Parte Seconda
- Eiko. Cosa intendi fare dopo il diploma?
-
- Voglio andare all’università, papà.
Diventare un chirurgo per aiutarti in ospedale. -
Il silenzio che cala sulla stanza non è il
solito. È gelido e viscido, denso. Respiro, e sembra che non ci sia più
ossigeno. Sento le alghe scivolarmi su per le narici, lunghe e molli radici di
ninfee, acqua stagnante. È come affogare in una zuppa di piante
acquatiche.
Alzo lo sguardo su di lui, timidamente. Il
suo viso ha un taglio rapace: la luce della finestra alla sua destra ne bagna
per metà i lineamenti, arricciati in qualcosa simile al disgusto.
Il brivido che mi corre lungo la schiena ha
a che fare con la stretta convulsa del tovagliolo che ha in mano. Lo abbandona
accanto al piatto, come mettesse via la mia adorazione informe, usata,
lurida.
- Sarebbe meglio che scegliessi di fare
qualcos’altro. -
Poggio il mio cucchiaio, riverso, sul
bordo del piatto. Non sento i miei passi che lasciano la stanza.
Mi addormento affondando il viso nel cuscino
madido di lacrime.
È notte. La luce ha smesso da
tempo di accarezzare le pareti scivolando come brezza fuori dalla finestra
aperta, lasciando lo scialbo lucore del riflesso lunare a creare ombre pallide
nella mia camera. Il massiccio albero di magnolia tende i rami carichi di fiori
verso il davanzale, ed il profumo è violento, ostinato, sembra un urlo di pazzia
in una terra disabitata, sorda.
È ripugnante. Il suo olezzo di
agonia mi fa torcere le budella, un memento per la mia insonnia testarda.
Stesa sul letto, fisso il
soffitto, bianco, come intonacato di nuovo sotto il velo della penombra, ma
questo ha smesso da tempo di emanare un odore. È tutto così fermo, senza
macchia, che credo per qualche istante di essere morta.
Arriccio le dita dei piedi. Il
formicolio che sale su per le mie gambe mi sembra una prova sufficiente per la
mia esistenza. Mi alzo, lentamente, apro uno spiraglio di porta con la cautela
di uno spettro pavido.
Il corridoio è un lungo limbo
buio. Lo percorro a tentoni fino alla tromba delle scale, tastando le pesanti
cornici dei quadri come carne familiare. Il suono dei miei piedi contro il
parquet è attutito dalle spesse, alte calze blu della divisa scolastica. Si
arrampicano su per i miei polpacci, sudati sotto l’elastico; mi sudano anche i
piedi e temo di sentire i miei passi scricchiolare mentre salgo le scale, come
cuoio bagnato.
Sul pianerottolo il buio sembra
più fitto e soffocante, simile ad una maschera di maglia sul viso. Le doppie
porte sulla sinistra sono sbarrate. Provo comunque ad abbassare la maniglia ed
un cigolio attutito risuona, inaspettato, per il piano deserto. Le porte non si
aprono. Tutto sembra continuare a riposare.
Scivolo lentamente sulle
ginocchia ed appoggio un orecchio al buco della serratura.
Gli ansiti soffocati ed in rapida
accelerazione vengono rotti da un gemito che è un anelito a lungo trattenuto,
strappato via dalle labbra lamentose, quasi sofferenti. È come una colpa
sollevata, mi viene da pensare, di una dolcezza improvvisa, liberatoria.
Avverto in me costruirsi,
indesiderata, una tensione rigida, i miei muscoli bloccati in una pastoia di
sudore, le mie viscere torte in un nodo di un dolore lancinante. Mentre il
sollievo umido di quella voce sconosciuta mi piove addosso, io non posso fare a
meno di sentirmi più sporca.
Tornata nella quiete patinata
della mia camera da letto, mi chiedo, con una lucidità sconcertata, vigile,
quale sia il mio posto. In questa casa, tra gli affetti di mio padre.
Non ho la determinazione
necessaria, per rispondermi.
Il mio fidanzato si chiama
Ayashibara Watanabe. Ha frequentato lo stesso liceo di Soji, ma è di qualche
anno più vecchio. Suo padre è fra i primi produttori di strumenti radiologici
del Giappone. Non è alto. Ha la bocca larga, ma non parla molto. Il suo viso
schiacciato e rotondo assomiglia ad un grosso, traslucido piatto da portata.
Ci sposeremo fra sei mesi.
Abbiamo il tempo di conoscerci un po’ e poi avremo lo stesso anello all’anulare
sinistro e divideremo due sponde dello stesso letto. Non ho mai dormito molto.
Quando ho realizzato che avremmo diviso una camera, ho pensato per la prima
volta alla mia insonnia come ad una forma di redenzione. Spero abbia il sonno di
un animale in letargo; quando, finalmente, mi assopisco, non mi piace essere
spiata.
L’accordo prematrimoniale mi
sancisce erede del patrimonio di entrambi, dovessi morire prima che uno dei
nostri figli sia indipendente.
Siamo usciti insieme un paio di
volte. Abbiamo passeggiato per il parco che circonda la mansione, nascondendoci
dietro le cortine di bambù, inspirando l’odore denso di pianta annegata che sale
dallo stagno. Mi ha baciata, una volta, credo per farci l’abitudine. La sua
bocca aveva il sapore di miso fermentato, e di un che di crudo e palustre come
pesci d’acquario. Mentre si staccava da me, ho pensato alle tende bianche del
salone fluttuare nel vento tiepido del mattino come in un mondo subacqueo.
È un buon affare, in fondo. Non
posso avere l’amore di mio padre. Non potrò mai. Ma posso fare in modo di avere
tutto ciò che possiede, finché non sarò l’unica cosa rimastagli.
Watanabe mi solleva tra le sue
braccia per attraversare la soglia della camera da letto. Mi deposita sul
giaciglio con una delicatezza preziosa e fragile, inattesa, come con un
soprammobile di tulle e vetro sottile di cui gli è stato raccomandato di
prendersi cura.
L’intimità che ci lega in questo
momento necessario è scomoda, pericolosa, ma lui è bravo a fingere che non gli
importi. Le sue mani slacciano con calcolata rapidità i numerosi bottoni del mio
vestito da sposa, ed io lo lascio spogliarmi in quella sua intensa e meticolosa
attenzione che dedica alle faccende di cui conosce il rischio di fallimento,
sopprimendo a malapena lo sgradito brivido che corre lungo la mia spina dorsale.
I suoi movimenti sono fermi, il suo volto privo di espressione; il vestito
scompare, ammonticchiandosi come neve granulosa ai piedi del letto. Le dita
slacciano e sganciano fino a che non rimango che io, senza un lembo addosso, e
la mia risoluzione a non mostrare il terrore profano che rimbomba ritmico dentro
di me e scroscia sul mio cuore e sui polmoni, strappandomi un respiro affannato,
come colpevole.
Un palmo caldo sulla parte
interna di una mia coscia mi spinge ad allargare lo spazio fra le gambe, e le
sue dita cominciano a frugare di me senza preavviso, urgenti, cercando qualcosa
che nessuno di noi due conosce, secondo una procedura tante volte udita e sempre
spinta in qualche angolo della mente, dove non potesse essere toccata dal
pensiero casuale e dalle nostre supposizioni inesperte.
Nella fitta straziante del mio
imene lacerato tutto diventa bianco, abbagliante, e non posso fare a meno di
realizzare che non è il membro duro, intruso, di mio marito a lavarmi in una
pioggia di traspirazione e lacrime, ma lo sguardo distante, acuminato, di mio
padre, che sento come un peso su di me.
Il pulsare pressante dei miei
spasmi passa sullo sfondo, ed i miei sospiri gridati tra piacere e dolore sono
un canto d’amore per il solo uomo che io abbia mai desiderato avere con me.
Il caldo settembrino pervade il
salone come nebbia, quasi esalasse dall’imbottitura delle poltrone eleganti,
massicce, di pelle e broccato vittoriano.
Soji sembra molto interessato a
un vaso Ming esposto su una cassettiera. Riflette un alone rotondo sulla parete
opposta, mi accorgo, come un pianeta appena sorto sulla carta da parati.
Quando parla, è come se la sua
voce provenisse dalla stanza accanto, bisbigliata come una confessione.
- Dovresti sforzarti di trattare
meglio nostro fratello, Eiko. -
La mia espressione incredula
incontra solo il muro delle sue spalle.
- Come fai a considerarlo nostro fratello! È il
figlio illegittimo di una sgualdrina! – le parole risuonano incontrollate e
vibranti, un’accorata protesta – Sebbene, – mi sfugga ancora, in un sibilo
astioso – Papà gli abbia dato il nome del successore della famiglia Arima… -
giungo le mani in grembo, accomodandomi sul bracciolo del divano. Stringendole,
la fede dorata scava nelle mie falangi lasciando due piccoli solchi nella pelle
tenera.
Soji si gira verso di me,
accogliendo la mia reazione con un’occhiata distratta, muta e diafana.
Come vedesse nella situazione
qualcosa che io non posso cogliere. Qualcosa che non mi sfiora.
Il suo sguardo non è l’unico
posato su di me, nella stanza. Voltandomi a scrutare fuori della porta-finestra
noto i due occhi piccoli e scuri che mi bucano come spilli. Mi sollevo dalla mia
posizione in uno scatto di rabbia. Reiji è lì, sulla soglia, a fissarmi con una
caparbietà che ha qualcosa della sfida.
Dopo lo schiaffo, la mia mano
pulsa ed il sangue mi tambureggia nelle orecchie con la rozza cadenza di un
pesante martello.
- Ti ho già detto che non puoi
venire qui! Devi stare in quella casa da solo e non farti vedere! Sei la
vergogna della famiglia! -
Lui non si muove. C’è un che di
acerbo ma violento in lui, capace di spaventarmi.
Ha gli occhi di mio padre. Sul
viso il segno sottile ma certo della bocca di mio padre. E la sua lingua
tagliente. Ma questo posso solo immaginarlo, perché non mi ha mai rivolto la
parola. Sta lì, per imprimermi nel cervello la lama arrotondata del suo rigetto,
ricambiato, e scappa via per andarsi a nascondere in qualche luogo riparato, a
lui proibito, ma ove io non possa trovarlo; ogni volta.
- Eiko… - Soji mormora dietro di
me. Fissa il punto in cui Reiji è scomparso, denudando le rughe precoci sulla
fronte - È solo un bambino. Non c’è bisogno di essere così severi. Tirare fuori
tutto quell’odio, come se ne avesse colpa. -
- Se conoscessi quel bambino, capiresti che non è degno di
alcuna compassione, fratello. -
Una punta di fastidio sprezzante
modella severa i suoi zigomi aridi.
- È questo di cui senti tanto la
necessità da nostro padre, allora? La compassione? -
Non rispondo, ma non sono sicura
che Soji desideri che io lo faccia.
Il mio pensiero corre alla stanza
quieta in cui reco, ogni giorno, pranzo e cena a mio padre, ed al suo morbido
odore di marcescenza; ogni boccone arriva alla sua bocca accompagnato dalla mia
mano, con gentile, amorevole, senso materno.
Guardo un fiore di magnolia
cadere ai miei piedi, una bianca e tetra culla di disgrazia.
No. Avrei voluto tenere per me
una sua immaginaria tenerezza; almeno dopo la sua morte.
Lo sguardo fremente del giovane
Reiji scava nel sangue torbido pompato dal mio cuore.
Fin.
Note finali: Suppongo ringraziare ancora
Chiara sia inutile (e pleonastico). Il mio ultimo arigato è implicito, ed è comunque per
te, tesoro. Per le tue parole di sostegno: per i miei scritti, per le mie
paure.
Grazie anche a chi ha letto il
frutto di questo lavoro. *bows*
Alla prossima.
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