contest metal 4
XII Atto
Wake up
Quando ti addormenti con
la testa sul tavolo e ti risvegli in un letto sfatto, la prima cosa che
devi controllare è che non ci sia nessuno accanto a te.
Specialmente qualcuno di
sgradito.
Kankuro aprì gli occhi, mentre nella testa rimbombava una
vocina che urlava “sveglia stronzo”.
Afferrò il solito orologio, domandandosi cosa fosse successo
in quelle cinque ore e perché si trovasse nuovamente sul
letto, il viso rigato di bava.
Meglio, molto meglio, non
chiederselo.
Osservò la luce rossa intermittente segnare le diciotto e
ventitre con sguardo fisso, smettendo di battere le ciglia.
Ascoltò il suono del suo cuore, mentre gli occhi secchi
iniziavano a dolergli.
Una piccola tortura prima di ritentare di nuovo a cercare
l’inferno.
Si sollevò, notando con stizza che il mal di testa era
cessato del tutto.
Nessun suono insistente, nessun dolore all’altezza del cuore.
Solo la solita vecchia
fame e il solito e vecchio nulla nel petto.
Gettò uno sguardo alla giacca posata nell’angolo.
C’era sempre la Dose ad aspettarlo.
E lui aveva bisogno di smettere
di ricordare.
O forse aveva solo bisogno
di ricordare.
Si alzò meccanicamente, aprendo il cassetto con un rumore
secco.
La siringa giaceva lì, tra un block notes e una vecchia
penna a sfera dall’inchiostro ormai secco.
L’afferrò senza espressione, chiedendosi quanto,
in quello stato, ricordava Gaara.
Almeno quel Gaara chiuso e scontroso della sua infanzia.
Forse un po’ meno quello premuroso e incredibilmente perfetto
che si era formato nel tempo.
Quel Gaara che lo infastidiva.
E a cui non riusciva a
smettere di voler bene.
E c’erano
state solo due persone che gli avevano fatto provare una cosa del
genere.
Ed entrambe lo avevano abbandonato.
Strinse con forza la siringa, rischiando quasi di romperla, tanta era
la foga.
- tra poco è finita, Kankuro
– si rassicurò, sperando che la parola finita
ponesse davvero termine a quell’inferno che non era solo il
suo.
Per un attimo avvertì ancora la voce di Gaara dietro la
porta e i tacchi di Temari ticchettare sul pavimento.
Poi aprì la giacca.
E la polvere bianca lo avvolse.
Come sempre.
XIII Atto
Trust in my self righteous
suicide
I, cry, when angels
deserve to die
In my self righteous
suicide
I, cry, when angels
deserve to die
Kankuro le
poggiò una mano sulla gamba soda, osservandola tirare la
polvere bianca dal naso.
I ciuffi castani le scendevano dai codini sfatti e la maglia rosa le
accarezzava i fianchi ossuti.
Conosceva Tenten da cinque giorni, quando si erano trovati entrambi
sotto la stessa pioggia, ad aspettare lo stesso spacciatore, ma da
allora non aveva fatto altro che fissarla, rapito dal suo modo leggero
di distruggersi.
- ne vuoi ancora? – chiese la
ragazza, la voce argentina, come piaceva a lui, sul corpo esile.
- No – rispose, osservandola
ripiegare con cura il terzo cartoncino bianco, stretto stretto nelle
mani tremanti.
- Come vuoi, Kankuro –
replicò infine, riponendo con cura il cartoccio sul
comodino, lasciando una sguardo morbido sulla foto dalla cornice lucida.
Una delle poche cose normali, in quella stanza.
Il ragazzo la vide portare le ginocchia nude al petto, rannicchiandosi
contro la spalliera del letto.
Ricordava poco di quello che avevano fatto, durante quei giorni.
Sapeva che lei gli aveva offerto un posto dove farsi, dato che Temari
si era momentaneamente trasferita da lui.
Giusto il tempo di
sistemare casa mia per me e il mio ragazzo, lo sai che è
pigro, le cose le deve fare con calma, gli aveva detto,
con il solito ghigno sulle labbra.
E lui si era ritrovato la sua insistente e protettiva sorella alle
calcagna.
E un quasi- cognato che non aveva la minima intenzione di terminare il
suo trasloco.
Ma lui sapeva bene fosse
Temari a chiedergli di temporeggiare.
- Kankuro, mi passi la birra? –
chiese la ragazza, la voce arrochita dalla droga.
Lui la fissò interdetto, rigirandosi tra le mani la
bottiglia ormai calda.
- sei sicura?-
- ho sete – replicò
lei, gli occhi castani e caldi sgranati.
Kankuro le portò il collo della bottiglia alle labbra,
osservandola bere assetata.
Si chiese quante volte avessero fatto sesso.
Non ricordava davvero nulla, tranne qualche immagine evanescente e
qualche ricordo bollente.
Sapeva di averla stretta e di averla sentita gemere al proprio petto.
Ma finchè non aveva visto il pacchetto di preservativi
giacere sul comodino aveva davvero creduto fossero tutte illusioni.
Tenten posò una mano su quella di Kankuro, allontanandosi
dalla bottiglia ormai semivuota.
- basta – mormorò,
come rassegnata.
Al ragazzo sembrò logico aggiungere “tanto non
basterebbe”.
L’osservò reclinare la testa sul cuscino, i codini
ormai ridotti a due intricati cespugli e le labbra vermiglie tirate in
una linea biancastra.
Nulla a che vedere con le Tenten della foto sul comodino.
- perché lo facciamo?
– chiese poi la ragazza, mentre gli occhi appannati si
chiudevano lentamente.
Kankuro bevve una lunga sorsata di birra calda, che gli scese lungo la
gola come lava bollente e disgustosa.
- io non l’ho ancora capito
– biascicò il ragazzo – deve avere a che
fare qualcosa col fatto che sono uno stronzo – si
sforzò in una risata, che gli usci poco più di un
rantolo.
Tenten lo fissò come allucinata – io ero una brava
ragazza, sai? – disse dopo poco, le labbra che si muovevano
appena – ero felice, ero spensierata e felice, sempre felice
–
Fissò il soffitto, il respiro delicato – li vedi
quei due sulla foto? –
Kankuro osservò i due ragazzi che fissavano la stanza dalla
cornice – si – annuì poi, il senso di
disagio sempre più forte.
Tenten sorrise, ebbra – Lee e Neji li conoscevo da quando ero
bambina. E li amavo, in modo diverso, ma li amavo molto –
Kankuro appoggiò la bottiglia vuota a terra, chiedendosi se
fosse meglio interrompere la ragazza e il suo sproloquio su quei due.
- li amavo tanto. Lee credeva gli volessi
bene come un fratello. Che stupido, io lo amavo davvero, sai?
–
Lui le fissò gli occhi e nella sua espressione lesse il
riflesso della propria.
- che è successo, Ten?
–
La ragazza trattenne il respiro, sempre sorridendo.
- eravamo usciti, quella sera –
ridacchiò – festeggiavamo…non ricordo
cosa, ma Lee si era ubriacato, non che gli servisse poi molto per farlo
–
Kankuro la vide socchiudere i pugni, impercettibilmente –
Neji mi aveva detto che bisognava tenerlo fermo, sai, Lee era un vero
demonio quando beveva – si strinse nella spalle, come in
cerca di riparo – guidavo io la macchina, quella sera
– concluse poi, funerea.
I due si fissarono per interminabili secondi, prima che lei riprendesse
– il camion ha sbandato e ci ha presi in pieno. Lee e Neji
non avevano la cintura, li ho visti volare via dal parabrezza
–
Kankuro rabbrividì alla parola volare.
Alla fine lui e Tenten
non erano poi così diversi.
Cadde un silenzio tombale per diversi minuti.
La ragazza iniziò a tremare, il veleno nelle vene.
Lui la fissava svuotato, chiedendosi perché non smettesse
ancora di pensare a quel volare.
- mia madre si è suicidata e
mio padre ha distrutto la mia famiglia – sbottò
poco dopo, rendendosi conto di aver dato voce a un pensiero troppo a
lungo celato.
- Ma non riesco a odiarli. Come Gaara e
Temari voglio solo essere accettato.
Anche se loro sono due cadaveri, ormai –
Tenten, il corpo ormai quasi esanime, si voltò a fissarlo,
lo sguardo tiepido.
- io voglio essere perdonata da due
cadaveri – mormorò –È questo
che stiamo facendo Kankuro. Vogliamo diventare come loro –
Il castano socchiuse gli occhi – non hai mai paura che loro
ci guardino? Non hai paura che…facciamo loro schifo?
–
Tenten ridacchiò, il petto smunto che si alzava e sollevava
irregolare – io mi faccio schifo già da sola
– gli tese la mano – e so che loro mi amano,
comunque. –
Kankuro si osservò riflesso allo specchio, il corpo deperito
e l’espressione smarrita – vorrei poterlo pensare
anche io –
Tenten si avvinghiò a lui – devi saperlo, Kankuro.
– sorrise, le labbra incerte - noi abbiamo ancora il fardello
della nostra merdosa vita addosso. Non aggravarlo, non ne vale la pena.
-
Il ragazzo le passò un braccio lungo la schiena ossuta,
baciandola tra i capelli spessi e lucidi
– passerà mai? –
Lei gli sorrise con le labbra nuovamente calde – magari, un
giorno –
Quando Kankuro trovò
Tenten nel suo stesso vomito, due mesi dopo, gli sembrò che
la sua vita avesse perso un altro pezzo e che avesse una persona in
più da piangere nel suo Oblio.
Allo stesso tempo,
però, Kankuro pensò che la vita di Tenten si
fosse finalmente risolta.
E che, forse, potesse
finalmente urlare al suo Lee che lo amava, giù nel vero
Inferno.
Che era, sicuramente,
meglio di quello che i due si erano creati da soli.
XIV Atto
Wake up
Kankuro sbarrò gli occhi, il fuoco in gola.
Tentò di sollevarsi con uno scatto, ma gli arti, immobili,
sembravano voler ostinatamente ignorare i suoi ordini.
Avvertì nuovamente l’ondata di calore travolgergli
lo stomaco e la vista, già annebbiata, sparì del
tutto.
Attese qualche secondo nel buio di quella notte senza fine, poi
l’udito seguì il primo senso, svanito e
risucchiato da una forza invisibile.
Fu allora che urlò, aggrappandosi al lenzuolo umido.
E urlò muto, in quella notte che gli sembrò
davvero senza fine.
Quando, solo dopo cinque minuti, Kankuro ritrovò la forza si
vedere e poi, solo poi, di sentire, si ritrovò nella sua
stanza, tra i cuscini sudici, il ghiaccio che aveva preso il posto del
fuoco sotto la pelle.
Lo sentiva, gelido, infilarsi nelle vene già provate,
scavare solchi tra i muscoli indolenziti.
Kankuro strinse i pugni, rifiutandosi di urlare ancora.
Si era preparato a morire, tante e tante volte.
Lo aveva provato la prima volta che si era infilato un ago nelle vene,
pregando che trovasse il coraggio di volare via, come Karura.
Lo aveva provato nel bagno, mentre Matsuri si rivestiva, sperando che
lei non entrasse a dargli il bacio della buonanotte.
Lo aveva provato con Tenten, e quando lei ci era riuscita, lui stava
comprando della stupida pizza.
Ma ora l’avrebbe raggiunta, in quel loro inferno, e le
avrebbe detto che proprio mentre stava per morire, aveva capito una
cosa.
Lui non voleva farlo.
E Kankuro urlò.
Poi il buio.
Morire.
Ora che Kankuro fluttuava in quell’oscurità gli
sembrò di rivedersi, ragazzino viziato che sbatteva i piedi
perché la vita non era andata come aveva sempre sperato.
Bambino poco socievole.
Adolescente aggressivo.
Adulto instabile.
Una parte di lui aveva lottato per distinguersi dalla massa e dai suoi
fratelli.
Che perfetti non erano, ma unici… eccome.
E a lui che restava?
La faccia del padre e l’emotività della madre.
Bella accoppiata.
Era allora che aveva deciso che senza uno scopo non valeva la pena
vivere.
E che forse il suo scopo non era volato via con Karura, né
sepolto con il padre.
Semplicemente, lui non aveva voglia di lottare per esso.
Aveva deciso di andare alla deriva, vivendo solo di quei ricordi che
era la droga a dargli.
Smettendo di vivere il suo tetro presente, lasciandosi trasportare dal
suo passato.
E un giorno, lo aveva sempre saputo, sarebbe morto.
E addio affanni, giusto, Kankuro?
Ma ora, piegato in due,
la testa tra le ginocchia e le mani strette al cuscino, non vuoi
morire, vero Kankuro?
Ora che vomiti anche
l’anima che avevi giurato di aver già venduto per
un po’ d’eroina, vuoi vivere, vero Kankuro?
- si – biascicò il
ragazzo, smuovendo la bocca impastata dalla saliva e dal vomito.
E il buio lo avvolse di nuovo.
L'ultimo capitolo verrà pubblicato a giorni, insieme ai
ringraziamenti.
Grazie per aver atteso, tanto - impegni e imprevisti di Natale -
Un bacio
Roberta
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