ciò che ci aspetta, alla fine di quella che si rivela essere una galleria di pietra aperta su uno spazio aperto e luminoso, ci lascia letteralmente senza parole.

La prima cosa che noto è un profumo meraviglioso, soave… che non credo di aver mai sentito. Assomiglia a quello degli agrumi, delle zagare in Sicilia, ma infinitamente più dolce, più penetrante, più inebriante, come se fosse mescolato a qualche aroma zuccherato di cannella, vaniglia, caramello fuso. Non può esistere un odore del genere in natura. È paradisiaco, sazia quasi la gola e lo stomaco solo respirandolo. La seconda cosa di cui mi rendo conto, mentre la luce si fa più intensa, quasi accecante, è che lo spazio su cui si apre la galleria è qualcosa di francamente… impossibile da pensare, considerando che stiamo per affrontare un demone millenario.

Al termine della galleria, infatti, ci troviamo in un enorme e meraviglioso prato verde, circondato da floride colline ricoperte di fiori. Ha un aspetto curato, eppure naturale, sublime, come se non ci avesse mai respirato singolo uomo. Il cielo è terso, luminoso, di una nettezza azzurra così abbacinante da farmi chiedere se ho mai visto prima il sole. Sembra una giornata primaverile delle più stupende che possa conoscere l’Inghilterra… lontano, tra gli alberi di salice, gorgheggia un fiumiciattolo trasparente che sfocia in un laghetto coperto di ninfee. Ed è seguendo la linea del fiume che intravedo finalmente un enorme casa in stile georgiano, ricoperta interamente da mattoni rossi, con camini alla destra e alla sinistra del tetto, un portico centrale con una piccola finestra rotonda superiore, finestre all’inglese e balconi in ferro finemente lavorati. Sembra così… meravigliosamente perfetta da farmi dubitare seriamente che esista.

Forse, io e Draco siamo già morti e non ce ne siamo accorti… questo, non sembra l’inferno. Ma esattamente il contrario.

È solo dalla mano gelida di Draco nella mia che resto cosciente di me stessa, ricordandomi che forse è l’inferno proprio perché non ne ha assolutamente l’aspetto. Questo posto è solo una pianta carnivora che, con grande sfavillio di colori e suoni, vuole intrappolarci al suo interno. Draco appare meravigliato e titubante esattamente come me, dandomi conferma che la sua esperienza con il demone è stata completamente diversa da quanto sta succedendo adesso.

Se mai era possibile, la nostra perplessità sbigottita aumenta esponenzialmente quando ci rendiamo conto che non siamo propriamente soli al momento. Di fronte a noi, infatti, proprio sotto l’architrave della porta d’ingresso della casa, c’è qualcuno. La sua presenza è così impalpabile e leggera che non l’abbiamo avvertita fino ad ora, sembra persino non respirare. Distinguo a malapena nel nitore della giornata un cenno del capo che vuole essere un invito ad essere seguita. E quindi, con riluttanza e nervosismo, ci avviciniamo a passi lenti e guardinghi, studiando bene la figura esile.

Che non sia Adamar, è evidente: certo, Draco conosce solo la sua voce, ma Helder l’ha sempre apostrofato al maschile. E questa invece è una… donna. Per un attimo, penso che possa essere comunque lui che magari ha cambiato aspetto… ma, non so perché, sono perfettamente convinta e consapevole che non si tratti di lui. La guardo con attenzione mentre mi avvicino, sembra nata per essere inserita in questo clima ottocentesco. È una donna bellissima sulla trentina d’anni, forse solo lievemente più grande di me. Non è molto alta, eppure sembra comunque imponente, autoritaria, statuaria. Ha un fisico asciutto, proporzionato, avvolto in un abito completamente bianco che riluce come se fosse fatto di luce pura. Ancora, è perfettamente in stile ottocentesco: è plissettato sulla gonna lunga e non molto ampia, si arriccia e stringe sotto il seno, descrivendo la linea della vita sottile con una fila regolare di piccole perle bianche. Le maniche a sbuffo lasciano scoperte le braccia lunghe, la cui pelle, come per il viso, è candida, vellutata, senza alcun segno di imperfezione e discromia. Non ha alcuna ruga d’espressione, niente, come se appunto neanche respirasse e fosse una bellissima statua di cera. Solo dai fremiti delle lunghe ciglia nere che racchiudono due penetranti occhi azzurri dalla forma un po’ allungata, si potrebbe intuire che è viva. Sul collo, alcune ciocche dei suoi capelli biondo ramati sfuggono con cura impeccabile dalla crocchia che le raccoglie la chioma, impreziosendo così la linea ferma delle clavicole. I capelli nascondono quasi completamente un ciondolo dalla forma rotonda. È la prima cosa che guardo di lei non appena mi avvicino con Draco: è il cameo di una rosa bianca, lucido come un pezzo di ghiaccio.

Quando parla le sue labbra si muovono appena. Eppure la sua voce ha un colore cristallino, pulito, squillante. Da ragazzina. Sembra di sentire una cascata di campanelli che tintinnano.

“Il signor Malfoy e la signorina Granger?” domanda educata e gentile come una perfetta padrona di casa. Annuisco con sospetto, non prima che abbia gettato un’occhiata a Draco. Da come accoglie la voce con assoluta indifferenza, comprendo che, come avevo intuito, non siamo di fronte al demone Adamar.

“Sua Eccellenza vi sta attendendo…” mormora, scandendo con decisione la parola Eccellenza, come se potessimo dubitare di chi sta parlando “Vogliate farmi la grazia di seguirmi in casa… è un luogo più appartato in cui discutere della vostra situazione…”. Intimorita e messa a disagio dalla fredda cortesia impostata della donna, la seguo all’interno della casa con Draco che sbuffa, le mani affondate nelle tasche dei pantaloni: “… la prossima volta dovrò noleggiare uno smoking per venire a crepare davanti a questo qui…”.

Roteo gli occhi, spero che nessuno l’abbia sentito. 

Gli ambienti della casa sono modesti e dall’aspetto antico: prevale il legno in noce che ricopre di pannelli le pareti color avorio. Ogni centimetro del pavimento è ricoperto da tappeti di colore rosso, arancio, marrone: tutti toni caldi. Passiamo di fronte a molte camere perfettamente arredate, dove la costante è sempre la presenza di enormi librerie e di arazzi dall’aspetto prezioso. Il senso di stranezza per lo scenario che ci troviamo di fronte, non fa che acuire la mia ansia: più la casa sembra confortevole ed accogliente e più ho l’impressione che Adamar non abbia bisogno di incutere paura con scenari tetri e raccapriccianti. E questo può voler dire solo una cosa, vista la mia esperienza da ex Capo degli Auror.

Non ne ha bisogno.

È perfettamente in grado di pretendere rispetto e di scatenare timore senza ricorrere ad espedienti. Questa casa, questa tranquillità, questa donna calma e pacata, sono solo raffinati mezzi di distrazione. O vezzi estetici.

Ci può fare a pezzi, in qualsiasi modo. Non ha bisogno di null’altro che sé stesso.

E ciò, ovviamente, mi agghiaccia.

Avrei di gran lunga preferito altro piuttosto che questo.

Dopo qualche minuto di silenzio, ci fermiamo di fronte ad una pesante porta di legno intarsiata. La donna la apre con discrezione, camminando all’interno in modo ancora più lieve di quanto non abbia fatto fino ad ora e ci invita di nuovo a seguirla con un cenno della testa. Io e Draco entriamo, riconoscendo una stanza che ha tutte le fattezze di uno studio antico. La parete vicino alla porta è completamente occupata da una gigantesca libreria piena di tomi preziosi, dall’aspetto sdrucito e rovinato, mescolati a libri decisamente più moderni dalle copertine agili e colorate. Di fronte, sulla parete opposta, ci sono tre grandi finestre quadrate da cui si intravede il giardino. Alla nostra destra, c’è un piccolo salottino con un tavolo basso, mentre le poltrone e il divano sono foderate di velluto rosso sangue. La stanza è ancora avvolta da quel profumo gradevole ed intenso, che qui però assume degli accenti ancora più penetranti che danno alla testa. Ma soprattutto noto immediatamente, in contrasto con gli ambienti antichi, la presenza di uno stereo moderno che riproduce della musica lirica. Ascoltando le noti possenti e la voce poderosa del tenore, faccio immediatamente mente locale. E lucevan le stelle. La Tosca di Puccini.

Vengo sconvolta dai brividi, mentre il tenore gorgheggia devastato e dilaniato.

Svanì per sempre il sogno mio d'amore...

l'ora è fuggita,

e muoio disperato!

E non ho amato mai tanto la vita!

… il canto di un uomo condannato a morte, che nel momento in cui sta per lasciare vita ed amore, capisce quanto ami entrambi. Amore. E vita.

Non può essere una scelta casuale, constato con disperazione amara e rabbiosa. Ovvio.

Ed è già un indizio su come agisce questo mostro.

La donna che ci ha guidato fino ad ora, prende posto alla nostra sinistra dove finalmente noto una scrivania ingombra delle cose più varie con una prevalenza per i manufatti in cristallo.

E lì, seduto tranquillamente, c’è… un uomo.

Sussulto leggermente dalla sorpresa e dalla contemporanea ansia immediata che mi comunica: sento ogni centimetro della mia pelle rabbrividire e gelare di sgomento al contraccolpo dall’enorme potere magico che scaturisce da lui. La mia mano inconsciamente corre spaventata al polso di Draco che stringo con paura, facendo qualche passo indietro. Draco chiude la sua mano sulla mia, ha la pelle fredda e sudata. Non ho mai sentito niente del genere in vita mia, nulla… ed ho incontrato Voldemort, il Signore Oscuro che ha distrutto questa terra per anni.

Era un bambinetto in confronto.

Incontrando Voldemort, certo, se ne poteva avere paura… ma non così. Adamar non sta facendo assolutamente nulla, è solo seduto e ha le mani incrociate elegantemente sotto il mento… eppure, quello che sprigiona dal suo corpo… è un potere immenso, nero, oscuro, che penetra in ogni poro della mia pelle, facendomi sentire spacciata e pronta all’implosione. E contrariamente a Voldemort, non ha neanche un aspetto ferino e mostruoso. Nulla del genere. È apparentemente un uomo normalissimo, sulla quarantina, dal corpo slanciato ed alto. Ha i capelli castano scuro un po’ lunghi sulla nuca, con qualche riccio scomposto; scuro è anche il rado pizzetto che gli copre il mento. Gli occhi sono penetranti, taglienti, audaci, e splendono di una luce verde smeraldo. Veste come la donna alle sue spalle in modo decisamente antiquato: pantaloni beige leggermente larghi sui fianchi, una camicia bianca, un fazzoletto al collo di velluto verde, un gilet ed una giacca dello stesso colore. Non mi è dato naturalmente di sapere o intuire se questo sia il suo aspetto da millenni, o se invece abbia il viso di Grindelwald, l’uomo di cui ha preso in prestito il corpo.

Oppure se anche questo aspetto apparentemente normale sia solo un meccanismo per mostrarsi ai nostri occhi.

Da quello che sento del suo potere, potrebbe anche mostrarsi con l’aspetto più comune per rassicurarci, e poi colpirci infido alle spalle. Al momento, sembra il più normale dei padroni di casa: affascinante, gentile, curato, preoccupato persino di fare una buona impressione.

Con le mani larghe e forti fa segno con un sorriso alle due sedie di fronte alla scrivania, invitandoci ad accomodarci.

“Buongiorno Miss Granger. Buongiorno Signor Malfoy…” esordisce con un sorriso serafico, alternando lo sguardo prima su di me e poi su Draco. Sotto la scrivania continuo a stringere il polso di Draco, incapace di lasciarlo andare sotto lo sguardo di Adamar. Il demone fa una pausa ad effetto, sospirando in modo teatrale prima di soffiare fuori con voce entusiasta: “Sono onorato di conoscervi finalmente di persona…”. Da come sento vibrare le vene di Draco sotto la pelle del suo polso, comprendo che ha riconosciuto perfettamente la sua voce. È davvero lui, se mai ci fossero dubbi. Ha una voce cavernosa, roca, profonda, ma comunque pastosa e melodiosa: non ho mai sentito una voce simile. Sembra il suono di un’arpa.

Si adatta perfettamente alle note liriche che continuano a riempire la stanza.

Sbatto le palpebre per qualche secondo, incespicandomi nelle parole: “Tu…”, mi sento irrispettosa e, scornata come una bambina ripresa dalla mamma, mi correggo velocemente in preda al panico: “Lei… è Adamar?”.

Lui fa un nuovo instancabile sorriso dolciastro, guardando la donna alle sue spalle e facendole un incomprensibile cenno d’intesa con il capo, a cui lei risponde con un sorriso timido. Poi torna a guardarmi con paterna pazienza: “Ne è sorpresa? Comprendo le frustranti limitatezze della vostra cultura così avvezza alle etichette. Suppongo che, avendo conferito principalmente con la misera progenie empatica, abbiate maturato l’idea che avessi un aspetto ben differente e che avessi residenza in un luogo diverso…”, finge di rifletterci su per qualche secondo umettandosi le labbra e gettandomi uno sguardo divertito, prima di continuare con voce scontata, come se volesse umiliare la mia deduzione spiccia: “Un demone dovrebbe avere protuberanze sul capo, un miasma sulfureo a circondarlo e magari anche un volgare oggetto a tre punte in mano, come se approntasse delle balle di fieno. Quindi dovremmo anche essere nelle viscere della terra e non in questo luogo ameno…”, abbraccia in un ideale sguardo tutta la lussuosa stanza nonché la vista serena che penetra dalla finestra. Poi sembra avere una provvidenziale illuminazione e prosegue: “Ammetto che però questo argomento è esatto. Siamo vicino al centro incandescente del vostro pianeta… ma non per mia volontà di emulare qualche infernale divinità. Semplicemente perché è uno dei pochi luoghi liberi dalla presenza umana…”. Chiude gli occhi sognante, sembra vagheggiare qualcosa di lontano anni e vite fa: “Adoravo l’Himalaya: così inospitale, algida e persino pervicace nel suo isolamento. Ma poi sono arrivati gli escursionisti… un paio di spiacevoli incidenti… e ho deciso di ritirarmi qui…”.

Tremo al pensiero di chi possa averlo casualmente incontrato e non ho dubbi nel comprendere che cosa sia accaduto a queste sciagurate persone.

La sua voce è amabile e tranquilla, sempre impostata su questo tono volutamente forbito che si snoda in un linguaggio formale ed accademico, ma sembra perfettamente consapevole di chi è, di che cosa fa e della sua natura demoniaca. Non fa assolutamente nulla per nasconderla, la esibisce anzi come se ne fosse sommamente fiero ed orgoglioso.

“Come facciamo noi allora a sopravvivere al centro della Terra?” chiede Draco allora noncurante, come se stesse chiedendo del tempo. Lo guardo sconcertata dal suo sangue freddo. Non so se sia la sua solita spavalderia arrogante che vuole mettere a tacere la paura, oppure se semplicemente ricorda perfettamente come è parlare con questo… demone… ed allora riesce a simulare calma e coraggio.

Raffinata deduzione, signor Malfoy…” si complimenta Adamar con vivo entusiasmo, sporgendosi sulla scrivania per guardare meglio Draco “Ricordavo la sua spavalda arroganza, nonché la sua intelligenza decisamente sprezzante. E lei dovrebbe ricordare perlomeno la mia… voce, giusto?”.

“La ricordo” commenta sintetico Draco con una punta di amarezza sarcastica nella voce.

Adamar sorride sardonicamente massaggiandosi una tempia con le dita in modo volutamente disattento. Il guizzo di un tendine della mascella mi informa, però, che si sta innervosendo. La gola mi si secca, mentre metto a fuoco il modo che ha di guardare Draco.

Ostile, rancoroso, sospeso tra la voglia di farlo a pezzi e quello di capire come funziona.

Ha più o meno lo sguardo che mi tributava sempre Dimitri, escludendo ovviamente alcuna componente di attrazione sessuale. Non so come faccia Draco a starsene seduto calmo e tranquillo, visto anche che il repentino cambio d’umore di Adamar è percettibile anche dall’improvvisa onda calda del suo potere che ci si infrange addosso, come mare su rocce. Poi si smonta così com’è nata: Adamar dismette il suo sguardo acceso, fa un gesto di noncuranza con la mano e sorride rassicurante, suonando solo lievemente infastidito mentre arriccia il naso e le labbra con nobiltà e distacco:  “Non abbiamo vissuto la migliore delle esperienze io e lei, signor Malfoy. Helena Greengrass che si intromette nella sua prova, lei che si ritira… confesso di esserne rimasto molto indispettito… ha incontrato un mio profondo disappunto avere a che fare con lei… non per questo non risponderò alla sua insolente domanda.”, fa una pausa ad effetto studiata ad arte per dare enfasi alle sue parole e verificare se siano andate a segno. Draco resta a braccia incrociate, ma quel luccichio dello sguardo che cela un retaggio di prudenza cauta, soddisfa profondamente l’ego di Adamar. Difatti, con tono più rilassato, prosegue tranquillo e lieve: “Avvertite una temperatura tollerabile, riuscite a respirare in modo adeguato, vedete… tutto questo…”, allarga le braccia comprendendo idealmente la casa ed il panorama fuori dalla finestra, escludendo invece volutamente sé stesso e la donna con lui “…perché io voglio che sia così. Lo chiami pure un retaggio della mia disgraziata esistenza umana, ma potrei definirmi un esteta. Sapete quanti artisti ho personalmente… patrocinato? La ricerca della bellezza è un mio punto debole. Uno dei miei momenti più sereni di questo lunghissimo arco vitale fu al confine tra il Lancashire e il North Yorkshire, nel 1840, in una magione come questa… per questo traggo profondo piacere nella rievocazione mentale di quell’atmosfera bucolica”. Si ferma a lungo a questo punto, quasi innescandoci la curiosità di chiederci che cosa sia successo in questo suo passato secolare per renderlo così felice e voglioso di reminiscenze persino nel vestiario. Ma, naturalmente, non riceve alcuna domanda ulteriore: non siamo venuti qui perché ci racconti la storia della sua depravata vita. Draco risponde con una scrollata noncurante delle spalle, spingendomi ancora a chiedermi che razza di piacere perverso tragga nel provocarlo così apertamente. Dal canto mio, stringo le palpebre ed annuisco impercettibilmente con il capo, sperando che sia sufficiente.

È un uomo incredibilmente vanitoso, orgoglioso e presuntuoso: e questo, paradossalmente, mi rassicura alquanto.

Ha un fondo di umanità con cui posso ancora trattare, intuendo da che lato debba prenderlo per non indispettirlo eccessivamente.

Peccato che questo Draco ancora non lo capisca: non dico che Adamar ci tratterà bene se facciamo i cortesi e gli educati, sottoponendoci ad una prova facile da superare. Ma sappiamo per certo dall’esperienza dei Dubois che, se capisce di essere imbrogliato o preso in giro, reagisce in modo efferato. Potrebbe persino ammazzarci qui, con una semplice scrollata di spalle, non iniziando neanche la Solutio damnationis. In fondo… chi mai potrebbe punirlo per questo? I Custodi dell’Ordine? Lo fanno stare al suo posto da millenni… probabilmente non reagirebbero neanche eccessivamente se ci uccidesse… sicuramente non al punto da eliminarlo. Magari, Adamar sa anche fino a dove può tirare la corda con loro… specie considerando che la corda sono due fragili umani di carne e sangue, come me e Draco.

Siamo già nelle sue mani… sarà anche il caso di rendere quelle mani ancora più vogliose del nostro sangue di quanto già non siano?

È il mio spirito da Auror a parlare: se sai già di essere in condizione di inferiorità, cerchi di guadagnare miserrime posizioni di vantaggio per andartene con dignità.

Non sputi e disprezzi tutto, maledicendo di stare per morire.

Ma Draco è un Serpeverde: fa del disprezzo il suo ornamento preferito.

Tra i due, quella prudente sono sempre stata io.

E del resto non so neanche propriamente come Draco sia sopravvissuto in questi anni, visto quanto poco attento è.

Lo guardo con la coda dell’occhio cercando di fargli capire il mio messaggio.

Adamar sembra soddisfatto dalla mia espressione di partecipazione superficiale e riprende accorato, rivolgendosi ancora a Draco: “Non priverei mai lei e la sua deliziosa compagna di questo armonioso spettacolo. Una donna dalla così conclamata fama merita il migliore dei trattamenti possibili…”, rabbrividisco leggermente, stringendomi nelle spalle quando la sua attenzione torna a me.

Ha il viso costernato sinceramente mortificato, mentre sussurra suadente, lasciando che un raggio di sole gli tagli a metà il viso: “Mi è dispiaciuto non conoscerla personalmente quando ha creato lo Zahir, Miss Granger. Sa che mio malgrado non posso occuparmi più di queste pratiche…”, con un brivido improvviso mi rendo conto che, se la storia non fosse andata com’è andata e i Custodi non gli avessero tolto lo Zahir, effettivamente sarebbe stato lui a vendermi quella distruzione dell’anima. Gemo silenziosamente rievocando ancora quell’antico errore, e le mie dita impercettibilmente toccano ancora il polso su cui si stringeva l’infernale monile. Draco studia le mie mosse, ma resta immobile, forse per non attirare l’attenzione di Adamar con un gesto rivolto a me che simuli debolezza. Stacco quindi le dita dal polso, rischiaro lo sguardo e torno a guardare Adamar che assume un tono estasiato: “Una persona che era sotto il mio controllo l’ha vista in occasione di una qualche celebrazione presso il luogo di lavoro del signor Malfoy… era all’apice del suo potere. Irriconoscibile, implacabile. Aveva la chioma corvina ed occhi della medesima tonalità…”. Sussulto sgranando gli occhi: la sera della festa al Petite peste, quando ero sotto il controllo dello Zahir ed incendiai lo scantinato di Draco.

Forse uno dei giorni peggiori della mia vita fino a quello in cui mi hanno tolto Alex.

Qualcuno che era sotto il suo controllo… era a quella festa… lui mi ha visto tramite quegli occhi servili…

Non vi ha mai ignorato, scoppia di ricordo la voce di Helder nella mia testa.

“Mi dolgo davvero di non averla potuta seguire nella sua vicissitudine…” prosegue Adamar con un sorriso addolorato ed assolutamente sincero, cosa che mi fa ancora di più inorridire “Non vedevo uno Zahir d’Amore da secoli nonché una tale oscura maestria nel gestirlo. Ammetto che, se fossi stato ancora umano, l’avrei persino desiderata…”, Adamar fa una risata timidamente modesta, come se stesse parlando di qualcosa di volutamente enfatico ed impossibile, seppure esibisca il contegno puro ed innocente di un adolescente innamorato. Dubito, però, che sia rimasto qualcosa di così umano in lui da fargli autenticamente desiderare una donna. Credo che l’abbia detto solo ed esclusivamente per mettermi a disagio: me ne accorgo dall’occhiata lasciva che mi lancia e da quella accondiscendente e soddisfatta con cui fissa per un attimo le mani contratte di Draco sulla scrivania.

Innervosita, sollevo fieramente il mento guardandolo storto.

D’accordo giocare alle tue regole, demone… ma queste regole non implicano che tu mi renda il tuo giocattolo mentale.

Adamar prosegue con un lampo di trionfo nello sguardo, come se si fosse improvvisamente ricordato di qualcosa di importante: “Le buone maniere mi impongono però prima di tutto di porgerle i miei ringraziamenti, Miss Granger...".

"Ringraziamenti?" chiedo sgomenta, aggrottando le sopracciglia. Non posso neanche immaginare che cosa diamine possa aver fatto per meritare i suoi ringraziamenti.

Qualcosa di riprovevole senz’altro.

Per questo sono sbigottita oltre misura quando Adamar chiosa ovvio: "Per avere contribuito alla distruzione del Signore Oscuro. Mi tediava la sua presenza... terribilmente emotivo, ossessionato e tormentato…”, le mie dita si artigliano attorno ai braccioli della sedia su cui sono seduta, mentre i polpastrelli descrivono la trama in rilievo degli intarsi. Tutto potevo immaginarmi tranne che un ringraziamento simile… e specie in questa forma. È come se avesse marcato enormemente la differenza esistente tra lui ed il male comune, al punto che può permettersi di definire un mostro come Voldemort semplicemente come emotivo. E non è assolutamente un aggettivo che avrei coniato sull’incubo di metà della mia vita.

È evidentemente al di là del male… ed al di là del bene.

Al di là di qualsiasi cosa mortale.

Si massaggia stancamente le tempie, ispirando un senso di pietosa comprensione nella donna alle sue spalle che, per il resto, è rimasta sempre immobile. Adamar quindi prosegue in modo volutamente pietoso come a voler instillare affetto nei suoi confronti: “Era causa di continue emicranie. Ero sul punto di intervenire di persona, quando lei e i suoi compagni l'avete annientato. Le sono riconoscente…". Persino la donna mi guarda con espressione cautamente sollevata, come se anche lei mi ringraziasse dell’aver liberato il suo padrone da quella indicibile fonte di irritazione.

Getto un’occhiata in tralice a Draco che, a sua volta, mi restituisce uno sguardo fosco e torbido, non prima di un ennesimo segno di indifferenza nel viso contratto. Non basta questa sua rassegnazione arrogante, però, a mozzarmi le parole in gola.

Non quando si parla della causa della morte di tanta gente che amo.

È quindi inevitabile per me dire a voce più alta ed acuta del normale: "Perché allora non l'ha fermato prima?".

Adamar mi soppesa con lo sguardo con solenne pazienza non prima di aver guardato la sua compagna con espressione indecifrabile, poi si sporge su di me con fare complice e cospiratorio come se stesse per confidarmi un segreto. Non indietreggio neanche di un centimetro, lo sfido con gli occhi a continuare. Ho silenziosamente rimproverato Draco fino ad ora per il modo in cui si era approcciato nei suoi confronti, temendo ritorsioni. Ma adesso, con la nettezza abbacinante di un fulmine, comprendo che non voglio andarmene prendendo tempo e simulando pazienza. Posso essere sgusciante e viscida, acquattandomi nell’ombra e mostrando inveterato rispetto… ma se parla di me. O di Draco. Ma dargli anche un minimo alibi di malcelata accettazione a quello che fa… non esiste al mondo.

Adamar sussurra in modo suadente, lo sguardo fisso sulle mie labbra, l’ombra sprezzante del solito sorriso: "Esaudire un desiderio del signore Oscuro avrebbe significato la distruzione di questo pianeta, Miss Granger. E la vostra razza deve essere controllata, non annientata. Ed ammetto la mia assoluta debolezza nell'essere ancora interessato al destino della vostra progenie degenerata. Inoltre per diversi anni è stato un alleato. Contribuiva a risolvere la sovrappopolazione di questo pianeta. Tutti quegli eccidi... hanno spazzato via molta frenesia umana dal globo...”.

Le mie mani si aggrappano di nuovo ai braccioli della sedia come se stessi per cadere per terra. Con una parte remota della mente, sento un movimento di Draco alla mia sinistra che pare sconvolto e sbigottito, esattamente come me. Voldemort era un suo… alleato. Ammazzava persone… e gli impediva di essere eccessivamente disturbato dai sentimenti umani.

Poi è diventato lui stesso una fonte di disagio… ed è stato grato che morisse.

È così che ragiona. È così che vive: vorrebbe un mondo ammantato di silenzio, poco importa chi sia a renderlo tale.

Se Dio o il diavolo.

La mia espressione evidentemente palesa in modo inequivoco i miei pensieri, perché Adamar si fa indietro con la schiena e guarda fuori dalla finestra, esibendo uno sguardo d’improvviso stanco ed annoiato: “Non pretendo che lei capisca. La moralità è un raffinato esercizio di perversione della vostra stirpe. Una finezza lessicale che io, al contrario di voi, non posso permettermi. Mi creda, ho ancora rimembranza di essa, la conoscevo bene nel tempo in cui ero umano. Ma adesso, dopo millenni, la trovo così laidamente inopportuna nel vostro mondo guasto da considerarla semplicemente una vetusta abitudine borghese. Da puritani, da individui con scarsa visione del disegno unitario. È come pretendere di guarire il cancro con uno sciroppo per la tosse. Sono libero da tempo immemore da tali corruzioni del buoncostume. Perciò comprenderà che, dal mio punto di vista, il gran numero di omicidi perpetrati da Lord Voldemort ha potuto falcidiare una moltitudine di sentimenti assolutamente disturbanti e molesti. E' stato... riposante, Miss Granger. Lo devo ammettere. Ogni tanto, persino un’entità come me può trarre piacere da cose come questa…”.

“E’ una cosa… disgustosa…” esplodo prima di potermi fermare, mentre Draco fa un buffo cenno di gola, traducibile più o meno con “Stavi rimproverando me… e poi sei decisamente molto più brava di me a farlo incazzare”. Sbuffo, senza guardarlo.

Adamar torna a noi con espressione autenticamente divertita, ridendo gaiamente. Ma nelle tenebre dei suoi occhi, è visibile qualcosa di sinistro e di molto meno cortese. Rabbia. Me ne accorgo dalle vibrazioni che si trasmettono ad alcuni manufatti di cristallo, sulla sua scrivania ingombra.

Tremano come se fossero impauriti.

“Mia cara…” ride affabilmente, guardandomi con dolcezza finta, una mano contratta sulla scrivania “Non mi diventi come il suo sgarbato compagno. Non ricevo molte visite, almeno non qui. E sono sempre stato affascinato dall’arte sublime della conversazione. Ho sentito molto parlare di lei, Miss Granger, so che ha delle doti dialettiche molto spiccate. Non troverò una conversatrice così mirabile per molto tempo. Mi conceda perlomeno questa parentesi di piacere in una vita di così opprimente fatica…”, la sua voce si colora anche di una venatura volutamente ironica, accompagnandosi ad un impercettibile movimento delle sopracciglia che mostra arroganza e presunzione. Aggiunge quindi ovvio: “Mi preme anche sottolineare che finanche dura il mio diletto, nonché il mio interesse in voi, potrò evitare di domandarvi che ci facciate qui. Giungendo a dover prematuramente troncare le vostre speranze ed aspettative di vita…”. La sua minaccia pare così gentile che, per un attimo, passa quasi inosservata alle mie orecchie. Poi deflagra con potenza, seccandomi la gola e ricordandomi con potenza che cosa siamo venuti a fare qui.

A morire, sicuramente. Ad uccidere lui, irrealisticamente.

“Quindi conversiamo, sarà decisamente meglio per tutti…” soggiunge gaio con un nuovo irritante sorriso, prima di chiedere con calma facendo un gesto alla donna alle sue spalle: “Tè?”.

La donna fa comparire praticamente dal nulla, senza l’ausilio di alcuna bacchetta, un vassoio con un servizio da tè antico di rame scuro, con delicati intarsi. Per pochi secondi, in un gesto così semplice e casalingo, anche in lei si rivela un enorme potere magico. Poggia il vassoio sulla scrivania porgendoci due tazze dall’odore invitante. È Earl Grey, lo riconosco dall’odore di bergamotto. Eppure, per un secondo, titubo all’idea di bere l’intruglio preparato dall’affascinante tuttofare di un demone millenario: potrebbe anche essere avvelenato. Poi, ricordo con tempismo che comunque vada, quest’essere mi ha in suo potere. Non è nel suo stile propinarmi una bevanda avvelenata. Un rimedio così banale per qualcuno di così potente è decisamente idiota. Sorseggio quindi con calma il tè, attenta a non scottarmi.

Draco, invece, lo porta alle labbra ma non vuota la tazza.

“Domando scusa…” soggiunge d’improvviso Adamar profondamente contrito, poggiando la sua tazza sulla scrivania con un piccolo clangore metallico “Non vi ho presentato la mia diletta Eva. L’ho detto, troppa poca conversazione in questi anni…”. La donna fa un cenno vezzoso con il capo come a volersi presentare, sebbene sia stata presente in questa stanza fino ad ora. La luce del sole che entra dalla finestra fa scintillare il cameo della rosa bianca al suo collo.

Prendendo al volo l’occasione di tergiversare e di assecondare almeno per ora la sua indole ciarliera di modo da capire quante più cose possibili su di lui, chiedo non senza una buona dose di curiosità prendendo un lungo sorso di tè: “Lei è… umana?”.

Adamar pare sinceramente soddisfatto dalla mia domanda come se fossi un’alunna diligente e rispettosa, e squadra Eva dalla testa ai piedi con uno sguardo frammisto tra il rispetto, l’adorazione e la soddisfazione personale. Lei si ritrae umile, piegando la testa.

“Lei è la sola umana degna di vivere sul vostro pianeta…” sussurra Adamar, non distogliendo un attimo lo sguardo da lei come se ne fosse infinitamente rapito “Per questo le ho dato il nome della prima miseranda femmina della vostra specie, sperando che un giorno tutto il mondo diventi come lei…”, i suoi occhi tradiscono una vena reale di emozione, somigliante a quello che in un uomo chiamerei palpito di cuore. Ma in verità, ancora, dubito che sia questo. Ha la gestualità di una persona, non i pensieri e le intenzioni. Quindi sicuramente c’è sotto altro. Torna quindi a guardarmi e previene le mie domande in modo quasi meccanico: “Ma se mi chiede se Eva è come me, oppure se sia come lei, Miss Granger… la risposta è quasi, per entrambe le cose…”.

Quasi…

Quasi umana… quasi demoniaca… che cosa diamine è, allora?

Improvvisamente tutto della donna mi pare clamorosamente artificioso, inumano, impossibile. La pelle liscia, i capelli privi di imperfezioni, lo sguardo trasparente, i gesti lenti. Persino la collana che porta al collo e con cui ora giocherella con due dita. Non poteva essere umana… era naturale… cosa è allora?

“Mi ricordi, Eva, cara, come ti chiamavi prima?” le chiede Adamar, poggiandole con naturalezza e confidenza una mano sul fianco, esortandola ed invogliandola alla risposta. Eva pare emozionata dal contatto, o almeno così dice la sua smania improvvisa di rispondere. Eppure i suoi occhi restano assolutamente indifferenti.

“Mi faccia pensare, Eccellenza… è passato così tanto tempo…”.

“Credo quasi trecento anni…” ride Adamar con il tono di voce di un uomo avanti con gli anni che vagheggia sul tempo perduto.

“Non ho avvertito un secondo di queste decadi con lei, Eccellenza…” mormora lei sicura, azzardandosi per la prima volta a guardarlo in viso, una traccia di rossore sul viso pulito. Adamar le risponde con un sorriso a suo modo grato, a suo modo persino romantico, da cavalier cortese. Ma so che non prova amore… so che non prova niente… e quindi ancora di più, mi stringo alla mia tazza ormai tiepida, chiedendomi come faccia a dissimulare così bene queste emozioni umane. Eva ha un singulto negli occhi chiari, che sembra incredulo e perplesso come se facesse fatica a ricordare e a capacitarsi che quello che rammenta sia vero: “Adesso ricordo. Lucille Dubois. Mi chiamavo così…”.

I sensi mi si mettono subito in allerta.

Angelique e Francois Dubois. I primi e gli unici che hanno provato la Solutio Damnationis, prima di noi. Quelli che il nostro cortese ospite… ha fatto a pezzi.

La voce incerta chiedo dubbiosa, convinta che non possa trattarsi delle stesse persone: “Dubois… come i fratelli della Solutio Damnationis?”.

“Memoria eccellente, mia cara” si compiace Adamar, guardandomi deliziato ed azzardandosi persino ad un entusiastico battito di mani, causandomi un ulteriore spasmo nello stomaco per quanto mi sia impossibile immaginare un collegamento tra lui e le vittime della sua peggiore ferocia. Peraltro ha parlato di trecento anni… questa donna ha trecento anni… che il diavolo ti renda davvero eternamente giovane?

Con i tempi ci siamo.

Angelique e Francois vissero durante la Rivoluzione Francese. Così ci ha detto Helder.

Di fronte al mio sbigottimento, Adamar spiega con lentezza enfatica: “Eva era la sorella maggiore di Angelique e Francois. Empatica anche lei, come tutta la sua famiglia. Aborrì ciò che fecero ai suoi congiunti… la creazione del sentimento incestuoso di amore… e quando morirono, comprese la portata della mia missione. Mi pregò di prenderla al suo servizio, di vincolare la sua vita alla mia, di esistere fino a quando avessi bisogno di lei, di essere mia ancella, compagna e confidente. Ammetto che all’inizio ero dubbioso, non ho mai avuto bisogno di assistenza. Ma quando Lucille ebbe l’ardimento di pormi una richiesta di cui nessun uomo mi ha ancora reso oggetto… mi soggiogò… una donna dalla così consapevole lungimiranza non credo che sia ancora nata…”.

Lucille, o meglio Eva, ha un nuovo sorriso di profondo piacere, sembra inarcarsi come un gatto che riceve le fusa: “Lei mi lusinga, Eccellenza…”.

“Cosa… le chiese?” sussurro spaventata con un filo di voce.

Adamar fa un sorrisino beffardo, saputo, profondamente arrogante, soppesandomi con un’espressione di profonda superiorità morale e fisica. Si guarda persino le unghie per qualche istante ostentando nonchalance, e sorride quietamente ad Eva che gli risponde calorosamente. Poi, sporgendosi, bisbiglia bieco: “Silenzio del cuore. Eva mi chiese il silenzio del cuore. Totale, irreprensibile, insondabile, invalicabile. Non voleva provare più nulla che non fosse la devozione per me…”, rabbrividisco paralizzata, la sensazione di mille granchietti ghiacciati che arrancano sulla schiena, sul collo, sulla nuca, sul cuoio capelluto, ovunque.

Come uno Zahir. Ma totale.

Ci ho quasi rimesso la sanità mentale, perdendo un solo sentimento. Come deve essere stato… perdere tutto… tranne l’adorazione religiosa per un demone?

Mi stringo nelle spalle, cercando di fermare il tremore improvviso che mi ha preso le membra, costringendomi anche a serrare i denti. Non riesco neanche più a guardare Eva, immaginando il tetro gelo che sente dentro: ho come l’impressione che quegli occhi calmi e serafici possano succhiarmi via l’anima dal corpo.

Adamar prosegue soffuso con il tono di una confidenza tra amici: “Lucille sapeva che una parte di lei avrebbe continuato a provare avversione per l’uccisione dei suoi fratelli. Quindi prese questa giudiziosa risoluzione. E devo concedere che la sua cooperazione è stata oltremodo remunerativa in questi secoli… Eva ha meno reticenze di me a viaggiare, trasmette la memoria della mia esistenza a chi ha in sé la capacità di invocarmi. Se non fosse per lei, probabilmente non avrei più menzione in questo mondo. Da una parte i babbani e la loro fetida tecnologia, rinnegante di qualsiasi cosa incomprensibile alle loro piccole e sciocche menti; e dall’altra parte i maghi, che non hanno la più basilare conoscenza dell’origine dei loro poteri, nonché delle loro vite. Non mi sorprende dunque che vi lasciate manovrare a scadenze regolari da tiranni in cappuccio. Eva è diventata essenziale…”, ha un sorriso da diavolo, da mostro, da inferno, oscuro e nero come la notte che fa rilucere gli occhi come se fossero di fuoco liquido. Si fa indietro con la schiena, guardando Eva con una risata, a cui lei risponde con uguale ilarità come se stesse raccontando un aneddoto divertente: “…ma del resto avrei dovuto intuirlo da come sbrigò la questione con quel tale inglese… Dorian Grey… fu davvero un momento… soddisfacente…”.

Impallidisco, mi ritraggo su me stessa e chiudo senza accorgermene la mia mano sulle labbra fredde. Dorian Grey… una creatura da romanzo.

Un uomo che vendette l’anima… per essere eternamente giovane. E ne morì devastato dal vizio e dall’immoralità.

Non era una storia. Non era un romanzo.

Era… vero.

Vendette l’anima a… lui.

Che speranze… abbiamo io e Draco? Quali… se del suo potere malvagio e cancerogeno è metastatizzata da millenni l’intera umanità?

La sensazione di impotenza, di terrore, di disgusto, diventa una cascata di sudore freddo sulla schiena, inasprita ed esacerbata dalla visione di Eva ed Adamar che continuano a sogghignare spensierati, come se stessero rievocando qualcosa di sommamente ilare. Asciugo freneticamente i palmi sudati sul tessuto dei pantaloni che porto, ricavandone solo un ulteriore sensazione di fastidio bollente, mentre il respiro aumenta di frequenza e diventa sempre più simile ad un rantolo scomposto, come se stessi andando in apnea.

È allora che, naturale come un angelo custode, la mano di Draco copre la mia, la stringe forte e mi restituisce calma e coraggio. Lo guardo terrorizzata, il viso cinereo, il respiro che non ne vuole sapere di sciogliersi, gli occhi lucidi, l’ansia che mi gonfia il petto. Draco non fa altro che simulare un lungo respiro profondo, costringendomi quasi ad imitarlo, per poi scuotere impercettibilmente il capo, come se mi dicesse silenziosamente di smettere di fare domande. Ha ragione. Io sarò anche stata il Capo degli Auror… ma come conosce lui il male… non lo conosce nessuno.

Non si deve mai lasciarlo parlare, fare domande, cercare di capirlo… ti trascina in basso all’inferno, senza darti scampo alcuno.

Lui… il male, lo conosce da anni.

Per quello è stato zitto. Per quello non ha chiesto niente. Per quello ha esibito arroganza tracimante rabbia.

Per non farlo parlare…  per non darsi spacciato, per recuperare coraggio.

Non siamo qui a cercare di resuscitare il bene. Siamo qui per battere il male.

E il male non lo si sta ad ascoltare.

Accarezzo con il pollice il palmo della sua mano annuendo, dando segno e cenno che ho capito che cosa mi sta dicendo.

Draco lascia la mia mano prima di commentare scocciato:  “Possiamo arrivare al punto della questione? Non siamo venuti qui a fare conversazione, o ad intrattenerti amabilmente…”.

Adamar ha un moto di stizza nervoso, mentre viene interrotto dalla sua piacevole rievocazione di atrocità con Eva. Ci guarda con espressione disgustata, come se fossimo delle specie di ratti, storcendo le labbra in una smorfia elegante di disapprovazione mentre osserva Draco. Ma stavolta non trova alcun gesto di biasimo o rimprovero in me: anzi gli rimando lo sguardo al mittente con forza.

“Signor Malfoy, se conoscesse le dinamiche della biologia, saprebbe benissimo che al topo non conviene richiamare l’attenzione sull’appetito del felino…” mormora seriamente, non prima di un raffinato ghigno di scherno dipinto sulle labbra sottili “La sua compagna ha avuto decisamente più buonsenso di lei, con il suo delizioso silenzio e la sua vereconda curiosità… ma visto che ci tiene così tanto, possiamo anche dedicarci alle questioni che più da vicino ci competono…”, prende fiato e ci dedica un’espressione neutra come se fossimo appena entrati in casa, mentre incrocia le mani sulla superficie del tavolo ed aggiunge sardonico: “A cosa devo il piacere della vostra visita?”.

“Come a cosa devo il piacere?!” reagisce Draco con violenza, sbattendo i pugni sulla scrivania e facendo incrinare lievemente una statuina antica “La Solutio damnationis, razza di mostro! Siamo qui per questo! Non credo che ci abbia lasciato molta scelta, bastardo… i Karkaroff hanno nostro figlio… e a quanto pare ti sei sempre bellamente impicciato delle nostre questioni…”.

Spaventata dalla sua reazione, nonché enormemente di più dalla ritorsione di Adamar, chiudo la mano sulla spalla di Draco cercando di calmarlo, mentre spio con la coda dell’occhio la reazione del demone. Adamar però non fa altro che sistemare la statuetta spostata dall’impeto di Draco, rimettendola al suo posto, per poi sfregarsi con stanchezza annoiata una tempia con due dita.

“Ah signor Malfoy, lei e la sua indignazione facile…” si rivolge a me con espressione pietosa e compassionevole “Mi dica, Miss Granger, come interloquisce con lui? Deve essere davvero snervante…”, non nego che sono fortemente tentata dal rispondere piccata che non è una passeggiata di salute stare nella stessa stanza con Draco Malfoy e un demone che giocano a punzecchiarsi come ragazzini, ma soprassiedo, esibendo un’espressione incolore. Draco, intanto, appoggia di nuovo la schiena alla poltrona, apparentemente più calmo.

“So perfettamente che siete qui per questo motivo, vi ho sentito mentre pronunciavate l’incantesimo davanti ai signori Karkaroff…” mormora scocciato Adamar, schioccando la lingua con fastidio “Ma ho sperato che la nostra piccola conversazione vi avesse dato il sufficiente tempo materiale per comprendere quanto sia vano quello che siete venuti a cercare qui. Vi lascerei persino tornare indietro se mi confessaste in tutta sincerità che avevate decisamente sottovalutato le dimensioni di tutto quello che vi potrebbe accadere, se doveste porre la vostra vita e la vostra anima in mano mia…”. Lo guardo con un sopracciglio inarcato: non è che avessimo granché scelta se non questo. L’abbiamo chiarito a noi stessi ed ai nostri cari in tutte le maniere possibili. Non avevo alcuna priorità di venire qui, anzi. Quindi le sue minacce sono abbondantemente inutili, giunti qui. Non ho nulla in comune con la causa degli Empatici e, nel mio sano egoismo, potevo anche pensarlo ad infelicitare la Terra con la sua presenza, purché non toccasse chi amo. Ma non ce l’ha permesso. La dissuasione, adesso, è un semplice giochetto mentale… sembra che gli piacciano, in fondo. Per questo ne vengo abbastanza irritata, incrociando le braccia al torace in modo meccanicamente seccato.

“Ci risparmieremmo molti fraintendimenti nonché fastidi e disagi se decidessimo di essere sinceri gli uni con gli altri. Quindi pretenderò da voi la stessa dose di adeguata onestà che adesso vi tributo…” inizia con voce monocorde Adamar ruotando lievemente con il busto, fino ad avere il panorama della finestra davanti agli occhi e non più noi due, come se d’improvviso ci trovasse repellenti “Vi riconosco un attaccamento genuino l’uno nei confronti nell’altra, non siete vittime di un artificioso affetto indottovi come accadde per gli sfortunati fratelli Dubois. Ma è il vostro solo punto a favore. L’unico. Vi ho già detto che adoro le metafore? Rendono complicate immagini molto più gestibili da qualsiasi tipologia di mente. Ve ne pongo una, dunque. La gazzella è vittima e preda naturale del leone. Se le dessimo un’arma da fuoco, avrebbe ogni mezzo per potersi difendere. Peccato che non saprà mai come utilizzare il mortifero utensile. Ecco dunque cosa siete voi due con la Solutio damnationis. Avete un’arma di incredibile potenza, ma non ne conoscete minimamente l’utilizzo. Molto deplorevole. Gli Empatici ha una strana quanto inconsueta abitudine ad indirizzarmi individui di cui io possa fare macero. La Solutio damnationis mette alla prova un’emozione umana che ho già incontrato e non distrutto per ben due volte. Nondimeno, gli uomini si sono incaponiti a volermi battere con l’amore. Madornale errore, ne converrete anche voi. Siete molto più puri ed eburnei nel disprezzo, nell’odio, nel rancore. L’amore è un’emozione troppo multiforme, da potersi considerare pura per alcuno. Necessita di vitale e quotidiano sostentamento di una gamma così ampia di sentimenti positivi, da disgustarmi profondamente. Fiducia, speranza, forza, coraggio, persino una certa ardimentosa dose di sano istinto al sacrificio e al compromesso. E mi duole ammetterlo, ma il vostro sentimento è manchevole di ognuna di queste gradazioni. Non eleviamo un’attrazione sessuale ed un becero attaccamento emozionale ad un grande amore. Neanche in due individui del tutto particolari come voi. D’accordo, avete doti complementari ed elevatissime rispetto alla media della vostra razza. Ma non si esalta una mosca bianca in uno stormo di insetti neri: è pur sempre un parassita che si nutre di letame, mi scuso per la volgarità di questo infelice paragone. Analizziamo i fatti con discernimento, volete?”, fa un lungo respiro profondo e torna finalmente a guardarci, un’ombra di sorriso sulle labbra. Ha un ultimo sguardo per Eva, lei non ha minimamente cambiato espressione a nessun accenno ai suoi famigliari. Adamar quindi prosegue spavaldo: “I fratelli Dubois erano due Empatici dei più valenti, vennero a me dopo mesi di estenuante addestramento, avevano nozioni e preparazione incredibilmente accurate riguardo alla mia intera vita e alla gamma dei miei poteri. Erano persino adorabili nelle loro pose militaresche e nelle loro menti mute, così che io non conoscessi nulla dei loro pensieri e delle loro debolezze. Erano oggetto di un sentimento oltremodo limpido, non come il vostro così sporcato da emozioni negative. Scardinai le loro difese in dodici ore. Ci avrei anche messo meno ma volevo punire la loro incredibile supponenza. Prima demolii interamente le loro menti, annegandoli nella paura. E quando non erano null’altro che fragili gusci tremanti di bieco terrore, polverizzai le loro inermi membra umane. Ricordo ancora la fragranza del sangue della ragazzina, Angelique. Mora di bosco e miele di lavanda. Dolcissima”.

Annaspo con un brivido all’espressione goduriosa e voluttuosa del demone che sembra stia pregustando di nuovo quell’aroma fragrante. Mi porto la mano alle labbra in preda ad un sinistro conato di vomito, che reprimo a stento. Ad incentivare la mia sensazione, è sempre l’assoluta mancanza di reazione di Eva.

“Che cosa sei, oltre ad un pazzo visionario?” esplode Draco con una risata disgustata, guardandolo torvo “Un vampiro, anche?!”.

“Ah no, signor Malfoy. Fu semplice frenesia rabbiosa” lo corregge bonariamente Adamar con un gesto noncurante della mano “Non riuscii a contenermi dal farli letteralmente a pezzi. Mi creda, lei e Miss Granger non correte almeno questo rischio. Non mi state ingannando, non siete così ottusamente sciocchi. Se giungessimo davvero alla Solutio damnationis, avrei enorme rispetto delle vostre spoglie umane. Concederei alle vostre famiglie il ristoro di una degna sepoltura. Non vi state burlando di me, sento l’eco di un affetto che vi ha unito e che ha generato il vostro adorabile figlioletto…”.

“Di cui lei ha avuto responsabilità nella nascita, non è così?” sputo fuori tagliente, come se stessi ingurgitando veleno.

È la sola cosa che davvero sento come fastidiosamente perforante nel mio cervello, persino più del pensiero di morire. Draco, accanto a me, ha un movimento deciso della mano. La contrae e la rilassa un paio di volte, come se si stesse trattenendo dallo spaccare qualcosa.

“Certo, Miss Granger. Dovevo esaudire le volontà della piccola Astoria Greengrass. E nondimeno la richiesta della giovane Astoria era straordinariamente incline ai miei stessi desideri, caso più unico che raro… del resto ciò che è opposizione si concilia e dalle cose differenti nasce l’armonia più bella, e tutto si genera per via di contrasto… lo diceva Eraclito, un grande filosofo…” mi risponde Adamar con calma guardandomi in tralice. Ha negli occhi qualcosa che mi sfugge, qualcosa che non comprendo, specie in quella citazione colta che sembra attaccata con un pretesto. E che mi fa congelare repentinamente sul posto.

La richiesta di Astoria… quella di avere un bambino Malfoy… era incline ai suoi desideri.

Quali desideri, maledizione?

Adamar fa volutamente sfuggire il filo di quell’allusione, proseguendo atono: “La mia natura demoniaca non ha ancora debellato tracce di una fervida e discutibile curiosità di stampo umano. Non so se compiacermene o esserne ripugnato. Tale stranezza del mio temperamento è stata ampiamente soddisfatta dalla nascita del vostro Alexander. Un fanciullo eccezionale. Non ho mio malgrado alcuna dote di preveggenza del futuro, ma è davvero semplice comprendere che diventerà un valente membro della sua stirpe. Ha ereditato quanto di migliore aveste entrambi, ma c’è qualcosa di interamente suo che potrebbe diventare fonte di enorme potere magico. La vostra avventura con i signori Karkaroff mi ha consentito di conoscerlo molto prima del tempo previsto, ne sono davvero lieto. Sarebbe nato probabilmente solo tra molti anni… o non sarebbe nato affatto. Ma il mio intervento ha facilitato la sua venuta al mondo. Avete generato vostro figlio in modo consenziente, ma ho reso lei, Miss Granger, e mi scusi la crudezza di questo discorso, semplicemente più fertile in quel dato momento. Non ha motivo di esserne colpita più di quanto non sia prevedibile, visto l’enorme divario che caratterizza me e lei, nonché i nostri potenziali, le nostre velleità, le nostre intenzioni. Mi creda, altri non sono stati così fortunati da essere stati così marginalmente interessati dal mio operare. In fondo, avete compiuto le vostre scelte con il massimo grado di libero arbitrio possibile, eravate autenticamente attratti l’uno dell’altra, persino… come si direbbe nel vostro caso?”, soppesa un attimo le parole con espressione fintamente meditabonda, prima di pronunciare caustico: “Giusto… eravate innamorati, scusatemi. È una parola così abusata nel vostro mondo che la rigetto nel suo utilizzo. Dunque gioite della nascita di quello che probabilmente resterà il vostro unico e pertanto indiscutibilmente speciale erede. In un modo del tutto consequenziale, dovreste anche porgermi i vostri ringraziamenti. Ma ho rimembranza della natura fallacemente marcia che vi contraddistingue. Quindi non pretenderò alcun omaggio in tal senso. Ribadirò solamente che è stata vostra specifica volontà entrare nella mia orbita d’azione. Lei, Miss Granger, con lo Zahir. Il Signor Malfoy, richiedendo il mio intervento”.

Roteo gli occhi con una risatina, mormorando ironica, mentre incrocio meccanicamente le braccia: “Ha parlato di essere onesti gli uni con gli altri, no? Ed allora perché non ammette che ha sempre avuto un interesse in Draco?! Perché non ammette che lo ha seguito da quando ha tradito i suoi genitori?”.

Un tremolio sulla mascella di Adamar mi informa immediatamente che devo aver detto qualcosa di clamorosamente sbagliato, che l’ha infastidito profondamente. La sua mano sinistra si stringe a pugno violentemente sulla scrivania, come se si stesse trattenendo furiosamente dal chiudermele attorno al collo. La nuca mi si inzuppa di sudore freddo, mi tiro indietro inutilmente con la schiena e la mia mano corre alla bacchetta, come se effettivamente ci fosse qualcosa da fare contro una sua reazione d’ira. Draco, a sua volta, si sporge protettivo su di me, chiudendomi il polso con la mano e parandomi alla sua vista con la sua figura. Gli stringo una manica della camicia come una bambina, mentre fuori il panorama idilliaco che vedevamo cambia, si trasforma. Il cielo viene solcato da pesanti nubi nere comparse all’improvviso che iniziano a rovesciare acqua mista a grandine sui vetri delle finestre, sul tetto, sul prato. Contemporaneamente si solleva un vento furioso, malsano, inumano, che sembra voler scardinare la casa dalle fondamenta. Sbatte contro gli scuri come una bestia in trappola, ambendo a noi e alla nostra distruzione. La sala cala nel buio, la musica che ci ha accompagnato fino ad ora si interrompe bruscamente sull’acuto della soprano. Mi aggrappo a Draco che mi stringe con il braccio la vita, mentre nell’avvicendarsi dei lampi e dei tuoni, vedo solo gli occhi sinistri di Adamar, adesso stranamente più allungati e dalla pupilla sottile come quella di un gatto. Scintilla l’iride di oro facendoci luce, mentre un’aura di colore nero l’avvolge completamente facendo ondeggiare i suoi abiti. Un paio di soprammobili si infrangono, scaraventando di cristallo su di noi. Draco mi copre, un frammento gli taglia la camicia all’altezza del braccio, urlo preoccupata e spaventata chinandomi su di lui.

La voce di Adamar supera la pioggia, il tuono e il rumore del cristallo che si rompe, mentre urla con voce mostruosa: “Le solite paranoie umane. La solita indefessa alterigia di ergersi al di sopra dei propri stessi simili nella convinzione di essere diversi, migliori, speciali, unici. Non lo siete! Non lo siete mai stati! Siete tutti identica feccia di universo che, per pura clemenza divina, continuate ad insudiciare il globo! Rigurgiti di misericordia e di cattiveria, impegnati a sbattere gli uni contro gli altri come cani rabbiosi! Come potrei minimamente nutrire interesse in uno di voi? Che non sia un interesse allo zittirvi per sempre, al rendervi creature mute ed incapaci di creare nocumento a voi stessi?! Formiche, scarafaggi, ratti… che vomitano odio come amore, e che in virtù di ciò da cui si lasciano manovrare, ammazzano, violentano, uccidono, distruggono. Interesse… io proverei interesse?! Dovreste solo che ringraziare che sia vincolato ad un codice di onore che neanche nelle vostre più rosee aspettative di comprensione potreste minimamente apprezzare, altrimenti vi avrei già estirpato tutti da questa terra!”.

Nel suo ultimo singulto di rabbia, la finestra si rompe ed il vento si abbatte nella stanza, agitando fogli di carta e rovesciando oggetti a caso in un turbine selvaggio. Quando ormai penso che è vicinissimo ad ucciderci, Draco si china su di me chiudendomi tra le mie ginocchia e il suo corpo. Mi stringe forte al suo torace proteggendomi la testa, ed a mia volta, mi stringo alle sue braccia, il rumore del vento che mi impedisce di avere altri pensieri se non quello che, per una sciocca arroganza, me ne sto andando prima ancora di aver davvero provato la Solutio Damnationis.

Poi, soffice come una piuma, la voce di Eva esplode di campanelle come se non stesse succedendo assolutamente niente. Piatta, pacata, con il tono paziente di una madre, dice soave: “Eccellenza, si calmi. È solo un’umana, non può comprendere… non si agiti nel cercare di spiegare…”.

Tutto cessa all’improvviso repentinamente.

Il rumore della pioggia, il vento, il fragore degli oggetti distrutti. Quando Draco ha il coraggio di lasciarmi andare ed io ho quello di aprire gli occhi, tutto è tornato al suo posto. Il sole splende di nuovo fuori dalla villa, la finestra è intatta, Adamar è di nuovo un attraente padrone di casa dallo sguardo giocondo ed educato. Niente più occhi da diavolo: il respiro però non accenna a decelerare nel mio petto. Continua furioso e forsennato e la mia mano si artiglia a quella di Draco, incapace di lasciarlo andare. Discretamente, senza attirare l’attenzione del demone, Draco mi accarezza il dorso della mano con il pollice come a cercare di rassicurarmi. Gli getto un’occhiata che vorrebbe essere ugualmente tranquillizzante, ma mi esce fuori solo un sorriso tremulo ed un pigolio strozzato. Persino la sua camicia è perfettamente integra.

È il demone che abbiamo visto adesso, non la sua incantevole copertura.

Ed è stata la cosa peggiore che abbia mai visto in vita mia.

“Hai ragione, Eva, mia cara. Un’imperdonabile défaillance…” mormora Adamar, voltandosi per guardare la sua compagna che gli rimanda un sorriso accondiscendente, inclinando la testa di lato  “Un’ammissione di collera è implicitamente un riconoscimento di uguaglianza con queste infime creature…”. Senza cambiare espressione, si volta su sé stesso e torna a guardare me con le sopracciglia sollevate per il dispiacere. Il terrore che mi mostri di nuovo quegli occhi orribili mi fa serrare nella mia la mano di Draco, fino probabilmente a bloccargli la circolazione.

“Mi scusi anche lei, Miss Granger. Ho perso la nozione di me stesso…” sussurra accattivante, esibendo un tono così mortificato da spingermi quasi ad implorarlo di perdonare me invece per averlo così sconsideratamente innervosito. Per fortuna, quella considerazione fugace riesce a riportarmi alla ragione ed alla calma. Riprendo a respirare normalmente, mostrandomi superiore e largamente non impensierita dal suo scoppio infantile di nervosismo. Lascio la mano di Draco solo per esibirmi in un gesto noncurante e distratto, quasi dicendo che non è nulla.

“Lei d’altronde è solo l’affascinante pappagallino della gente empatica…” chiosa convincente, scoccandomi uno sguardo di compassione che contribuisce ad eliminare la paura e a far risorgere la voglia di spaccargli la faccia “Lei mi ripete diligentemente solo ciò che ha sentito dire. Non posso darle eccessive responsabilità o volizioni nelle sue inopportune e scorrette supposizioni…”. Evito di rispondergli altro, ma gli scocco uno sguardo spavaldo e per nulla intimorito, a dimostrazione che la sua sceneggiata precedente è stata un abile trucchetto, ma niente più di questo.

Riprende quindi il filo del discorso, spiegando con convinzione: “Non ho mai avuto interesse in Draco Malfoy. Se poi dobbiamo parlare di interesse alla vostra volgare e semplicistica maniera… è sempre stato solo quello di… metterlo a tacere…”, sussulto lievemente ma cerco di non darlo a vedere. Draco, invece, resta assolutamente inerme, le braccia incrociate, come se questo discorso non lo riguardasse affatto.

Adamar riflette per qualche secondo, poi argomenta i suoi pensieri come se si sforzasse di farceli intendere alla perfezione: “Si immagini una notte in cui è particolarmente spossata da una lunga giornata di lavoro, finalmente è a letto e il silenzio l’avvolge dolce e totale. Si immagini che, d’un tratto, nella stanza irrompa il fastidioso gocciolare di un rubinetto che perde. Lo ignora, chiude gli occhi, nasconde la testa sotto il cuscino e cerca di addormentarsi. Ma il tediante suono si ostina a ripetersi costante nelle sue orecchie, destandola ed impedendole di dormire. Ecco cosa è Draco Malfoy per me…”.

“Io sarei presente nella stanza al momento…” sbuffa Draco infastidito “Potremmo anche evitare di definirmi un rumore fastidioso…”.

“Mi scusi, signor Malfoy…” sogghigna Adamar, guardandolo con autentico divertimento “Era il solo modo di rendere il concetto semplice e digeribile anche per voi. Lei non è un’eccezione così rara, non è un qualcosa di così unico della sua specie. Devo dire di essere stato molto tormentato da personaggi come lei in passato. L’evoluzione della società umana ha notevolmente accelerato e diversificato le modalità di espressione dei sentimenti umani, difficilmente riuscite al momento a tacitare ciò che sentite e provate. Avete decine di strambe diavolerie con cui esprimere ciò che di abietto vi scorre dentro. Io colgo soprattutto l’inespresso, il represso, il nascosto. Ciò che non confessate neanche a voi stessi, nel silenzio e nel buio delle vostre camere. Ebbene, secoli fa, nulla si esprimeva di personale, i cuori scoppiavano di infami segreti e di passioni nefaste, credo fosse a causa di un’educazione fortemente nobiliare e resa bigotta dalla religione. Ora non è più così, incontro altri problemi nella mia quotidiana gestione della vostra razza… ma non ne parlerò adesso con voi. Ebbene i sentimenti repressi, essendo celati, sono ben più forti. E mi causano terribile insofferenza ed incommensurabile assillo. I sentimenti espressi sono invece scocciature tutto sommato tollerabili. Dunque, se incontro un individuo che ha ricevuto un’educazione di vetusto stampo e dunque è abituato alla repressione di sé, alla noncuranza, all’indifferenza, può ben comprendere quanto tarlo mi provochi, specie se è ormai uno dei pochi su questa Terra…”, non capisco minimamente dove voglia andare a parare con il suo discorso. Non sta dicendo nulla di così singolare da qualificare come poteva essere interessato a Draco.

Adamar quasi previene, però, le mie rimostranze, mentre soggiunge: “Però, potreste giustamente obiettare che anche in Oriente vi sono ancora forme di educazioni similari e non ne traggo il medesimo tormento. E a quel punto, vi spiegherei sommariamente che Draco Malfoy è abituato alla noncuranza di sé… ma non è lo stesso per il suo cuore…”.

È a quel punto che taccio improvvisamente chiudendomi nelle spalle, ricordandomi con una nitidezza accecante prima rimasta sepolta, che siamo qui davanti a questo demone a farci sviscerare il cuore e l’amore che dovremmo provare l’uno per l’altra. Quello che sta dicendo… non è per me una novità. Lo è certamente meno per Draco che, in tono violentemente veemente, chiede con foga: “Che diamine significherebbe?!”. Adamar mi lancia uno sguardo d’intesa, che si traduce persino in una scrollata di spalle d’impotenza e di presunto riconoscimento della banalità della domanda del mio compagno.

Ho sempre saputo che Draco finge continuamente un disinteresse puro per ogni cosa, ma che…dentro… non è affatto così. Ribolle, rifiorisce ed annaspa di centinaia di cose diverse, da far impazzire. Paradossalmente, Draco Malfoy è una delle persone più sensibili che conosco: ha una lucida e meravigliosa attenzione per qualsiasi particolare ispirante la più ampia gamma di sentimenti. Abbraccia amore come accoglie odio, non rinnega mai nulla di quello che sente e prova. Ma, siccome è semplicemente… troppo… molto più delle persone normali… fa finta di non accorgersene. È un meccanismo di difesa: il solo modo che gli hanno insegnato.

Ovvio che, se Adamar lo percepisce, per lui sia stato un tormento ed un desiderio continuo tacitarlo. Sporcando la sua anima, spingendolo a chiedere il suo aiuto, lo avrebbe ucciso quel massacrante riflesso di viva umanità.

E, visto come lo guarda… come si guarderebbe un dolce… non penso che si sia ancora arreso a quell’idea.

“Signor Malfoy, la sua continua provocazione nei miei confronti sarebbe persino ilare se comprendesse quanto abbia io e sempre il coltello dalla parte del manico…” sorride bonario Adamar, fissando Draco con compassione dolciastra “Devo forse rivelare quanto e cosa provi per quella donna, che le siede accanto? Quanto confonde costantemente adorazione e desiderio, con rabbia e rimpianto? Prova così tante cose nello stesso momento da ammattirmi…”, mi piego su me stessa quasi a volermi rendere invisibile e cancellarmi da questa conversazione, mentre Draco si muove a disagio sulla sedia come se temesse che dica qualcosa di più del necessario. Adamar sorride ancora serafico, poggiando il mento sulle mani incrociate e snocciolando con voce ferma: “Da quando è qui, è stato preoccupato per lei, infastidito da lei, affascinato da lei, infuriato con lei. E tutto questo, sempre, nell’arco di pochi secondi. Se non crede che ne possa ricevere indubitabile oltraggio, allora dovrò ripetere il mio ragionamento di poco fa con termini ben più semplici… è sempre stato così per tutto ciò che ha riguardato Hermione Granger…”. Non sollevo lo sguardo neanche per caso fingendomi profondamente interessata alla moquette verde smeraldo. Non sta dicendo nulla di nuovo, né per me, né tantomeno per Draco immagino. Eppure il terrore che vada a scavare in qualcosa di così profondo da non voler essere ancora né sentito, né affrontato a viso aperto da me o da lui, mi fa soffocare di vergogna ed imbarazzo. Ed è assurdo che adesso tema più questo, piuttosto che concretamente l’ipotesi che ci ammazzi su due piedi.

“Per questo ho compiuto l’enorme errore di valutazione di considerare lei, signor Malfoy, completamente scevro da sentimenti per l’incantevole donna che le siede accanto…” si giustifica frettolosamente Adamar, riprendendo a parlare con voce tranquilla, Draco continua a dimenarsi sulla sedia come se fosse punto dall’ansia di interromperlo “Ha celato l’amore a sé stesso fino a quando ha potuto. Lo cela ancora adesso, sebbene per motivi differenti. Tornando a noi, crede che un sentimento simile, sporco per lei al punto da rinnegarlo sempre e da accettarlo solo quando ne ho può fare più a meno, possa davvero nuocermi in qualche modo? Parliamoci chiaro, signor Malfoy. La osservo da così tanti anni che posso ardire di parlarle in modo franco…”. Fa una terribile e lunghissima pausa, studiata al punto tale da indurmi ansia anche solo con il senso dell’attesa.

Persino il tempo sembra sospeso. Non sento neanche più il suono degli uccelli, fuori dalla finestra.

Quando riprende a parlare, ha una voce completamente diversa, che faccio fatica a riconoscere e che mi fa drizzare la schiena. E’ lenta, lamentosa, scandita, sporcata da un accenno quasi di pianto malinconico somigliante ad una nenia o ad una ninna nanna. Ma è storpia, storta, orrendamente grottesca e cantilenante, al punto da spingere a chiudere gli occhi per un contraccolpo sonnolento.

Quando sollevo lo sguardo, seguendo le sue parole, vedo che Draco non si muove più. E’ immobile, fermo, grigiastro nel volto e con le labbra bluastre. Lo guarda con gli occhi spalancati, le labbra semi-socchiuse e l’espressione stravolta. Preoccupata, sconvolta, mi volto verso Adamar sgomenta e noto finalmente che ha di nuovo quegli orribili occhi di poco fa.

Dorati, con la pupilla stretta.

Continua a parlare con voce monotona e monocorde, come se stesse soffiando fuori una filastrocca vecchia: “Lei, signor Malfoy, non è semplicemente nato per questo. Per le relazioni, per l’impegno costante di prendersi cura di qualcuno, per essere genitore. Mi creda, incontra tutta la mia compassione in questo, l’umanità è da sempre terribilmente incline a dare rilevanza a tali dimessi palliativi per la solitudine a cui intimamente siete obbligati. Ed anche lei, nel suo profondo, ha un’aspirazione perenne a vincere il suo endemico stato di eremo, ma…  semplicemente non le riesce. Crede di essere maturato dai tempi di Helena Greengrass? Certo che sì, si prende cura della sua adorabile e vezzosa figlioletta, ha una magione rispettabile e curata, adorna le pareti di foto del suo passato…”.

Sta cercando di suggestionarlo, sta cercando di convincerlo… che ha ragione…

Draco diventa sempre più bianco in viso, temo quasi che spirerà senza che io possa impedirlo e senza che cambi espressione. Mi guardo attorno, spaventata, cercando qualcosa che io possa fare per fermare la litania del demone. Ma un movimento impercettibile di Eva alle spalle di Adamar mi fa supporre che mi ammazzerebbe lei stessa se osassi fare qualcosa. La sfido con lo sguardo, non mi spaventa affatto ed anzi estraggo la bacchetta mostrandole che non ho assolutamente paura di misurarmi con lei.

Eva, però, volutamente mi ignora, muove solo le labbra un paio di volte, sillabando qualcosa. E semplicemente così, in pochi soffi di fiato, annulla ogni mia energia. Ogni mia volontà.

Improvvisamente… è come se dovessi solo ascoltare, solo stare ferma, solo sapere che non è questo che ucciderà Draco Malfoy, solo rassicurarmi che non accadrà nulla di irreparabile.

Mi lascio andare passivamente a quella forza sconosciuta, mentre Adamar continua a parlare convincente, raccontando quella che, a suo modo, ritiene la verità.

Quella che anche Draco, ormai livido, ha sempre ritenuto essere la verità.

Quella che persino io, a mio modo contrastato ed indocile, ho spesso sperato che non fosse la verità.

“Io e lei sappiamo che non è così, signor Malfoy…” continua Adamar, lanciandomi uno sguardo obliquo di soddisfazione di fronte al mio gelo calmo “Avanti… non divertiamoci in un triviale giochetto nel quale ci fingiamo migliori di quello che siamo. Lei rovina tutto ciò che ama, lo fa a pezzi perché è convinto di non poter essere sul serio oggetto di affetto e di sentimenti sinceri. Dissemina di trabocchetti il sentiero per arrivare a lei, gloriandosi della facilità con cui gli altri individui sovente vengano sopraffatti dalla raffinatezza signorile delle sue tagliole. Prospera e fruttifica in infeconde storie da letto, come quella con la procace signorina Karkaroff. Avrei davvero benedetto una vostra unione. Un tale carico di rancoroso insulto alla vita e all’amore meritava una possibilità. A lei, signor Malfoy, non interessa essere amato: interessa dimostrare che non è degno di esserlo. Ci pensi. Ci rifletta su. La donna che le siede accanto… è un’amazzone. Una guerriera. Ha lottato per lei dal giorno in cui sciaguratamente ha capito di amarla. Ha messo persino al mondo il vostro erede ed era sola, senza alcuna evidenza di rincontrarla. Invece, signor Malfoy, lei è sempre fuggito. Le ha persino offerto in dono un anello maledetto per indurla alla ritirata. Il suo inconscio è straordinariamente autorevole nella premeditazione dei suoi fallimenti. Nondimeno, se vogliamo essere del tutto schietti, non è neanche propriamente una sua esclusiva mancanza. È lapalissiano che non sappia che significa lasciarsi amare, dato che i suoi stessi genitori, scegliendo la sicurezza ed il potere al suo posto, le hanno dimostrato precipuamente che non era degno di essere amato. Un’efficiente profezia, la loro. Preconizzatori di quello che lei, prima o poi, avrebbe fatto loro. Credo che si dica occhio per occhio, dente per dente: curiosa espressione che denota rozzezza, ma indubbiamente è un sintagma lessicale potente. Le metafore sono l’unica cosa salvabile della vostra comunicazione sciatta, ve l’ho già detto, vero?”, ha un sogghigno che gli lascia scoperti i denti bianchi, come se si affannasse a calarglieli nella pelle del collo. Quell’ombra maledetta nello sguardo, quell’improvvisa certezza che potrà anche non ucciderlo fuori ma lo sta ammazzando dentro, rompe con il fragore del vetro rotto l’incanto indottomi da Eva. L’ansia, l’angoscia e la preoccupazione tornano prepotenti nel mio petto, mentre Adamar aggiunge venefico verso un Draco ormai ad occhi chiusi, abbandonato contro lo schienale della poltrona: “L’hanno tradita. E lei ha fatto lo stesso con loro. L’amore filiale è sempre così dannatamente commovente, vero, Eva? Come potrebbe lei, dunque, amare a sua volta?”.

La sola cosa che riesco istintivamente a pensare di fare per metterlo a tacere, è mettermi ad urlare a mia volta: “Smettila! Lascialo stare! Immediatamente!”.

Le corde vocali mi vibrano per il contraccolpo, ma per fortuna la nenia del demone si interrompe: di nuovo i suoi occhi tornano normali, mentre mi tributa uno sguardo sorpreso e meravigliato, prima di un sorriso derisorio e cautamente ammirato. Mi avvicino a Draco sfiorandogli la guancia, ma lo vedo immediatamente riprendere colore, tornare calmo nel respiro e scuotere la testa come a cancellare quelle parole dalla sua testa. Non so se ci riesca effettivamente, ma si limita a rispondermi con uno sguardo sofferto ma tutto sommato sereno.

“Mi scusi Miss Granger, non volevo ignorarla così a lungo…” mormora serio Adamar, guardandomi. Noto immediatamente che stavolta tocca a me. Me ne accorgo da come iniziano a mutare i suoi occhi, da come mi chiamino alla loro vista come se non ne potessi fare a meno, da come tutto inizia ad apparire lontano e sfocato ad eccezione della sua voce cavernosa e piagnucolosa.

“Non sia mai che qualcuno la ignori troppo a lungo, vero?” mi chiede ironicamente, mentre mi volto verso di lui. Stringo le palpebre in un ultimo singulto di volontà, cercando di tenere fuori l’eco malvagio delle sue iridi dorate ma lo sento ugualmente entrarmi nelle ossa, nei pensieri, nel cuore, mentre ripete carezzevole: “Le riconosco grazia e forza, intelligenza ed ostinazione, ma non mi dica sul serio che ha mai davvero investito in questa quantomeno inusuale relazione? Lei non è semplicemente nata per questo. È un’eroina di guerra, la strega più brillante della sua generazione, la prima della sua classe. Ho memorie tangibili di lei, sin da quando era solo una bambina. La seguo fin da allora, sa? Sentivo così tanto parlare di lei, che era diventato un vezzo irrinunciabile in secoli di monotona osservazione della mediocrità umana. L’ho vista eccellere nel pianoforte a cinque anni. Avere la meglio su un troll di montagna ad undici. Risolvere l’enigma del basilisco a dodici. Ho spesso potuto assistere alle sue mirabolanti imprese, fino alla caduta del Signore Oscuro e alla sua ascesa come Comandante degli Auror. Aveva una sfolgorante carriera davanti a sé, bastava allungare la mano per appropriarsene in modo meritato. Ma lei, mia cara, si è fatta vincere dal tradimento del suo innamorato. E lì è cominciata la sua discesa negli inferi: e solo così, solo in questo tortuoso e discutibile modo scelto dal destino, ha potuto incontrare il signor Malfoy…”. Le sue parole mi convincono come se mi stesse raccontando una verità da sempre negata a me stessa, come se avesse sempre avuto ragione e io fossi stata solo troppo cieca per accorgermene. La luce sinistra dei suoi occhi è d’un tratto così forte che chiudo gli occhi vinta ed arresa, reclinando il collo sulla sedia. Sento lontana la voce di Draco, ma non riesco ad afferrarla, schiacciata da quella di Adamar: “Di base, miss Granger, ha semplicemente abdicato a sé stessa e alla sua natura, per amare un uomo così corrotto e marcio come il signor Malfoy. Ci rifletta su. Ha sempre candidamente ammesso con sé stessa di odiare sé stessa, amando lui. La posso però ampiamente rassicurare rivelandole che, molto probabilmente, il suo sentimento è fiorito in condizioni estreme in cui non era in pieno possesso delle sue facoltà e doti intellettive, e dove progressivamente ha cercato giustificazione per le pulsioni fisiche che aborriva provare per quest’uomo, mascherandole nell’egida di un profondo ed incontrastabile sentimento. D’altronde è una fanciulla testarda e caparbia e si deve essere anche impuntata nella missione impraticabile di salvare un uomo impossibile da redimere. È una caratteristica comune degli individui di sesso femminile ungersi il capo d’olio sacro ed armarsi di divina pazienza, convinte di poter cambiare i loro compagni. Le do abbondante merito di aver sostanzialmente trainato l’esito di questa relazione, nella totale inerzia del signor Malfoy. Ma non può realisticamente credere che sia sempre stato questo il suo destino, frustrerebbe enormemente il suo intelletto pensarlo. È qui per un mero incidente del caso, nonché per la progressiva deteriorazione della sua sicurezza a causa delle disastrose relazioni con il signor Weasley e il signor Thomas. Soltanto questa sua versione, mi permetta di dirlo, difettosa, può concepire di amare Draco Malfoy. Ci sguazza nel guano di questa vita al di sotto delle sue reali possibilità perché ha un’indole irritante incline al perfezionismo, e non perdonerebbe a sé stessa ulteriori errori di valutazione. Dunque, una scelta clamorosamente errata l’ha trasformata nella sola possibile, l’ha persino elevata ad un qualcosa di desiderabile che l’ha resa migliore. Ma in fondo a sé stessa sa che non è così. In fondo a sé stessa, sa che giustifica il suo sentimento solo per dare un padre a suo figlio ed ancora trovarsi oltremodo criticabili alibi per perdonarsi di essersi eternamente legata a lui persino con un bambino, sebbene così grazioso…”. Ha ragione, sì, ha ragione, ha sempre avuto ragione…

La mia volontà, ormai, è quasi completamente annullata, mi sento annegare in una sorta di gelatina stopposa che mi avviluppa i pensieri.

Chiudo gli occhi enormemente stanca, ma felice e soddisfatta, come se avessi trovato finalmente la quadra del cerchio e fossi libera infine.

“Mi permetta di darle un consiglio personale assolutamente disinteressato…” aggiunge ancora Adamar con il tono dimesso di un vincitore schivo “Ricostruisca sé stessa mediante il prezioso aiuto del signor Radcenko… ha un bel patrimonio genetico, il signor Radcenko… Aleksandra Fëdorovna Romanovasbalorditivo…”, chi diamine è Radcenko? Il nome… questo nome… mi sembra… familiare… “La ama in modo del tutto sincero…”, ma certo, che idiota… Ilai Radcenko… il marito di Tatia Krasova… ora ricordo. Lui è innamorato di me, è vero… sta rischiando la vita per me e per mio figlio… i miei occhi si aprono appena, come in un’assolata mattina di domenica dove la riluttanza a svegliarsi confonde veglia e sogno.

Solo che io non ho davanti a me il sole… ma quegli occhi malati da diavolo.

“A quanto pare, si è accorta dei suoi sentimenti anche di recente…” insinua Adamar con un filo di voce appagato, ed è lì che avverto di nuovo la sensazione di un fragore di vetri nella testa, assieme alla sensazione di uscire dall’apnea.

Ilai. Ilai che mi ama. I suoi pensieri. Il matrimonio. Nostra figlia. Io che sono innamorata di lui.

“Assonanti alchemici, un classico. Mi lasci indovinare? Telepatia empatica… deve essere stato straziante…” prosegue Adamar convincente, ma io ormai non lo ascolto più.

Io che sono innamorata di Ilai. Draco che è qui, Draco che non lo deve sapere, nessuno lo deve sapere. Neanche io, neanche Adamar, neanche Ilai. Nessuno lo deve sapere.

Non lo deve sapere nessuno. Se non lo sa nessuno, se me ne dimentico, non è mai esistito.

Spalanco gli occhi, torno dritta con la schiena, mentre Adamar termina con voce atona: “Non deve per forza finire così, mia cara signorina Granger. Torni da lui. Si dimentichi di una parte di sé che non le appartiene affatto. Sarà straordinariamente più semplice così… non è stanca di combattere sempre da sola, per un uomo che non l’amerà mai come merita?”.

Le sue ultime parole, però, gli muoiono in gola.

Infrangendosi come il vaso di cristallo che faccio rompere in mille pezzi, il fiato corto, puntandogli contro la bacchetta.

Adamar, tornando alla sua forma normale, mi guarda di nuovo con quel senso sdegnoso di orgoglio frammisto ad ammirazione, nonché ad una punta di quieta irritazione e fastidio. Mentre riprendo fiato mi accorgo che Draco è in piedi, un braccio teso contro Eva a puntarle la bacchetta in direzione del torace. Anche lei, nonostante la sua solita maschera impassibile di fierezza fredda, appare lievemente impallidita. Deduco quindi che Draco non si è fatto incantare dalla sua magia tranquillizzante ed anzi ha cercato di fermare il demone minacciando lei. Non so se avrebbe avuto effetto in ogni caso, ma almeno mi rassicura sul fatto che sia riuscito a contrapporsi alla loro malia. Non appena vede che ho ripreso lucidità, si avvicina a me chiedendomi sommesso e preoccupato: “Stai bene?”.

Annuisco senza forze, la voce ancora in gola ed arenata dal fiatone. Mi specchio nei suoi occhi grigi, cercandovi tracce della possibilità che abbia udito le parole di Adamar in riferimento a me ed Ilai. Ma non trovo qualsiasi violento riflesso che mi farebbe capire che ha intuito qualcosa o che si sta chiedendo che cosa sia accaduto in riferimento alla telepatia empatica. Quindi, il mio respiro finalmente si rilassa e calma sotto lo sguardo ancora sommessamente divertito di Adamar che, invece, dal canto suo ovviamente freme entusiasta.

Lo guardo ad occhi socchiusi, mentre Draco si erge di nuovo eretto.

Gli ho offerto, mio malgrado, il mio peggiore nervo scoperto: la consapevolezza di amare un’altra persona oltre Draco, nonché l’angoscia che lui lo scopra. Difficile che non usi tutto questo a suo favore, anzi… sarà il suo grimaldello privilegiato per farmi a pezzi. Probabilmente lo supponeva già, visto com’è andato a colpo sicuro nominandomi Ilai. Del resto condivide la conoscenza dei Karkaroff, ovvio che abbia notato che io sia legata ad Ilai.

La Telepatia Empatica… come faceva però a saperlo?

In un modo però imperscrutabile, comprendo improvvisamente che non è una cosa negativa che lui sappia questo. Anzi, sorrido interiormente, non lo è affatto. Come supponeva Helder, più ci crede lontani, più abbassa la guardia. Più è convinto che il sentimento tra me e Draco sia estinto e più supporrà che sarà facile distruggerci.

Sbagliando, naturalmente.

Helder ci ha spiegato che la sua grande pecca, adesso, è che non riesce appunto ad immedesimarsi nei sentimenti delle persone. Per lui, quindi, comprendere che io ami Ilai esclude automaticamente che io ami anche Draco. Invece, questa netta semplicità non è tipica del cuore di nessuno. Si ama, purtroppo, in decine di modi diversi e in decine di modalità contemporanee. Ma ovviamente a me conviene che pensi tutto questo. Certo, sarebbe stato meglio non reagire in modo così affrettato… ma devo proteggere Draco da questo.

Non lo deve sapere nessuno. Se non lo sa nessuno, se me ne dimentico, non è mai esistito.

Io posso, a malapena, convivere con me stessa e con questo segreto.

Lui, semplicemente, non ce la farebbe.

Del resto, però… c’è qualcosa che mi sfugge. Dubito che questa sia la Solutio damnationis: questo giochetto di ipnosi mentale, dove ci dice velatamente quello che noi stessi già sappiamo. Ne dubito perché in fondo non è poi così impossibile infrangerlo e la Solutio damnationis… non dovrebbe essere così, altrimenti avremmo già vinto e tanti saluti. Inoltre, ha un’arma così potente come i miei sentimenti per Ilai da rivolgere contro Draco… eppure non lo fa. È come se stesse semplicemente… giocando. È un demone, certo, magari si diverte così. Ma ha già ampiamente dimostrato di essere pragmatico. Fa le cose per scopi ben precisi, mettendoci efferatezza solo se ben finalizzata ai suoi scopi.

Quindi… sta perdendo tempo.

Perché? Mi chiedo, soppesandolo con lo sguardo. Poi, sebbene stia guardando l’ennesimo sorriso soddisfatto del suo volto, comprendo con velocità che cosa sta accadendo.

Vuole convincerci a non provare la Solutio Damnationis. Vuole che torniamo indietro, capendo di essere spacciati. Non ha messo in mezzo Ilai per distruggere Draco. No. L’ha messo in mezzo perché vuole darmi un elemento per tornare indietro.

Mi scappa un sorriso quasi di trionfo mentre lo squadro senza soggezione, avvolta da un nuovo ed insperato calore. È così maledettamente potente e dannato e per questo è difficile accorgersene… ma ha paura della Solutio Damnationis. Ne è terrorizzato. Ed è l’unica cosa che non pensavo davvero che potesse accadere: che avessi persino una remota chance di farcela, visto che ci teme.

… e ci teme perché, in fondo, per lui siamo come due mine vaganti. Non sa davvero che cosa proviamo l’uno per l’altra. Non lo riesce a capire.

Del resto non lo capiamo neanche noi… figuriamoci se può capirlo lui…

Non sa soprattutto che deve temerci per un altro importante motivo. Il più importante.

Nostro figlio.

Io e Draco possiamo essere ai lati opposti della vita, del mondo e dell’amore, adesso.

Ma c’è una cosa che non ci separerà mai: Alex.

Mentre continuo ad inseguire il filo logico dei miei pensieri, Draco si rivolge ad Adamar con voce stufa sillabando un: “Hai finito?”.

Il demone trasale per la prima volta da quando l’abbiamo incontrato, autenticamente meravigliato, chiedendo stupefatto: “Che cosa?”. Persino Eva a suo modo sembra sbalordita.

La sola che invece sorride e sembra assolutamente consapevole di che cosa sta accadendo, sono io.

Anche Draco l’ha capito. Ha capito che sta facendo.

A suo modo sicuramente…  ma ha capito anche lui.

Lo guardo quasi orgogliosa, mentre mormora con tono di voce volutamente pedante, incrociando stancamente le braccia al petto: “Stavo semplicemente chiedendo se hai finito, perché in caso contrario mi faccio un altro solitario mentale di carte. O magari la tua sguattera qui mi porta un’altra tazza di tè… almeno ho un’occupazione mentre continui a ciarlare in maniera inutile…”.

“Ciarlare in maniera inutile?!” erompe Adamar con una risata nervosa e scandalizzata, mentre getta uno sguardo sconcertato ad Eva “Negherebbe pertanto che io stia dicendo la verità, signor Malfoy?”.

“Oh no, mio caro. Le tue argomentazioni veritiere vanno assolutamente al segno…” commenta Draco, scimmiottando la sua voce e poggiandosi con un fianco alla scrivania in posa negletta “Fanno persino male. Te lo riconosco. Ma credi forse che io e la Granger non ci siamo abituati? Credi forse che la nostra relazione sia stata un’allegra passeggiata tra le rose, per usare una metafora a te gradita? Credi forse che non abbiamo già provato tutto il male possibile in questi anni? E credi forse che, dopo quello che io ho fatto a lei e dopo quello che lei ha fatto a me, esista ancora qualcuno che possa farmi lo stesso male che può farmi lei solo con una parola? Demone, sei un moccioso che mi punzecchia per avere il gelato in confronto a lei…”, trattengo il respiro chiudendo gli occhi, il sorriso di fiducia che si smorza un po’, mentre lui prosegue amaro, ma indiscutibilmente sincero: “Il bello e il brutto di questa… relazione… è che ho concesso solo a lei in tutto l’Universo di avere ancora il potere di farmi davvero male. Credimi abbiamo esaurito il male che ci possiamo fare… consolati che abbiamo esaurito anche il bene che ci possiamo fare, facendo nascere nostro figlio, quindi l’avrai vinta con questa dannata Solutio qualche-cosa. Tutto il resto è solo pappa insipida che mi rende al massimo annoiato”.

Sento l’eco delle sue parole in un punto soffuso del mio cervello e del mio cuore, ma le lascio andare concentrandomi solo su quello che ha capito anche lui.

Adamar sta perdendo tempo. Ci sta solo tormentando inutilmente.

“Lo sconcerto è qualcosa che non provavo da diversi lustri. Le riconosco il merito di avermi indotto il ricordo di questa sensazione…” commenta asciutto Adamar, scoccando a Draco un’occhiata penetrante subito prima di guardare me con un sorriso storto: “Se lei prova solo noia al momento, crede che la signorina Granger qui provi la stessa cosa che prova lei? Magari sta davvero riflettendo sul senso delle mie parole…”. Torno a guardarlo, come se mi avesse punta un ago, drizzandomi sulla sedia.

“Figuriamoci se la Granger è d’accordo con me, demone…” dice Draco noncurante, prima di guardarmi con espressione riflessiva e sorridermi piano, dolcemente. Gli sorrido a mia volta, arrossendo e dimenticando le parole che ha detto poco fa, mentre continua delicato non smettendo di guardarmi: “Ma la conosco quell’espressione. Non è annoiata… anzi. Probabilmente ha capito qualcosa che a me non è passato neanche per l’anticamera del cervello. Chiediglielo. Quando si puntella così sui piedi come se non riuscisse a stare ferma, è perché smania dalla voglia di dirlo…”.

“Il Signor Malfoy ha ragione, miss Granger?” biascica irritato Adamar “Ha davvero intuito qualcosa di così nascosto che persino a me è passato inosservato?”.

Guardo Draco ancora per un secondo, specchiandomi nei suoi occhi, mentre lui annuisce piano, dandomi coraggio. Poi mi volto verso Adamar, sporgendomi come ha fatto spesso con me, come se stessi per rivelare un segreto. Mi umetto le labbra prima di soffiare fuori con la migliore delle mie voci impostate e calme: “Mi creda, mi duole ammetterlo, ma lei può anche sfoderare una lista ben nutrita dei miei successi accademici, nonché snocciolarmi tutto ciò che ho provato e sentito in questi anni, persino nei meandri di me stessa…”, faccio una voluta pausa ad effetto mentre respiro forte guardandolo negli occhi in modo serio, sapendo che sta sicuramente pensando di nuovo ad Ilai e sfidandolo di nuovo ad azzardarsi a farne menzione. Adamar, però, mi scocca un’occhiata distratta, evidentemente più preso dalle mie parole che da questo, incoraggiandomi a continuare: “Ma qui quello che mi conosce meglio… è Draco Malfoy…”. Ancora mi fermo, lasciando quasi che il mio compagno si prenda tutto il merito della sua osservazione, mentre io tamburello volutamente disattenta sulla scrivania e mi massaggio lentamente il collo. Poi riprendo casuale: “Notavo semplicemente, e non nego con una certa dose di curiosità, le sue argomentazioni per convincerci di essere spacciati. Quasi come a convincerci a non tentare la Solutio damnationis… perché, se ci considera inferiori rispetto a lei, ci vorrebbe dissuadere? È così carente in fatto di divertimento che dovrebbe trarre solo piacere dalla nostra distruzione… o è diventato un angelo custode dal demone che era? Ce lo dica, perché noi dobbiamo combattere un demone, non un preoccupato fratello maggiore che elenca i motivi psicanalitici per cui non siamo fatti l’uno per l’altra. Mi creda, li conosciamo. E non ha mai fatto alcuna differenza… ci siamo arrivati molto prima di lei, se è per questo…”.

“Ti avevo detto che aveva capito qualcosa…”mormora Draco alle mie spalle con voce tra l’orgoglioso ed il tronfio “Avrò un problema irrisolto con la figura di mio padre. Ma fare due più due ci arrivo ancora…”.

Adamar soppesa le nostre parole per qualche secondo, guardandoci in modo autenticamente confuso e disorientato, cosa che rende il suo bel viso solcato da una ruga profonda in mezzo agli occhi: “Siete coscienti di non avere un sentimento in grado di battermi… eppure volete sfidarmi ugualmente? Ammetto di essere confuso. Ed anche questa è una sensazione nuova… che giornata interessante…”.

“Non è l’amore che proviamo l’uno per l’altra ad essere assoluto…” biascico con un filo di voce, ritrovandola poi negli accenti finali per suonare quanto più chiara possibile: “Quello può essere battuto, annientato, sconvolto. Lo sai tu e lo sappiamo anche noi. Ma c’è una cosa che non puoi neanche pensare di toccare, Adamar…”, sospiro a lungo, quasi per nascondere le lacrime e la nostalgia nel sottofondo di me stessa: “Ed è l’amore per nostro figlio. Se la Solutio damnationis è il solo modo di saperlo al sicuro, è il solo modo che avremo di vivere. Fattene una ragione…”.

“Lo vedi che siamo ancora d’accordo su qualcosa? Dovremmo usarti come terapeuta…” commenta Draco ironicamente, guardando con finta innocenza Adamar “Che dici, riesci anche a risolvere il mio perenne conflitto con gli ortaggi arancioni? Mi sconvolgono perennemente!”. Mi scappa una risata spontanea e non premeditata che ha l’effetto mio malgrado di smorzare molto dell’aura solenne che avevo assunto. Però in fondo non me ne pento nemmeno. Qualsiasi risata mi sia rimasta, meglio che spenda subito.

Adamar resta ancora in silenzio per qualche attimo, profondamente confuso e turbato. Mi accorgo del suo stato d’animo, se così si può ancora definire vista la sua natura non umana, da come cambia lo scenario all’esterno. Il sole scompare dietro una nebbiolina rada ma coprente, tutto crolla in un’oscurità ghiacciata ed oscura, come se facesse improvvisamente notte. La brina ricopre i vetri delle finestre ed un brivido mi fa annaspare di freddo. Eva, dal canto suo, non fa altro che andare a chiudere le finestre, accendere candele qua e là e rintuzzare il fuoco di un camino che non avevo notato prima. Lo studio viene quindi avvolto da una luce liquida e decadente, che scava il viso di Adamar di profonda riflessione, mentre Draco batte impaziente il piede per terra in attesa.

Alla fine, il demone rilassa le spalle ed abbandona le braccia sulla scrivania, apparendo quasi stanco e demotivato. Poi dice asciutto: “Mi compiaccio del vostro sangue freddo. E persino della sua ironia inopportuna, signor Malfoy. D’altronde credo che non sia prerogativa del mio ruolo dissuadere la gente dal suicidio. Se è la Solutio damnationis quello che volete… ebbene l’avrete… non avrete più alcun genere di sconto o premura da parte mia… versare sangue magico dei più valenti mi avrebbe rattristato, lo avrei considerato un tremendo spreco… ma se è quello che desiderate, così sia…”.

Draco immediatamente riprende posto accanto a me, sfiorandomi non meno che casualmente la schiena con una mano, come se mi dicesse intimamente che sta per cominciare e che dobbiamo essere pronti. Annuisco gravemente con il capo, non so se a lui o se al demone, e asserisco composta: “Bene… ci dica solo che cosa dobbiamo fare…”.

Adamar sbuffa, di nuovo molto meno che elegantemente rispetto a quanto ci abbia abituati fino ad ora, e poggia il mento sulle mani incrociate, sospirando a lungo. Poi laconico elenca: “Nulla, in realtà. La Solutio damnationis non è una prova di abilità, o una corsa campestre, o un duello all’arma bianca. Metterò alla prova il vostro sentimento. Vincerò dove dimostrerò senza oppugnabile dubbio che ciò che vi lega è assolutamente sacrificabile in virtù di altro… di ciò che ritengo essere il vostro autentico desiderio. E che non contempla primariamente l’altro nella mia opinione. Portando corruzione sul sentimento che vi anima, fiaccherò progressivamente le vostre menti. Dalla graduale deteriorazione delle vostre componenti psichiche deriverà inevitabilmente un decadimento fisico, realisticamente culminato con la vostra dipartita precoce. Ovviamente dove riuscirete ad opporvi a tale corruzione di voi stessi, vincerete la prova ed io cesserò di esistere…”, fa di nuovo una smorfia ben poco raffinata, come se stesse mangiando qualcosa di disgustoso e come se ancora la questione gli portasse più tedio che preoccupazione effettiva sulla possibilità di perdere.

Tamburella lievemente con le dita sulla scrivania, come un impiegato annoiato che spiega l’ennesima procedura al cliente pedante, sebbene stia realisticamente parlando di come perderemo la vita e non di come accendere un mutuo con la filiale di una banca. Fa un cenno distratto ad Eva ancora occupata con le sue faccende, e la donna ritorna silenziosa al suo posto.

Poi continua smorto: “Lo stato fisico e mentale in cui terminerete la prova è legato indissolubilmente al tempo che impiegherete. Più tempo restate bloccati nella mia opera corruttiva, peggiori saranno le vostre condizioni al vostro improbabile rientro. Per voi potranno essere trascorsi anni, ma nel tempo reale potrebbero essere passati solo pochi secondi. Qualora perdiate, le vostre menti saranno bloccate nell’incanto che vi indurrò. E le vostre spoglie, come vi ho promesso, saranno ridate alle vostre famiglie…”, la sua voce diventa noiosa e nasale mentre specifica grave: “Come da accordi con i Custodi dell’Ordine, per ovviare alla patologica disparità di poteri che ci caratterizza, vi è concessa una sorta di scappatoia all’incanto che vi somministrerò, la quale ovviamente è resa segreta per garantire la genuinità della prova…”, ci riflette su qualche secondo, sfiorandosi la mano con il mento. Un guizzo d’oro gli si accende nello sguardo, liberando una scarica di potere che mi fa annaspare a disagio come se mi avesse tolto il respiro per un attimo. Tossisco, la sensazione di un corpo estraneo in gola, mentre mi accorgo che anche Draco fa lo stesso.

Un incantesimo. Ci ha fatto qualcosa.

Adamar guarda Eva, poi conclude soddisfatto recitando compito: “…il giunger palma a palma è il bacio dei pii palmieri…”. Eva annuisce conquistata, mentre io, che ci sto capendo sempre meno, intuisco solo che ha mormorato dei versi di Shakespeare.

“Romeo e Giulietta”, se non ricordo male.

Mi riprometto di mantenere a mente questa informazione per la prova, sebbene adesso mi sembri poco importante.

Adamar allora continua indifferente: “Mi impegno inoltre a consentirvi il ritorno, ove vinciate… scusate la trafila burocratica… ma come intuite ho superiori a cui fare riferimento…”.

“Vai tranquillo, tanto non ci ho capito niente… puoi continuare serenamente per altre due ore e mezzo…” borbotta Draco, scocciato.

“Che cosa ci succederà insomma?” chiedo io ugualmente frustrata.

Adamar ancora non risponde roteando gli occhi esasperato, poi stende la mano sulla scrivania. Sulla superficie del legno, appare un bagliore dorato che mi fa strizzare gli occhi infastidita. Quando scompare, noto il più curioso e strano oggetto che abbia mai visto. Mi sporgo lievemente studiandolo con attenzione, mentre Draco sbuffa di fronte al mio interesse accademico. Per molti versi somiglia ad una scacchiera: è difatti un piano dalla forma vagamente quadrangolare, su cui ci sono diversi tipi di pedine. Ma le somiglianze finiscono decisamente qui. La prima differenza è il piano d’appoggio: non è a scacchi bicolori, ma assomiglia ad una strana superficie acquosa, costituita da quelli che sembrano minuscoli filamenti iridescenti e variamente intrecciati tra loro. Le pedine, poi, sono tutte dello stesso colore e tipo: trasparenti come cristallo. Si muovono da sole sulla superficie liquida, come se pattinassero sul ghiaccio. Le conto mentalmente, raffrontandole ai pezzi che conosco. Due hanno le stesse fattezze del Re e della Regina e sono le sole assolutamente immobili sulla scacchiera. Ci sono poi una serie indefinita di Cavalli, divisi stavolta in pezzi bianchi e pezzi neri. Questi sfrecciano come dannati urtando spesso gli Alfieri, anch’essi in buon numero. Infine al limitare del perimetro, ci sono le Torri. Sono tre, tutte dello stesso colore chiarissimo. Una di esse è illuminata in modo irregolare e pulsante, Adamar la sfiora con un dito con un nuovo sbuffo infastidito, annuendo e guardando di nuovo Eva che fa un ulteriore e serio cenno di assenso. Non conto alcun Pedone.

Adamar, però, a parte l’interesse subito accantonato per la Torre illuminata, sembra non prestare alcuna attenzione alle pedine in movimento febbrile. Con un nuovo movimento della mano, sotto lo sguardo esterrefatto mio e di Draco che non abbiamo mai assistito ad una scena simile, copre di un bagliore nero ed oro la scacchiera. Dalla superficie lanuginosa, come se ci fosse un doppio fondo segreto, compare un nuovo pezzo somigliante in tutto e per tutto ad un Alfiere ma stavolta di colore scuro, opaco, come se fosse bruciato. Adamar lo osserva pensoso: alcune maglie di quella strana sostanza stopposa restano avviluppate sul pezzo estratto. Adamar le afferra scientemente e con attenzione con le dita, dipanandole davanti a sé: adesso quelle strane maglie mi appaiono quasi simili come consistenza al contenuto di un Pensatoio. Hanno la stessa stopposità lanosa e fumosa, quasi impalpabile, salvo che splendono d’oro e sono intrecciate profondamente, proprio come dei fili di seta.

Adamar annuisce ancora, guardando i fili nella sua mano, e li tocca in tre punti diversi, sciogliendo altrettanti tre nodi.

Mormora quindi tra sé e sé, quasi dimenticandosi di noi: “Unum solum in tribus”.

Alla buona, sforzandomi ancora di capire che cosa diamine stia facendo, traduco mentalmente il sintagma latino. Uno solo… tra tre.

A quel punto, Adamar si ricorda di noi come se li fossimo improvvisamente capitati di fronte, mentre giocherella con i fili adesso perfettamente dritti tra le sue mani.

Sussurra quindi enfatico: “Conoscete la storia del battito di ali di una farfalla che genera un uragano dall’altra parte del mondo? Voi umani vivete vite caratterizzate da codesti paradossi. Una sola decisione, una sola singola e minuscola risoluzione differente genera effetti a catena inimmaginabili…”, guarda con affetto i fili dorati nella sua mano sfiorandoli con due dita, mentre si rivolge a noi: “Che cosa singolare… se i suoi genitori non l’avessero tradita, signor Malfoy, Helena Jasmine Greengrass non sarebbe venuta al mondo…”.

“Che cosa?!” chiede Draco con un piccolo sobbalzo, domandandosi probabilmente come me che cosa c’entri questa supposizione adesso.

“Intuitivo a ripensarci…” riflette tra sé e sé Adamar, chiaro ormai solo a sé stesso e molto meno a noi due “Se Narcissa e Lucius fossero stati due genitori ben più legati al loro figlioletto di quanto lo sono stati sul serio, non avrebbero partecipato attivamente alle missioni del Signore Oscuro, neanche quando un erede non era ancora nato. Magari per amore della loro futura famiglia o per semplice quieto vivere, faccia lei. Quindi si sarebbe reso necessario che qualcuno subentrasse al loro posto. Qualcuno come… i Greengrass. E sarebbe stato oltremodo comune che Lara Greengrass, incinta del suo primogenito, lo perdesse deprecabilmente in una delle suddette missioni… spogliando il mondo della possibilità di conoscere una terza sorella, prima di Daphne ed Astoria…”.

“Non capisco perché ci sta dicendo tutto questo…” chiedo ancora spaesata, gli occhi che continuano a corrermi sulla scacchiera.

Ancora i pezzi si muovono a casaccio, descrivendo trame di luce torbida nel reticolo di fili su cui scivolano.  

Adamar posa i fili che aveva tra le mani sulla scrivania, prima di guardarci ferino e sussurrare con voce bassa: “Siete figli del tradimento. Quello che lei, Miss Granger, ha subito dal signor Weasley. E quello che lei, Signor Malfoy, ha patito a causa dei suoi genitori. Le vostre decisioni sono corollari di questo. Vi siete incontrati ed innamorati per questo. Siete persino diventati differenti a causa di questo…”, ci lancia una lunga occhiata penetrante, la luce delle candele mangiano il suo viso rischiarando i suoi occhi di bagliori aurei. Spaventata mi accorgo che, di nuovo, la pupilla si sta restringendo.

Afferro la mano di Draco stringerla forte nella mia, cosciente che non la lascerò in qualunque inferno ci dovesse scagliare.  

“Mi limito solo a raddrizzare il corso degli eventi…” prosegue Adamar conciliante con un sorriso perfido sul viso, gli occhi ormai di nuovo demoniaci “Senza queste sciagurate circostanze, non avreste nemmeno lontanamente concepito di nutrire qualcosa di rasente la stima l’uno per l’altra. Non ne avreste mai sentito il bisogno… se non fosse stato per l’incantevole Alfiere russa…”.

Continuando a non capire di che cosa sta parlando e neanche a chi si riferisca con l’appellativo di Alfiere russa, mi accorgo invece di come la luce dei suoi occhi diventi sempre più sinistra, malata, accecante, costringendomi a chiudere gli occhi mentre mi nascondo nel petto di Draco. Lui mi stringe forte a sé, sussurrandomi qualcosa nell’orecchio che però non riesco a sentire.

Adamar infatti urla, spaventoso e terribile come il diavolo in persona: “Vi darò tutto quello che avete sempre sognato nel fondo di voi stessi, senza osare esprimerlo, data la sua ormai oggettiva impossibilità… e semplicemente sarete voi a non voler più tornare indietro…”.

La luce diventa fortissima, peggio del sole a mezzogiorno.

Sembra accecarmi anche i pensieri.

Il bianco avvolge la mia testa, il mio cuore, tutto.

È come se la mia memoria fosse sfogliata come un libro, mentre lui si affanna dolorosamente a strappare pagine su pagine. Il dolore è così forte che mi metto ad urlare, dilaniata.

Prima che tutto diventi inesistente dentro di me, avverto la sensazione orribile di uno strappo all’altezza del fianco destro come se mi trascinassero da qualche parte, strattonandomi lontano.

Draco urla il mio nome, a mia volta lo chiamo, perdendo la presa su di lui come se sparisse. Piango annaspando, cercando di allungare le mani nella sua direzione.

… ma semplicemente lo perdo.

Mi perdo.

Non lo rivedrò mai più.

La voce di Adamar suona canzonatoria e terribile.

“Siete solo due pedine in un gioco molto più grande di voi”.

Poi, probabilmente, smetto di esistere.

 

 

 

 

“Se non finisci in Grifondoro ti diserediamo” intervenne Ron, “ma non voglio metterti pressione”.

“Ron!”.

Lily e Hugo risero, ma Albus e Rose erano serissimi.

“Non dice davvero” li rassicurarono Hermione e Ginny, ma Ron si era distratto. Intercettò lo sguardo di Harry e accennò di nascosto a un punto a una cinquantina di metri da lì. Il vapore per un attimo si diradò e tre persone si stagliarono nitide contro la nebbiolina fluttuante.

“Guarda chi c'è”.

Era Draco Malfoy con moglie e figlio, un cappotto scuro abbottonato fino alla gola. Stava cominciando a stempiarsi, il che enfatizzava il mento appuntito. Il ragazzino gli assomigliava quanto Albus assomigliava a Harry. Draco si accorse che Harry, Ron, Hermione e Ginny lo guardavano, fece un brusco cenno di saluto e si voltò.

Hermione fece un passo indietro, si toccò la tempia a disagio, aveva avuto l’impressione che qualcuno la stesse chiamando. Si guardò attorno smarrita per un secondo, chiudendo gli occhi e frenando una improvvisa ed inopportuna vertigine. A Londra faceva decisamente troppo caldo, per essere settembre.

“E così quello è il piccolo Scorpius” commentò Ron sottovoce. “Cerca di batterlo in tutti gli esami, Rosie. Per fortuna hai il cervello di tua madre”.

“Ron, per l'amor del cielo” ribatté Hermione, un po' seria un po' divertita. “Non cercare di metterli contro ancora prima che la scuola sia cominciata!”.

“Hai ragione, scusa” concesse Ron, ma non riuscì a trattenersi e aggiunse: “Non dargli troppa confidenza, Rosie. Nonno Arthur non ti perdonerebbe mai se sposassi un Purosangue”.

Hermione scoppiò a ridere, una chiara risata cristallina e tersa. La vertigine era passata, così come la sensazione di strappo all’altezza del fianco destro.

Mentre James tornò con la notizia che Victorie e Teddy si stavano baciando, Hermione portò la mano al collo toccandosi il ciondolo che portava sulla camicia.

Lo faceva sempre quando aveva l’impressione che tutto fosse a posto.

Era un ciondolo antico, dalla luce rossastra.

Una goccia di sangue di Unicorno solidificata, persa durante il parto.

 

 

Considerazioni finali e spoilerose sull’intero capitolo

Mi ha terrorizzato pubblicare questo capitolo. Davvero. Chi mi segue via Facebook, questo lo sa. Però per la prima volta più che scrivere appunto lì chiarendo le cose, ho preferito e preferisco farlo qui così che tutti possano leggere. Ovviamente, siccome sarà una pappa psicanalitica su me stessa e su come intendo questa storia, siete liberissimi di skippare a piè pari questa parte, semplicemente con il mio sommo ringraziamento per esserci ancora e per sopportare i miei ritardi. Però se invece, volete sapere perché questo è stato il capitolo più difficile da scrivere fino ad ora, perché le cose sono andate così e tutto il resto, se magari siete delusi o arrabbiati e vi chiedete se siete ancora in una Dramione e che ne è delle mie promesse di happy ending… magari riesco a spiegarmi continuando a scrivere.

Ecco… il terrore di questo capitolo.

Non c’entra Adamar, ovvio: io, Adamar, lo adoro, credo che sia uno dei migliori personaggi che mi sono trovata a creare fino ad ora, senza presunzione o altro. Sapete che non mi appartiene. Ma mi è piaciuto scrivere tantissimo di lui, della sua apparenza elegante e vittoriana, del suo accento, nondimeno della sua malvagità. Ma, per chi mi segue appunto, ha letto qualche spoiler su di lui già a giugno. La sua scena in forma di dialogo esisteva già da allora… quindi ovvio che il mio terrore non era Adamar. È stato complicato scrivere di lui perché il suo incontro è disseminato di indizi su quello che accadrà nel seguito di HALFT. È stato anche complicato perché ci sono tanti indizi su ciò che accadrà nella prova. Perché sì, è evidente dove Hermione e Draco sono finiti.

La mia storia, di fondo, si distingue per due particolari da quella della Rowling.

I tradimenti: Narcissa e Lucius che tradiscono Draco. Ron che tradisce Hermione.

Da lì è nato tutto.

Adamar ha eliminato i tradimenti e le loro conseguenze.

Quindi…

… siamo di nuovo nel mondo della Rowling. Tutto è andato esattamente come nel libro.

Non è cambiato niente.

Siamo in quel futuro.

Ma sebbene questo vi faccia supporre quanto Adamar sia infernale e quanto io sia contorta… ancora non è stato Adamar il problema.

Il problema è stato Ilai Radcenko.

Ora, come spesso spiego in altre sedi, questa storia ormai per me significa essere trascinata avanti ed indietro dalla volontà di questi personaggi: sembra strano, inconcepibile, magari persino pretestuoso visto che è solo una fanfiction. Ma io ormai questi personaggi li conosco come e meglio di me stessa, spesso mi portano dove vogliono loro. Spesso è come se non dovessi inventare ciò che accade, ma solo raccontarlo e testimoniarlo come se me lo narrassero loro. Certo, ho i miei piani e i miei progetti: ma come reagiscono a questi piani e questi progetti, spesso è esclusiva volontà loro.

Ilai Radcenko era un pretesto per introdurre Tatia Krasova, che era a sua volta un pretesto per legare Raissa e riagganciarla. Mi sono scelta un bel prestavolto per Ilai appunto (per chi non mi segue per altra via, è questo il prestavolto di Ilai http://media.tumblr.com/tumblr_lt1dmwKanJ1qzmb4oo1_500.gif) ma tanto per vezzo. Non è che me lo dovevo portare dietro. Poi le cose sono andate diversamente, senza premeditazione. Come mi sono portata dietro senza premeditazione Pansy e Dean che ormai idolatro alla follia, così mi sono portata dietro Ilai. In sette capitoli (che nella media di questa storia praticamente non sono niente) Ilai è diventato qualcosa di centrale, mio malgrado, al punto che ho “dovuto” pensare ad un modo per lasciarlo andare. Perché, e qui c’è anche uno spoiler, è l’ultima volta che abbiamo visto Ilai. Non lo vedremo più se non nel seguito. Quindi questo era un addio. Per come l’ho concepito, mi immaginavo che non avrebbe detto nulla ad Hermione prima della prova: né rivelazioni sui suoi sentimenti, né considerazioni su quelli per Draco, tantomeno rimostranze per quello che stava passando a causa degli Empatici. L’avrebbe lasciata andare e basta. Per questo mi è venuto in mente il trucco della Telepatia empatica: è solo la sua mente, quindi, che Hermione vede. Quello che lui vorrebbe fare senza remissione di colpa, orgoglio ed onore. Confessarle che l’ama, dirle cosa pensa del suo rapporto con Draco, persino arrabbiarsi con lei per averlo trascinato in mezzo a questo marasma, prendersela con Tatia che ha intrecciato i loro destini. E poi la fantasia dell’averla finalmente, vagheggiando su un futuro che non hanno appunto avuto. Ilai però non sa che tutto questo, Hermione l’ha vissuto con lui. Non lo immagina nemmeno: e nella mia idea iniziale, questo era solo un pretesto e modo per far sapere a lei che Ilai ne era innamorato, senza che lui effettivamente glielo dicesse. Ho scritto tutta la loro storia fittizia con il magone, con “Over the love” dei Florence and the Machine in loop e la lacrima facile, arrivando a non dormire pur di finire. E poi ho finito. E tutto doveva finire e basta. Un po’ di senso di colpa di Hermione, e via tutto dritto. Ed invece no. Hermione, letteralmente, se n’è andata per conto suo, come vi ho già spiegato che mi accade spesso. Si è arrabbiata con Helder in un modo che mai le ho visto fare. Si è chiusa in questo silenzio e questa negazione assoluta di ciò che le era successo. Ha fatto ogni sforzo possibile per dimenticare cosa aveva visto. È stato… naturale scriverla così. E io, come forse persino voi leggendo, pensavo: “Ma scusa? Perché questa cosa ti sta sconvolgendo tanto? È lui che ti ha immaginato così, tu che c’entri? Pensa a Draco, piuttosto! Pensa ad Adamar, piuttosto!”. Lei mi dava retta cinque secondi… e poi di nuovo ci ripensava. La lingua che batte dove il dente duole, direbbe qualcuno. Mi sono fermata, ho preso tempo, comprendendo che c’era qualcosa che mi stava sfuggendo di mano: ed è stata, giuro, la prima volta in tutta la storia, in cinque anni, che mi è accaduto. E mi ha terrorizzato: perché stavo uscendo dal seminato, perché questa è una Dramione, perché forse non mi avreste capita come volevo farmi capire, perché potevo impelagarmi in un vicolo cieco da cui non uscire più, se non a patto di incoerenza e di volubilità. Ed Hermione non è mai stata né incoerente, né volubile. E lì… è arrivato il consiglio di Demetra. Glielo ho chiesto, ed ancora la ringrazio, perché lei non legge questa storia, non ne sarebbe stata condizionata. E perché stimo quello che scrive e come scrive in modo viscerale. “Devi ricordarti sempre che hai un debito verso questi personaggi”. Lei mi ha detto questo. Era così giusto e vero, che mi ha schiarito la mente. Ho un debito verso questi personaggi, verso quello che sentono e che provano, e che non posso schermare o censurare solo perché io non sono d’accordo, o perché ho paura che non siano capiti, o perché i piani erano altri. No. Se mi hanno portato qui, un motivo c’è. Ed allora, piano, approfittando di una maledetta cervicale che mi ha allontanato dal computer per settimane, ho riletto tutti gli ultimi capitoli. E la risposta stava lì ad un passo. Ci stavo solo girando attorno, come una trottola impazzita. Hermione che si fida subito di questa persona, che gli racconta tutto, che si lascia baciare due volte, che ammette di averne bisogno. Ma soprattutto è stato il capitolo 40 ad aprirmi gli occhi. Prima lei che pensa: “…sono talmente assorbita dal pensiero di mio figlio da non potermi dibattere nel dissidio, solo accennato dal corpo e dalla mente, di chiedermi se desidero di più un altro bacio da Ilai o un singolo abbraccio da Draco. E’ facile rispondere, adesso: rinuncerei ad ognuno di loro con il sorriso più chiaro ed aperto del mondo, se in cambio riavessi Alex.(…) Io posso essere solo l’assassina dei Karkaroff, adesso, non di altri. Tantomeno di loro due… specie considerando quanto, in un modo così diversamente scomodo, ami tutti e due. Li amo alla maniera stupida di una bimba di cinque anni: basta che esistano in qualche parte del mondo per farmi stare tranquilla. Ormai, però, sono ben oltre i concetti banali di essere innamorata o altro”. Glielo avevo già fatto dire inconsciamente, ma il pensiero di Alex era ovviamente più forte di tutto il resto. Poi lei incontra Draco, parla con lui, esce fuori la questione di Ilai. Ed Hermione non ha incertezze. Lo definisce così: “ Bisogno: ecco che cosa è, oggi, Ilai per me. E’ un bisogno, al pari di dormire, mangiare e bere. Un bisogno creato dalle circostanze attuali, sicuramente, ma che non cambia natura. È fame di aria nei polmoni, perché lui riesce a farmi respirare; è sete di calore allo stomaco, perché lui riesce a farmi calmare; è insonnia di riposo della mente, perché lui mi mantiene salda in me stessa. Non so questo che significhi, non so questo che cosa sia, non so se possa chiamarsi amore, affetto, ossessione, attrazione o semplice pazzia. Ma è un bisogno, adesso, insormontabilmente realizzabile solo da Ilai. Nel bene e nel male, lui è tutto quello che Draco non mi ha mai dato. E che non ho mai cercato, intendiamoci… nonostante cinque anni fa le cose non fossero facili, non sentivo la necessità di qualcuno che mi mettesse a posto. Ero già a posto: disoccupata, con un brillante destino da cameriera, sconquassata dal presente da babbana, separata dai miei amici e dalla mia vita, e poi innamorata di quello che sarebbe sempre stato l’uomo sbagliato… ero comunque a posto.

Non necessitavo di qualcuno che mi sorreggesse, o mettesse assieme i miei pezzi, se non nel modo quotidiano in cui comunque si ha sempre necessità di dividere la propria vita con qualcuno. E Draco, questo l’ha fatto… per dieci giorni in cui mi sembrava comunque di non avere bisogno di nulla, tranne che di lui, ma l’ha fatto. Però, Pansy aveva ragione: quello era l’inizio, era un passo, ma era solo il primo. L’amore… quello sarebbe venuto dopo. E’ stato sbagliato costruirmi la vita su quei dieci giorni… specie quando ho capito che, adesso, da madre e da donna, io avevo un bisogno diverso. Più viscerale, più intimo, maggiormente legato al fatto che non ero più forte come un tempo… specie adesso. Ron non riusciva a vedermi diversa da quella che sono sempre stata: la ragazzina saccente e sicura, che fingevo di essere. Per questo, lui non placava quel mio bisogno che, per molto, non ho saputo nemmeno esistente, concentrata com’ero su Alex. Draco, forse, potrebbe anche farlo, ma parliamo ormai di ipotesi: avrei dovuto fare un atto di fiducia se Raissa non fosse mai esistita, figuriamoci adesso. Ilai ci riesce, senza che nemmeno pensi di chiederlo. Per questo, è la sola persona di cui sento davvero di avere necessità estrema adesso”. Stava tutta qui la risposta. Hermione si era innamorata di Ilai e io nemmeno me ne ero accorta. Si era lei stessa abilmente nascosta ai miei occhi, esibendo la preoccupazione e l’ansia, l’incertezza e la rabbia. Ed io non me ne ero accorta. Ecco perché reagiva in quel modo. I pensieri di Ilai le avevano mostrato che quella vita lei, in fondo, la voleva, la desiderava. Perché Ilai è tutto quello che Draco non è e non sarà mai. E viceversa Draco è tutto quello che Ilai non è e non sarà mai. A quel punto, confessato quello, per me è andato tutto a posto. Ha ripreso a scorrere tutto. Non stavo più tradendo nessuno, nascondendomi dietro un dito, nemmeno l’intenzione di questa storia. E l’intenzione, in aperta antitesi con il titolo, è che l’amore non è una bella fiaba romanzata. Il primo passo per farlo finire, distruggere, annientare, è credere che sia più perfetto di quanto siamo noi. Così, noi non sopravvivremo ad esso. Prima si capisce questo, e prima si ama davvero. Prima Hermione capiva che è innamorata anche di Ilai, e prima può ricominciare. Prima si rendeva conto di cosa manca a lei e Draco, e prima poteva andare avanti, anche nella sfida con Adamar. Adesso facciamo che io debba rispondere ipoteticamente ad una persona che legge questa storia solo perché è una Dramione: puoi continuare a leggerla sperando nel lieto fine? Sì. Perché con i problemi di Draco ed Hermione, Ilai c’entra poco: è solo una conseguenza. Inevitabile, ma una conseguenza. Ed è una scelta: l’amore ha tantissimi modi di vita. Hermione deve solo capire quale vuole. Draco non sarà mai Ilai, non sarà mai quello che lei ha visto nella sua mente, fa parte persino del suo fascino e della malia che ha su di lei. Può accettarlo? Può abbracciare tutto di lui? Ne è pronta? Solo se conosceva fino in fondo cosa si stava lasciando indietro, poteva avere la consapevolezza di questa scelta. Per fare un paragone spiccio: se mi chiedono di scegliere tra la luce e la notte, ma io ho vissuto solo di giorno, non saprò mai fare una vera scelta. Ecco, per chi è Dramione inside ed ha odiato questo capitolo e pensa di Hermione che sia ipocrita e chissà che altro (“Te la prendi per Raissa, tu hai fatto di peggio, che grande amore eh!”)… ecco pensatela così. Se non approfondivo quello che provava per Ilai, sarebbe rimasto per sempre un punto di domanda anche in un futuro Dramione. Se siete poi Hermione addicted inside, … probabilmente la potete anche capire. Difficilmente una soffre così per cinque anni, e resta immutabilmente innamorata della stessa persona come il primo giorno. Non sarebbe realistico. Si aprono sempre delle crepe, e qualcuno spesso si insinua in quelle crepe. Ed onestamente, immedesimandosi in Hermione, ancora e difficilmente si potrebbe reagire con piena indifferenza ad Ilai se Draco non è (in questo preciso istante, non parlo del futuro) un contraltare sufficiente. Amiamo Hermione proprio perché è contradditoria e vera, o spero almeno che sia così. Soffre perché non può scegliere ed è terrorizzata che qualcuno la veda così: è questo, per me almeno, il bello di lei. È sempre tesa a fare la cosa giusta e corretta, sebbene spesso non sia semplicemente possibile essere sempre corretti. Se siete poi tra quelle quattro o cinque persone che amano Ilai, credo che questo capitolo vi sia piaciuto, lui ha avuto una sorta di rivalsa di cui, d’accordo, non sa nulla, ma che esisterà per sempre. Gli abbiamo dato un bel addio, sebbene ammetto che mi mancherà molto. Ma è sopravvissuto ben oltre le premesse, quindi sono davvero contenta di quello che ha dato a me e ad Hermione. Gli devo molto.

Che dire… se state ancora leggendo anche questa postilla ultra-logorroica, ne sono felice e contenta. Ci tenevo a chiarire. Se avete domande, sapete dove trovarmi. Sto iniziando a rispondere alle recensioni dello scorso capitolo e a quelle per “Sanguine”, non ne ho avuto modo fino ad ora. Ma come sempre… grazie.

Altra inutile postilla: questo capitolo prende il suo nome da una canzone di Lykke Li, di nome appunto “No rest for the wicked”. Potete trovarla qui con il testo: https://www.youtube.com/watch?v=2eeGQuyEYTw . E’ praticamente Hermione che parla. Non potevo chiamare questo capitolo in altro modo.

Cassie.

   
 
Leggi le 17 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Harry Potter / Vai alla pagina dell'autore: Cassie chan