Capitolo
X –
Concedi la pace ai nostri giorni.
Il
signor Firefly tornò
il mattino seguente, ma in modo più composto e dignitoso,
dopo aver
telefonato per avvertire del suo arrivo. Quella volta, Agatha lo fece
accomodare nell'asettico studio che era appartenuto a suo padre, come
per un normale incontro d'affari: quel giorno era sorprendentemente
fredda e calma. Non si era scomposta affatto al ricevere quella
chiamata, come se se la fosse aspettata, e anzi avesse dato per
scontato sin dall'inizio che quegli sarebbe tornato, e appariva
determinata ma tranquilla, come se la cosa, ormai, non la riguardasse
più.
Per
contro, Samuel
aveva temuto per tutta la mattina il momento in cui il signor Firefly
sarebbe entrato nella stanza e lo avrebbe guardato, sotto forma di
una lieve morsa angosciosa che gli stringeva lo stomaco e le vie del
respiro. Era probabilmente la prima volta in vita sua ch'egli
nascondeva qualcosa a qualcuno, tanto più ad Agatha, e
quella
sensazione non gli piaceva.
Ma
quando il signor
Firefly fece il suo ingresso nello studio, col cappello mortalmente
stretto tra le mani e gli occhi lampeggianti rabbia, senza degnarlo
d'uno sguardo, tutta la tensione che lo aveva attanagliato si
disciolse dentro di lui tanto subitaneamente da lasciarlo quasi
inebetito, in piedi immobile accanto alla finestra. Era stato sciocco
a non pensare prima a ciò che il contegno nervoso e
indispettito del
signor Firefly e l'occhiata di minaccia e di preoccupazione che
questi gli aveva gettato al suo ingresso dichiaravano abbastanza
eloquentemente: il signor Firefly aveva molto più interesse
di lui a
che Agatha non venisse a sapere della loro conversazione e della sua
proposta. Per quanto Agatha conoscesse già molto bene
l'opinione del
suo antico tutore riguardo al suo nubilato, Samuel era alquanto certo
che se ella fosse venuta a sapere dei suoi tentativi di organizzare
addirittura il suo matrimonio, ogni remora sarebbe in lei scomparsa.
No, Firefly non aveva alcuna intenzione di tradirlo, e al contrario
la consapevolezza che se fosse stato Samuel a parlare per primo egli
sarebbe stato umiliato e svergognato davanti agli occhi di Agatha gli
faceva bruciare ancor più il suo orgoglio ferito all'altezza
del viso, dov'era stato colpito. Alla sua vista, il signor Firefly
cacciò nervosamente la mano in tasca, ma con violenza, come
imponendoselo, e quel gesto equivaleva a un'inconsapevole ammissione
di sconfitta, più ancora che se cedendo a un impulso si
fosse
toccato la guancia dolorante.
«Una
cena di lavoro
particolarmente accalorata, signor Firefly?»
s'informò Agatha in
tono leggero e vagamente pungente, accomodandosi alla scrivania. Non
c'era bisogno di specificare a cosa si riferisse: il livido violaceo
sul suo zigomo era già abbastanza vistoso senza bisogno di
sottolinearlo a parole. Scrutandola infastidito come punto sul vivo,
senza scomporsi troppo, Firefly ringhiò:
«Già.»
«Credevo
che a parer
suo un vero signore non risolvesse mai i suoi problemi con le
mani»
proseguì Agatha in tono amabile. Ma i suoi occhi erano
gelidi e
attenti, perfettamente consapevoli, ed era evidente che ella si stava
divertendo un mondo a prenderlo in giro a quel modo. Samuel si chiese
fuggevolmente se essi si fossero rapportati così, mentendosi
e
deridendosi e mortificandosi a vicenda per tutti quegli anni,
finché
Agatha non era finalmente partita da lì.
Al
veleno delle sue
parole il signor Firefly doveva essere ormai assuefatto, dato che
incassò il colpo senza battere ciglio.
«Già» constatò
semplicemente. «Ma queste sono cose da uomini, Agatha...
nulla che
una signorina dovrebbe ascoltare. Sono certo che il signor Oak
è
d'accordo con me.»
All'espressivo
sguardo
d'intesa che Firefly gli gettò, distogliendolo appena da
Agatha,
Samuel non ebbe reazione. Forse quel velato accenno indiretto non
voleva essere un'altra trappola, quanto piuttosto un tacito tentativo
di assicurarsi della sua complicità su quel segreto, ma
proprio per
questo egli non intendeva rassicurarlo in alcun modo. Quell'uomo lo
disgustava già abbastanza senza bisogno di prestargli
più
attenzione di quanta gliene avesse già riservata il giorno
precedente, ed egli continuò a rimanere perfettamente calmo
e
immobile accanto alla finestra, ad ascoltare.
Come
se si fosse già
stancata delle loro schermaglie preliminari e fosse pronta a parlare
sul serio di affari, Agatha accennò con la mano alla sedia
di fronte
alla scrivania con fare sbrigativo. «Vuole essere
così gentile da
cacciare il mio ospite fuori della stanza anche oggi, signor
Firefly?»
Rimanendo
ostinatamente
in piedi al di là del tavolo, Firefly le porse dalla tasca
della sua
giacca un foglio minuscolo, delle esatte dimensioni di un assegno
ripiegato. «Si tratta solo di una firma. Una questione di
beneficenza. Non c'è nulla da leggere.»
Agatha
non spiegò
l'assegno. Al contrario, lo posò davanti a sé
sulla scrivania e
senza dare minimamente segno di volerlo leggere, completamente
reclinata contro lo schienale della sedia, domandò:
«Beneficenza
per che cosa?»
«Se
tu aprissi
l'assegno, potresti leggerlo coi tuoi occhi»
sibilò Firefly. Agatha
rimase perfettamente immobile, allora egli, con un moto d'impazienza,
sbuffò: «Per la ricostruzione della Torre,
ovviamente. Tuo padre
diede un grosso contributo dopo l'inondazione del Trentuno,
perciò è
ragionevole che anche tu faccia lo stesso.»
La
Torre, ancora la
Torre, ovunque la Torre! Possibile che il suo nome fosse in grado di
raggiungerli ovunque, trapassando come aria gli schermi delle porte e
delle mura frapposte?
Quando
Samuel si voltò
bruscamente verso di lei dalla finestra aperta, Agatha era ancora
immobile sulla sedia e almeno in apparenza perfettamente
indifferente. Ma ai suoi occhi che avevano ormai imparato a
distinguere sul suo volto il susseguirsi di innumerevoli emozioni,
senza bisogno di parole, non poteva sfuggire l'innaturale pallore che
le era affiorato d'improvviso sulle guance, né la stretta
delle sue
mani che avevano artigliato i braccioli della sedia come una
richiesta d'aiuto.
«Ti
sconsiglio di
cambiare la cifra, Agatha» disse infine il signor Firefly, a
voce
bassa, come se questo motivo gli paresse l'unica spiegazione
possibile alla sua esitazione. «Credimi, Lavandonia non si
aspetta
niente di meno da te, e un solo centesimo in meno apparirebbe
meschino. È il prezzo di appartenere a una famiglia antica,
Agatha,
te l'ho già spiegato.»
Agatha
non diede alcun
segno di averlo sentito. I suoi occhi continuavano a scrutare
l'assegno, ma senza muoversi, ed era dunque evidente che non lo stava
leggendo. Semplicemente, pensava.
Con
poche ampie
falcate, Samuel si ritrovò quasi senza accorgersene di
fianco alla
sua sedia: dall'altra parte della scrivania, il signor Firefly gli
gettò uno sguardo di disapprovazione, ma di nuovo si
trattenne dal
fare commenti. In quel momento, doveva essere troppo preso
dall'assoluta mancanza d'interesse della sua assistita per potersi
preoccupare anche di lui.
«Ho
sentito dire che
le ceneri dei Pokémon le cui tombe sono state devastate
dall'incendio saranno collocate in una forno comune» disse
infine
Agatha, come riemergendo infine dalle nebbie della lunga riflessione
che l'avevano catturata sino a quel momento. Non aveva distolto gli
occhi dall'assegno, ma subito Samuel colse nel suo tono e
nell'intensità dei suoi occhi tutto l'appuntarsi della sua
concentrazione.
Firefly
scrollò le
spalle come se la questione non lo toccasse particolarmente.
«Già,
è l'unica soluzione praticabile... e anche la più
sensata, se
proprio lo vuoi sapere. Lo spazio è sempre stato un problema
in quel
posto, perciò, per quanto mi riguarda, avrebbero dovuto
approntare
una fossa comune già una ventina di anni fa, come in tutti
gli altri
cimiteri. Anzi, se non ci fosse stato l'incendio...»
Samuel
si augurò che
il signor Firefly amasse parlare per il gusto di farlo,
perché
almeno a lui, che non aveva perso di vista Agatha per un solo
istante, era evidente che ella aveva smesso di ascoltarlo
già dopo
le sue prime parole, non appena aveva ottenuto la risposta che
voleva. Ma a un tratto, bruscamente, e in modo troppo plateale
perché
persino Firefly potesse ignorarlo, Agatha lasciò perdere
l'assegno e
si alzò in piedi. Senza curarsi di nessuno, andò
lentamente alla
finestra, zoppicando appena, e si accostò al vetro. Non
aveva avuto
alcuna intenzione di interrompere il monologo del suo protettore, ma in
realtà probabilmente non si era neppure accorta che egli
stava
parlando. Quando si avvicinò al vetro, scostando appena le
tende con
la punta delle dita, il suo volto appariva tutto chiuso e
concentrato.
«E
lei dice che li
seppelliranno lì tutti, signor Firefly? Insomma... proprio
tutti?»
Firefly
ebbe un moto
stizzoso d'impazienza. «Dio, Agatha, che domande mi fai? Non
ne ho
la più pallida idea, ma non vedo per quale motivo non
dovrebbero
seppellirli tutti. È anche per una questione d'igiene,
dopotutto.»
I
cadaveri dei loro
Pokémon giacevano tra tutti quelli insepolti e anonimi che
avevano
perduto le loro tombe e i loro nomi nell'incendio, e con loro erano
stati cremati. Ma questo Agatha lo sapeva, ne aveva parlato a
entrambi il dottor Ross qualche giorno prima, allora perché
voler
sollevare ancora quell'argomento, perché rimestare
inutilmente un
dolore che già non trovava pace? Nessuno di loro poteva
più fare
nulla per i loro Pokémon, poiché le loro ceneri
riposavano ormai in
urne cinerarie fornite dal comune, asettiche e identiche in tutto e
per tutto le une alle altre, accatastate alla rinfusa in qualche
magazzino vuoto in attesa di venir di nuovo seppellite con tutti gli
onori... con quella domanda, ella che cosa voleva ottenere?
Le
dita di Agatha si
serrarono maggiormente sul lembo della tenda, la curva delle sue
labbra si contrasse un poco: ma queste furono le sue uniche reazioni
fisiche a quel pensiero. Annuì pensierosamente col capo.
«Vorrei
donare una
targa alla cittadinanza, perché possano appenderla sul luogo
della
sepoltura comune. Che cosa ne dice, signor Firefly? Pensa che si
possa fare?»
Un
simile spirito
d'iniziativa nella sua assistita doveva essere quantomeno
inaspettato: Firefly continuò a scrutarla per vari secondi
in
perfetto silenzio, come aspettandosi da un momento all'altro che
Agatha scoppiasse a ridere e ritrattasse tutto quanto; ma quando fu
anche troppo evidente che, al contrario, ella aveva parlato con
perfetta serietà , e che probabilmente non avrebbe nemmeno
accennato
ad allontanarsi dalla finestra finché non avesse ottenuto
una
risposta, finalmente egli si schiarì la voce e fece
rapidamente
mente locale.
«Intendi
una targa
commemorativa, suppongo? Alla memoria dei Pokémon morti?
Beh, mia
cara... non me l'aspettavo, certo, ma non vedo perché no. In
effetti, sarebbe un gesto splendido da parte tua...»
«Non
voglio che sia da
parte mia» lo interruppe bruscamente Agatha, voltandosi
all'improvviso verso di lui. «Su questo non
transigerò. Io donerà
la targa e voglio che sia fatto tutto come dico io, ma la donazione
dovrà restare anonima e Lavandonia non dovrà mai
sapere che è da
parte mia. E sarà bene che anche lei ne rimanga fuori il
più
possibile, signor Firefly» soggiunse in tono eloquente.
«Tutti
sanno che lei si occupa dei miei affari, perciò renderebbe
troppo
facile risalire a me. Faccia solo il minimo necessario, siamo
intesi?»
«Bah!
Come vuoi,
Agatha» borbottò Firefly, seppur con l'espressione
di qualcuno che
avrebbe colto molto volentieri l'occasione di incensare un poco il
nome di famiglia grazie a quella targa. «Non vedo il motivo
di tutto
questa segretezza, anche se, certo, la beneficenza dovrebbe sempre
essere... Comunque, è un'ottima idea, mia cara. Ma
perché ci tieni
tanto?»
Con
voce
sorprendentemente fredda e dura, totalmente priva di qualsiasi
inflessione o cedimento, Agatha rispose: «Perché
se tra quelli ci
fossero i miei Pokémon, e io fossi morta e non fossi
più in grado
di provvedere a loro, mi farebbe piacere che qualcuno avesse
pietà
della loro memoria.»
Agatha
aveva parlato in
tono asciutto e distaccato e con calma davvero ammirevole, date le
circostanze; ma nonostante ciò, ella non era un automa
insensibile,
e l'emozione che le aveva infiammato il volto e acceso lo sguardo,
quelli non aveva potuto far niente per impedirli. Il signor Firefly
ne rimase vagamente colpito, ma con una punta di scetticismo, quasi
che quell'eccesso di ardore gli risultasse esagerato e inopportuno,
forse persino fastidioso, come una scena troppo patetica. Ne distolse
lo sguardo con ostentazione.
«L'incidente
ti ha
resa un po' troppo suscettibile, eh?»
Samuel
desiderò
improvvisamente tantissimo avergli tirato un pugno più forte
il
giorno precedente. La passione di Agatha come si poteva confonderla
con la fantasia nevrastenica di una ragazzina capricciosa?
«Comunque
sia, non mi riguarda. Avrai ciò che chiedi, ma ora
perché non mi
firmi quel maledetto assegno e mi lasci andare?»
La
sua indignazione
doveva esserglisi dipinta in volto nel momento in cui Firefly aveva
parlato. Passandogli accanto, Agatha gli posò una mano
discreta
sulla spalla per un momento, come a volergli suggerire che non valeva
la pena di prendersela, e tornando alla scrivania si chinò a
firmare
l'assegno.
Lo
passò al suo tutore
senza accennare a sedersi. Firefly lo studiò con
un'attenzione quasi
oltraggiosa, per accertarsi che Agatha non avesse fatto scherzi, e lo
ripose con cura nella tasca della giacca. «Il mio compito
è finito,
Agatha. Devo assolutamente scappare, ma ci accorderemo per la targa,
sì? A proposito, non mi hai detto dove potrò
contattarti. Visto che
stai in piedi, suppongo che ripartirete presto.»
Più
che una
supposizione, le sue parole sembravano piuttosto un'intimidazione, ma
Agatha non si scompose. «Sarò io a contattarla,
signor Firefly.
Fortunatamente, il suo indirizzo è sempre lo stesso da vari
anni.»
Il
suo ultimo tentativo
di allontanarla da Lavandonia, dal momento che proprio non era
riuscito a convincerla a sposarsi, era andato a vuoto, ma Firefly
accolse questo fallimento con notevole sportività. Richiuse
accuratamente la giacca sorridendo appena. «Bene
così, Agatha, dal
momento che non riesco a farti cambiare idea. Signor Oak»
soggiunse
in tono di saluto, ma degnandolo appena di uno sguardo. «A
presto,
Agatha. No, non disturbarti» soggiunse in fretta, vedendo che
Agatha
faceva per accompagnarlo. «Mi ricordo ancora da dove sono
entrato.
Buon proseguimento, signori miei.»
Dopo
un ultimo inchino
poco meno che derisorio, il signor Firefly uscì dalla stanza
senza
voltarsi indietro. Il suono dei suoi passi pesanti si
allontanò
lungo l'ingresso; poco dopo, una porta sbatté e un motore si
accese
rombando sul vialetto d'ingresso. Sì, Firefly, finalmente,
se n'era
andato.
Per
un po', nessuno di
loro parlò. Tornando a sedere alla scrivania, Agatha aveva
avvicinato a sé una grossa bottiglia d'inchiostro blu
dall'etichetta
piuttosto pretenziosa e aveva cominciato in silenzio a giocherellare
con lo stantuffo della stilografica con la quale aveva firmato,
svuotandone e riempiendone alternativamente il serbatoio senza alcun
motivo apparente. Non sembrava avere molto da dire. Per parte sua,
Samuel si sentiva la testa così piena di domande che gli
sembrava
proprio impossibile essere in grado di rimetterle in ordine, o anche
solo di sceglierne una sola.
Arcanine
avrebbe avuto
una sepoltura onorata, per quanto possibile. Dopo tutto ciò
che
aveva visto, Samuel avrebbe dovuto sentirsi abbastanza scettico e
disilluso a questo riguardo da non sentirsene minimamente toccato,
eppure, quando si soffermò a riflettervi, si sorprese di
sentirsene
così confortato. Una targa su una sepoltura comune non
avrebbe
potuto sottrarre nulla del suo dolore alla sua morte, poiché
Arcanine era morto nel modo meno umano che potesse esistere... ma
proprio per questo, forse stupidamente, l'idea che quella sepoltura
potesse restituirgli almeno una parte della dignità che
Arcanine
meritava lo riempiva di un grande calore. E Arcanine, col suo amore
vivace per tutto ciò che era umano e benevolo, avrebbe
apprezzato di
certo, se solo una porzione della sua anima fosse esistita ancora in
qualche luogo del creato.
Tutte
le domande e i
dubbi che quella conversazione aveva suscitato dentro di lui erano
ancora in subbuglio nella sua mente, ma almeno a questo pensiero
Samuel poteva dare voce. Accostandosi a lei, ancora seduta alla
scrivania, egli le posò una mano sulla spalla e
mormorò: «Grazie,
Agatha. A nome di Arcanine.»
Agatha
si voltò per
poterlo guardare in faccia, accennandogli un sorriso. Anche quel
giorno, dopo tutti i suoi atteggiamenti di sfida e di disprezzo,
sembrava d'improvviso enormemente stanca.
«Non
ringraziarmi,
Samuel. Non potevo lasciarli così, senza neppure una targa.
E poi,
se non fossi stata io, ci avrebbe pensato qualcun'altro.»
«Davvero?»
Samuel si
sentì perplesso dalla sua convinzione.«Come fai a
esserne così
sicura?»
Agatha
scrollò le
spalle, come se fosse qualcosa di così ovvio che non ci
fosse
neppure bisogno di spiegarlo; ma sembrava contenta di parlare con
lui, perciò Samuel non fece niente per ritirare la domanda.
«Le
famiglie ricche di Lavandonia hanno sempre fatto a gara in questo
genere di cose. Hai sentito quello che ha detto il signor Firefly:
Lavandonia se lo aspetta.»
Si
alzò faticosamente
in piedi, senza più curarsi di mascherare le sue
difficoltà, dal
momento che era sola con lui, e tornò ad accostarsi alla
finestra
per guardare fuori. Parlando di quell'argomento, il suo volto aveva
assunto una certa piega severa e un po' sprezzante, come se
disapprovasse molto quel modello di comportamento: «Se fosse
stato
qualcun'altro a donare una lapide per la sepoltura, molto
difficilmente avrebbe fatto una donazione anonima... e non volevo che
la loro sepoltura diventasse un modo per mettersi in mostra.»
Per
parlarne così,
Agatha doveva conoscere molto bene i meccanismi che muovevano i suoi
concittadini. Samuel annuì tra sé mentre si
sedeva alla scrivania,
sulla sedia da poco rimasta vuota. «Credevo che la gestione
fosse
interamente comunale.»
«Sì,
certo che lo è.
Ma Lavandonia è una città molto piccola, e si
è sempre trovata in
difficoltà davanti ai grandi disastri: anche mio
padre...»
Bruscamente, come se aver a malapena nominato suo padre fosse stato
un grave errore ch'ella si era ripromessa di non commettere
più, la
voce di Agatha ebbe un fremito e s'interruppe. Qualche secondo dopo,
quando ella fu ragionevolmente certa che Samuel non vi aveva prestato
una particolare attenzione, si affrettò a concludere quel
discorso:
«Insomma, tutte le famiglie più abbienti hanno
sempre collaborato
sotto forma di donazioni. La Torre è sempre stata un
problema
economico, è un monumento troppo imponente per una
città così
piccola... ma del resto, era una fondazione privata,
dopotutto.»
Questo
dettaglio gli
giungeva completamente nuovo: Samuel aggrottò la fronte
mentre
cercava di rielaborarlo. «Vuoi dire che non è
stata fondata con
fondi pubblici?»
«Beh,
no. Non lo
sapevi?» Agatha tornò a volgersi verso di lui,
appoggiandosi con la
schiena al davanzale della finestra, colle braccia strette attorno al
corpo ma l'espressione un po' più serena. Parlare del
più e del
meno sembrava distrarla un po'. «La città ha
incamerato la Torre
sotto forma di eredità dopo la morte della fondatrice. Era
un
lascito testamentario, o qualcosa del genere.»
Una
fondatrice.
All'improvviso Samuel sentì che qualcosa dentro di lui
sprofondava,
mentre un ricordo che fino a quel momento la sua memoria si era tanto
impegnata a reprimere e a passare sotto silenzio proprio
perché non
riusciva a comprenderlo tornava a occupare prepotentemente la sua
mente.
Sei
tornata a
prendermi?
«Vuoi
dire che a
fondare la Torre è stata una donna?»
esclamò angosciosamente.
Colpita
dall'urgenza
che sembrava animare la sua voce, in modo del tutto improvviso e
immotivato, Agatha lo guardò interrogativamente.
«Va tutto bene,
Samuel?»
«È
stata una donna?»
insisté Samuel, senza neppure badare alla sua confusione.
Possibile
che quella soluzione fosse sempre stata lì, sepolta nella
miniera
dei suoi ricordi sin da quella notte, e che egli non vi avesse mai
prestata attenzione? Il sepolto vivo aveva creduto di parlare con
una donna!
«Sì,
è stata una
donna, ma... Samuel, c'è qualcosa che dovrei
sapere?»
L'eccitazione
che lo
aveva animato tanto intensamente in così poco tempo si
spense di
fronte all'intransigenza della voce di Agatha: nella sua
severità e
nella sua confusione, ella torreggiava ora su di lui implacabilmente,
senza lasciargli scampo. Agatha non aveva sentito le parole del
sepolto vivo, quella notte, ma aveva capito che c'era qualcosa che,
all'improvviso, lo aveva colpito, e ora voleva sapere.
L'impeto
che lo
scuoteva si spense prima di raggiungere le sue labbra. Forse
ho
capito, forse possiamo scoprire chi era il mostro che ci ha fatto
questo, avrebbe voluto dirle; ma proprio prima di poterle
parlare, d'improvviso tutto ciò che stava per dirle gli
parve un
ultimo colossale inganno, e si fermò.
«No,
io... va tutto
bene, Agatha. Era solo stupito che una donna...» Si
passò una mano
tra i capelli per riprendersi dallo stupore, e proseguì:
«Insomma,
è successo tanto tempo fa, e credevo che, allora... Voglio
dire, mi
è parso strano.»
Lo
sguardo di Agatha
che lo scrutava percorse interamente il suo viso, soffermandosi sui
suoi occhi. Non gli aveva creduto, ovviamente – e come
credergli? -
eppure, per qualche strano motivo, ella non lo aggredì, non
lo
incalzò, non fece niente.
«Ne
sei certo,
Samuel?»
Tutto
era confuso e
tutto si mescolava nella sua testa: le parole del sepolto vivo e le
fiamme abbaglianti della battaglia, e ora quella nuova informazione
che Agatha gli dava con tanta semplicità: c'era una donna!
Ma ora
che egli si soffermava a riflettervi e cercava di districare, in
quella caligine nebulosa che gli offuscava la mente, la
verità,
l'unico pensiero che gli tornava insistentemente alla mente e che
egli non riusciva a reprimere era che nulla di quanto avrebbero
potuto scoprire avrebbe cambiato le cose.
«Ne
sono certo.»
Senza
troppa
convinzione, Agatha indietreggiò un poco, allontanandosi di
qualche
passo dalla sedia, ma senza distogliere lo sguardo da lui. Samuel
ebbe l'impressione di ritrovare aria solo in quel momento.
«Samuel»
disse Agatha
dopo un po', ma con calma. La sua voce era tesa e cauta come una
corda tesa sin quasi a spezzarsi, ma ella era sorprendentemente
fredda e lucida. «Mi fido di te. Non m'interessa quale sia la
verità, ma qualunque cosa mi dirai, ti crederò.
C'è qualcosa che
pensi che dovrei sapere?»
Se
in quel momento egli
le avesse rivelati i suoi sospetti, avrebbero potuto indagare. Quella
casa era piena di libri, alcuni dei quali molto vecchi, e di certo
qualcuno doveva pur contenere qualche informazione su... e
quand'anche tutti quei libri non avessero parlato di nient'altro che
dell'esercito e della marina, egli era certo che ogni altro archivio
entro Lavandonia avrebbe potuto parlar loro del sepolto vivo. Ma il
punto era un altro: valeva veramente la pena di sapere?
Era
stato proprio il
voler saper troppo che li aveva trascinati all'inferno. Ora non c'era
più niente da temere, certo, ma tornare a rimestare ancora
tra quei
segreti perduti nel tempo, non sarebbe stato esattamente come far
sì
che Arcanine fosse morto proprio per niente? E quand'anche, poi,
avessero scoperto... forse che sapere chi quell'uomo era stato
avrebbe potuto cambiare ciò che era successo e farli tornare
da
loro? Sapere che il sepolto vivo era stato un uomo normale,
una volta, un uomo proprio come loro, e che magari era stato
ingannato da una donna che aveva promesso di tornare a prenderlo,
avrebbe forse potuto dar loro pace?
Raddrizzando
le spalle
sulla sedia, Samuel lasciò che per l'ultima volta quelle due
figure
misteriose, quelle di un uomo e di una donna, si perdessero negli
abissi del tempo. Sostenendo a testa alta lo sguardo di Agatha, egli
rispose con decisione: «No, Agatha. Non c'è nulla
che valga la pena
sapere.»
Alla
cerimonia della
posa della targa partecipò un numero curiosamente esiguo di
persone,
rispetto alla grande affluenza dell'apertura dei lavori; ma questo,
stando ad Agatha, era normale. Lavandonia celebrava il culto
ossessivo della Torre solo nella misura della sua
monumentalità e
del motivo di vanto che essa costituiva in tutta Kanto; ma quanto
alle funzioni cultuali che vi si svolgevano e a tutto ciò
che
riguardava il raccoglimento e l'idea stessa della mortalità,
la
città preferiva non soffermarsi a riflettere troppo.
Dopotutto, essi
sapevano meglio di chiunque altro quanto fosse pericoloso guardar
troppo a fondo dentri certi misteri, e lo sapevano per averlo
imparato a proprie spese.
Vi
presero parte tra le
prime file, poiché sarebbe stato impensabile che l'ultima
rappresentante di una famiglia di tale rilievo sedesse in disparte o
tra le ultime file; ma tutti coloro che diedero segno di riconoscerla
la salutarono con una certa freddezza, e più di una signora,
dopo
averla soppesata per un momento, fece finta di non averla vista. Di
certo, notò Samuel con una certa soddisfazione, Agatha non
faceva
niente per ingraziarsi l'opinione del resto della popolazione:
rispose a chi le aveva mosso un cenno di saluto con altrettanta
freddezza, ma quanto al resto ignorò chiunque.
Quella
era la prima
volta che usciva dopo la tragedia. Quando era scesa dabbasso, vestita
da uomo come il giorno precedente, avanzando lentamente ma con
l'equilibrio malsicuro di chi sia ancora convalescente dopo una
brutta ferita, Samuel si era domandato con preoccupazione se fosse
prudente che si stancasse tanto proprio la prima volta che tornava a
uscire di casa, e proprio per tornare là;
ma ovviamente
impedirle o anche solo sconsigliarle qualcosa era impensabile, e in
fin dei conti egli era certo che, una volta che fossero usciti,
Agatha non avrebbe permesso a nessuno di vederla debole o stanca.
Chissà
perché, quel
giorno era soprendentemente bella, persino vestita da uomo, con
aderenti pantaloni a vita alta e i capelli pettinati, o quantomeno
sistemati in un'acconciatura elegante dalla quale continuavano
inistentemente a sfuggire i suoi ricci ribelli. Era ancora
mortalmente pallida, ma quantomeno le occhiaie pesanti attorno ai
suoi occhi, da qualche giorno, si erano attenuate.
La
cerimonia fu una
tortura, ma fu breve. All'interno della vasta sala affollata l'aria
era torrida e soffocante, malgrado le finestre spalancate; ma
quand'anche la giornata non fosse stata tanto calda, era evidente che
nessuno provava alcun vero interesse per il discorso del sindaco.
Tutto ciò che si poteva dire dell'oltraggio alla Torre era
già
stato detto all'apertura del cantiere, e quella, dopotutto, per chi
non aveva perduto qualcuno nell'incendio, era solo una targa. Il
sindaco si limitò a dire lo stretto necessario, col volto
lucido per
il caldo e l'espressione di chi non vedesse l'ora di concludere
quell'incombenza noiosa: dopo qualche parola ben spesa sulla
generosità dell'anonimo donatore e il significato universale
del
ricordo dei defunti, scoprì la targa e accennò
agli operai di
procedere. Per quanto lo riguardava, Samuel trovava che andasse
più
che bene così.
Al
termine della
cerimonia, quasi tutti si mostrarono assai impazienti di lasciare la
sala il prima possibile. Dopo l'ultimo applauso vi fu uno stridio
collettivo di sedie spostate mentre tutti si affrettavano ad alzarsi
in piedi, e solo per qualche minuto ci si trattenne a conversare e a
scambiarsi commenti e apprezzamenti, o persino a osservare la targa
con compunzione, per non dare l'impressione di voler sfuggire senza
riserve dall'aria tetra e irrespirabile della Torre; ma poi,
finalmente, la folla cominciò a defluire dalla sala come
acqua che
si abbassa, dapprima insensibilmente, poi più rapidamente a
misura
che ciascuno si accorgeva che tutti se ne andavano; e poi non rimase
quasi nessuno.
Qualcuno
si era fermato
a pregare, ma nell'intimità della propria solitudine, e
doveva avere
perciò atteso proprio che la folla disinteressata si
dileguasse per
poter rimanere un po' in pace, in silenzio, a pensare. Qua e
là,
molto isolate nella vasta sala dalle volte ricurve, Samuel scorgeva
le loro figure remote che si aggiravano in silenzio, rispettosamente,
e talora si inginocchiavano per pregare.
Dopo
lunghe esitazioni,
Agatha aveva deciso di far scolpire una scritta molto semplice, di
pura commemorazione del disastro, senza alcun riferimento che potesse
far intendere una maggiore partecipazione emotiva da parte del
donatore; eppure, al di sotto della fredda apparenza indifferente di
quelle parole, In memoria dei defunti..., Samuel
aveva
l'impressione di sentirle vibrare di tutto il vigore bruciante
dell'anima di Agatha, che scalpitava più forte proprio
perché non
poteva esprimersi ad alta voce.
«Sono
sicuro che
avrebbero apprezzato» mormorò appena, tanto piano
che nessuno al di
fuori di lei avrebbe potuto capire se per caso gli fosse capitato di
ascoltare.
Ma
Agatha non diede
alcun segno di averlo udito. Stava guardando la targa, con tale
intensità e con tale ardore, ch'era come se i suoi occhi
potessero
vedere qualcosa al di là del marmo, ed ella stessa credesse
di
potervi sprofondare; ma di più, non la stava solo guardando
– la
stava ascoltando, e le stava parlando,
e guardandola
Samuel provò per un attimo la strana sensazione che, su
quella
targa, ella avesse riversato più sentimenti di quanti gliene
avesse
lasciati intendere sino ad allora. La sua donazione era stata davvero
dettata solamente dalla volontà di dare loro pace?
Finalmente
anche quel
breve incanto finì. Con gli occhi ancora vacui ma che a poco
a poco
riacquisivano luce, Agatha posò una mano sulla lapide e si
concesse
di accarezzarla a lungo; e infine, come riscutendosi da un sogno,
ella se ne ritrasse lentamente, quella strana corrispondenza si
spezzò, si spense, e sollevando su di lui occhi che
finalmente
tornavano a vederlo, Agatha gli si accostò maggiormente e
mormorò:
«Possiamo andare, se vuoi.»
A
quella lapide che
celava le ceneri del suo Pokémon scomparso Samuel non aveva
proprio
niente da dire. La prospettiva di una sepoltura onorata lo confortava
oltre ogni immaginazione, ma questo era tutto ciò che la
targa
significava per lui; e quel luogo non aveva per lui altra attrattiva,
poiché il ricordo di Arcanine lo avrebbe accompagnato
sempre, e non
gli sarebbe in nessun caso stato possibile circostriverlo a quel
luogo soltanto. Quanto a pregare, Samuel dubitava di poterne trarre
alcuna pace.
All'esterno
della
Torre, l'aria era ancora bollente, ma meno irrespirabile che
all'interno. Samuel la respirò a pieni polmoni, con
gratitudine, e
se ne beò a occhi chiusi per qualche momento.
Eppure
Agatha sembrava
ancora pensosa, come se non fosse ancora uscita dalla Torre. Teneva
gli occhi bassi, col capo reclinato sulla spalla, e il suo sguardo
per lui assente era asperso di una tale dolorosa concentrazione, che
tentare d'infrangerla gli parve pericoloso, come se entrandovi in
contatto fosse possibile ferirsi. Ma lasciarla sola e senza aiuto gli
sembrava ancora più pericoloso che parlarle, e toccandole
cautamente
la mano Samuel mormorò: «Ehi.»
Sottraendosi
a fatica
da quei pensieri che minacciavano di catturarla e avvincerla, Agatha
si sforzò di sorridergli. Era un sorriso stanco,
notò Samuel,
penosamente tirato sul suo volto emaciato che ancora non si era
ripreso dalla lunga convalescenza, certo; ma era il sorriso di
Agatha, la cui dolcezza riusciva ancora, malgrado tutto, a estendersi
ai suoi occhi. Sentendosi incoraggiato da quel sorriso che gli
indicava che Agatha era ancora lì per lui –
lì, all'interno della
sua mente – Samuel aumentò un poco la stretta
sulla sua mano e
proseguì: «Stai bene?»
Certo
che no, che
domanda sciocca. Ma Agatha comprese egualmente quanto significasse
per lui questa domanda e senza guardarlo, come anticipando una
risposta che era di là da venire, disse in tono
perfettamente neutro
e privo d'intonazione: «Facciamo una passeggiata.»
No,
non andava tutto
bene, eppure Samuel non riusciva proprio a intuire, attraverso la
strana tonalità della sua voce, che cosa c'era esattamente
che
Agatha volesse dirgli. Camminando, Agatha si appoggiava ancora al suo
braccio, come i primi giorni dopo la sua ferita, ma leggermente, e il
peso suo peso era leggerissimo e privo di qualsiasi abbandono. Per un
po' camminarono in silenzio, tutti immersi nella luce e nel calore
del giorno, e attraversarono con calma il centro della
città.
Lavandonia era particolarmente vitale, quel giorno: in una piccola
piazza un po' isolata, ombreggiata in parte da un folto pergolato
ombroso, due ragazzi di qualche anno più giovani di loro si
stavano
sfidando coi loro Pokémon, ma più per passatempo
che in modo serio,
e attorno a loro s'era raccolta una piccola folla di bambini eccitati
e persino qualche più maturo amatore. Attraverso la folla
accalcata,
Samuel non riusciva a vedere di che Pokémon si trattasse, ma
mentre
passavano udì urlare distintamente: «Pidgeotto,
Agilità!»
«Sediamoci
qui»
propose, accennandole col capo una panchina in piena ombra, avvolta
dall'atmosfera fresca e semibuia del pergolato, e Agatha non fece
obiezioni. Tutta presa dall'interesse per la piccola sfida, la gente
era in quel momento troppo distratta per badare a loro, ed essi
avrebbero quantomeno potuto star seduti con calma per qualche minuto
senza che Lavandonia si soffermasse a guardarli con disapprovazione.
Vista
da quella
prospettiva, da una fresca panchina di pietra collocata in piena
ombra, e circondati dal vociare gioioso della folla che assisteva
alla lotta, Lavandonia non era poi diversa da qualsiasi altra
città
ch'egli avesse visitato negli anni precedenti. Appoggiandosi con la
schiena al rigido schienale scolpito della panchina, socchiudendo gli
occhi, Samuel provò a figurarsi quella città in
modo diverso,
unicamente come la vedeva ora, solare e vivace, e pensò che
forse
era così che sarebbe stata sempre, ora che il sepolto vivo
non
esisteva più.
«Mr.
Mime, usa
Sostituto!»
«Vorrei
ripartire,
Samuel.»
Era
di questo che si
trattava, dunque. Riaprendo bruscamente gli occhi, Samuel si volse
verso di lei, che in quel momento era china in avanti, coi gomiti
puntati sulle ginocchia, e guardava fissamente davanti a sé.
Dalla
sua posizione, ovviamente, ella non poteva vedere l'esito dello
scontro più di quanto vi riuscisse egli stesso; ma
ciò che ella vi
scrutava tanto intensamente, egli lo sapeva, era la lotta,
lo
scontro assoluto e totale, del tutto indipendente dalla singola
contingenza di quella lotta e di quello scontro.
Le
sue parole non
l'avevano sorpreso tanto quanto avrebbero dovuto, forse
perché,
dopotutto, una parte di lui aveva sempre saputo che Agatha non aveva
cessato, come lui, di essere un'allenatrice nel momento stesso in cui
erano morti i suoi Pokémon. Si limitò ad annuire.
«Era per questo
la targa, dunque.»
Agatha
accennò appena
un segno d'assenso col capo, stancamente, ma il suo sguardo era colmo
di gratitudine, come se gli fosse grata di esser stato lui a dirlo ad
alta voce. «Non potevo lasciarli così, insepolti,
senza salutarli.
Almeno questo glielo dovevo, prima di andarmene.»
Erano
parole vacue,
parole vane, Samuel lo sapeva: Nidoking, Tentacruel e Vileplume erano
morti come lo era Arcanine, e le loro anime non trovavano
più spazio
in alcun luogo dell'universo: le loro volontà e il loro
amore non
esistevano più, ma Samuel sentì egualmente di
doverglielo dire.
«Sono certo che vorrebbero la tua
felicità.»
Con
sguardo
insolitamente deciso e l'espressione serena e consapevole e priva di
qualsiasi traccia di dubbio, Agatha rispose: «Già,
lo sono
anch'io.»
Da
qualche parte in
mezzo alla folla si levò una forte raffica di vento e il
Pidgeotto
si sollevò a mezz'aria nella foga della battaglia. Per
quanto
intensamente guardasse in quella direzione, però, Agatha non
lo
vedeva.
«Tu
sapevi che
Nidoking ha scelto di morire?»
Se
la sua decisione se
l'era aspettata, quest'informazione per lui era decisamente nuova.
Samuel rimase in silenzio per svariati secondi, aspettandosi una
spiegazione che facesse da complemento a quelle parole, ma quando fu
chiaro che non ve ne sarebbe stata alcuna, si decise a domandare:
«Che cosa?»
«Non
ha voluto
rientrare. Quando l'ho richiamato, quella notte...» Samuel lo
ricordava bene: decine di raggi rossi che balenavano nel buio,
folgorando invano l'aria, e le urla strazianti di Agatha che lo
imploravano, lo supplicavano di rientrare. «È
stata una sua scelta.
Lui non l'ha voluto.»
Il
ruggito sofferente
di Nidoking che veniva stritolato dalla morsa della pallida mano non
era l'ultimo dei ricordi che avrebbero vegliato per sempre i suoi
incubi: Samuel non ebbe bisogno di concentrarsi per richiamare alla
memoria quel momento. Sì, egli ricordava bene tutti i
tentativi
della Pokéball che andavano a vuoto, ma non se n'era stupito
affatto, poiché fin troppe volte gli era capitato, nella sua
carriera di allenatore, di rimanere intrappolato con la sua squadra
in qualche campo di battaglia da una mossa che gli avesse reso
impossibile fuggire. Doveva aver pensato che la stretta formidabile
della mano avesse più o meno lo stesso effetto di un
Avvolgibotta,
ma ora Agatha gli veniva a dire che, in tutto questo, Nidoking aveva
soltanto disobbedito e si era rifiutato di tornare da lei. Sapeva
bene che non c'era modo di confondere i due eventi: il piccolo
strattone che la Pokéball sembrava avere quando un
Pokémon si
rifiutava di obbedire era completamente diverso dalla piena
immobilità della sfera che corrispondeva a un richiamo
andato a
vuoto, e Samuel conosceva la differenza per aver avuto un
Pokémon
testardo e selvaggio come Gyarados, che ancora continuava
saltuariamente a disobbedire dopo anni da quando egli era riuscito a
domarlo...
Nidoking
era rimasto
sul campo ad affrontare la morte perché sapeva di essere
l'unico
ostacolo che ancora si ergeva tra Agatha e il sepolto vivo. Samuel
non riusciva neppure a immaginare quale portata di colpevolezza e
responsabilità tutto questo comportasse per lei, ma tornando
a
reprimere con forza quei ricordi ai margini della sua coscienza,
rispose: «Nidoking ti amava moltissimo.»
«È
così» disse
Agatha a bassa voce. «E anche Vileplume e Tentacruel, anche
se non
ho fatto in tempo a cercare di richiamarli. È per questo che
non
posso gettar via il loro sacrificio, Samuel» soggiunse poi,
con la
massima gravità possibile nello sguardo; e Samuel comprese
che in
fin dei conti era questo ch'ella aveva veramente voluto dirgli sin da
quando erano usciti dalla Torre. «Loro hanno fatto di tutto
perché
io sopravvivessi, Samuel. Che cosa direbbero se dopo aver tanto
lottato, se dopo tutto quello che hanno fatto per me, io tornassi a
chiudermi in quella casa da cui ho faticato tanto a scappare?»
Qualsiasi
forma di
approvazione o di sostegno alle sue parole sarebbe stata vana e
sterile e non avrebbe avuto alcun significato: la decisione di Agatha
era stata presa nel momento in cui Nidoking si era sacrificato per
salvarla. Non c'era altro da dire.
A
pochi metri da loro,
l'aria si rischiarò del bagliore rosato di uno Psichico, e
il
Pidgeotto che poco prima si era levato in volo gettò uno
stridulo
grido di protesta. Samuel fece cenno di aver capito. «Quando
intendi
ripartire?»
«Domani»
rispose
Agatha a bassa voce, guardandolo fissamente come se si aspettasse una
sua reazione; ma Samuel non ne ebbe nessuna. Era giusto
così: se si
doveva ripartire, meglio farlo il prima possibile, senza
ripensamenti. E poi, a che rifletterci troppo? Forse che sarebbe
cambiato qualcosa, se fossero rimasti più a lungo in quella
misera
cittadina angusta? (E a far che, poi?) Ma come se ancora non fosse
certa della sua opinione, e volesse una risposta più
concreta del
tacito silenzio d'assenso ch'era tutto ciò che egli le
offriva,
Agatha insisté: «Ho bisogno di sapere se sei
disposto a venire con
me.»
Affrontare
di nuovo un
viaggio, ma senza la sua squadra, aiutare Agatha a catturare nuovi
Pokémon e poi seguirla e sostenerla lungo l'infinito
percorso che si
stendeva davanti a loro verso un incerto futuro. Soffocando lo strano
sentimento di sconforto che questa prospettiva gli causava, Samuel
allungò una mano e le scompigliò i capelli.
«Scema»
disse.
Il
pallore di Agatha si
colorì del suo sorriso.
Si
erano alzati prima
dell'alba, in una Lavandonia ancora grigia e fresca e meno soffocante
che durante il giorno. Affacciandosi alla finestra della sua stanza,
Samuel aveva visto in lontananza biancheggiare ancora di nebbia la
vasta schiena del mare, dove forse appena una brezza lievissima
increspava le onde in superficie.
Quando
era sceso
dabbasso, aveva trovato Agatha già sveglia, tutta presa da
un senso
d'angoscia e attesa. Indossava ancora un completo di foggia maschile,
con morbidi calzoni blu che si stringevano eccessivamente attorno
alla sua vita smagrita, e rimaneva immobile davanti alla finestra
della cucina, colle mani aggrappate al davanzale. Guardava fuori, ma
i suoi occhi non si volgevano verso il mare, e neppure verso la
luminescente aurora che infiammava la possenza dei monti. Samuel si
era chiesto se rimanesse ancora spazio per la bellezza in lei.
Esisteva ancora in lei, da qualche parte, l'Agatha gioiosa e vitale
che aveva ammirato per ore, senza volersene staccare, la meraviglia
senza tempo di Articuno? O forse quel rancore che in lei era sempre
esistito, e che egli aveva accettato con naturalezza, come aveva
accettato i suoi capricci e il suo coraggio, si stava nutrendo del
suo dolore tanto da acquisire in lei più forza della vita?
Non
aveva acceso la
luce, forse per non richiamare l'attenzione del pase, o almeno di
qualche singolare paesano che fosse già sveglio a quell'ora,
ma la
scarna luce livida del mattino era già sufficiente a
illuminare in
parte il suo profilo. Samuel aveva distinto occhi smisuratamente
grandi sul pallore del volto, scure ombre dolorose che scavavano e
approfondivano la sua bellezza ancora quasi infantile, la curva
angosciosa delle altere sopracciglia contratte e labbra dischiuse che
s'impedivano di tremare. Tutto in lei parlava di dolore,
pensò
Samuel osservandola dalla porta, ma di una sofferenza dura e
statuaria, più inaccessibile della vetta di un monte, che si
era
fatta carne e non poteva più profondersi in lacrime.
Agatha
si era accorta
di lui solo dopo qualche momento, forse per aver percepito una
diversa tonalità nel silenzio che la circondava, o per aver
avvertito l'impercettibile suono del suo respiro. Si era riscossa
dalla sua contemplazione come da un interminabile sogno, lentamente,
e altrettanto lentamente si era voltata; ma finché non si
erano
posati su di lui, i suoi occhi erano rimasti colmi ancora del suo
sogno, trabordanti tanto ch'egli aveva creduto di poterne leggere il
suo pensiero. Poi il suo sguardo si era posato su di lui, quasi con
voluttà di riposo, ed ella era finalmente riemersa dal
ricordo di
quella notte ed era tornata da lui.
Per
qualche istante
Agatha aveva come combattuto l'impulso di domandargli s'egli fosse
davvero deciso, o di ricordargli che su di lui, se si fosse tirato
indietro anche solo in quel momento, ella non avrebbe rivendicato
alcun diritto; ma poi la sola idea di mettere in dubbio la sua
decisione, che già di per sé era divenuta
evidente nel fatto stesso
ch'egli si era presentato al loro incontro, le era parsa offensiva, e
aveva lasciato perdere.
«Hai
fame?» aveva
domandato invece, colle dita ancora nervosamente strette attorno al
piano della cucina e gli occhi infissi su di lui, quasi a voler
percepire il suo stato d'animo da tutto ciò che a voce non
si poteva
esprimere: forse la piega delle labbra, o la postura delle spalle, o
qualcos'altro ancora, che agli occhi era invisibile ma che lei,
egualmente, avrebbe visto.
«No»
aveva risposto.
Sentiva l'ansia stringersi in una morsa proprio alla bocca dello
stomaco, e neppure volendolo avrebbe potuto mangiare.
Non
c'era stato
nient'altro da dire, nient'altro che Agatha avesse potuto trovare da
chiedergli per poter prolungare quel momento di ancora un istante
senza esser costretta a dirgli ciò che davvero avrebbe
voluto: che
non era tenuto a seguirla, che lei comunque gli era grata; che...
Ma
rimandare ancora non
avrebbe avuto senso, ed erano usciti.
Avevano
attraversato la
città come spettri, in silenzio e senza neppure guardarsi,
accontentandosi di percepire l'uno la presenza dell'altra attraverso
l'aria solamente. Senza voltarsi, guardando dritto davanti a
sé e
sforzandosi d'ignorare il suono lieve del suo respiro, Samuel avrebbe
potuto credere d'esser solo e abbandonato in tutta Lavandonia... ma
non era così, e quand'anche egli non fosse riuscito a udirlo
e
neppure a percepirlo nell'aria scura e impenetrabile tutta attorno a
lui, egli ugualmente avrebbe capito, e non avrebbe potuto nutrire
alcun dubbio sul fatto che l'ardore di Agatha fiammeggiasse troppo
intensamente perché la paura potesse trattenerla.
In
piena notte, il
cantiere deserto sembrava semplicemente immenso. Si erano insinuati
attraverso le transennature, sgusciando appena tra i macchinari a
riposo, e avevano strisciato lungo il muro della Torre camminando con
difficoltà sul terreno smosso di fresco.
La
porticina si era
aperta senza alcun problema. Al di là di essa si stendeva il
vasto
piano terreno della Torre, ma quando Samuel era entrato, e dopo
lunghi istanti di angosciata apnea finalmente aveva ricominciato a
respirare, quell'odore familiare ch'egli ricordava anche troppo bene,
odore di cera e incenso e di fiori lasciati a imputridire nell'acqua
da ormai qualche giorno, non c'era. Quel giorno, la Torre era stata
così affollata e caotica che non sarebbe stato neppure
possibile
percepire quell'odore, in mezzo a una folla di signore profumate e di
signori in acqua di colonia, e al di sopra dell'aria troppo calda ma
ventilata che spirava dalle finestre spalancate; ma ora era deserta,
e proprio il silenzio tombale che vi aleggiava incoraggiava gli altri
sensi. Curiosamente, egli si era reso conto di essersi aspettato di
trovare quell'odore ad attenderlo solo in quel preciso momento in cui
l'aveva assalito il sollievo per non averlo trovato, e forse era
meglio così. La sala odorava ora di intonaco e calce e della
polvere
smossa dei lavori, e di quel misero evento che sembrava serbar di lui
tanta pietà egli si sentì smisuratamente grato.
All'interno
della
Torre, dove nessuno poteva più vederli, Agatha si era
abbassata
sulle spalle lo scialle con cui si era coperta i capelli –
malgrado
l'ora, Samuel aveva insistito, poiché era certo che se
qualcuno li
avesse visti, non avrebbe avuto alcuna difficoltà a
distinguere
persino nella notte la crespa nube dei suoi capelli scomposti
– e
avevano raggiunto a tentoni il piano di sopra. Più su,
Samuel aveva
messo bene in chiaro che non solo non l'avrebbe seguita, ma le
avrebbe impedito di andare, anche a costo di trascinarla di peso
giù
per le scale; e Agatha aveva capito.
Vederla
avanzare ora
tra le tombe, nella luminescenza dell'alba appena un po' più
intensa
e meno livida di quella della luna piena, lo riempiva d'ansia e di
ricordi e di spavento: per impedire a se stesso di afferrarla e di
stringerla, di portarla via da quel luogo orribile in cui i loro
Pokémon erano morti, Samuel si era aggrappato alla
superficie
levigata di una lapide, con tanta forza che quasi si era meravigliato
che le sue dita non penetrassero attraverso il marmo come fosse
carne, e aveva aspettato.
Agatha
aveva camminato
tra le lapidi in silenzio, col volto concentrato e tutto preso da
quel momento. Non si era mai allontanata molto da lui, e anzi
più
volte si era voltata a cercarlo, ma non perché non fosse
certa di
quanto si fosse allontanata da lui, o perché volesse
assicurarsi che
egli non l'avesse abbandonata; ma nei suoi occhi senza luce, che lo
vedevano senza soffermarsi su di lui, Samuel vedeva specchiarsi il
medesimo incubo che lo avvinceva, e allora era certo che ella lo
cercava con lo sguardo e lo ritrovava perché aveva bisogno
di sapere
di essere sveglia e che tutto era reale.
Gastly
era arrivato
dopo lunghi interminabili minuti di attesa, proprio quando sembrava
ormai diventato tutto inutile e insperabile. Samuel non l'aveva visto
subito, forse perché non ne aveva mai visto uno, e per
questo motivo
non sapeva precisamente che cosa aspettarsi, o forse soltanto
perché
era buio: tutto ciò che aveva visto, in quella lunga notte
che
volgeva al mattino, era l'improvvisa rigidità di Agatha,
come s'ella
si concentrasse per un momento per capire da dove venisse quel rumore
che aveva sentito – o forse quella sensazione che aveva avuto
– e
poi, al di là della sua figura, una nube scura e indistinta,
stagliata contro la finestra. Ma ecco, proprio quando Samuel
finalmente aveva levato lo sguardo su quella finestra, e aveva
distinto l'informe sagoma inconoscibile che spiccava per contrasto
contro la luce dell'esterno, egli per un attimo aveva avuto la stessa
impressione di Agatha, e subito dopo quell'impressione era divenuta
consapevolezza: quella nube aveva occhi che lo scrutavano...!
E
poi, e poi. Non c'era
quasi nulla che valesse la pena ricordare di quel momento. Agatha si
era mossa con rapidità sconcertante, molto più
rapida del suo
impulso di correre in suo soccorso: la sua mano non aveva esitato un
solo istante, e quando il lampo della Pokéball che si apriva
per poi
richiudersi subito dopo aveva illuminato a giorno il suo viso, egli
aveva visto i suoi occhi seri e concentrati e le sue labbra serrate
in una linea dura e determinata che non lasciava spazio
all'incertezza.
E
poi, e poi. Le
catture si erano susseguite rapidamente e con via via maggior
sicurezza, a misura che i Pokémon si erano avvicinati
incuriositi
dalla loro presenza , e forse persino un po' intontiti dopo tutti i
lavori e il caos che avevano animato la Torre negli ultimi giorni, e
la mano di Agatha aveva saettato nel buio ancora e ancora. Vi era
stato un momento soltanto, in quella sequenza di lampi di luce, in
cui Samuel aveva provato una fitta di panico, e staccandosi dalla
lapide al quale si era aggrappato si era ritrovato alle sue spalle: a
un tratto, un esemplare particolarmente grosso – o quantomeno
una
nube gassosa particolarmente estesa – si era liberato
sibilando
dalla Pokéball e si era scagliata contro di lei... eppure,
come al
solito, Agatha si era rivelata molto più all'altezza della
situazione di quanto egli si ostinasse a considerarla. Senza
permettere a se stessa di arretrarsi solo di un passo, ma
fronteggiando ancora a testa alta il suo nemico, aveva agito senza
esitare, e dopo un ultimo lampo di luce e una breve serie di
oscillazioni, la Pokéball si era richiusa.
Avevano
lasciato
Lavandonia quel mattino stesso, senza neppure tornare alla vasta casa
vuota, mentre la cittadina cominciava a svegliarsi e a stiracchiarsi,
in procinto di dedicare un'altra giornata a vivere in funzione del
suo enorme parassita, e si erano diretti verso ovest, dove cresceva
Zafferanopoli dalle strade color di croco. Scegliere una prima tappa
così vicina per riprendere il loro viaggio si era rivelata
una buona
idea: Samuel stesso, che pure non aveva altra infermità che
quel
mese di ozio forzato – era la prima volta da quando era
partito che
si fermava tanto a lungo nel medesimo luogo – si era sorpreso
di
arrivare a Zafferanopoli molto più stanco e dopo molto
più tempo
del normale; quanto ad Agatha, egli aveva potuto leggere il dolore
accrescersi e avvicendarsi alla stanchezza sul suo volto, a misura
ch'esso sbiancava o si arrossava o che la sua fronte s'increspava; ma
ella non si era mai lamentata.
Dopo
Zafferanopoli, le
città e i percorsi si erano susseguiti senza sosta. Quando
si
soffermava a riflettervi, nelle lunghe notti gelide in cui stentava
ad addormentarsi, Samuel sbigottiva di quanta strada avessero
percorso.
Erano
avanzati molto
lentamente, all'inizio. Per Agatha, quella era la prima volta dopo
anni che combatteva con Pokémon diversi dalla squadra alla
quale era
abituata, e per i primi tempi – anche s'ella non l'avrebbe
ammesso
mai ad alta voce! - Samuel aveva letto nei suoi occhi tutta la guerra
d'amore e di dolore che scatenavano in lei i suoi nuovi
Pokémon.
Agatha si era imposta di sopravvivere a quel
dolore perché
non farlo sarebbe stato offendere la memoria e il sacrificio della
sua squadra, e non avrebbe ammesso a nessun costo che quell'impegno
segreto che non si poteva tradire era forse troppo grande di lei; no,
non avrebbe confessato mai che tutta una parte intera di lei non
avrebbe voluto affatto andare avanti, e che quella vita non valeva
più niente, che il suo sogno era divenuto irrealizzabile e
privo di
significato da quando loro...! Proprio guardare quei nuovi
Pokémon
che si era scelta le ricordava ogni giorno di più che quelli
che
erano stati i suoi non c'erano più, che non sarebbero
tornati mai
più da lei; e proprio questo la riempiva di un grande dolore.
Samuel
ricordava
precisamente il momento in cui Agatha,
all'improvviso, si era
innamorata di loro e li aveva accettati.
Non
c'era voluto più
di un istante, dopo mesi di lotta e di conflitto e di pianto; o
meglio, mesi di guerra e confusione erano culminati sublimandosi in
quel solo attimo, e da allora Agatha aveva smesso di lottare con se
stessa.
Era
accaduto durante
una di quelle rare sere in cui Agatha aveva fatto uscire i suoi
Pokémon dopo cena, mentre sedevano in silenzio attorno al
fuoco,
poco a ovest di Fucsiapoli. L'estate non era ancora finita, certo, ma
le giornate cominciavano già ad abbreviarsi, e a quell'ora,
a breve
distanza dal mare, la notte era fredda.
Agatha
aveva accettato
di buona grazia il giubbotto che Samuel le aveva offerto, e ora
sedeva in silenzio con lo sguardo perdutamente infisso nel fuoco,
preso come da pensieri tutti suoi. Aveva la fronte penosamente
aggrottata, con le braccia conserte sul petto con forza, e le fiamme
che si avvicendavano per salire al cielo davanti a lei tratteggiavano
sul suo viso nere ombre mutevoli e ognora cangianti, alterando a ogni
momento le la luminescenza dei suoi occhi. Proprio su di essi Samuel
si sforzava disperatamente di concentrarsi, perché guardare
il
fuoco, da un po' di tempo a quella parte, non gli piaceva
più.
I
suoi Pokémon
giocavano a inseguirsi a pochi passi da loro, sovrastando con le loro
stridule risate sguaiate, che sarebbero risultate agghiaccianti se
Samuel non li avesse conosciuti bene, il crepitio delle fiamme.
Era
successo tutto così
in fretta. A un tratto Haunter – l'unico Pokémon
già parzialmente
evoluto che Agatha avesse catturato quel mattino, quello che per poco
non l'aveva aggredita – forse stufo dell'indifferenza un po'
distante che era tutto ciò che Agatha, seppur
involontariamente, era
stata in grado di riservare loro, si era avvicinato a lei, l'aveva
guardata da vicino per qualche secondo, come a stabilire se i suoi
vacui occhi pensosi fossero in quel momento in grado di vederlo o se,
invece, non occorresse fare ricorso a qualche metodo più
ardito per
ottenere la sua attenzione, e infine, forse arrendendosi
all'evidenza, aveva afferrato i suoi capelli e aveva tirato.
Agatha
non aveva
neppure gridato. Samuel l'aveva vista sobbalzare per la sorpresa,
quando quello strattone l'aveva bruscamente richiamata alla
realtà
dall'abisso senza fondo dei suoi pensieri, ma questo era tutto quanto
ella aveva concesso a quel primo attimo di sgomento. Era balzata in
piedi in un impeto di rabbia, volgendo furiosamente su Haunter occhi
ardenti e severi come braci incandescenti: Samuel si era aspettato
che... e poi Haunter aveva fatto una boccaccia, e Agatha era
scoppiata a ridere.
Erano
Pokémon un po'
malevoli, anche se non fino a essere decisamente cattivi,
più di
Veleno che di Spettro, almeno per come li vedeva Samuel,
cioè
alquanto infidi e subdoli; e non c'erano dubbi che ad Agatha questo
aspetto del loro carattere piacesse molto. Nidoking era stato
coraggio e brutale aggressività fisica, e si era arrogato il
compito
di difendere Agatha come il padre o il compagno ch'ella non aveva mai
voluto avere; ma dopo di lui, e dopo Vileplume e Tentacruel, forse
Agatha non voleva più affatto qualcuno che la proteggesse.
In lei
bruciavano una fiamma di vendetta e un'amarezza sorda e rancorosa che
non potevano riversarsi su alcun oggetto reale, per il semplice fatto
che il sepolto vivo era morto e che il dolore che abitava il suo
animo era immotivato e ingiusto, del tutto privo di ragioni
materiali, e che non avevano bisogno di coraggio o mera forza fisica,
dal momento che non potevano concretizzarsi in atti. Ma la rabbia di
Agatha era immedicabile: non poteva sfogarsi né trovare
pace, e
perciò la rendeva inquieta e furiosa e priva di riposo;
anche se
forse, chissà, quella subdola e mendace malignità
dei suoi Pokémon,
che si esprimeva attraverso scherzi e dispetti e veleno
voluttuosamente gettato in faccia al nemico, forse dava un po' di
sollievo al suo animo dilaniato dal senso impotente della rivalsa...
Beninteso,
non erano
Pokémon cattivi, o almeno non avevano alcuna intenzione di
essere
davvero crudeli. No, Gengar e Haunter erano semplicemente il caos, ma
un caos allo stato puro, primordiale, e del tutto privo di qualsiasi
connotazione morale. Nella loro mente non c'era spazio per
nient'altro che non fosse il loro divertimento, sfrenato e senza
limiti, - o meglio, lo spazio ci sarebbe stato, ma semplicemente a
loro non interessava curarsi d'altro – e tutto ciò
che a quel
divertimento poteva contribuire, e poco importavano le possibili
conseguenze dei loro scherzi e della loro follia. Tutto il mondo
sensibile esisteva, nella loro ottica, per nient'altro che la gioia
caotica della loro malignità, e in tutto questo Agatha non
li aveva
mai fermati. I suoi Pokémon si ergevano davanti a
lei come un
esercito di demoni indisciplinati e ribelli, che amavano la lotta e
la confusione e che non chiedevano di meglio che seminare un po' di
zizzania al loro passaggio, ma che si mostravano ai suoi ordini
mansueti e docili proprio come bambini un po' irruenti, che
però
amassero la loro madre di tutto l'amore del mondo e volessero
compiacerla in tutto e per tutto.
Sì,
Gengar e Haunter
adoravano Agatha di un'adorazione incontrastata e senza pari,
mettendo incondizionatamente al suo servizio tutta la loro violenza
e la loro sottile perfidia, e forse l'amavano proprio perché
sentivano ch'ella si compiaceva della loro natura e trovavano in lei
una perfetta corrispondenza. Il mondo appariva loro come un immenso
parco giochi privo di ogni proibizione o confine, d'accordo, ma quel
mondo girava attorno a lei, mutando in base alla sua
volontà. Anche
gli scontri con gli altri Pokémon non sarebbero stati, per
loro, che
eterni giochi vagamente perversi in cui dar sfogo ai loro orribili
poteri; ma ciò nonostante essi non avevano mai tardato,
neppure un
istante, a eseguire i suoi ordini ponendo così fine alle
lotte.
Del
resto, Samuel era
convinto che quei tre nutrissero una particolare forma di rispetto e
di riguardo anche per lui, se non proprio un'aperta e palese
simpatia; ma questo era quanto. Amavano coinvolgerlo nei loro
scherzi, naturalmente, così com'erano abituati a fare con
qualsiasi
essere vivente che non fosse Agatha; ma si trattava di scherzi
innocui, che non miravano a spaventarlo o a mortificarlo davvero,
come amavano fare con gli altri. Volevano ridere con lui, non di lui,
e se questa mitezza nei suoi confronti fosse dovuta a un loro reale
affetto o piuttosto al fatto che non volevano entrare in contrasto
con la volontà di Agatha, questo Samuel non avrebbe saputo
dirlo e
neppure gli interessava. Era la squadra di Agatha, non la sua, e in
che misura e per quali motivi la loro perfidia prendesse forma sulla
bruciante ambizione di quella ragazza, non lo riguardava.
Allenarsi
all'inizio,
naturalmente, era stato difficile. Al momento della loro cattura
erano Pokémon molto deboli, incostanti, e privi di
particolari
talenti. L'autorevolezza di Agatha era tale che essi non avevano mai
esitato a obbedirle, e questo era stato una fortuna, perché
ella
aveva al contrario faticato moltissimo ad abituarsi a loro e a
trovare per ciascuno un ruolo e una strategia nell'economia della
squadra: erano Pokémon nuovi, con mosse e
vulnerabilità e debolezze
completamente nuove rispetto a quelle cui ella era sempre stata
abituata e sulle quali aveva costruito quella sua tattica aggressiva
e furiosa che ormai, per forza, non aveva più modo di
mettere in
atto.
Eppure,
e senza che
Samuel ne avesse mai dubitato, Agatha aveva superato ogni
difficoltà
che le provenisse dai suoi Pokémon con implacabile
determinazione.
Non erano certamente ancora al livello della squadra di cui ella
aveva potuto vantarsi con tanta sicurezza a Fucsiapoli, d'accordo,
eppure in loro brillava qualcosa di orribilmente
forte,
macabro e selvaggio e pronto in ogni momento a rivelarsi, ed ella
aveva bisogno soltanto di un po' più di tempo per poter
tornare di
nuovo a competere, verbalmente e non solo, coi gradassi che avevano
cercato di umiliarla sull'Altopiano Blu.
La
sua ambizione li
aveva trascinati per tutta Kanto per la seconda volta da quando la
loro alleanza si era costuita, e alla sua ambizione Samuel non si era
mai oppposto. Si era limitato a seguirla in silenzio, senza opporlesi
mai, neppure quando la sua passione aveva raggiunto vette
irraggiungibili e inusitate... era stato per lei più un
sostegno che
un compagno per tutti quei mesi, un osservatore più che un
amico;
eppure sentiva che della sua presenza silenziosa e discreta, ma
immancabile, Agatha gli era grata.
Vi
era tutta una parte
di lui che avrebbe voluto poterle dare un'altra pace da quella che
ella cercava nella lotta. La sua rabbia impotente si riversava nelle
battaglie in grandi ondate, si faceva guerra e scontro in cui era
ella stessa, Agatha, la prima a volersi distruggere... nella
battaglia ella cercava uno sfogo anche solo temporaneo all'ira focosa
che le bruciava dentro e che non la lasciava mai, e Samuel avrebbe
disperatamente voluto poterla salvare da quella
rabbia e da
quella disperazione... o almeno conoscere le parole per dirle che
tutto il suo odio e la sua cieca ostinazione, protese verso il nulla
e verso l'infinito, erano altrettanto inutili, vane e prive di
significato quanto l'incessante splendere del sole; e che non solo
non avrebbero potuto riportare indietro i suoi Pokémon, ma
non
avrebbero nemmeno potuto darle sollievo.
Ma
per quanto
profondamente egli volesse aiutarla, per quanto ogni giorno, mentre
la guardava lottare, egli desiderasse stringerla e scuoterla e
urlarle di smettere di tormentarsi – perché era
questo che stava
facendo, esattamente come lui, seppure in modi diversi –
Samuel
sapeva che non sarebbe bastato. Quel dolore che in lui era divenuto
compassione, in lei si era trasformato in durezza, ma una durezza
totale e priva di scrupoli, ed ella sembrava voler punire il mondo
intero con la stessa inflessibile severità con la quale
aveva
castigato se stessa. Non c'era altro da dire.
Compassione,
già. Era
così che si poteva dire quel sentimento nuovo che ora lo
penetrava
quando guardava Agatha lottare e spronare al massimo la sua squadra,
con quello stesso ardore che egli stesso aveva avuto, fino a poco
tempo prima, ma che ora proprio non sarebbe più riuscito a
trovare
in se stesso? Era compassione, certo, quella che provava quando di
fronte a lui, a pochi passi da lui, un'Agatha più selvaggia
di
quella ch'egli aveva affrontato sull'Altopiano Blu incrudeliva
sull'avversario, partecipando alla lotta non meno dei suoi
Pokémon;
compassione, d'accordo, ma egli sapeva che cosa volesse dire lottare,
per un allenatore. Agatha non faceva altro che aderire, sebbene con
più veemenza di prima, al medesimo codice di comportamento
non
scritto, ma di certo universalmente adottato, che egli stesso aveva
riconosciuto fino al preciso momento in cui aveva mandato Arcanine in
campo per il suo ultimo scontro. Lottare aveva comportato da sempre
cicatrici e sangue e grida di dolore, e quel prezzo egli era sempre
stato disposto a versarlo: ma allora in quel rinnovato sentimento di
compassione ch'egli sentiva sbocciare in sé non vi era,
forse, una
parte di orrore e di spontaneo rifiuto di ogni forma di sofferenza
che potesse ricordargli del peccato ch'egli aveva commesso, quando
aveva creduto che la lotta potesse salvarlo?
Agatha
questo non
riusciva a comprenderlo, o meglio, aveva capito le sue ragioni, con
la stessa naturalezza con la quale egli aveva compreso la natura
della sua rabbia; ma non riusciva proprio a condividerle. Nel suo
protratto rifiuto di tornare a essere l'allenatore di un tempo, ella
non riusciva a vedere altro che un'ostinata volontà di
continuare a
punirsi per qualcosa che aveva causato, ma che non avrebbe mai potuto
impedire, e che soprattutto non poteva ormai cambiare. Di fronte alle
sue preoccupazioni, e alla sua speranza di poterlo strappare alla
prospettiva di una vita di rinunce e privazioni autoinflitte, Samuel
non poteva che sorridere in silenzio tra sé della sua
tenerezza. Con
quali parole parlare alla sua rabbia, e come dirle che egli non
avrebbe allenato mai più un Pokémon non soltanto
perché di tale
onore e responsabilità non si sentiva più degno,
ma anche perché,
persino volendolo, non ne sarebbe stato in grado? Come mandare in
campo un Pokémon, anche solo per gioco, senza pensare ogni
volta
all'ultima lotta di Arcanine?
All'estate
troppo calda
della prima Lega Pokémon si era succeduto un autunno precoce
e
freddo, ma ancora limpido, ed essi avevano camminato sui terreni
variopinti di quell'autunno; durante i loro accampamenti isolati
sulle colline, troppo lunghi e troppo solitari, Samuel aveva tolto
lentamente foglie e dorate dai capelli di Agatha, ed ella le aveva
scrutate a lungo, tristemente, prima di gettarle nel fuoco. Avevano
percorso strade dritte e interminabili, lunghe tanto da perdersi
all'orizzonte ben oltre il limite del loro sguardo, fiancheggiando
neri campi spogli che il mattino ricopriva di nebbia, ma che si
stendevano poi limpidi e netti per tutte le giornate che andavano
insensibilmente abbreviandosi.
Non
avevano smesso di
camminare neppure quando all'autunno si era avvicendato un inverno
insolitamente rigido per quella regione, e neppure avevano cercato il
conforto del mare. Avevano accolto il gelo che li flagellava come
avrebbero fatto con qualsiasi clima che mandasse loro il cielo, senza
lamentarsene, e avevano continuato a camminare, Samuel con la
sensazione di avanzare controvento contro una tempesta che lo
respingeva, ma sempre senza poter rinunciare all'obbligo di andare
avanti, ancora avanti, e Agatha col volto offerto alla neve e al gelo
quasi voluttuosamente, per l'insano sentimento di autodistruzione che
aveva, affrontando l'inverno così come si sarebbe consumata
nel
fuoco. Della perversità del suo dolore Samuel provava
pietà, ma
proprio perché la conosceva bene e sapeva che ella lo
avrebbe
respinto, non aveva mai fatto niente per impedirle di farsi del male.
Agatha voleva soffrire, e che questa fosse una
sorta di
tortura autoinflitta per redimersi, o piuttosto una forma catartica
nella quale il suo dolore potesse trovare pace, non cambiava le cose,
poiché egli non era nella posizione adatta per dirle se
stesse o
meno sbagliando. Tutto ciò che riteneva di poter fare per
partecipare della sua pena e assieme per mitigarla un po', e che
Agatha del resto non gli aveva mai impedito, era tenere tra le sue le
piccole mani di Agatha, infreddolite e screpolate dal vento,
scaldandole a lungo col proprio calore. Ognuna delle piccole piaghe
sanguinanti che il freddo aveva scavato nella sua carne era per
Agatha una punizione cui non faceva nulla per sottrarsi, ed egli lo
sapeva... ma il suo calore e il suo conforto ella non l'aveva mai
rifiutato, e Samuel avrebbe voluto poter fare questo per tutta
l'eternità: lenire le sue ferite, poiché non
poteva impedirle di
infliggersele.
Ma
a mano a mano che
l'inverno si era ritirato verso le cime dei monti per cedere il passo
a una primavera più benevola nei loro confronti, si era
confermata
in lui la certezza di non poterla accompagnare oltre nel suo viaggio.
La stanchezza aveva preso possesso di lui come una malattia,
invalidante più di una ferita, nauseandolo e assalendolo
ogni
mattina, e gli faceva desiderare ogni sera di non svegliarsi per non
essere costretto ad affrontare ancora un'altra giornata. Non era la
stanchezza del viaggio, o delle alterne vicende di sole e di pioggia
che fustigavano i loro corpi nella primavera già inoltrata
ma ancora
incostante... no, Samuel era stanco perché aveva gli occhi
ancora
pieni dell'inferno della Torre che bruciava e le orecchie eternamente
echeggianti dell'ululato di Arcanine, e tutto ciò che
avrebbe
desiderato era di trovare pace. Ma se lui si fosse fermato, Agatha
avrebbe proseguito da sola, ed egli l'avrebbe dunque perduta per
sempre? E se l'avesse perduta, chi si sarebbe preso cura delle sue
mani screpolate dal freddo?
Preso
da tutti questi
pensieri che si dibattevano dentro di lui, contrastandosi e
opponendosi gli uni agli altri con le loro opposte motivazioni, e
già
sapendo, in fondo al suo cuore, quale sarebbe stata la risposta, il
primo di giugno – il giorno dell'anniversario di quella
notte, che
li aveva ricondotti, senza ch'essi lo avessero deciso né
concordato
ad alta voce tra di loro, a Lavandonia - sotto un cielo
meravigliosamente terso e caldo e sotto un sole che brillava, Samuel
si risolse infine a dirle con voce ferma e priva di qualsiasi
esitazione: «Sposami, Agatha.»
Chissà
perché, Agatha
accolse la sua proposta con calma, malinconica compostezza, come se
avesse atteso ch'egli le chiedesse di sposarla ormai da molto tempo,
forse persino da prima ch'egli stesso prendesse questa decisione in
fondo al proprio animo, e non ne fosse perciò affatto
stupita.
Non
si voltò verso di
lui. I suoi occhi erano infissi lontano, verso Lavandonia che si
stendeva ai piedi della collina dove si trovavano, e più
oltre,
verso la vasta schiena del mare traslucido che proseguiva fino a
confondersi col cielo... ma di tutto quel panorama così
estivo e
pacifico, solare e vitale, Samuel sapeva che non riuscivano a vedere
alcunché, e anche se ne fossero stati in grado, non
sarebbero
riusciti a coglierne la bellezza. No, dopo ormai quasi un anno di
viaggio, il sospetto che aveva concepito nella sua mente la notte
della loro partenza era divenuto certezza: l'Agatha che aveva
accanto, e alla quale aveva appena chiesto di sposarlo, non era
più
la ragazza gioiosa e appassionata delle Spumarine e della Centrale
Elettrica. La donna che era sopravvissuta a quella notte e che era
scappata dall'inferno non riusciva a vedere altro, in quella giornata
di sole, che l'esile linea nera e slanciata che congiungeva la terra
al cielo, e che era la Torre; e forse, oltre l'orizzonte che non
riusciva a raggiungere con lo sguardo, ella poteva intuire o
immaginare uno spazio sterminato e ricco di nemici sui quali sfogare
la sua furia sconfinata... ma niente più di questo. No, non
c'era
più spazio per la poesia e la bellezza in Agatha, non
più di quanto
ne fosse rimasto in lui per l'avventura; ma proprio per questo egli
sentiva di amarla di più, perché Agatha aveva
più bisogno del suo
amore; e forse, chissà, se per qualche miracolosa
congiunzione del
cielo ella avesse accettato di sposarlo, magari, in moltissimo tempo,
e con tutto il suo amore incondizionato e senza riserve, egli sarebbe
riuscito ad apportare qualche beneficio alla sua anima inaridita; un
giorno, osservando quel medesimo spettacolo d'acqua e di cielo che si
congiungevano sino a perdersi, magari Agatha avrebbe sorriso...
La
fronte di Agatha
s'increspò di dolorosa concentrazione, la linea delle sue
labbra si
fece più sottile e rigida; persino la curva della sua gola
parve più
severa e statuaria. Col profilo così contratto e indurito, e
gli
occhi distanti e pensierosi, Agatha domandò:
«Perché me lo stai
chiedendo adesso?»
Dunque
Agatha sapeva,
aveva sentito ch'egli stava cambiando a poco a poco, che in lui si
stava formando una risoluzione; che Samuel non solo era stanco di
viaggiare con lei, ma che addirittura a quel viaggio aveva meditato
di porre una fine... ma del resto, non c'era motivo di
sorprendersene. In quei mesi di vicinanza continua, egli l'aveva
osservata e studiata ininterrottamente, giungendo a conoscerla come
il ritmo del proprio respiro; ma neppure Agatha era cieca, e
soprattutto, anche Agatha lo amava. In quei mesi egli lo aveva letto
in ogni gesto delle sue giornate, in quasi ogni pensiero che le
scorgesse negli occhi: Agatha glielo aveva dimostrato ogni singolo
giorno da quando erano partiti, senza che neppure ci fosse bisogno di
parlarne, col mostrargli le proprie ferite e permettergli di
prendersene cura, e col trovare, nonostante il dolore e la rabbia,
ancora tanta forza e luminosità, dentro di sé, da
sorridergli
dall'altra parte del fuoco prima di dormire... dunque per quale
motivo ella avrebbe dovuto ignorare ciò che andava
formandosi dentro
di lui?
«Vorrei
fermarmi,
Agatha» rispose sinceramente, con semplicità. Non
c'era bisogno di
discorsi altisonanti, o di far tragedie. Le loro anime spoglie, prive
di schermi, erano l'una davanti all'altra e potevano parlarsi senza
urlare. «Tu sai che io ti avrei seguita, ma... non ci riesco.
Ho
bisogno di fermarmi, Agatha, e di riposare. Vorrei costruire una
casa, una famiglia, magari.»
Agatha
accolse le sue
parole con una compostezza che sarebbe stata difficile da credere
altrimenti. Si limitò a chinare lo sguardo, molto
lentamente, e ad
annuire. «È quello che hai sempre
desiderato.»
Sì,
Agatha aveva
ragione. Una casa e una famiglia, un lavoro che lo appassionasse e
una moglie che lo amasse quanto lui l'avrebbe amata, e magari persino
dei figli: questa era sempre stata la felicità, per lui. Ma
dopo
aver concepito questo sogno, egli aveva conosciuto Agatha: e non
valeva forse la pena di sacrificare una parte del sogno di una vita,
per lei?
«Se
mi sposi, io
rimarrò a casa, ad aspettarti mentre viaggi.»
Gli
occhi di Agatha,
enormi e stupefatti, finalmente. Ma mentre Agatha si strappava
bruscamente dalla contemplazione del paesaggio per voltarsi a
guardarlo e la sua bocca si spalancava per lo stupore, Samuel non
faceva altro che convincersi una volta per tutte che proprio i suoi
occhi valevano bene la pena di un sacrificio.
«Non
è quello che
vuoi» obiettò Agatha, quando finalmente ebbe
trovato la voce. Parve
che quella fosse l'unica obiezione che riuscisse a formulare
logicamente. «Tu vuoi una moglie vera.»
«Ma
lo sto chiedendo a
te.» Perché se avesse potuto avere Agatha al suo
fianco, anche solo
pochi giorni solamente di tutta la sua vita, sarebbe valsa la pena
dell'attesa, e di quei pochi giorni ch'ella avrebbe liberamente
scelto di trascorrere con lui, egli le sarebbe stato più
grato che a
una qualsiasi altra donna per una vita di fedeltà...
poiché
l'abnegazione si misura in base alla grandezza del proprio ego, e non
era forse Agatha la donna più fiera e indipendente che
potesse
esistere? «Io non posso seguirti, ma posso aspettarti.
Costruirò
una casa dove saprai in ogni momento di poter tornare.»
Il
volto di Agatha
sembrava una pozza di confusione di cui Samuel poteva leggere sui
suoi tratti ogni singola incertezza. Si passò una mano tra i
capelli
per allontanarli dal viso e mormorò: «Sarebbe
proprio come con tuo
padre, Samuel.»
Il
punto debole del
piano, la chiave di volta che minacciava a ogni momento di far
crollare ogni cosa: Agatha l'aveva scoperta subito, e subito
sottolineata. Certo, era ovvio che avrebbe capito subito: era quello
il sacrificio, costringersi ad accettare che il comportamento di suo
padre fosse comprensibile e accettabile, che potesse esistere un
valido motivo per andarsene di casa senza che fosse un peccato da
dover scontare... dopo aver trascorso tutta la sua vita senziente a
rinnegare la sua figura e a giurare che mai si sarebbe comportato
come lui, all'improvviso Samuel aveva dovuto accorgersi che non era
lui a essere uguale a suo padre – era Agatha. Ma egli non
poteva
comunque fare a meno di amarla, e per questo motivo doveva accettarla
così com'era.
«Non
ha importanza,
Agatha. Se mi prometterai di tornare, io ti crederò
sempre.»
Una
scintilla di
consapevolezza cominciò a farsi sempre più strada
nello sguardo di
Agatha: a poco a poco, ella comprendeva sempre di più la
reale
portata della sua proposta. In quel preciso minuto in cui ella lo
scrutava intensamente, era forse possibile che si proiettasse tanto
avanti con l'immaginazione e le si prospettassero davanti le lunghe
fila di innumerevoli anni futuri, trascorsi come sua moglie ma
lontana da lui?
Samuel
capì di averla
perduta per sempre nel momento in cui Agatha tornò a
voltarsi verso
Lavandonia, e distolse lo sguardo da lui.
«Non
posso, Samuel.»
No,
non poteva. L'aveva
sempre saputo, in fin dei conti, quale sarebbe stata la risposta, ma
solo in quel momento, quando Agatha distolse gli occhi da lui e il
suo profilo si fece impenetrabile e troppo carico di dolore per
poterlo sopportare, Samuel si rese finalmente conto di quanto si
fosse illuso di poter cambiare le cose, e di quanto si fosse
sbagliato. Agatha gli era appartenuta nello stesso modo in cui egli
stesso era stato suo, fino a quel preciso istante in cui gli aveva
detto no: ma ora tutto era finito, e Samuel si sentì lieto,
per un
istante, che la ferita che gli aveva inferto fosse troppo profonda,
venenifera e mortale per poter essere avvertita immediatamente.
«Perché
no, Agatha?»
Gli
occhi di Agatha si
chiusero sull'orizzonte, come a volersene escludere, e la sua fronte
si contrasse e si accigliò in uno spasmo di disperazione, ma
silenzioso e misurato come un grido senza voce.
«Tu
non mi impediresti
niente, Samuel... ma io ti odierei lo stesso per non essere con me.
Se il prezzo da pagare è quello di odiarti, preferisco non
averti
affatto.»
Era
veramente finita,
ora. Samuel si sentì d'improvviso sollevato, come dopo
l'ultimo
scatto convulso di un corpo che muoia dopo una tremenda agonia. Si
concesse di chiudere gli occhi e d'inspirare profondamente nel vento,
e di prestare attenzione al vago dolore sordo che palpitava nelle
profondità del suo petto, ma che non trovava ancora una
forma e una
collocazione precisa dentro di lui. Era finita, si ripeté, e
fu
veramente felice di sentirsi stordito e come anestetizzato, per il
momento, perché sapeva che quando veramente avesse avvertito
il
colpo, esso sarebbe stato formidabile. Agatha non era più
sua, ed
egli si rendeva conto che da quel momento, ogni ora che avesse
trascorso con lei sarebbe stata un guadagno, un dono del cielo da
assommare a ciò che aveva già goduto, e di cui
essere grato.
«Che
cosa farai ora?»
domandò dopo un po', quando proprio il silenzio si fece
troppo
assordante, ed egli temette che se fosse durato ancora, non avrebbe
potuto fare a meno di continuare a riflettere su quella perdita.
«Parteciperai alla Lega, l'anno prossimo?»
Agatha
chinò il capo.
«Già... penso proprio che dovrò farlo.
Ho rimandato anche troppo a
lungo.»
In
quel preciso
istante, molto lontano da loro, si stavano combattendo le prime fasi
della seconda edizione del Torneo. Era soprendente come
quell'istituzione avesse finito per affermarsi già dopo un
anno
dalla sua introduzione, e fosse divenuta ormai un ostacolo
irrinunciabile su cui comprovare la propria forza per tutti gli
allenatori, tanto che dire la Lega, ormai, aveva
finito per
indicare più il Torneo stesso che non l'istituto burocratico.
«E
tu? Che cosa
farai?» soggiunse poi Agatha forzatamente, come se si
imponesse di
proseguire la conversazione proprio per il suo stesso motivo, per
evitare il silenzio; ma quello sforzo che s'imponeva sembrava venirle
strappato dalla sua carne stessa.
Al
di sopra del vento,
concentrandosi molto, Samuel riusciva a indovinare appena il suono
del fiume che scorreva giù dalla montagna, trascinando verso
il mare
le sue strabordanti correnti. «Tornerò a casa a
rivedere mia
madre.»
Aveva
odiato
Biancavilla per così tanti anni della sua vita, e tanto
inutilmente,
che ora che avrebbe davvero avuto un luogo da odiare e rifuggire come
peste, gli sembrava che l'odio fosse sterile e inutile, e che
nutrirne tanto fosse solo uno spreco di forze. Aveva impiegato molto
tempo ad accorgersene, ma ora che l'aveva capito, si sorprese a
ripensare a Biancavilla con una certa nostalgia. Forse si sarebbe
rivelata un buon posto dove riposare, chissà.
Avrebbe
rivisto
volentieri sua madre. L'aveva lasciata quando era ancora poco
più
che un bambino, ormai sette anni prima, e da quel giorno non l'aveva
mai più rivista. Non ne aveva neppure sentito molto la
mancanza,
forse perché non credeva di averla mai davvero conosciuta,
quando
era piccolo, dopo il baratro di disperazione in cui la partenza di
suo padre l'aveva sprofondata: si chiese se sarebbe stata in grado di
riconoscerlo e se avrebbero trovato finalmente qualcosa da dirsi, ora
che lo stesso dolore li aveva resi più simili di quanto
fossero mai
stati.
«E
poi? Troverai il
tuo lavoro sicuro?» proseguì Agatha; ma per la
prima volta non
c'era ironia nella sua voce, parlando di quell'argomento. Voleva
soltanto saperlo, immaginare cosa sarebbe stato di lui dopo il suo
rifiuto, e Samuel gliene fu grato.
«Mi
piacerebbe
diventare un biologo» ammise. Lo studio dei
Pokémon era sempre
stata la sua passione, dopotutto, anche se non aveva mai riflettuto
seriamente su come trasformarla in un lavoro; ma ora che Arcanine era
morto, che egli aveva giurato a se stesso che mai più
avrebbe
toccato una Pokéball, quella gli era parsa la soluzione
migliore. E
chissà, forse un giorno, se si fosse impegnato molto e fosse
stato
molto fortunato, una qualche sua ricerca avrebbe potuto dare buoni
frutti e aiutare la scienza a comprendere qualche nuovo funzionamento
nel corpo o nelle dinamiche di lotta dei Pokémon.
«A ottobre mi
iscriverò all'Università.»
Per
tutta risposta,
Agatha mormorò: «Starai bene col camice.»
Quando
Samuel si decise
finalmente a chinare gli occhi su di lei, strappandoli al conforto
delle sue palpebre chiuse e al sollievo del vento, non si sorprese di
notare che Agatha continuava a evitare ostinatamente di guardarlo,
barricata dietro lo scudo del suo orgoglio e del suo dignitoso
dolore. Ma proprio mentre stava cercando qualcosa da dirle per
addolcire un poco l'amarezza della loro separazione, Agatha si
alzò
in piedi e disse ad alta voce: «Andiamo, Samuel.»
Samuel
non poté
evitare di sentirsi frastornato dalla sua improvvisa fretta. Dove mai
dovevano andare? «Agatha...»
«Dal
momento che
dobbiamo separarci, non c'è motivo di restare insieme
più del
necessario. Partiamo subito. Ti accompagnerò a Smeraldopoli,
e
poi...»
«E
poi?» chiese
Samuel stancamente. Chissà perché, ora che
finalmente Agatha gli
stava offrendo la prospettiva concreta della fine del suo viaggio e
di tutte le sue fatiche, quella meta gli sembrava lontanissima e
più
irraggiungibile ancora di tutte le tappe che avevano percorso fino ad
allora.
Il
volto di Agatha in
controluce si mantenne una maschera dura e impenetrabile, priva di
qualsiasi cedimento: ma la sua debolezza, per Samuel che la conosceva
così bene, stava proprio nel fatto che ella ancora non
riusciva a
guardarlo. «Partirò per Johto con i miei
Pokémon. Hanno ancora
bisogno di allenamento.»
A
Johto, il più
lontano possibile dal suo ricordo o da qualsiasi momento che avessero
vissuto insieme. Commentare sarebbe stato superfluo: per evitare di
dire qualsiasi cosa che potesse ferirla più ancora di quanto
avesse
già fatto, Samuel si rimise faticosamente in piedi e le fece
cenno
di fargli strada.
Cominciarono
a
discendere il crinale della collina.
E
poi, il racconto
finisce.
Sono
bastate meno di
due ore a raccontare ai suoi nipoti quella grande terribile storia
della loro amicizia e della loro distruzione. Questo pensiero
è per
lui cagione di un senso terribile di incredulità alla bocca
dello
stomaco: sono bastate due ore. Ma questo tempo può essere
bastato ai
suoi nipotini per percepire, con l'intensità con la quale le
ha
provate lui, la bassa sorda eccitazione virile della scommessa e
della possibilità di prendere parte a qualcosa di grandioso
come il
primo Torneo della storia, l'adrenalina perturbante della sfida sulla
cima dell'Altopiano Blu, il fascino vagamente inappropriato della
loro amicizia, e poi la bellezza sacrale e senza tempo di Articuno e
Zapdos...? Ma no, ovviamente no. Questo pensiero lo riempie di
un'innegabile tristezza. Hanno avuto dunque così poco
significato
quei mesi nella sua vita, perché sia possibile riassumerli
in
nient'altro che due ore?
Non
ha detto tutto,
naturalmente. Quand'anche egli non avesse solennemente giurato a se
stesso, e tacitamente ma con non minor valore con Agatha, di non
parlar mai ad alcuno di quella notte terribile, egli sa che i suoi
nipoti sono troppo piccoli e che non meritano di conoscere tutto
quell'orrore. Non c'è davvero motivo di spaventarli
inutilmente per
qualcosa che non esiste più e che non potrà mai
più minacciarli:
del sepolto vivo, Samuel non ha fatto parola nel suo racconto. Col
cuore palpitante di rimorso, ha dovuto ridurre la lotta sulla cima
della Torre a un brutto spavento e a una piccola scialba avventura
tra i Pokémon Spettro, resa spaventosa dalla cupa atmosfera
del
temporale che infuriava. Spiegare le morti dei loro Pokémon
è stato
più difficile, ma anche a questo compito egli non ha voluto
sottrarsi: bisognava che sapessero. La morte di Arcanine e lo
spontaneo sacrificio dei Pokémon di Agatha sono stati troppo
importanti nella loro vita e nella loro separazione perché
fosse
possibile passarli sotto silenzio, ma, nel tentativo di addolcire un
po' la tristezza di quelle perdite, egli ha narrato loro scomparse
dolci e lente come malattie, piene di pace e di naturalezza. Gary e
Margi, che già anche troppo hanno conosciuto della
sofferenza della
morte nelle loro vite, hanno compreso senza bisogno di parole tutto
il dolore che quelle perdite hano portato. In questo modo, certo,
essi non conosceranno mai la nobiltà della sconfitta e della
morte
di Arcanine, ma Samuel sa che il suo Pokémon, ovunque sia,
sarebbe
in grado di capire. Se fosse vissuto abbastanza a lungo da
conoscerli, dopotutto, avrebbe amato i suoi nipoti dello stesso
affetto incondizionato e fedele che ha avuto per lui, persino
nell'ultimo istante della sua vita, e avrebbe voluto a sua volta
difenderli dal male.
Samuel
si accorge
veramente che il suo racconto è finito quando Margi esclama
con voce
trepidante: «Oh, nonno, ma allora è vero che non
vi siete mai
neppure baciati! Ci speravo tanto...»
Sì,
il racconto è
davvero finito, e Samuel Oak si ritrova catapultato di nuovo sulla
vecchia poltrona scomposta del salotto senza aver mai realizzato di
essernsene allontanato. Eppure, per un breve attimo della sua vita,
per quelle intere due ore, egli si è sentito di nuovo
l'allenatore
virile e coraggioso di quell'anno, il ragazzo quasi uomo che
viaggiava con la piccola ragazza dagli occhi neri e tempestosi come
abissi. Ha percepito ancora la sensazione, ormai quasi completamente
dimenticata, del suo corpo muscolare e guizzante, pronto a rispondere
all'istante a ogni impulso della sua volontà, il profumo dei
capelli
di Agatha, l'odore acre di terra e di fumo dei loro campeggi...
quanto al dolore, quello non è una novità.
«Il
nonno te
l'aveva detto fin dall'inizio che non si erano baciati!»
salta su
Gary, ormai così abituato a provocare sua sorella da farlo
quasi
d'istinto, senza un motivo, cogli occhi piccoli e la voce ormai
impastata di sonno. Di sonno?
Solo
allora gli
occhi di Samuel si posano sull'orologio.
«Santo
cielo,
bambini! Perché non mi avete avvertito che si era fatto
così
tardi?» esclama allarmato, chiudendo di scatto la rivista.
L'orologio segna ormai le undici e cinque minuti, il che, se per
Margi può essere tollerabile, è assolutamente
inaccettabile per un
bambino di sei anni. «Domattina dovete andare a scuola!
Filate
subito a letto.»
«Oh,
aspetta,
aspetta, nonno! Non puoi lasciarci così» protesta
Margi,
aggrappandosi alle sue ginocchia con occhi imploranti e, almeno per
ora, perfettamente svegli. Già dimentico della sua pseudo
rivalità
con la sorella, e spiritualmente alleatosi con lei per ottenere
qualsiasi cosa che possa farli stare in piedi ancora qualche minuto,
Gary si affianca a lei, appoggiandosi all'altro suo ginocchio con
sguardo altrettanto supplice, ma assai meno sveglio.
Di
fronte ai loro
occhi imploranti, e coll'animo scosso da tutto ciò che per
la prima
volta dopo anni ha scelto di narrare a parole, Samuel scopre che
quella sera assumere il cipiglio del nonno severo gli riesce
particolarmente difficile. «Per stasera vi ho già
raccontato
abbastanza, bambini. La rivista la leggeremo domani.»
«Ma
ci sono delle
cose che io non ho capito!» insiste Margi con voce petulante.
Prima
che Samuel faccia in tempo ad avere un tuffo al cuore al pensiero di
essersi tradito e di quello che Margi potrebbe chiedergli, la bambina
prosegue: «Agatha l'ha vinta la Lega, quell'anno? Come ha
fatto a
diventare Superquattro?»
Pur
timida e
remissiva com'è, quella bambina ne sa comunque una
più del diavolo.
Con tutto ciò, Samuel è contento che gli abbia
chiesto qualcosa cui
può rispondere. «Certo che vinse. Fu la prima
donna in assoluto a
vincere un Torneo, e rimase l'unica per diversi anni... quanto ai
Superquattro, lo sono stati così tanti allenatori diversi,
prima di
stabilire una formazione standard come questa, che il nonno ha
proprio perso il conto, tesoro. Agatha lo è stata comunque
per molti
anni di seguito, assieme ad alcuni dei Campioni di quegli anni, ma
quanto al resto non saprei.»
La
Lega, quell'anno,
era stata epica. Samuel l'aveva seguita alla radio, minuto per
minuto, e aveva ascoltato col cuore palpitante d'emozione,
visualizzandolo altrettanto vividamente che se l'avesse visto coi
suoi occhi, l'orgoglio di Agatha che si faceva strada sui suoi
avversari furiosamente, come tutto quello che faceva. Aveva trepidato
ed esultato delle sue vittorie proprio come se fosse stato con lei,
parteggiando per lei tanto spudoratamente che tutti i suoi compagni
di corso gli avevano riso dietro, eppure mai come in quel momento,
attraverso i filtri gracchianti della radio, egli l'aveva sentita
lontana. L'Agatha che trionfava sull'Altopiano Blu, riuscendo
finalmente a dimostrare al mondo oltre che a se stessa il proprio
valore, non gli apparteneva più. Gli era passata tra le mani
come
acqua piovana, fuggevole e impossibile da trattenere, e dopo essersi
incontrati per qualche istante delle loro vite, si erano divisi.
Quella sera, mentre alla radio tutti celebravano la nuova
Campionessa, che appariva sui giornali bella e terribile come una
distesa di neve campeggiante in pieno sole, egli avrebbe potuto
inviarle un telegramma che ella, di certo, avrebbe letto... ma non
l'aveva fatto. Le loro vite si erano divise proprio quando era stato
necessario, e tornare indietro, ormai, era troppo tardi.
«E
non l'hai
rivista mai più?» domanda Gary, puntellandosi con
maggior forza
alle sue ginocchia, per obbligarlo a prestargli tutta la sua
attenzione.
Fissando
i suoi
occhi verdi che lo fissano, lucidi e arrossati, limpidi ancora della
sua infanzia, Samuel risponde con voce sorda, con una strana fitta di
rimpianto che non ricordava più di poter provare:
«No, Gary. Non
l'ho mai più rivista.»
«E
ora, forza!
Filate a mettervi il pigiama» riprende poi bruscamente, in
tono
appena un po' più alto del solito, stavolta in un modo che
non
ammette repliche: «Salirò tra dieci minuti a
rimboccarvi le
coperte. Siamo intesi?»
Samuel
rimane
immobile sulla poltrona a guardare i suoi nipoti che corrono
rumorosamente al piano di sopra, bisticciando già in
anticipo su chi
debba andare in bagno per primo. Sa giò che, prima ancora di
aver
attraversato il corridoio, Margi finirà per cedere alle
insistenze
del fratello, cedendogli la precedenza con più piacere che
rammarico
nel sacrificio, e che quando egli salirà a dar loro la
buonanotte,
nessuno dei due sarà ancora a letto. Non c'è
ragione di
affrettarsi.
La
domanda di Gary
sembra pulsare ancora da qualche parte in fondo alla sua coscienza,
come se fosse ancora in attesa di una qualche risposta... eppure,
quella risposta Samuel l'ha già data, e non saprebbe proprio
dove
cercarne altre. Ma allora perché?
Torna
ad aprire la
rivista, scorrendo lentamente le pagine fino a ritrovare la sezione
che parla di Agatha: sulla carta, i suoi occhi tornano a scrutarlo
severamente, furenti e infuocati proprio come egli li ha visti
l'ultima volta. Percorre con lo sguardo le pagine centrali.
C'è
un'altra foto d'epoca, nota per la prima volta, molto più
piccola e
a più bassa risoluzione: è la foto della
premiazione e Agatha è in
piedi, minuscola e fiera di fronte a una folla di grandi uomini, e
riceve la coppa dalle mani del Presidente. Sì, ricorda
vagamente
quella foto per averla vista sui giornali, in quei giorni in cui
ancora appariva incredibile ed eroico che una donna potesse vincere
un Torneo, e ricorda anche che da qualche parte appariva persino il
signor Firefly, assai in disparte, col volto atteggiato a
un'espressione di rallegramento ipocrita. Si domanda se sarebbe
ancora in grado di riconoscerlo, su una foto di qualità
maggiore.
Chissà poi che ne è stato di quell'uomo, pensa
distrattamente
abbandonandosi contro lo schienale della poltrona.
Aveva
incontrato sua
moglie poco più di due anni dopo aver lasciato Agatha, ad
Azzurropoli.
Non
le aveva dato
molta importanza, all'inizio. Ella era tutto ciò che Agatha
non era:
una persona remissiva e modesta, che si accontentava di un lavoro da
stenografa con la stessa semplice gratitudine colla quale aveva
accettato tutto lo scorrere della propria vita, e straordinariamente
gentile. Di lei, per tutta la sua vita, Samuel aveva amato la sua
bontà e il suo sacrificio disinteressato, la sua dolcezza e
la sua
compassione.
L'aveva
conosciuta
nel modo più banale che si potesse immaginare, a una festa
dove un
amico l'aveva trascinato, e non c'è molto da ricordare al
riguardo:
all'inizio, quella ragazza graziosa come un fiore di campo, molto ben
vestita e molto accuratamente pettinata, silenziosa, e timorosa tanto
da chiedere scusa anche quando le veniva fatto un torto, non gli era
parso altro che il perfetto modello di donna bisognosa e incapace che
aveva tanto temuto e disprezzato prima di conoscere Agatha, e molto
di più dopo. Aveva impiegato un po' di tempo a vedere che in
quella
delicatezza si celava tutta la sua forza, e che proprio nella sua
umiltà ella era più sicura e incrollabile del
mondo esterno.
Talvolta, guardando Margi, Samuel si stupisce di quanto profondamente
assomigli a sua nonna, quasi senza averla mai conosciuta.
Sua
moglie è stata
a modo suo un antidoto al veleno che Agatha aveva costituito per lui.
Della sua bontà che non conosceva esitazioni o cedimenti
Samuel si è
innamorato poco a poco, colla naturalezza di qualcosa che fosse
già
destinato ad accadere. La sua pietà e la sua arrendevolezza
sono
state come un balsamo quotidiano per la ferita che pulsava sempre e
che egli non le ha mostrato mai, ed è stato bello
invecchiare
insieme per gli anni che sono stati loro concessi.
Sua
moglie è morta
a sessant'anni. La sua agonia non era stata molto lunga, ma era stata
atroce, ed egli era rimasto impotente a vederla consumarsi a poco a
poco per un brutto cancro che tutta la sua scienza non poteva bastare
a curare. Negli ultimi giorni, quando ormai anche le sue corde vocali
erano irrimediabilmente compromesse, ella non era più in
grado di
parlare. Samuel era allora rimasto al suo fianco in silenzio, a
osservare immobile e impotente la malattia farsi strada e
trasfigurare i suoi occhi in oceani di sofferenza che non trovavano
voce, e infine a vederla morire lentamente. Contrariamente a quanto
aveva creduto, la fine delle sue pene e la consapevolezza che non le
rimaneva più alcun dolore da affrontare su quella terra, e
che la
pace del suo cuore si era ricongiunta con la serenità del
cielo, non
gli avevano recato alcun sollievo. Sua moglie era in pace, ma non era
più con lui, e Samuel si era sorpreso di essere ancora in
grado di
provare tanto dolore di fronte alla sua morte.
Aveva
creduto sempre
che gli anziani affrontassero il dolore molto meglio dei giovani, che
fossero più saggi e perciò più
preparati di fronte alla morte; che
soffrissero, certo, ma che dall'alto della loro saggezza avessero
trovato una ragione che giustificasse il dolore e che li aiutasse a
sopportarlo.
Samuel
aveva atteso
per tutta la vita di diventare vecchio. Si era illuso che con
l'età
e con l'esperienza di vita che dalla vecchiaia derivava si sarebbe
sentito più saggio, e una volta che fosse stato vecchio e
saggio,
finalmente, avrebbe potuto voltarsi indietro e riconoscere nel
ricordo delle sue sofferenze le ragioni che gli erano sempre
sfuggite, e che le avrebbero arricchite di un senso nuovo. Quel
giorno il dolore avrebbe smesso di tormentarlo, finalmente. In
alternativa, si sarebbe accontentato anche di diventare un vecchio
stolido e insensato, e di dimenticarsi completamente chi fosse e chi
lo circondava: tutto a patto di non soffrire più.
Samuel
si è accorto
di essere diventato vecchio senza alcun preavviso, quando una sera,
durante un programma di approfondimento culturale, un malaccorto
giornalista senza troppa esperienza ha avuto l'incauta idea di citare
un suo studio attribuendolo all'anziano
professor Oak. Samuel ricorda ancora i suoi
impacciati
tentativi di sminuire la portata della sua gaffe, e allo stesso modo
ricorda di aver esitato a lungo, quella sera, di fronte allo
specchio, senza decidersi ad andare a dormire. Tutto ciò che
vedeva
dava ragione al giornalista, continuava a pensare: i capelli ormai
grigi che protendevano al bianco, gli occhi gonfi e pesantemente
borsati, le rughe che si spandevano tutte attorno al suo viso...
sì,
ma possibile che non si fosse accorto prima d'esser diventato
vecchio? Che la mascella ancora incrollabilmente volitiva sotto la
barba sempre più grigia e più rada, che le sue
spalle ancora
insolitamente dritte per la sua età lo avessero ingannato a
tal
punto?
Ma
la verità è che
Samuel non si era accorto d'esser diventato vecchio perché
di
soffrire non aveva smesso mai. Nella sua mente, essere anziano
corrispondeva a tutt'altro che a una mera età anagrafica, ed
egli
finalmente si rendeva conto, in quel momento davanti allo specchio,
che se non fosse stato per quel giornalista avrebbe continuato ad
aspettare d'essere vecchio per chissà quanti anni ancora.
È stato
un brutto ritorno alla realtà. Anziano, evidentemente,
Samuel lo era
già senza ombra di dubbio, e a qualcuno doveva apparire
anche molto
saggio; ma questo era quanto, poiché egli aveva la
sensazione di non
essere diventato molto più saggio e di non aver compreso
nulla che
non sapesse già a vent'anni.
Ma
dopo aver sperato
che con la vecchiaia avrebbe smesso di soffrire, la sua disillusione
è stata ancora più amara, dopo quella sera. A
distanza di
cinquant'anni, vi sono notti in cui ancora egli si sveglia, sentendo
echeggiare nella notte l'ululato di Arcanine, e si ritrova nel suo
letto, col cuore palpitante, senza sapere né
perché né dove si
trovi, colle narici piene dell'odore di sangue e viscere e la
sensazione persistente che da qualche parte, in quella notte
sconfinata che sembra non trovar fine nel tempo né nello
spazio, ci
sia una ragazza che muore... oh, ed è così
mortificante dover
continuamente mentire ai suoi nipoti e assicurar loro che i mostri
non esistono, che non esiste al mondo nulla d'irrazionale in grado di
far loro del male, quando egli lo sa, lo ha visto coi suoi occhi che
questo non è vero! E guardare sotto i loro letti e nei loro
armadi,
per poter garantire loro, sul proprio onore, che là dentro
non c'è
nessuno, per poi restar sveglio tutta la notte, in silenzio, ad
ascoltare se per caso si udisse una qualche voce nel buio...
Alla
morte di
Arcanine si è assommata la perdita di sua moglie, proprio
quando
credeva di essere più al sicuro e che niente, ormai, potesse
più
turbare la poca quiete che si era guadagnato. Dopo questa morte,
Samuel si è convinto al di là di ogni ragionevole
dubbio che la
vecchiaia non comporta neppure la più miserabile briciola
d'atarassia, e ciò nonostante ha finito per accettarla e
sottomettersi al dolore, proprio come sua moglie avrebbe voluto per
lui. Perdere una compagna, dopotutto, dopo quasi quarant'anni di
matrimonio, non aveva nulla di così profondamente ingiusto e
innaturale da autorizzarlo a ribellarsi contro il cielo, nulla di
così inaspettato da farlo soffrire più di
quanto...
Poi
è morto suo
figlio, e quel dolore dal quale egli già una volta aveva
creduto di
venir sopraffatto è tornato e si è fatto
più grande,
insopportabile, è diventato inumano e intollerabile ed egli
veramente ha sperato di non dovergli sopravvivere neppure di un
giorno, di un'ora solamente! Arcanine è morto per la sua
sciocchezza
e sua moglie per volontà della natura, ma suo figlio
perché è
dovuto morire? Era suo figlio, suo figlio!
Suo
figlio e sua nuora sono morti entrambi in un'antica tomba durante
alcuni scavi. Samuel non è mai riuscito ad accettare che due
archeologi potessero morire così, semplicemente, soffocati
nel giro
di pochi minuti... non era giusto. È successo tutto
così
rapidamente che non ci sarebbe nemmeno stato bisogno di chiamare le
famiglie sul luogo dell'incidente, ma egli vi è andato lo
stesso,
per poter avere l'illusione di riportare a casa le loro salme. Quella
è stata la prima volta che volava su qualcosa di diverso
dalla
schiena del suo Charizard, e in un'altra occasione, probabilmente,
l'idea di prendere un aereo completamente da solo lo avrebbe turbato
un po'; ma quella volta Samuel ha viaggiato sentendosi del tutto
estraneo a quello che lo circondava. Non si sarebbe sottratto al suo
compito, quella volta, continuava a ripetersi, e in un certo senso
è
stato proprio come se tutta la sua vita non fosse trascorsa per
nient'altro, dopo quella notte, che per condurlo a quel momento in
cui andava a prendere il corpo di suo figlio per riportarlo a casa e
seppellirlo come meritava. Ha scontato il peccato d'essere balzato
indietro, sì, ma a quale prezzo?
Se
in tutte quelle morti che hanno costellato la sua vita esiste una
ragione univoca, una verità superna che possa giustificarle,
riscattand almeno in parte tutto il dolore che esse hanno comportato,
Samuel non vuole conoscerla. Al dolore non esiste riscatto, non
può
essere così, sarebbe terribile e peggiore ancora che
affrontare il
dolore per quello che è, cieco e immotivato e casuale.
Scoprire che
da qualche parte qualcuno aveva prevista, e anzi persino ordita la
morte di suo figlio coi polmoni pieni di sabbia non la renderebbe
forse più terribile ancora di quanto già non sia?
Dal
piano di sopra non sembra provenire più alcun suono. Questo
silenzio
lo colpisce per contrasto rispetto al rumoroso scalpiccio sguaiato
dei suoi nipotini che si preparavano per la notte: devono essersi
già
infilati a letto, e questo indica probabilmente che sono davvero
molto, molto stanchi. Bisogna salire subito da loro, stabilisce
Samuel, e anche trovare un modo per mandarli a letto un po' prima
domani. Si sforza d'ignorare la persistente sensazione della voce di
suo figlio che lo rimprovera per averli lasciati svegli fino a tardi.
Una piccola parte di lui vorrebbe voltarsi e chiedergli scusa, e
spiegargli che ha fatto così tardi perché... ma
Samuel rimane
rigidamente immobile sulla poltrona, sforzandosi in ogni modo di non
voltarsi, aspettando che quella sensazione scompaia lentamente da
sola. Suo figlio non è lì.
Gli
occhi di Agatha ancora campeggiano neri e alteri sulla rivista, in
nulla più pietosi di quanto lo siano stati mentre egli
raccontava, e
al di là della loro durezza, Samuel si chiede per l'ennesima
volta
se la sua antica compagna sia riuscita a rappacificarsi col suo
dolore, a modo suo, e se almeno lei abbia smesso di soffrire, dopo
tanti anni.
Le
sue dita sostano un po' troppo a lungo sul suo volto ritratto, questa
sera, prima che egli si decisa a chiudere la rivista. Sospirando
profondamente, Samuel si alza e si avvia lentamente al piano di sopra
per andare a dare la buonanotte ai suoi nipoti.
Era
stata una strana ironica fatalità, dopotutto, che l'ultimo
viaggio
della loro grande e terribile alleanza avesse dovuto essere proprio
quello, un percorso di poco meno di tre giorni dalle pendici del
Tunnelroccioso a Smeraldopoli. Ma in fondo, si disse Samuel quando
era ormai evidente che erano arrivati, e che prolungare ancora il
loro ultimo viaggio sarebbe stato impossibile se non
controproducente, era giusto così: proprio il desiderio di
grandezza
insito nella loro amicizia li aveva condotti alla rovina.
Avevano
trascorso le ultime ore del pomeriggio passeggiando, più che
camminando, tanto lentamente e con la più perfetta calma
apparente
che chiunque li avesse visti senza sapere che cosa si accingevano a
fare non avrebbe creduto mai ch'essi andassero intenzionalmente in
qualche luogo preciso. Per tutto quel tempo, ormai dall'inizio del
pomeriggio, non si erano rivolti la parola. Eppure avrebbero dovuto
approfittare di quegli istanti che erano gli ultimi che trascorrevano
insieme, Samuel lo sapeva, e questa consapevolezza cresceva
disperatamente in lui a ogni minuto che passava e che li avvicinava,
inesorabilmente, al momento in cui si sarebbero separati per
sempre... ma per quanto cercasse dentro di sé qualche parola
da dire
per rompere quel silenzio, per fare almeno finta che che quello fosse
un momento come tanti delle loro infinite giornate, non trovava
niente. Ogni parola che potesse pronunciare sarebbe stata come
sottolineare crudelmente che a partire dal giorno seguente non si
sarebbero rivisti mai più, e che ogni curva del percorso
accorciava
invariabilmente sempre di più il tempo che restava loro a
disposizione...
Per
quanto lentamente avessero camminato, il bivio si profilò
infine ai
loro occhi quando ormai persino il tardivo sole d'estate aveva
incominciato a stemperarsi di tinte più tenui, e la sfera
incandescente del sole che calava proiettava sulla campagna
un'uniforme luce rosata.
Non
c'era più tempo di rimandare, ormai. Di fronte a loro, tutto
attorno
a loro, si diramavano gli imbocchi di mille possibile vite e delle
ultime scelte possibili: la strada per Jhoto e per la Lega
Pokémon
si allontanava da loro, risalendo la collina verso la grande massa
frastagliata del Monte Argento, la cui cima ancora innevata pareva
avvampare e infervorarsi tutta sotto gli obliqui raggi del sole
calante. Ma alle loro spalle una seconda strada digradava dolcemente,
senza tornanti o brusche discese, verso Smeraldopoli, e da essa
Samuel non poteva fare a meno di sentirsi attratto.
Non
c'era più tempo, e ora che egli sapeva di non averne
più, avrebbe
avuto milioni di cose da dirle. Come dire addio alla ragazza che per
più di un anno era stata la sua amica e compagna, e molto di
più,
fino a diventare una parte di lui più irrinunciabile della
sua
anima, ma che ora cessava per sempre di appartenergli?
Ma
contro ogni aspettativa, fu Agatha a parlare.
Aveva
trascorso le ultime ore in silenzio, cogli occhi cupi e bassi e la
fronte dolorosamente contratta, presa come al solito da pensieri
tutti suoi. Ma in quel momento, proprio mentre Samuel stava ormai per
protenderle le braccia e arrendersi alla banalità di un allora,
ciao, levando bruscamente gli occhi, Agatha disse senza
preavviso: «Vieni a Johto con me.»
«A
Johto?»
Samuel
rimase per lunghissimi momenti spiazzato, senza capire, e del tutto
incapace di reagire o anche solo di comprendere il significato delle
sue parole. Sbatté più volte le palpebre.
«Agatha...»
«Tu
mi hai dato la possibilità di scegliere, ed è
giusto che anch'io
faccia lo stesso» sbottò Agatha, sbattendo
impetuosamente un piede
a terra. Era tutta rossa in viso, eppure andò avanti
egualmente, con
un ardore indicibile. «Se vieni a Johto con me, ti sposo. Non
posso
essere la tua moglie lontana, Samuel, ma se vieni con me
ricominceremo tutto dall'inizio. Catturerò un
Pokémon per te e
presto torneremo com'eravamo una volta, e andremo finalmente alla
Lega insieme, come desideravamo tanto tempo fa. Ti sposo domani,
stanotte stessa, se vuoi, ma devi venire con me.»
Sarebbe
stato così semplice dire di sì. Per un attimo,
mentre Agatha lo
investiva di tutto questo torrente di parole e di promesse, per un
attimo soltanto Samuel fu tentato di dire di sì.
Ricominciare tutto
di nuovo, con un nuovo Pokémon e poi una nuova squadra, e
poter
viaggiare di nuovo in un mondo fresco e luminoso; avere Agatha,
soprattutto, e poter curare le sue ferite e trovare finalmente il
modo di darle la pace che tanto desiderava... per quell'unico
istante, socchiudendo gli occhi, Samuel si concesse di credere che
una nuova vita, del tutto identica alla prima, fosse possibile... ma
poi quell'istante passò. Quella nuova vita che Agatha gli
prometteva
celava in sé, nel tessuto stesso dell'illusoria
felicità di cui era
composta, le sue minacce, e Samuel si ricordò appena in
tempo, un
momento prima di dire sì, a cosa andava incontro: sarebbe
stato
forse in grado di varcare veramente quel confine e vivere la vita che
Agatha gli richiedeva, e trascinarsi avanti, ancora avanti, dal
mattino alla sera, anche se insieme a lei?
L'illusione
passò lasciando dietro di sé una grande dolcezza.
Avvicinandosi a
lei sul prato vellutato d'erba, Samuel posò piano le mani
sulle sue
guance: trasalendo leggermente, Agatha continuò a sostenere
il suo
sguardo in attesa della sua risposta.
Chino
com'era su di lei, con gli occhi pieni del suo viso e le dita colme
dei suoi capelli dorati, Samuel mormorò: «Se me
l'avessi chiesto
prima di quella notte, io ti avrei detto di sì.»
Ciò
che avrebbe voluto che ella capisse dalle sue parole era che egli
rifiutava non lei, ma solo la vita ch'ella gli proponeva; e questo
non perché non l'amasse abbastanza, ma perché il
sepolto vivo aveva
esercitato sulle loro vite così tanta influenza, ch'egli non
aveva
più a quel riguardo alcuna libertà di scelta. Ma
quando
quell'ardore che aveva infervorato gli occhi di Agatha fino a un
minuto prima si spense per sempre, ed ella si sottrasse in silenzio
alla presa delle sue mani, Samuel temette ch'ella non avesse capito.
Col suo rifiuto egli aveva forse contribuito ad aggiungere altra
durezza al suo profilo già troppo severo?
Prolungare
ancora quell'addio sarebbe stata una crudeltà eccessiva e
inutile
per entrambi. Sforzandosi di sorridere nonostante il dolore che
minacciava di dilacerargli il petto, e tentando in ogni modo di
fingere che andasse bene così, Samuel disse:
«Addio, Agatha. So già
che sarai la Campionessa più bella e più
coraggiosa che l'Altopiano
Blu vedrà mai.»
«Già»
constatò Agatha a bassa voce. I raggi del sole calante
spiovevano
trasversalmente sul suo volto, donando ai suoi occhi una
luminosità
triste e malinconica che non si sarebbe potuta dire a parole. Si
strinse nelle spalle. «E tu...tu dirai a quelli
dell'Università che
avranno tra di loro il biologo più coraggioso e
più stupido
della loro storia. Siamo intesi?»
Nella
sua inflessibile severità, forse Agatha non sarebbe riuscita
a
comprendere mai davvero per quale motivo egli aveva scelto di
rinunciare a una carriera brillante e ormai già scritta, o
per quale
motivo avesse gettato via tutto il suo talento e il loro amore
rifiutando, quel giorno, di seguirla, e forse per questo lo
considerava stupido. Ma l'amarezza delle sue parole non trovava alcun
riscontro nel tremito sofferente e orgoglioso della sua voce, e
Samuel sapeva di amarla anche per la sua incomprensione e il suo
orgoglio.
«Siamo
intesi» promise, e Agatha accennò un sorriso.
Non
c'era bisogno di altri addii tra di loro. Dopo un'ultima, angosciosa
esitazione, Agatha si voltò e s'incamminò
lentamente lungo la
ripida via verso ovest, senza voltarsi indietro. Samuel rimase
immobile sull'erba fresca del percorso finché la lontananza,
o forse
il tramonto, gli sottrassero alla vista l'ultimo bagliore dorato dei
capelli di Agatha, prima di avviarsi in silenzio, solo, verso
Biancavilla.
Fine.
Eccomi
qua, finalmente, a più di un anno dalla pubblicazione del
primo
capitolo. Suppongo che il mio ritardo ad aggiornare, questa volta,
sia già abbastanza abominevole senza bisogno di
sottolinearlo
ulteriormente: mi dispiace davvero, ma purtroppo questo è
veramente
il massimo che sia riuscita a fare considerando le lezioni e gli
esami da preparare.
Finire
questa storia, dopo tutto questo tempo e questo lavoro, è
contemporaneamente un dispiacere e un sollievo, perché da
una parte
mi lascia libera di concentrarmi su altri progetti, ma dall'altra mi
accorgo che questi personaggi mi mancheranno moltissimo. Comunque,
come al solito, mi rendo conto che tutte le cose belle devono finire.
È stato un lavoro davvero grosso per me, tanto che qualche
volta
avrei voluto mandare tutto al diavolo e gettare nel cestino tutti
quei fogli volanti, ma ora che l'ho finito e che posso guardarlo
serenamente, lo rifarei, lo rifarei, lo rifarei.
Apro
una piccola parentesi che forse non importa a nessuno: anche se chi
mi conosce sa che non sono solita utilizzare foto o altri mezzi che
non siano le descrizioni per descrivere i personaggi, ove necessario,
questa volta ho deciso di fare una piccolissima eccezione, visto che
la storia è finita e quindi non mi pare di influenzare
l'immaginazione di nessuno se ricorro a un mezzo esterno per darvi la
mia personale visione fisica del giovane professor
Oak. Dato
che sono una grandissima appassionata del film Metropolis,
sappiate che per me Gustav Fröhlich sarebbe stato un perfetto
attore
per interpretare Samuel in questa storia. Detto questo, mi affretto a
chiudere questa parentesi!
Passo
ora a ringraziare diffusamente, come al solito, tutti coloro che
hanno seguito questa storia in qualsiasi modo e in qualsiasi misura.
Ringrazio quindi di cuore Bankotsu90, cristal_93, Gabbotron01,
Mad_Dragon, Persej Combe e yugen_roku per aver aggiunto la storia
alle seguite;
Gabbotron01
per averla aggiunta alle preferite;
cristal_93,
Mad_Dragon, Bankotsu90, Persej Combe, Sunshine_Drew, Gabbotron01, e
Fiulopis per aver recensito. (Ho seguito in tutti i casi l'ordine
delle liste dato dal sito; qualora mi fosse sfuggito qualcuno, si
tratta sicuramente di una svista e vi prego di farmelo sapere,
così
che possa correggere!)
Ringrazio
anche Fiulopis per avermi tirato una bottiglietta in testa quando
è
morto Arcanine... questo ringraziamento è un po' estraneo al
sito,
ma era dovuto! ;)
Una
volta conclusi i miei ringraziamenti, penso che non mi rimanga
davvero altro da dire. Grazie infinite a chiunque per essere anche
solo arrivato fin qui, e buon proseguimento!
Afaneia
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