Capitolo 18
Un amore ferito
“La
grande questione nella vita è il dolore che causiamo agli altri, e la
metafisica più ingegnosa non giustifica l’uomo che ha lacerato il cuore che
l’amava”.
Frédéric Beigbeder
Nicole Kidman e Aaron
Eckhart
Nadine si rifugiò tra le braccia di Kurt e, afferrandogli
le spalle della giacca, tentò di soffocare le lacrime nel suo petto. E Werner
li vide stretti l’uno all’altra, malinconici e felici, nell’abbraccio di un
amore mai tramontato. Sentì il cuore fermarsi e il respiro venir meno mentre
assisteva impotente al fallimento del suo matrimonio. “Perché? … Perché? …
Perché?” sussurrò con disperazione Nadine, ormai intrappolata nella dolorosa
morsa dei ricordi. Non poteva esserci alcuna risposta al suo grido sommesso, a
quella lacerante domanda che continuava a tormentare l’umanità rimasta umana
nel tempo dell’odio e Kurt si limitò ad accarezzarle i capelli nell’ennesimo
tentativo di calmarla. “Sss.” le disse e, stringendola di più a sé, abbracciò
in lei anche il proprio dolore e quello di tante altre persone vittime della
ferocia nazista. In quell’abbraccio strinse sua madre e suo padre, il signor
Franz, Anja e Karl – i genitori naturali della sua bambina –, Hans – il suo
carissimo amico morto in guerra – e una lacrima gli rigò il viso mentre il perché
risuonò potente anche nella sua mente. Nadine era tra le braccia di un altro
uomo e Werner, alla vista delle loro effusioni di tenerezza, avrebbe voluto
correrle incontro e prendere Kurt di petto, spaccargli la faccia che lui stesso
aveva rimesso a posto e spezzargli le ossa, sfogare la sua rabbia. Ma preferì
scappare via, lontano dalla scena di quell’abbraccio che segnava lo
sgretolamento delle sue certezze, la sua sconfitta come uomo, la fine di un
amore e l’inizio dell’oblio.
Berlino
ovest
“Scusami
per prima, Kurt. Non sono riuscita proprio a trattenermi.” esordì Nadine, alla
fine di un viaggio trascorso nel completo silenzio di entrambi. “Non devi
scusarti, Nadine. Anche per me è stato difficile ritornare a Ravensbrück.” rispose Kurt,
parcheggiando la macchina. La donna indugiò alcuni istanti con la testa china e
lo sguardo perso nel vuoto, già ferita e vinta da ciò che sarebbe accaduto una
volta varcato l’uscio di casa. Nessuna spiegazione avrebbe potuto giustificare
la falsità di suo marito e lei stessa temeva la propria reazione. “Vedrai che
tutto si sistemerà, coraggio!” affermò Kurt, abbozzando un sorriso di ostentata
serenità. Ma Nadine si era già fatta coraggio e, con determinazione, scese
dalla macchina.
Il rumore delle chiavi
nella serratura frenò di colpo l’ossessivo incedere avanti e indietro di Werner
e fece sussultare di gioia il piccolo Andrej. “Mamma!” urlò e, saltellando,
corse verso la porta d’ingresso seguito dalla giovane Edith. “Amore mio!”
esclamò Nadine e prese in braccio suo figlio, stringendolo forte a sé “Quanto
mi sei mancato!” Per un attimo, la donna sembrò dimenticare l’imminente dramma.
“Com’è andata?” le domandò sua cugina, con tono preoccupato e, subito, il volto
di Nadine ritornò cupo e il sorriso scomparve dalle sue labbra. “Poi ti
racconto.” rispose e la giovane Edith, abbassando la voce, riprese a parlare:
“Werner si sta comportando in maniera molto strana.” E, in quel preciso
momento, nel silenzio e nel buio del salotto, l’uomo iniziò un lungo e lento
applauso sarcastico che suscitò l’improvvisa meraviglia di entrambe. “Forza,
Nadine, racconta!” disse, con una punta di ironia e di amarezza “Racconta a tua
cugina come ti sei sollazzata con il tuo amico Kurt!” Edith la guardò
profondamente scioccata mentre una lama trafisse il cuore già ferito di Nadine.
“Ti ho vista al campo, sai?!” continuò Werner e la donna, lasciato il suo
bambino, lo raggiunse nel salotto. “Mi hai seguita?!” fece Nadine, invasa da un
fortissimo ed esplosivo senso di rabbia e delusione. “Sì, va bene?! E vi ho
visti! Vi ho visti mentre vi abbracciavate, mentre vi baciavate! Che vergogna!”
La donna rimase per alcuni istanti senza parole, sconvolta, pietrificata: suo
marito la stava accusando di un qualcosa che non aveva mai fatto. “Ah, certo!
…” ribatté, fuori di sé “… Ho capito la tua intenzione! … Vorresti farmi
passare dalla ragione al torto per non affrontare il vero problema!” Edith capì
la situazione e, prendendo il piccolo Andrej per mano, gli disse: “Adesso la
zia ti porta a mangiare un bel gelato, contento?” “Sì!!!” urlò il bimbo,
felicissimo, nella sua ingenuità. “E quale sarebbe il vero problema?!” domandò
Werner, con un atteggiamento che parve a Nadine arrogante e presuntuoso e la
donna, stringendo i pugni, emise un incomprensibile verso di nervosismo. Con
uno scatto, corse nella camera e iniziò a prendere dall’armadio i vestiti di
suo marito e a gettarli sul letto. “Ma che stai facendo?! Sei impazzita?!”
Nadine gli rivolse lo sguardo ma senza fermarsi. “Hai il coraggio di chiedermi
qual è il problema?! … Tu sei il problema! … La tua falsità è il vero problema!
… Mi hai mentito per cinque anni!” “Perché?! Cosa sarebbe cambiato?!” Werner
non abbandonò quel suo tono sicuro. “Che saresti stato sincero con me!” “E
saresti ritornata da lui!” “Se è questo quello che pensi, puoi anche andare
via!” affermò la donna, lanciandogli in faccia un maglione. Il rancore fremeva
nei loro occhi velati di tristezza, nelle loro parole studiate a tavolino, nei
loro cuori palpitanti di rabbia e non più d’amore e l’atmosfera tra i due
diventava sempre più tesa. “E così butteresti all’aria il nostro matrimonio?!”
fece Werner e iniziò a rinfacciare “Dopo tutto quello che ho fatto, dopo tutto
quello che ho rinunciato per te!” “A cosa hai rinunciato?! Alla tua famiglia
nazista?! Va’ pure, ritorna da loro e di’ a tuo padre che non stai più con la
sporca ebrea – come mi definì lui!” Nadine e Werner non erano più gli stessi.
Le loro labbra non si aprivano più a parole d’amore e sospiri di piacere, a
baci appassionati e promesse d’eternità che accarezzavano il cuore ma adesso
erano spalancate ad urla di rabbia e predominazione che ferivano il cuore, lo
sballottavano, lo picchiavano a sangue, lo laceravano, lo rendevano a
brandelli. Le loro mani non si cercavano più per accarezzarsi e intrecciarsi ma
adesso gesticolavano di nervosismo e puntavano il dito, accusandosi l’un l’altra.
“Ho rinunciato ad essere padre! Io che avevo tutte le carte in regola!” Werner
capì subito di aver esagerato e di averla ferita a morte. Per Nadine, infatti,
fu una vera e propria pugnalata al cuore. “Allora per te Andrej non significa
niente? … Io non significo niente? …” affermò delusa per poi continuare con
espressione arrabbiata “… Dov’eri?! Dov’eri tu mentre nel lager mi aprivano in
due?! … Ma certo! Eri comodamente seduto sulla poltrona di tuo padre a giocare
ad essere Dio e decidere chi lasciar vivere o morire!” “Perdonami, Nadine, non
volevo ferirti.” L’uomo era ritornato in sé ma sua moglie lo ignorò e disse:
“Sai cosa ti dico?! … Vado via io! …” Nadine afferrò dall’armadio due tailleur
e li lanciò nella valigia, schiacciandoli “… Perché la colpa è mia! … Sono
stata io una stupida a crederti, a credere che tu fossi diverso, che tu fossi
diventato un uomo migliore, che tu amassi me e nostro figlio veramente!” “Ti
prego, Nadine.” implorò Werner ma fu ancora una volta ignorato. Poi la donna
chiuse con violenza la valigia e, guardandolo con espressione seria e
sprezzante, affermò: “Addio, dottor Günther.” Günther era il vero cognome di suo marito. Nadine aveva vinto
sferrando il colpo più forte, rinfacciandogli – chiamandolo con il suo vero
nome – le colpe del suo passato da medico nazista. Il velo di compassione era
scivolato via dagli occhi della donna e si era spenta la luce dell’amore.
Werner rimase immobile, schiacciato dal peso dei ricordi e dei sensi di colpa,
vinto, ferito dalle parole di sua moglie e non tentò nemmeno di fermarla.
Nadine andò via.
Città di
Fürstenberg/Havel
Engel era seduta sul divano con le
mani giunte, la testa china e i capelli spettinati che le coprivano il viso.
Kurt lanciò le chiavi nello svuotatasche ma neppure quel rumore riuscì a
scuotere la donna, troppo immersa nel suo dolore. Le sedette accanto e tentò di
abbracciarla ma Engel, con uno scatto, si alzò dal divano. Gli rivolse uno
sguardo accusatorio, severo e sprezzante, più eloquente e distruttivo di mille
parole, per poi allontanarsi e andare in un’altra stanza. Kurt rimase da solo.
Non
spalancare le labbra ad un ingorgo di parole,
le tue labbra così frenate nelle fantasie
dell’amore.
Dopo l’amore così sicure a rifugiarsi nei
“sempre”,
nell’ipocrisia dei “mai”.
Non sono riuscito a cambiarti,
non mi hai cambiato lo sai.
Fabrizio De André