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Capitolo
cinque
Il sole stava
tramontando all’orizzonte, gettando lunghe ombre oltre le
grandi montagne rocciose
del deserto dell’Arizona. Sentivo le goccioline di sudore
imperlarmi la fronte,
cadere lungo le tempie. Mi guardai la mani, erano sporche, sporche
della
polvere del deserto. Poi notai… quel dettaglio che mi era
sfuggito, in quello
scenario arido. La mia canotta, color della neve, era macchiata,
macchiata di
rosso. Scuro sangue che sgorgava. Cercai di capire l’origine
dell’emorragia. Non
riuscii a trovarla. Alzai lo sguardo e due occhi neri mi guardarono
iniettati
di sangue. Non riconobbi il volto, i suoi lineamenti erano
indefiniti… eppure
quegli occhi… mi voltai per correre, per scappare da
quell’uomo, ma fui
bloccata da due occhi vitrei ed impassibili.
Iris… Iris…
«Iris, Iris… Iris…»
Aprii gli occhi di scatto, il respiro accelerato. Non è reale. Non
è reale. Non è reale, mi ripetei.
«Stai
bene?»
Fu solo allora che mi resi conto dove fossi, solo allora misi a fuoco
la
stanza.
Il volto di Alexander era vicino al mio, tanto che potevo sentire il
profumo
del cioccolato mischiarsi a quello del pino silvestre. I suoi occhi si
muovevano
a cercare un’immagine che non riuscivano a vedere. Era
preoccupato. La sua
espressione mi causò una fitta di inaspettato dolore.
Istintivamente gli
poggiai una mano sulla spalla, vicino al collo.
«E’ tutto okay» soffiai.
Solo allora mi resi conto che la sua mano era poggiata sul mio braccio
e lo
stringeva con delicatezza. Fu strano non averlo notato, come se quel
gesto fosse
stata la cosa più naturale del mondo, come se…
come se la sua mano era dove doveva
essere.
«Farfugliavi cose incomprensibili» disse, e senti i
muscoli della spalla
rilassarsi.
«Era solo un sogno» sorrisi sollevandomi su un
gomito.
Mi accorsi che eravamo soli, che il televisore mandava i titoli di cosa
del
film
«Dov’è Linn?» chiesi tornando
a guardare il suo viso.
«Era stanca ed è andata a dormire dopo che ti sei
addormentata. Le ho detto che
ti avrei svegliata io una volta che fosse finito il film.»
Osservai per attimi che mi parvero interminabili il suo volto. La
leggera linea
di barba chiara, gli occhi allungati, lo sopracciglia perfettamente
disegnate.
I naso dritto, scolpito nel marmo bianco, le labbra sottili e rosee. I
capelli
gli ricadevano ribelli e lisci sulla fronte. Alla fioca luce del
caminetto
sembravano più scuri.
Fece scivolare la mano dal mio braccio e se la portò attorno
ad un ginocchio.
Era seduto per terra, accanto al divano.
«Cosa sognavi?»
Gli raccontai in grandi linee ciò che aveva sognato,
omettendo il finale. Lui
corrugò aggrottò la fronte.
«Sciocchezze» mi affrettai a dire.
Annuì flebilmente.
Mi lasciai cadere sul divano, osservando il suo viso dal basso. Pensai
che
fosse uno degli uomini più belli che avessi mai visto.
«Cosa ti è successo, Alexander?» chiesi
in un filo di voce, poggiandogli una
mano sul ginocchio. Lui chinò il capo e aspettò
qualche secondo prima di
parlare.
Sospirò, e con il suo respiro uscì dolore.
«Tornavo a casa… pioveva. Ero andato
all’opera, volevo vedere l’Aida. Mi aveva
convinto Charlotte. Io in realtà non volevo nemmeno andarci.
Avevo avuto
un’udienza quella mattina ed ero stanco. Ho perso il
controllo dell’auto a
causa del temporale», la sua voce era atona, come se avesse
ripetuto mille
volte quella storia, come se fosse un copione che raccontava una mezza
verità.
Sentii una stretta al cuore e mi morsi il labbro inferiore. Fui
tramortita
dalle sue parole, tanto che un forte senso di nausea mi
annodò lo stomaco e gli
occhi mi si inumidirono di mute a lui invisibili.
«Dov’è ora Charlotte?» chiesi
senza pensarci.
Alexander non parlò. Si irrigidì e pensai
“quale razza di donna lascia un uomo
simile”… o forse…
Fece spallucce. «Tu da chi scappi?»
Sgranai gli occhi. Le sue parole mi colpirono come un secchio di acqua
gelata,
inaspettate mi fecero impallidire.
«Cosa?» chiesi in un filo di voce stridula.
«Oggi pomeriggio. Le tue gambe hanno ceduto quando il tuo
cellulare ha
cominciato a squillare. Sono cieco, Iris, ma sono un buon osservatore
ed un
avvocato. Ci sono particolari che non mi sfuggono, nonostante
tutto.»
Annaspai, «Io… io non intendevo dire
questo…»
«Lo so…» mormorò guardando
nella mia direzione. «Quanto vorrei guardarti negli
occhi…« sussurrò con voce calda e roca.
Aprii la bocca, ma da essere non uscì alcun suono. Desiderai
accarezzargli una
guancia, lottai con tutte le mie forze per non muovere un suono muscolo
del mio
braccio. Mi resi conto che avevo ancora la mano poggiata sul mio
ginocchio.
Incollata.
«Un amore finito male», risposi dopo alcuni attimi
di esitazioni.
«Lui non riesce ad accettarlo?»
«No.»
«Ti ha fatto del male?» chiese prima di serrare la
mascella.
Sospirai. «Sì.»
«Ti ha mai...»
Sentii gli arti gelarsi. Mentii. «No». Non so
perché lo feci. Forse non volevo
che pensassi fossi una stupida, una che non si rende conto del tipo di
uomo che
stava per sposare.
Sbadigliai sonoramente.
«Credo sia meglio andare a dormire» disse lui in
sorriso timido, eppure non si
alzò.
Rimase immobile nella mia direzione, come indeciso sul da farsi. Parole
sospese
nell’aria.
E forse fu l’ora tarda, la luce calda del fuoco,
l’incubo o le piccole
confidenze… afferrai la sua mano, staccando la mia dal suo
ginocchio. Lui fu
sorpreso quando gli portai la mano sul mio volto. Chiusi gli occhi e
sorrisi.
Lui mi toccò le guance, gli occhi, le labbra, lo fece con un
tocco tanto
leggero da sembrare una carezza di petali di orchidee bianche. Lascia
che lui
sentisse il mio viso, la mia espressione e sperai che, nella sua mente,
nella
sua immaginazione potesse vedere il mio volto sorridente. Aprii gli
occhi e
lasciai che le sue dita scorressero sulle mie ciglia.
L’espressione che vidi
sul suo volto mi lasciò senza fiato. Le sopracciglia erano
unite in una linea
retta, le labbra dischiuse. Pensai che se la mitologia scandinava fosse
stata
reale, Thor, figlio di Odino, avrebbe avuto il suo volto.
«Grazie…»
Al mattino
mi
alzai mezz’ora prima che suonasse la sveglia. Avevo faticato
ad addormentarmi,
ripensando al viso di Alexander, così vicino al mio,
così cupo ed enigmatico…
così bello da farmi fremere.
Non sapevo cosa mi stesse accadendo. Mi sentivo confusa, avvertivo un
turbinio
di emozioni, ronzavano mille pensieri nella mia testa, ronzavano con la
potenza
di uno sciame d’api che non potevo fermare. Erano accadute
così tante cose in
così poco tempo che fare un quadro della mia vita era
impossibile. Ero
consapevole di schiacciato il tasto STOP della mia vita dopo la
rottura con
Richard… ma dopo il nostro ultimo incontro irruento, non ne
volevo più sapere
di lui. Non volevo incontrarlo, non volevo sentir pronunciare il suo
nome, non
volevo che mi chiamasse, che interferisse ancora nella mia vita.
Nell’immagine ferma, sullo schermo della mia vita,
c’era la Norvegia. I fiordi
innevati ed il mare gelido del Nord, sul quale padroneggiavano due
occhi color
del ghiaccio. Ero affascinata ed incuriosita dalla figura di Alexander,
al di là
del suo bell’aspetto. C’era qualcosa, oltre le
vetrate di ghiaccio dei suoi
occhi, che mi attirava e mi faceva desiderare di infrangerle per
attingere a
quell’anima a lungo celata agli occhi di estranei. Ero certo
di questo. Lui si
nascondeva. Si nascondeva probabilmente dal passato, dalla sua
condizione… da
se stesso. Provai un impeto di eccitazione ed euforia, mentre
l’acqua della
doccia mi scivolava sulla schiena. Lasciai che il profumo del
bagnoschiuma alle
mandorle dolci mi avvolgesse e mi coccolasse, mentre il bagno di
riempiva di
vapore. Quando uscii mi slegai i capelli, che mi caddero in morbide e
grandi
onde sulle spalle. Rimasi per attimo a guardare la mia immagine
riflessa, non
riuscendo a capire cosa non andasse. Poi, lì, lo vidi. Un
tenue rossore mi
colorava gli zigomi alti. Spalancai gli occhi…
cosa…
Quando
scesi per la colazione trovai Bretta i fornelli che preparava frittelle
ai mirtilli.
«Buon giorno signora» dissi bussando sullo stupite
della porta.
Lei si voltò nella mia direzione e sorrise. «Oh,
cara, puoi chiamarmi Bretta.»
Annuii. «Bretta.»
«Cosa desideri per colazione?» mi chiese girando
una frittella.
«Quello che sta cucinando va benissimo» dissi
avvicinandomi alla grande
vetrata. Il cielo cominciava a tingersi di celeste e rosa. Le nuvole,
all’orizzonte, sembravano batuffoli di cotone. La neve
colorava di bianco il
paesaggio, rendendo tutto così irreale, tutto
così mozzafiato.
«E’ tutto così…
incantevole. Sembra quasi un quadro» mormorai ed il mio
respirò
si condensò sul vetro.
«E’ la magia della Norvegia, mia cara»
disse Bretta. Sentii una mano poggiarsi
sulla mia schiena e la sua figura piccola fiancheggiarmi.
Mi voltai a guardarla. «Grazie per avermi accolta.»
La mano di Bretta mi accarezzò la schiena. «Sei la
sorella che Linn non ha mai
avuto. Sei la benvenuta in casa nostra.»
«Grazie» sorrisi, «a proposito,
dov’è Linn?»
Bretta si diresse verso i fornelli e mise su una piastra delle
salsicce. «Dorme
ancora. Alexander però scenderà a
momenti.»
Udendo quel nome mi agitai sul posto e mi allontani dalla vetrata, per
dirigermi verso il grande tavolo di legno chiaro.
«Posso apparecchiare?» chiesi ad Bretta.
«Oh, no, non ce n’è bisogno.»
«Ti prego, Bretta, posso? Vorrei rendermi utile» la
implorai giungendo le mani.
Lei girò la testa e rise.
«Okay. I bicchieri sono nella credenza, i piatti sopra il
lavandino, le posate
nel primo cassetto sulla mia destra. Il resto, lo trovi in frigo e
nella
dispensa accanto alla credenza. Prendi ciò che
vuoi.»
Sospirai e fui grata di rendermi utile. Presi tutto ciò che
serviva per fare
colazione, pane, burro, marmellata, cioccolata, cereali, non conoscendo
le
abitudini della famiglia. Dovetti togliere due piatti,
perché solo quando
Bretta osservò la tavola mi disse che i signori Kerlesn
erano scesi molto
presto per andare a lavoro, in ospedale. Bretta mi racconto di quando,
da
giovane, prima di dare alla luce Elna, visse in America, lavorando come
ballerina a New York. Mi annotai mentalmente di sgridare Linn per non
avermi
mai detto nulla sulla sua famiglia.
«Ti dispiace se vado a fami una doccia, cara? Tu puoi
cominciare a mangiare se
vuoi. Io ho fatto colazione molto presto.»
Annuii. «Certo.»
Bretta sparii oltre la porta che dava sul soggiorno. Mi riempii una
tazza di
caffè fumante e mi sedetti sul davanzale imbottito della
grande finestra della
cucina. Osservai il cielo diventare sempre più chiaro,
mentre il caffè mi
riscaldava i muscoli.
«Buon giorno.»
Sobbalzai udendo la sua voce. Mi
voltai a guardarlo e solo prima di parlare mi accorsi di trattenere il
fiato.
«Buon giorno» risposi senza scostare lo sguardo dal
suo viso appena sbarbato.
Guardai le spalle larghe, coperte da un maglioncino nero, le gambe
atletiche
fasciato da jeans scuri.
Sorrise, mostrando una schiera di denti bianchissimi.
«Iris.»
«In persona. Hai fame?» chiesi alzandomi.
«Non immagini quanto» disse lui avanzando nella
stanza, seguito da Ruth.
«Ciao, piccola» dissi accovacciandomi e
accarezzandola dietro le orecchie.
Con la cosa dell’occhio vidi Alexander avvicinarsi alla
credenza.
Mi alzai e mi avvicinai al lavandino per lavare le mani. «Oh,
no» dissi, «ho
apparecchiato. Aspetta, ti porto il piatto» dissi versando un
paio di
frittelle, delle uova e una salsiccia.
«Ma non ce n’è bisogno» disse
lui guardando un punto indefinito dinanzi a sé.
«Lo so, ma mi fa piacere. Mi piace rendermi utile.»
Lui sorrise avanzando verso il tavolo. Si sedette cerando il bicchiere.
Intanto
io gli sistemai il piatto davanti.
«Succo d’arancia?» chiesi prendendo la
brocca. Lui annuii sorridente e gliene
versai un po’.
Il profumo di pino silvestre mi invase ancora i polmoni e sentii il
desiderio
di accarezzarli la nuca, ma repressi il prurito della mie mani,
ficcandole in
tasca. Così mi sedetti di fronte e lui, a debita distanza.
«Ti ringrazio» disse portandosi alla bocca un
po’ di uova strapazzate. «Cosa
vorresti fare oggi?» chiese dopo aver ingoiato.
Feci spallucce. «Non lo so. Mi piacerebbe-»
«Andare al centro commerciale a fare acquisti» la
voce di Linn irruppe nella
stanza, completando la mia frase.
«Non avevo intenzione di dire questo.»
«Sì, ma dobbiamo andare. Tre un paio di
giorni c’è la festa per l’anniversario
di mamma e papà ed non abbiamo nulla da mettere.»
«Parla per te» bofonchiò Alexander.
Linn si portò una mano sul fianco. «Ho detto che
nessuno di noi ha qualcosa da
mettere.»
Feci un risolino e vidi Alexander voltarsi verso me, con il viso
entusiasta,
come se avesse sentito cantare un usignolo.
«In effetti non ho nulla per l’occasione»
confessai. «Non so nemmeno che tipo
di festa è.»
«E’ qui a casa, tranquilla, abbiamo così
tanto spazio. Solo che ci vuole un bel
vestito per tutti.»
Le sorrisi e poi mi voltai a guardare Alexander. Qualcosa si
incrinò, dentro di
me. I Suoi occhi erano bassi e le labbra serrate in una linea retta.
Linn
arricciò il
naso guardando il lungo vestito da sera che indossavo.
«No», disse solo.
Mi guardai allo specchio, osservando la mia figura esile riflessa,
fasciata dal
raso lucido ed aderente senza spalline.
«E’ anonimo» meditò lei
portandosi un dito sulle labbra.
Mi osservai meglio, riflessa nello specchio. «Non
è male» sussurrai voltandomi
appena e guardandomi la schiena.
«Esatto, non è male. Non è
favoloso, Iris. Non è per te… non… non
brilli.»
«D’accordo» mi arresi rientrando in
camerino. Cercai di sfilarmi l’abito, con
grande fatica, essendo attaccato al mio corpo come una seconda pelle.
«Prova questo» disse Linn lanciandomi un vestito
nel camerino, finendomi in
testa. Grugnii mentre provavo un orribile vestito verde petrolio, lungo
sino al
ginocchio e dotato di una sola manica lunga. Quando uscii quasi mi
spaventai
guardandomi allo specchio.
«Linn… mia nonna è più
giovanile di me!» esclami guardandola a bocca aperta.
Lei si morse l’interno di una guancia.
«Sì, hai ragione» disse spingendomi
verso
il camerino e porgendomi un vestito grigio. Una volta nel camerino
guardai
l’abito grigio con le spalline larghe, lungo fino al
ginocchio, dei ricami neri
nella parte inferiore. Questa volta fui io ad arricciare il naso.
Lo indossai, scettica, quando uscii per farmi vedere da Linn e per
guardarmi al
grande specchio ebbi conferma dei miei dubbi: era orribile.
«Forse dovremmo guardare di nuovo un abito
lungo…» mormorò Linn inclinando il
capo di lato.
«Tu credi?» risposi sarcastica.
Lei mi fece il verso. «Aspetta qui, vado a fare un
giro.»
Sospirai, frustrata e avvilita. Mi lasciai cadere sui divanetti di
fronte ai
camerini, dove poco prima era seduta Linn. Controllai il cellulare che
avevo
lasciato in borsa. Nulla. Nessuna chiamata, nessun messaggio. Sentii il
mio
corpo rilassarsi appena.
Con lo sguardo cercai Alexander, chiedendomi dove fosse finito, non ci
aveva
accompagnate nel negozio, aveva preferito fermarsi ad una panchina
all’interno
del centro commerciale sorseggiando un caffè.
Accavallai le gambe, in attesa, e poggiai il mento sul palmo della
mano.
«Iris?»
Trasalii appena udendo il mio nome ed un brivido di eccitazioni mi
scosse la
schiena. Alzai lo sguardo sullo specchio e vi vidi riflessa la figura
di
Alexander, statuaria.
«Iris?»
«Sono qui», solo allora mi resi conto di aver
trattenuto il fiato.
Lui avanzò lentamente verso il divanetto, la mano protesa,
istintivamente mi
alzai e gli afferrai la mano, la pelle della mia mano prese fuoco.
«Ti aiuto» dissi conducendolo verso il divanetto.
Fu allora che mi accorsi che
in una mano stringeva un vestito rosso scuro. Ruth lo seguiva
silenziosa.
«Ho trovato questo. Non so se può piacerti, o se
è la tua taglia… non so
nemmeno di che colore è… ma mi ha colpito e ho
provato ad immaginarlo su di te…
insomma… l’immagine che ho di
te…» lo disse tutto d’un fiato, chinando
appena
il capo e grattandosi la nuca, accennando un sorriso imbarazzato, quasi
di
scuse.
Sorrisi intenerita e sentii il cuore sciogliersi in un impeto di
dolcezza. «Oh,
Alexander… grazie» dissi accarezzandogli il
braccio, avrei voluto lasciare la
mia mano lì dov’era, ma la lasciai ricadere lungo
il mio fianco. «Posso?»
chiesi e lui mi porse il vestito. Lo lasciai ricadere in aria,
tenendolo per le
spalle.
Spalancai gli occhi. «E’ rosso.»
«Oh. Non ti piace?»
«E’ bellissimo.»
Quando
l’indossai, senti l’abito aderire il vita come una
seconda pelle, e
sentii il tessuto ricadermi morbido sui fianchi, sfiorandomi le
ginocchia.
Raccolsi i capelli in uno chignon ed uscii per guardarmi allo specchio.
Alzai
lo sguardo con il viso illuminato e la speranza che potesse
piacergli… ma
quando incontrai i suoi occhi vacui, provai una fitta di dolore. Non
poteva
vedermi. Aveva scelto un vestito per me, immaginandolo nella sua mente,
facendo
scorrere le dita sul tessuto morbido e liscio, creando
un’immagine nitida
scorgendone i contorni. La delusione, la realtà, la
crudeltà della vita mi
colpirono come un secchio di acqua ghiacciata e sentii un nodo alla
gola, gli
occhi bruciarmi per le lacrime che premevano per uscire. Calde,
roventi. Non mi
avrebbe mai vista con quel vestito e fui sorpresa e sconvolta dalla
natura dei
miei stessi pensieri. Il cielo della mia anima si annuvolò
ed un fulmine colpì
il mare fatto di pensieri, paure, speranze.
«Oh mio Dio, Iris… sei
bellissima…» soffiò Linn accigliandosi.
Distolsi lo
sguardo dal viso di Alexander e sperai che non notasse quando sconvolta
fossi,
quanto delusa e addolorata fossi. Lei mi guardò, con sguardo
imperscrutabile, e
mi chiesi cosa stesse pensando. Non avevo dubbi che avesse capito che
qualcosa
non andava… mia madre me lo diceva sempre, “sei un
libro aperto, Iris, i tuoi
occhi parlano da soli”. Lei guardo Alexander che si
voltò appena nella sua
direzione, cercando di cogliere la scena.
Mi sorrise con dolcezza. «Non credo ti serviranno
questi» disse lei poggiando i
vestiti su un bancone.
Fu allora che mi voltai e guardai l’immagine riflessa nello
specchio. Osservai
il tessuto rosso pompeiano che mi accarezza il corpo, aderendo in vita,
e
poggiarsi delicato sui fianchi. Osservai lo scollo a barca, che mi
sfiorava il
collo e li lasciava scoperta la punta delle clavicole. Osservai le
maniche di
leggero velo, che lasciano intravedere i tre grandi nei che avevo sul
braccio
sinistro. Mi voltai appena, per guardare la schiena, e vidi il
bottoncino che
teneva chiusa la parte superiore del vestito, lasciando scoperta la
pelle della
schiena, fino alle scapole.
«E’… mio…» dissi
guardando prima il volto di Linn che entusiasta batteva le
mani, poi guardai Alexander che sorrideva. Il suo sorriso
però nascondeva una
nota di dispiacere. Lo guardai senza dire nulla, poi mi guardai appena
i piedi
nudi.
«Ti piace? Sul serio?»
Alzai lo sguardo su Alexander. «Sì. E’
incredibile.»
Lui sorrise. «Dovreste portarmi più spesso con
voi, ragazze.»
Linn gli diede un pizzicotto sul braccio. «Tocca a te, mio
caro.»
Alexander alzò un sopracciglio. «Lavoro in giacca
e cravatta.»
«Non puoi di certo indossare uno dei tuoi abiti da lavoro,
tesoro» disse lei
come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
Lui sospirò ed io, senza proferire parola, tornai in
camerino.
Osservai Alexander
indossare un abito blu scuro, dello stesso colore della
notte, senza proferire parola. Non perché non avessi nulla
da dire…
semplicemente non riuscivo a dire una sola parola. Osservai la sua
figura
statuaria e snella, atletica, le spalle larghe, delineate dalle linee
della
giacca, i fianchi stretti, proporzionati al resto del corpo. Sentivo la
bocca
secca e la lingua sembrava raschiare il palato, come fosse carta vetro.
Cercai
di distogliere lo sguardo, ma non ci riuscii. Spostai lo sguardo sul
suo viso
riflesso nello specchio, mentre il proprietario del negozio, un uomo
sulla
sessantina, gli sistemava il colletto della giacca. Osservai la linea
retta
delle sue labbra, del suo naso, gli occhi grandi e vacui. Sentii
l’impulso di
sfiorargli il viso con le mani, dovetti richiedere
l’intervento di tutto il mio
autocontrollo per restare seduta, lì, sul divanetto accanto
a Linn.
«Uno schianto» disse lei sorridendo.
Deglutii a fatica prima di parlare e sperai che lei non se ne
accorgesse.
Annuii. «Stai benissimo, Alexander» mi limitai a
dire e mi sembrò che Linn
sorridesse guardandomi con la coda dell’occhio.
Il telefono di Linn squillò, il che mi riportò
alla realtà, distogliendo lo
sguardo dall’adone in giacca e cravatta, per guardare lei.
«Numero privato» disse corrugando la fronte.
Rispose, ma non ricevette alcuna
risposta. Allontanò il cellulare dall’orecchio e
guardò il display. La chiamata
fu interrotta.
Linn si voltò a guardarmi. «Hanno
riagganciato.»
«Forse hanno sbagliato numero» suggerii Alexander.
«Sicuramente» conclusi, eppure un brivido mi
attraversò la schiena.
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