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UN GIORNO DA NON DIMENTICARE
Terra, 2114, una
notte stellata di giugno in una tranquilla cittadina svizzera
La graziosa cittadina di Grindewald, spalmata su una paradisiaca valle
circondata dalle montagne, dormiva sotto un cielo stellato di giugno quando il
buio e il silenzio furono bruscamente squassati da un fragore apocalittico e da
un bagliore che illuminò a giorno la zona per alcuni istanti, svegliando per
primi gli animali, soprattutto i cani che presero ad abbaiare furiosamente,
atterriti dal baccano provocato dal boato.
Anche Wendy, la terrier della famiglia Aloisi, sprofondata fino ad un secondo
prima nel sonno del giusto, si destò di colpo, uscì dalla sua cuccia in giardino
e cominciò ad abbaiare con una certa veemenza all'alone azzurro-rosso-giallo che
si vedeva oltre la cresta del monte, contro il quale, il profilo seghettato
della cima si stagliava nero come la bocca super dentata di un' orribile
creatura che si fosse svegliata anche lui dal botto.
Il forte rumore penetrò attraverso le persiane e le ante semi-chiuse della
finestra che dava luce alla camera da letto dove Stefano Aloisi e Annamaria Di
Gennaro riposavano dopo una giornata di lavoro. Quando Annamaria si destò e
guardò l'orologio, questo segnava le 3 di notte.
E la donna ebbe un cattivo presentimento.
Si alzò e andò ad aprire la finestra. Presto, il presentimento si trasformò in
amara previsione.
Avrebbe dovuto tornare in ospedale. Morti, o feriti gravissimi, in arrivo.
Anche Stefano si svegliò e la raggiunse alla finestra.
Insieme convogliarono gli sguardi in direzione della montagna di fronte, dietro
la quale sembrava essersi acceso un incendio che però pareva anche essersi già
ridimensionato.
Annamaria sospirò.
"Nemmeno stanotte si dorme" constatò, rassegnata.
Infatti, dopo pochi istanti, il suo orologio emise il classico bip del
cerca-persone.
I due si guardarono alla luce del bagliore e Stefano scrutò serio sua moglie.
Annamaria tornò al letto e cominciò a vestirsi.
"Speriamo che non sia troppo grave" si limitò a commentare il marito.
"Grave o non grave, devo andare. Lo sai" asserì, senza tuttavia tono di lamento.
Stefano baciò Annamaria e lei, una volta vestita, uscì di casa aprendo nel
frattempo il garage con un comando dell'orologio.
Federico, il terzo dei loro figli, uscì dalla sua stanza e incontrò suo padre.
"Che è successo?" chiese, assonnato.
"La mamma deve andare al lavoro. - spiegò l'uomo - Ma sarà una cosa breve. Torna
a dormire" e nel dirlo, abbracciò il bambino e lo accompagnò nella sua camera.
Non sapeva perché, ma sentiva che invece non sarebbe stata una cosa molto breve.
Ciò nonostante, non aveva idea di cosa fosse capitato nella cittadina di cui era
sindaco e, al momento, non aveva sentore dell'evento incredibile di cui il paese
sarebbe stato protagonista nelle settimane successive.
Qualche ora dopo, nel suo ufficio di primo cittadino, Stefano era pronto ad
affrontare una nuova giornata di lavoro, ignaro di cosa avrebbe dovuto
ulteriormente fronteggiare nelle ore e nei giorni che seguirono.
La cittadina che amministrava si trovava in una splendida e soleggiata conca
verde chiusa da una corona di montagne dalle cime nude ed aguzze, in un
paesaggio che, visto dall'alto dava l'idea di essere capitati nel classico
villaggio da favola o da cartolina natalizia, con le casette di massimo due
piani, in pietra, legno e intonaco bianco, i tetti a punta e i balconcini da cui
scendevano fasci di gerani colorati. Tuttavia, Stefano sapeva, per esperienza
personale, che quel paradiso in terra nascondeva in realtà tensioni latenti fra
la comunità teutonica e quella italiana, più numerosa, trasferitasi in parte lì
dopo i fatti accaduti un secolo prima.
Lui era nato nella cittadina e da 45 anni ci viveva, ora con la sua numerosa
famiglia composta da lui stesso, la moglie Annamaria e i quattro figli nati
dalla loro unione, ma i suoi genitori e i suoi avi erano emigrati in quel luogo
parecchio tempo prima e, inizialmente, si erano scontrati con la comunità locale
tedesca che, come ovvio, non li aveva accolti a braccia aperte. Malgrado questo,
ma, forse, grazie alla sua mole (1, 95 m), nonché al suo carattere deciso,
Stefano era riuscito a imporsi sugli "indigeni" di lingua germanica. Non era
andato tutto liscio, la strada non era stata ancora completamente spianata, ma
era stato accettato e, alle ultime elezioni amministrative, era stato eletto
sindaco di Grindewald anche dai tedeschi.
A dispetto che fosse un venerdì mattina, un dipendente del Comune in divisa
entrò nell'ufficio per annunciare a Stefano che quella notte, in un locale della
città era scoppiata una rissa fra autoctoni e Italiani dalla quale un certo
numero di avventori era uscito con varie ammaccature, molto alcool e una
discreta quantità di rabbia in corpo. Con un sospiro tranquillo, Stefano ordinò
all'uomo di chiudere il locale, almeno per la sera seguente, andare all'ospedale
e ascoltare le testimonianze dei presenti, nonché dei partecipanti attivi alla
rissa, quindi, di tornare poi in ufficio per riferire la dinamica dei fatti,
sebbene non gli fosse difficile immaginare come sicuramente questi si erano
svolti.
Solita storia. Anche dopo anni, qualche indigeno ancora mal tollerava
l'invasione italiana della sua quieta cittadina svizzera. Ma quando il graduato
tornò in ufficio per conferire con lui, il suo volto chiaro di uomo nordico,
caratterizzato dai capelli biondi e dagli occhi azzurri, era ancora più chiaro,
quasi cadaverico, e gli occhi erano sgranati. Turbato, Stefano chiese
spiegazioni e la risposta, confusa, fu ancora più preoccupante.
"Signor sindaco, - balbettò quasi l'uomo - l'ospedale è in assetto di grave
allarme. Non mi hanno fatto entrare. Si sospetta un'epidemia, ma non ho capito
di cosa!".
Il pensiero di Stefano andò velocissimo alla moglie, primario al nosocomio
comunale, e si fece ulteriormente più pesante, dopo il tentativo ripetuto e
inutile di chiamarla con il telefono incorporato all'orologio. Riuscì a
mantenersi calmo, almeno all'esterno, ma sentì il cuore fare le capriole. Questo
nuovo allarmante evento aveva a che fare con ciò che lui e Annamaria avevano
visto durante la notte? I nuovi tentativi di contattare la consorte, andati a
vuoto, incrementarono la paura. Per mettere d'accordo la popolazione, il vice
sindaco era tedesco, ma non si trovava in giro, sicché Stefano chiese all'uomo
in divisa di andare a cercarlo, pregandolo, una volta trovato, di recarsi subito
nel suo ufficio. Nella comunità tedesca, c'era anche chi amava Stefano per
quello che era, riconoscendogli i suoi pregi di autentico leader e ottimo
conduttore di un'amministrazione non facile.
L'ufficiale di Polizia montò in macchina e si avviò, spedito, in direzione di
uno dei probabili luoghi in cui sapeva avrebbe trovato la "spalla" del sindaco.
E infatti lo trovò proprio lì, in un locale, in cui stava consumando la
colazione a base non di cappuccino e dolcetto, ma di birra e salsicce. E a
giudicare dal colorito rosa acceso del volto paffuto, non era alla prima pinta.
Con modi gentili, ma fermi, invitò il secondo cittadino a raggiungere subito il
luogo di lavoro. Stancamente, e borbottando, il vice sindaco lasciò il grosso
boccale di ceramica bianca dipinta a mano con paesaggi del posto, depositandolo
sul bancone con fare seccato, pagò alla cassa e uscì dalla birreria, seguìto dal
graduato che non lo perse mai di vista finché non lo vide entrare nella
palazzina del municipio.
Il panico travolse quasi Stefano quando, arrivato all'ospedale, non fu possibile
neppure a lui entrare.
Di Annamaria e dei suoi colleghi, nessuna notizia. Erano "ostaggi" all'interno
dell'edificio.
Ma dopo un'ora circa, Annamaria comparve, piccola, affacciandosi all'apertura,
in mezzo alle due grosse ante della porta in fondo al corridoio dove lui si
trovava, all'imbocco. Vedendolo, corse verso di lui e si abbracciarono.
Indossava ancora il camice da chirurgo, si stava togliendo i guanti ed aveva
abbassato la mascherina sulla gola. Quell'atto rassicurò Stefano di molte
tacche. Se lo abbracciava, voleva dire che non era infettata da qualche
misterioso e pericolosissimo virus vagante.
"Allora non è epidemia! - constatò Stefano, rincuorato, stringendo le spalle
della sua donna - Non ci sono malattie gravi in circolazione".
Il volto mediterraneo della moglie era pallido, ma non eccessivamente sconvolto.
L'espressione dei suoi occhi scuri era di stupore, mista a preoccupazione per
qualcosa di certamente serio e, più che altro, sconcertante.
"Ti dico tutto a casa, stasera. - tagliò corto la donna - Adesso non posso
parlare".
"Cosa devo fare io?" chiese Stefano, invece più agitato.
"Niente. - rispose Annamaria - Continua pure il tuo lavoro. Stasera ti racconto
tutto, Ora, meno sai, meglio è" e nel parlar così, lo baciò con dolcezza e
passione confermando in questo modo l'assoluta assenza di eventuale pericolo di
contagio.
Per quanto incuriosito al massimo, Stefano si sentì più rasserenato e, insieme
con lei, si avviarono verso la prima macchina erogatrice di caffè. Il personale
del nosocomio si aggirava, frettoloso per i corridoi dell'edificio senza però
risparmiare un saluto riverente, seppur rapido, alla prima coppia della città e
Stefano, dal canto suo, non negò ad alcuno un breve inchino della testa
sorseggiando il caffè che lui e Annamaria avevano pazientemente insegnato alla
popolazione locale a fare secondo la ricetta italiana ovvero: forte, concentrato
e aromatico.
Vedere i due insieme strappava un sorriso di compiacimento ma anche di sottile,
bonaria, ironia.
Fra marito e moglie c'erano almeno trenta centimetri di differenza in altezza.
Benché abbastanza magro, Stefano era un colosso fisico, un armadio a tre ante,
con un viso largo e squadrato, addolcito però da un perenne velo di barba
castana, come i capelli che gli coprivano per intero il collo, e irradiato da un
paio di begli occhi grigio verde, di taglio leggermente allungato, acuti e
indagatori. Annamaria era minuta, con capelli castano scuro lunghi, ora raccolti
nella cuffietta dell'uniforme ospedaliera e gli occhi grandi e scuri come i
capelli, dall'espressione dolce e intensa, che illuminavano un viso
rotondeggiante dai tratti regolari da cui sporgeva il naso lievemente aquilino.
Annamaria era medico ed era riuscita ad entrare a lavorare nell'ospedale della
città grazie all'aver salvato la vita al figlio più piccolo di un notabile di
lingua tedesca del luogo, colpito da un'improvvisa quanto misteriosa forma di
meningite. Forse era stato anche questo episodio che aveva favorevolmente
contribuito all'accettazione della comunità italiana nella rigida e diffidente
comunità germanica.
Finito di sorbire il caffè, i coniugi si salutarono ed ognuno tornò alla sua
mansione, ma per Stefano non fu facile riprendere a svolgere il suo incarico con
i pensieri che andavano alla moglie e al mistero che avvolgeva la struttura
sanitaria della città in quelle ore.
Quando Stefano rientrò in ufficio, la palazzina comunale, bianca, di soli tre
piani, con decori geometrici in legno era circondata dalla cittadinanza che,
malgrado lo sforzo congiunto del vice sindaco e dell'ufficiale di polizia di
rassicurarla, aveva riempito la piazzetta antistante, per chiedere delucidazioni
sulle voci che avevano cominciato a circolare a proposito di ciò che stava
accadendo all'ospedale. Quella notte non solo Stefano e Annamaria avevano
sentito il boato e avevano visto il bagliore quasi diurno illuminare il retro
della montagna e volevano saperne di più,
"Tranquilli, amici! - tuonò Stefano in perfetto tedesco, salito sull'ultimo
scalino davanti alla porta d'ingresso. - La situazione è meno grave di quanto si
fosse immaginato all'inizio e tutto è sotto controllo. Potete tornare a casa e
riprendere le vostre attività. Vi terremo informati sugli sviluppi".
Detto ciò, rientrò nell'edificio e raggiunse la sua postazione di lavoro.
Inutile dire che i cittadini non lasciarono subito la piazza rimanendo lì a
raccontarsi e a commentare gli eventi.
Oltre ad essere una piccola città, per la sua collocazione, e per le conseguenze
di ciò che era avvenuto tempo addietro, Grindewald era isolata dal resto del
mondo e, da allora, per i suoi abitanti ciò che importava maggiormente era solo
ciò che succedeva all'interno della conca fra i monti nella quale era distesa.
Di quel che accadeva al di fuori, nel pianeta, da tempo lì non giungevano più
informazioni o notizie. Per caso o di proposito? Pertanto, i compiti del primo
cittadino, spartiti poi fra i vari assessorati, erano di mantenere l'ordine, far
quadrare i conti fra spese e ricavi, celebrare matrimoni, registrare morti e
nascite e, periodicamente, organizzare feste e sagre.
Pochi minuti dopo essersi reinsediato al suo posto, Stefano fu, appunto,
disturbato da una coppia mista - un italiano e una tedesca - che gli chiesero di
sposarli. Finito il pacifico tumulto per l'arcano in ospedale, la normalità si
ristabilì apparentemente in quel piccolo paradiso in terra.
Nessuno degli abitanti ebbe il minimo presentimento che qualcosa, invece, stava
per cambiare.
Sera
Finalmente Annamaria, sfinita, varcò la soglia di casa, accolta da Stefano, in
fibrillazione, dopo essere riuscito faticosamente a convincere i suoi figli più
piccoli: Federico e Annalisa di sei e tre anni, ad andare a letto. Decisero di
attendere e assicurarsi che tutti e quattro i loro ragazzi fossero sprofondati
nel sonno e si ritirarono anche loro nella loro stanza. Stefano non stava più
nella pelle per conoscere i segreti del mistero che Annamaria gli aveva
accennato in ospedale e Annamaria non sapeva invece da dove cominciare a
raccontare. Non si poteva definire scioccata, ma era ugualmente scossa
dall'evento.
"Sono....tutti morti?" azzardò Stefano, quasi timoroso di una conferma.
"No. - rispose sorprendentemente Annamaria - Beh... - proseguì poi, costernata -
Tre sono gravi e non sappiamo se ce la faranno; due sono in prognosi riservata,
ma nutriamo qualche speranza e uno sembra se la sia cavata con qualche costola
rotta ma....".
"Ma?" la incalzò Stefano, trepidante.
Annamaria scosse la testa, molto esitante.
"Non so come dirlo" continuò.
"Dillo, semplicemente" la incoraggiò il marito.
Annamaria sollevò il viso e guardò il consorte negli occhi.
"Non sono dei nostri" rispose, espirando come per liberarsi di un peso.
Si sentì sondata dagli occhi grigio verdi di Stefano che le scavarono nell'anima
fino ai meandri più reconditi.
"Cioè? - chiese maggiori lumi lui, assumendo il tono di chi sta sul chi vive,
con le ciglia aggrottate - Non sono del paese? - Annamaria negò - Vengono da
un'altra zona della Terra?" Annamaria negò ancora.
Stefano sentì di toccare la soglia dell'allarme rosso. Annamaria annuì.
"Hanno la pelle color bianco perlaceo, - specificò - e...il sangue blu". Vide
gli occhi del marito ingrandirsi oltre misura.
"Alieni?" esclamò. Annamaria gli fece cenno di abbassare di molto il volume
della voce.
"A meno che l'inquinamento sul pianeta non abbia raggiunto livelli tali da
apportare simili modifiche al DNA umano, non risulta che sulla Terra ci siano
popolazioni con queste caratteristiche" commentò.
"Oh cazzo!" se ne uscì Stefano strappando un sorriso alla consorte che pur non
amando molto il turpiloquio, trovò, in questo caso, l'esclamazione, divertente.
"Già" confermò lei, sorridendo ancora.
"E... - balbettò Stefano - come sono?".
"Come noi, Stefano. - rispose lei - Due braccia, due gambe, due occhi.... E sono
belli. Non sono mostricciatoli con la testa grossa, il corpo piccolo o le
antenne come li abbiamo visti in certi film di fantascienza piuttosto stupidi".
"Dio ci ha creati tutti a sua immagine e somiglianza. - commentò Stefano,
fissando, ieratico, un punto lontano oltre le spalle della moglie - Non solo
sulla Terra.... - Se è vero, - proseguì, serio - e se....Dio esiste
veramente.....ancora" concluse.
In qualità di sindaco, Stefano era autorizzato a celebrare matrimoni, ma non era
il suo ruolo il solo motivo. Da anni non venivano più celebrati matrimoni
religiosi in chiesa perché....da anni non c'erano più sacerdoti a celebrarli e
le chiese erano chiuse.
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