Capitolo 2
La notte
più lunga
Decidemmo
di partire immediatamente lasciandoci i sconfinati boschi del Canada
centrale. Furono la mia casa fino a quel momento, ma sentivo sulle
spalle il peso di qualcosa di più grande di me. E che avrei
voluto
risolvere, così da spiegare il motivo degli allenamenti
così
incessanti. Così Kaze sentenziò la nostra
doverosa partenza: un
semplice “dobbiamo andare”.
Scendemmo
dalle montagne dell’Ovest del Canada…
verso l’Oceano Pacifico. Ci mettemmo quasi una quindicina di
giorni, tanto che mangiammo giusto per non “morire di
fame”
perché i nostri corpi…
soprattutto il mio…
erano predisposti anche al non dover dormire per giorni interi,
perché sapevamo che la missione era più
importante. E non una
parola da parte sua, dopo aver scalato intere montagne, attraversato
fiumi e lande desolate o incontrato indiani inseguiti da cowboy senza
scrupoli: tutto senza mai fermare il passo. Non c’era
concessa
pausa.
Sino
al decimo giorno: qualcosa la disse.
«Siamo
diretti a Vancouver e da qui ci vorranno altri due o tre giorni
massimo. Ho un amico che ci potrebbe accompagnare in Giappone. Si
ritrova a fare questa tratta – dal Giappone al Canada
– per
motivi a me strani, ma che mi ha permesso di trovarti…
anche se gli sgherri “dell’uomo che ha fregato la
morte”
m’hanno trovato lo stesso. Ha agganci in tutto il mondo
conosciuto
e credo che l’abbiamo già conosciuto tutto.
Nemmeno nei poli
potremmo nasconderci da lui. Ho avuto modo di conoscere la sua
crudeltà, nel mio paese, quando fece massacrare cinquanta
persone a
un funerale. Con il morto. Non so come ci sia riuscito, ma è
come se
avesse semplicemente chiesto al morto di alzarsi ed evidentemente
aveva dei risentimenti verso tutti i presenti: sono riuscito a
salvare la pelle del mio protetto per il rotto della cuffia!»
– Era pieno di risentimento, tanto che con la mano sinistra
tratteneva forte il manico della spada e con l’altra
stringeva il
pugno…
per trattenere la rabbia. Era da tanto che non parlava, forse per
questo che riuscì a confessarmi una parte della
nostra…
forse era mia soltanto… missione e non riuscivo ancora a
immaginare cosa mi sarebbe
aspettato in futuro, ma lui lo sapeva cosa mi sarebbe aspettato e me
lo stava deliberatamente nascondendo: senza una chiara
spiegazione…
o voleva proteggermi.
Tante
domande per nessuna risposta.
Cercammo
delle informazioni sul nostro uomo, ma nessuno sembrava saperne
niente…
anche su eventi straordinari accaduti nella zona, soprattutto
perché
Kaze era riuscito sia a ritrovare il dono della parola e sia
perché
avremmo dovuto poter bloccare esseri tipo L’Orso. Non avrei
più
dovuto rischiare d’abbatterli perché non hanno
saputo utilizzare
al meglio l’occasione di poter vivere. La vita è
un lusso che
nessuno dovrebbe sprecare: soprattutto io che non avrei più
permettermi il lusso di poter morire. Le informazioni raccolte ci
diedero la motivazione per muoverci: da alcuni poveri viandanti che
avevamo conosciuto per la strada verso Vancouver, apprendettimo che
nella suddetta città v’erano strani fenomeni di
sparizione…
gente che spariva senza un apparente motivo. La sera, soprattutto. La
particolarità era che erano tutti maschi adulti: anche
viandanti che
s’incontravano il giorno prima, il giorno dopo erano belli
che
spariti. Nessuna prova e nessuna traccia. Chiedemmo anche
dell’uomo
orso – L’Orso, dunque – e ci venne detto,
da indiani Cherokee
incontrati e fuggenti dalla furia dell’americano bianco,
della
leggenda di un grande sciamano divenuto tutt’uno con la
natura
divenendo lui stesso un’animale. Non ci dissero come avesse
fatto,
perché era oscuro anche a loro, ma erano sicuri che il nome
dello
sciamano fosse Grande Orso delle Montagne. Facemmo due conti e
capimmo che era lui quello che avevo quasi ucciso: se non fossi stato
io abbastanza debole e lui abbastanza resistente ai miei colpi,
sarebbe già morto e arrivai alla conclusione che il nostro
orso ha
incontrato già il nostro avversario.
Ricordo
come se fosse ieri tutti i chilometri fatti per arrivarci, a
Vancouver. Temetti di non arrivarci più e che avremmo
mollato nel
farlo, ma non fu così: forse la mia volontà era
da considerarsi più
forte di quanto m’aspettassi…
soprattutto per combattere una battaglia – o guerra
– contro un
essere che avevo soltanto sentito nominare, ma che ha combinato molti
più guai di quelli di un elefante in una cristalleria. Anche
se
dovrei capire chi va a mettercelo, un elefante in una cristalleria.
Avevo già visto quei territori, in spedizioni di caccia per
conto
degli altri indiani Cherokee migrati in Canada, ma non
l’avevo mai
attraversati per scopi personali. Erano soprattutto montagne
altissime tutte da scalare, scoscese e piene d’insidie: da
sconsigliare a persone non esperte. L’unico vantaggio era che
avevo
modo di cacciare molte alci e montoni per poter mangiare…
anche se avevo capito che non mi sarebbe nemmeno servito più
il
mangiare per sopravvivere e sarebbe stato il cruccio soltanto di
Kaze. In ogni qual modo, ci ritrovammo nella città di
Vancouver dopo
circa tredici giorni di veloce cammino. E tutto mi sembrava chiaro.
C’avvicinammo dalle montagne, in modo che nessuno ci potesse
vedere
arrivare. La città sembrava tutt’altro che
deserta, infatti in
circa vent’anni i coloni avevano già eretto una
delle città
destinate a essere uno dei caposaldi della nazione. Tutte le case
erano fatte in legno, quindi “facili” da costruire.
Villette a
schiera, tutte uguali e giusto qualcuna più alta per cercare
di
personalizzare il tutto. Scegliemmo di scendere in città di
notte. E
ovviamente avremmo dovuto dirigerci verso il porto senza essere visti
da nessuno. Seguii Kaze perché era chi tra noi due aveva
più
esperienza in queste cose, nonostante fossi leggermente più
pratico
della città di lui. Gli dissi che avremmo dovuto agire
velocemente
per il bene comune, ma rimanemmo vicini e facemmo attenzione a
qualsiasi minimo particolare. Vicoli non troppo stretti, appena
più
larghi dello spazio di due carrozze, ma nonostante la luna fosse alta
nel cielo, incominciammo a correre verso il porto.
«Chiunque
potrebbe essere una sua spia: ha lo strano talento di poterti
convincere di qualsiasi cosa e la cosa che meno ci serve al momento
è
attirare l’attenzione. Il porto è
dall’altra parte della città,
per cui non dovrebbe essere per
noi un problema
attraversare l’intera
città senza farsi notare. O i tetti, o dovremmo cercare di
diventare
invisibili» – Accennò sottovoce Kaze.
Risposi
soltanto con un cenno del capo, dicendo che avevo capito: tanto
l’avrei seguito… anche
sui tetti. E infatti, incominciammo a fare la nostra attraversata sui
tetti… partendo da un semplice salto sulla prima casa. Erano
alte sulla decina di metri, per cui non sarebbe stato un problema
salirvi e correre. E saltare da una casa e l’altra. Ma non ci
pensai e feci il primo salto. Riuscii perfettamente, tanto da darmi
la fiducia necessaria per compiere l’attraversata. Decisi di
riprovarci con la dovuta determinazione, in quel momento di tensione:
se mai fossi caduto, m’avrebbero notato e qualcuno
m’avrebbe
fatto domande assurde…
e non me lo sarei potuto permettere. Corsi senza sosta verso la
libertà ed evitando i camini delle case:
d’impiccio per evitare di
sfondare il tetto…
ci sarebbe stato troppo peso e non avrebbe retto, ma avrei dovuto
fare di tutto per evitarli e scalare anche i tetti più
obliqui. Per
farla breve: riuscimmo ad arrivare al porto senza troppi problemi,
dove lo stesso Kaze apparì più meticoloso del
solito. Eravamo
entrambi sulla banchina e circolavano, vicino a noi, altre persone.
Chiesi a Kaze se fosse il caso di mescolarci con loro, ma rispose che
era meglio di no e si diresse verso il fine di una di queste. Si
prese una lanterna portabile a gas, con tanto di manico, per farci
luce nella notte stellata…
tanto che un cane, al vederci, scappò via impaurito: forse
avrà
avuto paura di quello che porto dentro; non ci pensai molto, ma
continuavo lo stesso a ripetermi che avrei dovuto fare la cosa
giusta…
non avrei voluto convivere, per la mia intera vita – se mai
ce ne
fosse stata una fine – con il senso di colpa per non poter
rimediare ai miei errori. Stavamo osservando il mare, così
scuro e
illuminato soltanto dalla luna piena, che con la sua luce sembrava
quasi assisterci nel nostro viaggio. Le onde si rifrangevano sui pali
che reggevano la banchina e il vento soffiava delicatamente sulla
nostra pelle e alcune scatole erano poggiate vicino a noi, quasi a
denotare che la prossima imbarcazione sarebbe stata quella che
c’avrebbe permesso di partire senza che nessuno ci possa
riconoscere.
Passò
circa una decina di minuti dal nostro arrivo, nel mentre delle
lucciole passarono per il nostro stesso luogo e se ne andarono
subito, al sentire il rumore della nave in arrivo. Era maestosa, la
più grossa che vidi fino in quel momento, e Kaze
imbraccò la spada
e guardò la prua per vedere chi si sarebbe affacciato da
lì.
«Oooh,
salve a tutti i presenti. Uhm, siete soltanto in due…
quindi vi do entrambi il benvenuto sulla Prometheus, la nave che vi
porterà ovunque voi vogliate. È il vostro
capitano che vi parla:
Julius Barnes e v’invito a salire…
che siamo in partenza» –
Il capitano c’invitò a salire sulla nave e due dei
suoi “addetti
ai lavori” calarono il ponte, per farci salire, con estrema
velocità e precisione, tanto che in poco più di
cinque minuti
eravamo già sulla nave e iniziato tutte le procedure per
iniziare la
partenza per il Giapppone.
Incominciai
a osservare la nave, che prima di tutto tengo a precisare che
è una
delle prime ad andare a carbone e quindi era tanto maestosa quanto
rumorosa. Tutta in metallo, tanto che era paragonabile a un
transatlantico… lunga trecento metri, più o meno,
e larga sui
quarantadue metri, – mi sembra – e mi diedi subito
alla ricerca
degli altri passeggeri… non ne vidi sul pontile della nave,
per cui
pensai che stessero tutti nei loro alloggi, data anche l’ora
tarda.
Nel frattempo, Kaze si diresse subito nelle stanze del capitano per
proferirgli qualcosa – o almeno credo – e decisi di
stargli
vicino… giusto per essere sicuro che non avrebbe cercato di
fregarmi di nuovo: non mi piacque il tentativo di cercare di
nascondermi l’entità della missione e di
viscerarmela poco alla
volta… mica sono uno scriba, che gli bisogna dettare una
lettera
alla volta. Insomma, ci recammo dentro la nave e Kaze stava sempre
trattenendo la spada, come se avesse paura che un chicchesia avesse
la mera intenzione d’attaccarlo in un luogo stretto e poco
incline
alla fuga.
Tutto
questo, mentre la nave aveva già incominciato a prendere il
largo.
Intanto
Kaze incominciò a dare dei segnali d’impazienza,
mentre cercai
anche io di trovare la stanza del capitano, che era quella per fare
tutte le carte per l’imbargo. Tutte le camerate erano in
metallo,
come sopra e su di ogni porta v’era un oblò, con
il vetro blu
scuro ed era fatto per non far vedere all’interno della
stanza,
anche se a rigor di logica, dovrebbe esserci qualche cartello per
indicare la direzione per stanza più
“importante” di tutta la
nave… cosa che trovammo quando avevamo già fatto
tutto il primo
piano della nave ed era proprio di fronte a noi. Poche decine di
passi, nel mentre i miei sensi erano in fibrillazione perché
il
tutto stava diventando ancora più misterioso…
oltre alla
preoccupazione palesata dallo stesso samurai leggermente più
avanti
di me. Per farla breve: dalla stanza del capitano della nave ci
separavano soli pochi passi ormai, quando Kaze
s’avvicinò alla
porta e bussò con le nocche per tre volte. Poi
aspettò qualche
secondo, quando s’accorse che era già aperta e mi
fece segno di
stare attento: lo seguii… sia il consiglio e sia
nell’entrare
nella stanza del capitano Barnes.
«Entrate,
entrate… vi stavo aspettando» – Disse il
capitano, con tono
cordiale e sorridente. La sua voce era sempre cavernosa, anche se
mostrando felicità, potrebbe quasi assomigliare a un anziano
signore
delle montagne, ma eravamo in alto mare e da lui avremmo potuto
imparare molto.
Appena
entrammo nella stanza, il capitano s’alzò dalla
poltrona, stante
dietro la scrivania posta a qualche metro dalla porta e al centro
della stanza, e porse la mano a Kaze, che invece
s’inchinò verso
di lui unendo anche le mani – la sinistra a palmo aperto e la
destra, invece, a pugno chiuso – e anche Kaze aveva una
strana
espressione: aveva il timore di qualcosa e non l’avevo mai
visto
così turbato da qualcosa… e mi spaventava il non
sapere.
«Capitano
Barnes, dovremmo fare i documenti per il viaggio: dovremmo recarci
entrambi nel mio paese perché forse ho trovato la soluzione
ai
nostri problemi… il ragazzo alle mie spalle è uno
dei candidati
per poter costituire un baluardo di speranza, anche se flebile e
segreto, contro chi si fa chiamare “colui che ha fregato la
morte”
e quindi vorrei solo buttarmi alle spalle tutta questa storia, come
tu ben sai» – Questa volta, a parlare era Kaze, cui
tono divenne
alquanto ottimista, soprattutto nell’introdurmi a Barnes, che
divenne stranamente sorpreso della notizia e questo non è
che mi
fece impazzire dalla gioia, ma ero curioso di vedere come sarebbero
andate le cose.
«E
dimmi, com’è successo… intendo: come
l’hai trovato? E gli hai
spiegato tutto… intendo cosa sta realmente
succedendo?» – Il
capitano era ovvio, da come parlava, che aveva lui stesso dato allo
stesso Kaze alcune delle informazioni di cui disponeva e si
alzò
dalla sedia, per poggiare i palmi delle mani sulla scrivania e
fissare Kaze negli occhi, ma non era uno sguardo severo…
solo che,
per me, stava soltanto assicurarsi che il samurai mi avesse detto
tutto o semplicemente voleva darsi un tono per spiegarmi lui
“come
andasse realmente il mondo”. Il capitano era alto sul metro e
ottanta e abbastanza grosso da essere considerato quanto un
armadio…
capelli e occhi neri, come la pece e una pancia data dalla
costituzione abbastanza grossa e dal probabile consumo eccessivo di
birra, ma che non avrebbe messo a repentaglio la sua
capacità di
giudizio.
«Come
ho detto prima, io sono il capitano di questa nave: Julius Barnes;
quello che non sai è che ho avuto l’onore di
conoscere un altro
come te, ragazzo. Come te, intendo con l’antica
abilità di poter
fregare la morte. Lo chiamano “Il viandante”, per
la sua capacità
di riuscire a viaggiare senza cibo e acqua… per mesi interi
e senza
alcuna conseguenza. Oltre a questo, ho avuto modo di verificare di
persona quelli che sono gli effetti dello stare a contatto con
“l’uomo che ha fregato la morte” e ho
paura di credere che si è
rassegnati a vivere in un mondo pieno di esseri che potrebbero
conquistare il mondo… soltanto se lo volessero: tra cui
“l’uomo
che ha fregato la morte” e molti altri, cui ho avuto la
sfortuna di
portare incautamente a bordo. Non sembrano nemmeno più loro
quando
hanno il volto della morte addoso, tanto che si farebbe meglio a
toglierli di mezzo, ma non sta a dirmelo se la fortuna starà
dalla
nostra o meno. Giusto Kaze?» – Il capitano,
aspettando la
spiegazione di Kaze, decise d’inserire altri dettagli per
cercare
di spiegarmi come stessero realemente le cose, anche se lo stesso
samurai acconsentì con un cenno alle parole del capitano e
gli
rispose raccontandogli tutto quello che era… e
come… successo nei
quattro anni di convivenza forzata da chissà quale destino e
sembrò
non fare nessuna piega, ma gli incominciai a raccontare quello che
avevo scoperto d’essere e soprattutto come…
pensò soltanto a
qualcosa, ma poi prese un libro su cui annotò qualcosa e ci
diede
subito le chiavi della stanza. Era stanza 237, se non ricordo male.
Lo
ringraziammo e ce ne andammo per almeno rilassarci un attimo e
goderci il viaggio senza dover rendere conto a nessuno. Sentivo le
one del mare, ma che non mi davano alcun problema, ma nel cercare la
stanza, percepii un’energia strana nella stessa
nave… più tipi
d’energia strani, se devo essere sincero e avvertii Kaze,
almeno
per allertarlo e mi spiegò che la nave era solita
trasportare alcune
delle persone più potenti del mondo: tutti si fidavano di
Barnes…
come se tutti si fidavano di lui e che non volevano avere problemi
con lui. Sensazione che riscontrai anche io, ma che non presi in
valutazione – e considerare – quando mi trovai al
suo cospetto;
nel cercare la stanza perdemmo circa una decina di minuti dato che i
numeri partivano erano in ordine ascendente dall’ufficio del
capitano e quindi riprendettimo la strada che conduceva alle scale e
scendere a due piani più sotto di quello ove ci stavamo
trovando in
quel momento: ogni piano aveva cento stanze… cinquanta per
lato…
e quindi noi stavamo al terzo piano inferiore, come locazione. Tutto
in metallo, come l’intera nave, tanto che ne si notava
l’eccesso
uso… del metallo… che mi chiesi come facesse a
non essere
divorato dalla ruggine e poi capii, da solite ovvietà, che
sarà
stato adoperato qualche metallo che ne è immune e tutto
questo
ragionamento quasi inutile si radicò fino
all’arrivo nella stanza.
In essa, il samurai decise d’andare a dormire e di mangiare
l’indomani, ma io non riuscivo a dormire e decisi di vagare
da solo
per la nave.
Incominciai
ad andare in giro, vedendo che era come il corridoio di un comune
albergo… di quelli che si possono trovare sulla terra
ferma… e
decisi di trovare qualche indicazione per trovare solo qualcosa da
fare per ammazzare il tempo, ma l’unico cartello…
o
persona-cartello… che trovai fu un marinaio della nave che
mi
consigliò d’andare verso il bar della nave e nel
chiedere, capii
che non sapevo dove si trovasse e fu gentile nel condurmici. Era uno
stanzone… una sala da ricevimenti abbastanza grande da poter
intrattenere anche sul migliaio di persone… cui
v’erano un
centinaio di tavoli e una lanterna a olio su ogni tavolo, ma la cosa
che più m’incuriosii fu la desolazione legata a
quel bar: v’era
una persona soltanto e anche desiderosa di tanto silenzio.
Mi
recai comunque al bar: oltre ad avere bisogno di schiarirmi le idee,
sentii l’innaturale bisogno di bere qualcosa…
tanto Kaze era nel
mondo dei sogni, o io così credevo.
Appena
arrivato a uno degli sgabelli, mi ci sedetti e il barista mi chiese
cosa volessi ordinare e gli chiesi qualcosa che mi tenesse sveglio e
che mi schiarisse le idee. Fece lui, ma già…
l’ovvietà regna in
questo mondo… che m’avrebbe servito qualcosa
d’alcolico. Nel
frattempo, non mi riuscii mai a spiegare il motivo,
nell’attesa
incominciai a fischiettare, ma il mio cervello era come entrato in
una specie di trance e uscii una melodia indiana che la mia madre
adottiva usava per indurmi il sonno dopo giorni d’insonnia
perpetuata quasi volontariamente… quasi non ci pensavo
più a loro
che mi sembrava quasi d’averli dimenticati, ma
arrivò subito
l’ordinazione da parte del barista e la bevvi tutta
d’un fiato e
riposai il bicchiere sul bancone.
«Allora
avevo ragione… emani odore di morte, ragazzo!»
– L’altro
ospite del bar proferì parola con me, o almeno mi
sembrò di capire.
«Eh
già… o sei dalla parte del tizio che ha fregato
la morte, oppure
sei l’eccezione che conferma che ho sbagliato di nuovo il mio
compito e adesso dovrò farti capire tante cose;
l’unica cosa, in
tutto questo guaio, positiva è che sembri già
addestrato per
combattere. Mi presenterò soltanto perché sento
che di te posso
fidarmi, anche se sono sicuro che non saprai chi sono: tutti mi
chiamano Guy Fawkes, anche
se il mio vero nome è John Blank e posso fare tante
cose»
– Disse sempre il figuro appena presentatosi
perché percepente in
me quello che tutti dicono essere “un’aria di
morte”, ma non
avevo la percezione della mia stessa aura… anche se sentivo
quella
del mio interlocutore essere cupa, quasi di morte… forse non
aveva
mai ucciso nessuno, ma qualcosa neanche lui andava con La Morte e per
stroncare il mio sguardo pensieroso, mise la mano dentro la tasca ed
estrasse dalla sua tasca il bicchiere che avevo appena poggiato sul
tavolo e mi prese un colpo quando non lo vidi sul tavolo e strinsi il
pugno per cercare di non apparire stupido, ma solo troppo stupito per
ammetterlo.
Prese
a parlare una lingua che non conoscevo, almeno all’epoca, ma
che
stranamente capivo come se l’avessi sempre… come
una specie di
riconoscimento: credo che attualmente sia molto simile
all’arabo.
«Calma
indiano… ragazzo indiano, non voglio litigare, ma soltanto
conoscenza. E tu potresti fare proprio al caso mio,
ma…» – Ero
nervoso, ma neanche troppo, ma volevo comunque dimostrargli che ero
anche io parte di “qualcosa di speciale” e chiesi
al barista un
accendino e me lo diede, ma nell’accendere il fiammifero,
misi la
mano intera sulla fiamma e la mia mano prese fuoco… fino a
che lo
stesso Fawkes non smise di blaterare che non cercava la lite. La sua
sorpresa fu strana, o così mi sembrava, tanto che notai il
suo
guardare strabiliato la mia mano bruciare senza che io mi facessi
nemmeno una piega: la mia mano sarebbe rimasta senza un graffio al
termine della dimostrazione.
«Sorprendente:
un processo di immunizzazione dalle fiamme in corso…
è così
strano che quasi non credevo di potervi assistere. Ma se possiedi
abilità del genere, è strano che Parnassus non
abbia già mandato
qualcuno a cercarti» – Disse sempre il mio
interlocutore, sempre
in arabo così da farsi comprendere senza sforzo soltanto da
me e nel
frattempo il barista sparì, ma lo stesso Fawkes fece per
buttarsi su
di me e appena riuscì a toccarmi, mi disse di mantenere il
respiro.
Anche
se avrei appreso molto presto l’identità del
fantomatico
“Parnassus”.
Il
buio, per qualche secondo.
Poi
tutto divenne più chiaro: ci ritrovammo entrambi sul pontile
della
barca e con noi v’erano altri dieci figuri vestiti tutti come
Fawkes: tuniche nere partenti dal capo e finenti a terra, pantaloni
di tessuto leggero e scarpe di stoffa. Gli altri dieci, i probabili
sottoposti del mio interlocutore, erano in assetto da combattimento:
spade ricurve a mezzaluna e baffi intimidatori. Si posizionarono
tutti in modo da non permettermi la fuga, oltre a separarmi dal loro
capo, ma senza ingaggiare alcun tipo di battaglia. Mi scrutavano, per
cercare di capire cosa potessi o volessi fare, ma anche io stavo
facendo lo stesso con loro; però mi sorprese la
passività di Fawkes
in tutto questa specie di cerimonia laica per qualche tipo di
iniziazione in qualche setta segreta… infatti
tutt’e dieci
incominciarono a venire verso di me sotto l’effetto di una
strana
frenesia di morte. Dovevo ringraziare che la notte celava il nostro
combattimento agli altri turisti e la prua era abbastanza grande da
poter contenere chiunque avesse voluto assistere a quello che sarebbe
successo.
«Non
è nulla di personale, indiano: voglio soltanto essere sicuro
di
potermi fidare di te; anche se, in tutta questa storia, saresti solo
il pedone che è stato recuperato dal re bianco»
– Da quel
momento, riprese a parlarmi in inglese, anche se non gli sarebbe
servito parlare per dare gli ordini agli altri. E non ero sicuro cosa
volesse da me, tanto che strinsi i pugni per dimostrargli che non
avrei temuto nemmeno La Morte.
Il
primo dei suoi guerrieri m’arrivò alle spalle
usando la mia ombra
come una specie di passaggio, e da quel trucchetto di magia, capii
come aveva fatto a prendermi il bicchiere da sopra il bancone; sentii
il vento rasentarmi la schiena e una lama d’argento sfiorarmi
il
collo, ma riuscii a evitare lo sgozzamento in diretta per evidente
fortuna dei miei movimenti e nel muovermi, piegai il braccio destro a
gomito e sferrai una gomitata a “montante” verso il
mio primo
avversario, che una volta preso in pieno volto, cadde a terra
sputando sangue dalla bocca. Un solo rumore, quasi metallico e sordo,
si sentì per l’urto tra il mio gomito e la sua
mascella. Guardai
fisso negli occhi del capo di questa specie di congrega di
assassini…
perché questo sembravano, nonostante dovrei riconoscergli
almeno una
preparazione eccellente e se fossi stato meno esperto e resistente,
sarei da considerare soltanto un morto che parla; allora un altro dei
suoi intervenne a sincerarsi delle condizioni del loro collega e un
terzo, mentre io ero intento a osservare la scena, cercò
d’accoltellarmi alla schiena e nel cercare
d’infilare la lama
nella carne, la lama si spezzò in due e appena lo vidi, mi
voltai e
con la nocca della mano sinistra, lo colpii sempre in pieno volto e
anche questo finì a terra… sputante sangue dalla
bocca.
«Mi
stai sorprendendo sempre di più, ragazzo. Due dei miei
uomini
spezzati da un solo pugno: o vi è un cacciatore
nato… oppure vi
sono due prede e altre otto che finiranno allo stesso modo, se i miei
calcoli sono esatti. Anche se non riesco a spiegarmi come fai anche
ad avere un corpo che non può essere trafitto: potresti
essermi
persino utile, anche se vorrei testare le tue
abilità… prendila
come una prevenzione da parte d’entrambi. Se soddisferai le
mie
aspettative, ti renderò finalmente partecipe di tutto quello
che sta
succedendo qui e perché il samurai ti ha portato proprio da
Barnes.
Ti piace l’idea?» – Il mago con cui stavo
interloquendo sembrava
complimentarsi sia con me e sia con il suo stesso ego… credo
perché
era stato così intelligente da trovarmi prima che il lato
oscuro
dell’avere dei poteri quasi divini possa
corrompermi… e i suoi
abili servitori si scagliarono verso di me semplicemente scomparendo
dalla mia vista. Erano spariti… o s’erano resi
soltanto
invisibili ai miei sensi… oppure volevano farmi scontrare
direttamente contro Fawkes; aspettai di capire, anche se risposi
semplicemente mostrando i denti di sotto avanzando leggermente le
ossa delle mandibole inferiori – un segnale usato dagli
animali per
la comunicazione del territorio – e fu lo stesso Fawkes a
scomparire, portandosi dietro di me sfruttando l’ombra
riflessa di
uno dei suoi servitori.
«Fermo
un secondo: già ho visto usare
un’abilità del genere… non oggi,
s’intende. Esattamente che c’entri con
“l’uomo che ha fregato
la morte”?» – Dissi, quasi a dentri
stretti e stringendo i
pugni. Mi tolsi anche la maglia, perché mi dava soltanto
impiccio
nei movimenti: soprattutto perché il mio avversario aveva
l’aria
d’essere uno ostico da buttare giù e lui si
fermò. Sorridente.
«Hai
posto la domanda che nessuno mi ha mai fatto: cosa c’entro io
con
“l’uomo che ha fregato la
morte”… che ironia. Sono una delle
poche persone che ti può dare una mano senza avere qualcosa
in
cambio ed entrambi vogliamo ritardare la morte delle persone, in
questo mondo di ritardati senza speranza! Dove hai visto già
usare i
miei stessi trucchi? Se te lo posso chiedere» – Mi
rispose il mio
itnerlocutore, quasi proclamatosi “il mio
salvatore” e con toni
da delirio d’onnipotenza, ma credo che mi volesse davvero
aiutare
nello stanare quel figlio di puttana che già
m’aveva portato già
via molte delle poche persone a cui tenevo e avevo intenzione di
fargliela pagare, ma cercavo soltanto di mettere insieme i pezzi di
questo fotttuto puzzle e lo stesso Fawkes sparì di nuovo, ma
senza
le solite ombre: direttamente.
Non
si vide per qualche minuto.
Solo
i corpi degli stronzi vestiti di nero erano giacenti al suolo. Mi
guardavo attorno e la situazione era che continuava a esserci
nessuno: anche gli altri erano scomparsi. I due erano morti, ma
nessuno li aveva ancora recuperati… mi sembrava strano e
chiusi gli
occhi per concentrarmi meglio e usare le vibrazioni come strumento
per percepire qualsiasi cosa attorno a me; oltre al rumore delle
onde, nient’altro: solo un rumore, quasi ancestrale, che
qualcuno
chiamava “il rumore dell’universo”. Non
troppo radicato nel mio
“povero” cervello e aspettai che Fawkes si facesse
rivedere.
Forse
avevo scoperto qualcosa e non voleva darmi le informazioni che mi
servivano per avere un quadro generale, però un tarlo me
l’aveva
messo: il cacciatore d’indiani e L’orso sono stati
portati via da
utilizzatori delle ombre… quindi da uno di loro…
o da lui stesso.
Era sicuramente collegato sia con i miei due precedenti avversari e
sia con lo stesso “uomo che ha fregato La Morte”:
questo l’ha
sia confessato lui e sia c’ero arrivato anche io…
oltre a dirmelo
anche Kaze, in via trasversa. E da aggiungere che ne avevo abbastanza
perché non avevo abbastanza informazioni su quello che avrei
dovuto
fare… oltre al dover fermare chiunque dovesse compiere un
crimine:
quindi, anche Kaze e chiunque stessero pensando che sia un vero
idiota e volermi facilitare la comprensione del mio compito?
La
risposta non si fece attendere: Fawkes tornò, ma da
solo… non
sapevo se era lì solo per voler recuperare i corpi stremati
dei due
assassini – me ne accorsi soltanto quando riuscii a
concentrarmi
davvero – e comparve dietro di me, con le braccia conserte e
con il
sorriso stampato sul volto. La situazione era sempre la stessa,
nessun cambiamento da pochi secondi a quella parte.
«Ho
chiesto in giro: è stato uno della nostra setta…
L’Ombra. Ma
siamo divisi in due gruppi e io sono il capo nel gruppo di uno dei
due: siamo quelli che proteggono il mondo da chi non può
essere
fermato e usa il suo “essere” per eseguire dei
crimini. Siamo dei
cultori della morte, per capirci. E in tutto questo, tu saresti un
altro di questi esseri che stiamo monitorando da quando hai
incontrato il samurai quattro anni fa e anche la parte legata
più
“all’uomo che ha fregato la morte” ti
sorveglia da allora.
Avranno già fatto dei test su di te, mandando qualcuno o
portando la
morte a qualcuno a cui eri legato… giusto?»
– Praticamente si
confessò e da questo suo parlare capii che era sincero e ci
credeva
veramente in chi era e in quello che faceva: l’istinto mi
diceva
che potevo fidarmi di lui e che avrebbe potuto spiegarmi quello che
sia il capitano e che sia il samurai non volevano… o che non
hanno
voluto dirmi; gli risposi che avevano ucciso i miei genitori adottivi
e che avevo visto una strana donna in abito nero che era comparsa
subito dopo la loro morte.
«Questo
modifica di molto le cose: hai incontrato quella che io chiamo
“la
dama nera”… e ne sei uscito vivo. Allora se
Parnassus ha voluto
influenzarti, ti crede una minaccia. Ha già fregato una
volta la
“dama nera” o La Morte, ma scoprendo che
c’è un altro come
lui, porterebbe il tutto a un altro livello per entrambi.
Com’è?»
– Fawkes… o Blank… m’aveva
semplicemente reso quello che
cercavo facendo soltanto la domanda giusta a chi di dovere. Mi chiedo
come lui sappia della morte, ma non avrei voluto avere
“tutte” le
risposte immediatamente, ma puntai a descrivergliela, ma omisi sia il
motivo per cui l’avevo incontrata e sia quello che successe
dopo.
Volevo cercare di scoprire pian piano cosa stava succedendo
lì, ma
fosse così tanto informato sul resto della questione,
avrebbe lui
parlato senza che avessi dovuto fargli chissà quante domande.
«Come
sempre… bellissima… e nessuno è
riuscito mai a vederla più di
una volta nella propria vita. Anche io l’ho vista e per
questo mi
sono deciso nel voler aiutare La Morte nell’equilibrare le
sorti
dell’universo. E mi chiedo: tu da che parte stai?»
– Mi sarebbe
bastato lasciato parlare, ma quello che volevo sempre più
sapere era
lui cosa c’entrasse con La Morte… non era un
semplice cultista
della morte, ma stava
dando
sempre più il sospetto che fosse invischiato in questa
storia quanto
me e non lo voleva ammettere. Respirai un secondo, ma sentivo
stranamente che avrei dovuto mangiare qualcosa… anche se non
era
necessario che mangiassi – le mie abilità mi
tenevano stranamente
in vita… o semplicemente sentivo leggermente fiacco
– e mi toccai
la pancia. Vedevo la sorpresa nel suo volto, come se fosse sempre
più
incuriosito verso un ragazzo che non aveva ancora una comprensione
sul suo potenziale.
«Sto
dalla parte di chi non mi crea problemi!» – Parlai
con voce
affaticata, ma non sapevo cosa mi stesse succedendo…
sarà stato il
non ingerire cibo da quando siamo partiti e il vivere usando gli
elementi a mio vantaggio non era stato abbastanza: capii di saperlo
fare quando Kaze lo notò in uno dei nostri allenamenti,
durante il
periodo passato sulle montagne canadesi… precisamente nella
regione
dell’Alberta, ma sostanzialmente volevo mangiare.
«Curioso…
hai subito un calo d’energia: cioè, anche tu ne
soffri la mancanza
e funzioni come tutti quanti noi e come anche Parnassus stesso. Tutte
queste scoperte mi stanno rendendo felice d’aver pagato
persino
questo viaggio, ma non sei ancora pronto per sapere io realmente chi
sia: c’è una parte di me che ti sto tenendo
volutamente nascosta
per evitarti dei traumi esistenziali. E dire che sei stato proprio tu
a farmi capire chi sono, ma è un’altra storia!»
– Disse, con atteggiamento folle e del tutto sconsiderato,
Blank…
a cui stavo incominciando a considerare che
l’identità di Guy
Fawkes come una semplice maschera e identità di facciata per
qualcosa d’ancora più oscuro: faceva finta di
usare le ombre.
Usava
il teletrasporto, lo stronzo.
Come
fece in quel preciso momento, che scomparve e mi lasciò da
solo…
solo inizialmente, perché ricomparve anche per prendere gli
altri
due corpi morti dei suoi servi guerrieri.
Mi
sorrise, beffardo della mia ignoranza… non
m’interessava
fermarlo, ma avrei dovuto fermare la volontà dei due miei
“conoscenti” di lasciarmi quasi da parte; non mi
consideravano
pronto per fare quello per cui m’avevano assoldato loro
stessi…
prima Kaze e poi anche il capitano Barnes. Anche se la cosa
più
strana che nessuno dell’equipaggio avesse avuto
l’ordine
d’intervenire per evitare che ci fosse il combattimento,
anche se
erano le undici di sera… più o meno… e
in tutto questo, la colpa
di tutto era soltanto la mia. Non ero in grado di battere nessuno di
realmente così forte: Kaze, Blank e anche lo stronzo che mi
ha fatto
cadere un’orso da un albero di almeno venti metri. Non
m’ero mai
scontrato con qualcuno di così forte da mettermi al tappeto
e non mi
sarebbe importato d’essere ancora
all’inizio… anche se con
L’orso stavo rischiando, mi è bastato impegnarmi
leggermente e ho
fatto quello che dovevo fare. Nella vita basta allenarsi e
applicarsi: ed è tutto qui, il segreto per essere persone
migliori.
Rimasi
qualche minuto a ragionare da solo, nel frattempo decisi di dirigermi
verso le cucine per via dei mormorii prodotti dalla mia pancia:anche
se avrei dovuto percorrere tutta la strada per ritornare al bar della
nave e mi sarei dovuto impegnare anche soltanto per mangiare. Mi
recai verso l’interno della nave, usando la porta per
accedervi
dalla prua e incominciai ad addentrarmici, notando che comunque non
c’era nessuno: come se tutti si fossero volatilizzati; mi
diressi,
prima di recarmi nelle cucine, dal capitano Barnes: avrei voluto
incontrarlo per dirgli che avevo scoperto in meno di venti minuti
quello che in quattro anni Kaze non ha voluto dirmi. Non ci misi
troppo ad arrivare fuori dalla stanza di Barnes, forse qualche minuto
perché il dolore era sempre più forte e
lancinante, ma non mi
sarebbe servita l’infermeria… forse soltanto un
medico bravo e
qualcosa da mangiare.
Aprii
la porta, quasi sfondandola.
Mi
vide… Barnes… sbigottito e cercò di
capire cosa mi fosse
successo, ma fece di tutto per pormi subito una poltrona per farmi
sedere in quella stanza piena di mobili e quadri alle
pareti… cosa
che feci subito e mi tolsi la mano. Quello che trovai era una specie
di disegno… che lo stesso Barnes mi disse essere una runa,
ma non
ne riconosceva la natura: sicuramente nel combattimento con Blank
sarà successo qualcosa che me l’avrà
procrurata. Era nera, sotto
lo sterno, non troppo vistosa e quasi scavata nella pelle…
ormai il
dolore stava anche svanendo. Barnes la fissò, mentre mi
chiese cosa
fosse successo e dove fossi stato.
«Ho
incontrato un tizio al bar che mi ha condotto senza respiro sulla
prua della nave e dopo di lui sono arrivati altri dieci
tizi… suoi
colleghi… e hanno cercato di combattermi o di
testarmi… o tutti e
due: avevo fame e sono tornato qui, appena lui è scomparso
con tutti
gli altri… anche se sono riuscito a farne svenire fuori due:
io non
uccido, anche se sono cultisti della morte!» –
Risposi, di scatto
e con pensieri sconclusionati, quasi di fretta e senza nessuna
pretesa di farmi capire fino in fondo: volevo rimanere sul vago,
soprattutto perché non mi riuscivo a fidare di Barnes dopo
il non
avermi detto molto di quello che sapeva… o era tutto quello
che
sapeva.
Nel
frattempo, incominciai a rilassarmi sulla poltrona ove ero seduto. Mi
davo anche un’occhiata in giro per cercare di notare se ci
fosse
qualcosa in giro che potesse servirmi, anche il mio istinto mi stava
dicendo che il mio interlocutore mi stava nascondendo
qualcosa…
anche se non sapevo cosa; cercavo con gli occhi, ma tra i molti libri
e le molte carte geografiche, non riuscivo a trovare nulla.
«Ascolta
ragazzo. Non ti ho dato, almeno io, le informazioni che ti servivano
perché ognuno di noi è stato segnato da questa
“guerra” a modo
suo e stiamo cercando d’evitare che altri possano farsi
rischiare
la pelle per causa nostra. Semplice e conciso: per questo ci servi
tu… proprio per riuscire a evitare che altri possano farsi
male e
sappiamo entrambi che riuscirai a darci una mano. Semplice e conciso»
– E si confessò, ma non troppo. Non erano troppe
le informazioni
che mi sarebbero dovute arrivare da qualcuno conosciuto neanche
quaranta minuti prima: anche se Blank me ne diede di più in
meno
tempo; tanto che prese a spiegarmi come lui aveva conosciuto
L’Ombra:
i membri della setta erano frequentatori della sua nave, soprattutto
da quando prese il titolo di capitano presso la Royal Navy
una decina d’anni prima, l’usavano come trasporto
del loro
personale…
oltre all’aver preso informazioni su di loro e quando gli
descrissi
l’identikit di Fawkes, sbiancò.
«C…come
hai conosciuto Fawkes…
si dice che sia uno dei più forti della setta…
oltre a essere
stato l’unico ad aver avuto una “filosofia diversa
dell’uso
della morte”… sarà successo qualcosa di
grave se è sceso lui in
campo: mi domando, però… come hai
fatto?» – Oltre ad arretrare
di qualche passo da me, e poggiando la mano sul tavolo,
inziò a
balbettare qualcosa.
Gli raccontai
come l’averlo
semplicemente incontrato nel bar della nave e averci fatto una strana
conversazione su quanto puzzassi di morte, ma aggiunsi che avevo
capito il messaggio a metà: non volevo dargli troppe
informazioni,
perché non mi riuscivo a fidare di lui fino in fondo. Non
sapevo il
motivo di tale sensazione… perché era strano che
non sapesse della
presenza di Fawkes sulla sua nave. Non avrebbe dovuto nascondermi una
notizia del genere, perché così rese ancora
più dificile il
potermi fidare di lui: tanto l’avrei abbandonato appena
lasciata la
nave. E seguendo questo flusso d’idee che avevo in testa, mi
recai
direttamente nella stanza da Kaze: ero furioso con lui,
perché anche
lui… calcolando le motivazioni del silenzio di
Barnes… era suo
complice nel rendermi il mio compito più difficie. Sbattei
la porta
dell’ufficio del capitano senza dare spiegazioni…
nonostante
fossi leggermente meno dolorante e l’unica cosa che mi faceva
andare avanti era la determinazione di terminare tutta questa storia
nel minor tempo possibile: tanto sapevo già cosa dovevo fare
e cosa
avevo già perso, nonostante Parnassus sapeva
cos’altro togliermi.
Arrivai da Kaze sbattendo la porta della stanza e lo svegliai:
s’era
addormentato… forse s’era affaticato anche
lui… e nello
svegliarsi, mi guardò come se stesse ancora dormendo e
cercò di
svegliarsi molto velocemente, chiedendomi cosa fosse successo.
«Conosco
tutta la storia: o
almeno credo d’aver capito cosa tutti volevate dirmi. Ho
incontrato
una persona che semplicemente m’ha fatto capire cosa dovessi
fare:
bisogna battere Parnassus… questo è il nome
dell’uomo che ha
fregato La Morte e chiunque volesse combatterlo. Quello che ci ha
tolto tutto quello che avevamo e il motivo per cui io e te ci siamo
trovati a sputare sangue, ma quello che conta di più e il
trovarci
pronti a fare tutto tutto il necessario» – Mentre
stavo parlando,
Kaze stava cercando di svegliarsi, mentre ero arrabbiato e frustrato
perché mi sentivo immobile e impotente nel non poter far
niente. Non
fece altro… Kaze, nell’invitarmi a sedere vicino a
lui e gli
spigai che non mi fidavo della volontà di non intervenire
più
incisivamente del capitano del capitano. Lui mi disse che
c’era
passato anche lui, avendo molti dubbi su quello che avrebbe dovuto
fare ed era sempre stato un guerriero solitario, nonostante ha visto
i suoi compagni passare dalla parte del nemico con così
tanta
facilità… fino a quando non incontrò
me e il fatto che non avessi
più nessuno in cui poter credere… lui
cercò di diventare un
modello d’ispirazione per me.
Io gli
credevo… tutt’ora lo
ringrazio per avermi ispirato a diventare chi sono in questo momento.
Ritornando a
noi, iniziai a
percepire di nuovo quel fuoco dentro di me che non sapevo spiegarmi,
ma quella volta, fece reazione con la runa che avevo sulla pancia e
come per magia… pensai che lo fosse realmenteapparve Blank
in tutto
il suo “oscuro splendore”. Sorrise e capii che era
una runa per
rivelare la mia presenza… aiutato anche dall’ovvio
avvenimento.
La sorpresa
risultò stampata sul
volto di Kaze.
Ci prese
entrambi e ci portò
sulla prua della nave. Ci guardò e ci chiese per quale
motivo
l’avessimo chiamato… e poi rivolse il suo sguardo
verso la mia
pancia, pose una mano sul capo e si massaggiò il mento.
«Capisco,
il piccolo scherzetto che ti ho fatto… l’ho fatto
perché non
volevo che ti ritrovassi senza una guida che ti dia le giuste
informazioni. Una persona… di mia conoscenza, mi
disse… nella mia
giovinezza: non importa ciò chi sei nella tua vita, ma
l’importante
è come usi il potere che hai nelle vene. E io
completerei… e
secondo me, l’avrà fatto anche chi mi ha elargito
questa “verità”…
con una piccola “considerazione personale”: bisogna
avere, nei
momenti di completo smarrimento, chi ti possa gettare una corda per
poter uscire dal pozzo della depressione… e ovviamente, chi
ti
tende la corda, di solito, è qualcuno che dovrebbe esserci
passato.
Vedi, ragazzo… non ci vuole niente per fare qualcosa di
buono…
anche una sola parola è importante a questo mondo. Dove
eravate
diretti voi due?» – Parlava sempre troppo. Nel suo
interloquire,
era sempre dannatamente prolisso… che poi voleva dire la
stessa
cosa. Fece qualche passo avanti e poi ritornò, subito dopo,
nella
posizione di prima. Guardò di nuovo Kaze e poi di
nuovo… un’altra
volta. Fece un cenno e da solo… nel suo
divagare, ci suggerì soltanto di chiudere gli occhi e di
trattenere
il respiro: aveva la soluzione.
«Com’è
possibile? Siamo arrivati a casa mia!»
– Apostrofò
Kaze, aprendo gli occhi e poi lo feci anche io. Ci
ritrovammo realmente dentro l’appartamento di Kaze: in
Giappone.
Non era troppo grande e nella stanza ove eravamo comparsi
tutt’e
tre, v’era un materasso poggiato a terra e tavolo basso usato
sia
come comodino e sia come tavolo da pranzo: lo notai perché
era
posizionato giusto una decina di centimetri dal materasso. Per il
resto era alquanto spoglia, citando anche una libreria con tutti i
saggi riguardanti le arti marziali e la filosofia.
Nessuno dei
tre si scompose,
anche se Blank tolse subito il disturbo: aveva altro da fare, disse.
Kaze si
recò nella cucina e vide
che era rimasto soltanto il riso come cibo commestibile. Il suo volto
era visibilmente spento. Toccava gli arredamenti come se non credesse
d’esseri lì, come se per lui fosse tutto
un’illusione. Si
grattava la testa con l’altra mano, per cercare di capire
come
funzionasse il tutto: evidentemente non aveva le conoscenze
necessarie per comprenderlo, ma decise che quello non sarebbe dovuto
essere il momento per indugiare e di passare all’azione.
Infatti,
dopo aver preso il tutto per cucinare, tra padelle e il resto, fece
tutto quello che avrebbe dovuto fare per mangiare qualcosa dopo i
recenti avvenimenti e procedere per i prossimi.
«Mi
chiedevo: come l’hai
conosciuto quello lì?» – Mi chiese Kaze,
mentre già stavamo
mangiando vicino al materasso e dopo essersi assicurato che il tutto
fosse apposto. Era perplesso: le ciglia gli si tesero leggermente
vicino al naso e il resto del volto quasi si spense. Era la prima
volta che lo vidi quasi depresso perché lui era sempre
quello che…
tra i due… aveva sempre tutte le risposte, ma non era quella
la
l’occasione; ci mettemmo poco per mangiare, nonostante avesse
cucinato più di due chili di riso in bianco: era abbastanza
ricco
per poterseli permettere, da quello che potei ipotizzare quella
volta. Nel mentre, gli raccontai come feci a conoscere Blank, poche
ore prima – una o due, proprio per essere pignoli –
e non fece
una grinza. Il dubbio rimase sempre sul suo volto, anche se non
credevo nel suo… come il mio… riuscire a
comprendere qualcosa di
cui non ha minimamente la condizione di causa e gli chiesi per quale
motivo fossimo venuti fino a qui: quale fosse il senso di tutto
questo viaggio.
«Per
bloccare il “Quartetto
dell’Imperatore”: i miei vecchi compagni di
commilitone. Sono
passati dalla parte del nemico quando “l’uomo che
ha fregato la
morte” si è rivelato qui, in Giappone. Non
s’aveva né di quello
che sapesse fare e né chi fosse: dopo l’assalto
che fece al
funerale, di cui già ti avevo accennato, dietro al cadavere
si
eresse un uomo. Era mostruoso, tutta la pelle era bruciata e i denti
erano aguzzi… aveva un aspetto demoniaco, anche se posso
giurare
che era un uomo. I suoi occhi erano rossi, forse dal troppo sangue
circolante nel corpo… di cui l’unica cosa
probabilmente umana
erano i capelli: erano poche le cose che ricordo di quel mostro.
Comunque, i mei compagni di squadra passarono tutti dalla sua parte,
soprattutto perché quel giorno scoprirono che portare la
morte ai
loro nemici non aveva più senso se ci fosse stato qualcuno
che
avrebbe reso invano ogni loro sforzo. Infatti, riuscii a portare
l’imperatore al sicuro in una zona che renderebbe vano
qualsiasi
tentativo di recupero da parte di chiunque. Ti conviene indagare, io
sono riconoscibile qui» – Poche parole per dirmi
che avrei dovuto
agire. Anche se chiesi se ci fosse qualcosa d’abbastanza
consono
per potermi camuffare, ma l’unica cosa che mi
passò Kaze era un
kimono che m’andava un po’ più stretto
del normale. E mi decisi
a “partire”.
Seguii il suo
consiglio e aprii
la finestra della cucina, dicendogli di chiuderla appena fossi uscito
e mi buttai giù da essa. Scoprii che erano una decina di
piani,
dalla finestra della cucina di Kaze, ma il cervello mi diceva
così e
l’assecondai; ebbi, nel frattempo, modo
d’osservarmi attorno e
vidi i molti palazzi che s’alzavano verso il cielo, mentre mi
stavo
schiantando a terra perché stavo cercando di trovare un
po’ di
libertà.
Atterrai…
non mi vide nessuno,
anche se lasciai un piccolo cratere. Dopo tutto, ero caduto da una
ventina di metri… più o meno… anche se
rimasi illeso. Decisi di
perlustrare la zona, per cercare le informazioni su dove avrei dovuto
trovare questi fantomatici alleati di Parnassus. Non sapevo dove
cercare, ma pensai di cercare qualche posto ove fossero segnalati i
posti vicino a me… meno male che Kaze m’aveva
insegnato il
giapponese, negli anni in Canada… per cui riuscii a
destreggiarmi
anche con la difficoltà linguistica e iniziai a vagare lungo
il
marciapiede. Mi diressi verso sud, in quello che dopo compresi essere
il centro di Tokyo, nel mentre incominciai a fischiettare senza un
valido motivo… forse era soltanto il mio cervello che
cercava di
ragionare senza problemi… e mi guardai attorno; la
città era in un
ottimo stato, nel mentre le poche carovane e macchine passanti a
quell’ora davano un piccolo contorno rustico a tutta la
situazione.
Avendo percorso già qualche chilometro, decisi di
focalizzare la
mia attenzione sui posti dove era più facile conversare:
quindi bar
e osterie. Cercai con gli occhi, ma non trovai molte informazioni,
anche se mi meravigliai della poca informazione per posti che
dovrebbero cercare d’attirarle… le persone e gli
unici negozi
aperti erano proprio i bar e i chioschi all’aperto per il
cibo di
strada. Avevo già mangiato e comunque non me lo sarei potuto
permettere, mentre però m’avvicinai a uno di
queste specie di
tende ove ti danno il cibo direttamente in strada per chiedere dove
potessi trovare il “Quartetto
dell’Imperatore”… in un
giapponese abbastanza fluente. Il venditore, che fortunatamente per
me, era senza clienti in quel preciso momento, sbigottì a
sentire
quel nome da qualcuno che non sembrava giapponese nemmeno a pagarlo
oro e semplicemente mi disse che non era disponibile un piatto con un
nome del genere. Il “Quartetto
dell’Imperatore”… un piatto:
che diavolo aveva capito. Gli spiegai cosa stessi cercando di preciso
e quando finii di parlare, fece qualche passo indietro…
mentre
prese il coltello che aveva lì sul banco da lavoro e
cercò di
colpirmici, ma non sapendo che non m’avrebbe fatto niente, lo
fece
lo stesso e appena il coltello sembrò toccare la mia pelle,
mi
ritrovai sul tetto del palazzo ove vicino v’era il
venditore… se
non mi ricordo male, era di gamberetti fritti.
«Che
cosa avevi intenzione di
fare… idiota?» – Un uomo vestito uguale
a Blank m’aveva tratto
in salvo da un bordello che non avrei avuto modo di riparare,
soprattutto perché non avevo tutto il necessario per
condurre una
ricerca di così alto livello. Era visibilmente preoccupato,
soprattutto perché anche io sapevo chi era il suo capo e
cosa
“teoricamente” fosse in grado di fare…
anche se m’invitò a
sporgere la testa e vidi che c’erano degli uomini vestiti di
nero
che stavano perlustrando l’ambiente proprio dove stavo io
pochi
minuti prima: evidentemente altre persone erano sulle mie tracce e io
non ne sapevo niente. O m’ero illuso del fatto che
m’avrebbero
lasciato fare il tutto senza interruzioni.
«Cercare
informazioni, ovvio:
non è colpa mia se sono stato lasciato qui senza e me le
devo andare
a cercare senza sapere nemmeno dove dovrei andare?»
– Risposi a
tono, avendo anche compreso il rischio che avrei corso nel farmi
trovare: ero formalmente un ricercato da chiunque avessi chiesto
anche una sola informazione. Non potevo fidarmi, fondamentalmente, di
nessuno. E tutti mi stavano già pedinando, come appena visto.
«Se
Fawkes vi ha mandato qui, è
perché sapeva gli avete suggerito voi sia il luogo e sia che
avreste
trovato ogni tipo di risposte… soprattutto quelle che vi
sarebbero
servite per il completamento della vostra missione, ma capisco che
essendoti fatto beccare in cinque minuti: hai il potenziale, ma non
lo sfrutti a dovere. Dammi la mano che ci penso io»
– Il tizio era
sicuramente dalla parte di Fawkes, anche se non avevo molti elementi
per definirlo, ma non era nemmeno grosso… il tizio. Non era
minaccioso, forse misterioso, ma qualcosa diceva di fidarmi di
lui…
tanto valeva ascoltarlo senza fare troppe domande.
Mi fidai di
lui e mi ci
avvicinai… così lui mi prese la mano e ci
spostammo usando l’ombra
della canna fumaria posta a quache decina di centimetri da noi.
Facemmo tappa
in uno dei
moltissimi vicoli di Tokyo, dove era difficilissimo sia entrare e sia
uscire con la dovuta sicurezza di rimanere vivi e ricordo che per me
era sempre era sempre una paura di non sapere cosa mi sarebbe
successo l’attimo dopo… mi lasciò di
fronte a una porta. Era in
fondo a questo vicolo, nella parte contraria all’ingresso
nella
strada principale e tra i tanti scatoloni, secchi dei rifiuti e
qualche barbone, v’era questa porta in legno
scuro… forse
ciliegio, non ricordo, ma ero sicuro essere imponente. Sui tre metri,
o giù di lì. Notai che un uomo uscì da
quella porta e si portò
quasi a sbarrarmi il mio probabile accesso, ma non sembrava nemmeno
darmi corda. Preso da una strana curiosità, mi ci avvicinai
e lo
fissai. Era grosso, più che altro grasso. Pelle
pulita… almeno in
apparenza e occhi a mandorla, come Kaze. Evidendentemente, era del
luogo e la canotta bianca gli era del tutto aderente. Lo guardai e
lui non fece una grinza, fino a che non gli chiesi cosa ci fosse
lì
dentro e lui mi rispose, di getto, che non mi doveva
riguardare… ci
rimasi leggermente male perché pensavo che fosse stato
più
semplice, ma forse il mio giapponese non era così chiaro da
essere
di facile comprensione a tutti.
«Forse
non mi sono spiegato…
non sono del luogo e ti sto chiedendo soltanto
un’informazione da
turista: cosa c’è lì dentro?»
– Chiesi, cercando sempre di
farmi comprendere, ma nel concentrarmi notai che all’interno
del
piano terra del palazzo v’erano una trentina di persone al
massimo
e dalla velocità del battito cardiaco, un cinque…
o sei…
l’avevano accellerato… per cui il tizio di fronte
a me era solo
un deterrente per chi volesse entrare a controllare. Ormai
l’avevo
capito e tutto il mio interesse s’era vincolato a questo
controllo:
se poi m’avrebbe dato una mano per la mia “missione
principale”…
tanto meglio.
«Io
ti ho capito benissimo, ma
qui non si può entrare!» –
Parlò alzando la voce, ma non mi
faceva paura, anche se era alto due metri e grosso di stazza, sapevo
d’essere più forte di lui e l’ascoltai
solo per capire se aveva
capito; tutto sarebbe stato fantastico, per lui, se
l’appartenente
di uno dei cuori che aveva il battito accellerato, non incominciasse
a parlare frettolosamente e con voce agitata: la voce era femminile e
pregava – evidentemente – il suo interlocutore di
non farle del
male e che gli avrebbe pagato qualunque somma, basta che
l’avesse
risparmiata. Nessuna risposta nei successivi due minuti nonostante
stessi focalizzando quasi tutta la mia attenzione nel capirci di
più:
lì dentro stava succedendo qualcosa e io sarei stato
l’unico che
avrebbe dovuto avere la giusta motivazione per risolverla. Non la
conoscevo, ma un istinto primordiale di protezione mi sopraggiunse
come un pugno nello stomaco e l’unica cosa che avrei dovuto
fare
era entrare e rimediare a uno scherzo del destino… verso di
me.
Nel frattempo,
il cultista se ne
era già andato, ma appena feci per avvicinarmi alla porta,
il mezzo
energumeno m’afferrò per la spalla con la mano
sinistra e cercò
poi di stringere la presa. Lo guardai senza fare una piega…
nemmeno
una smorfia per cercare di dargli un minimo di
soddisfazione… e gli
sferrai un pugno all’altezza della giuntura tra
l’omero e la
spalla sinistra, per volergli spezzare il braccio in due parti:
infatti, mi rimase il braccio appeso alla spalla e lui che mi
guardava con occhi sgranati. Mi tolsi il suo braccio da dosso,
lasciando il suo proprietario nella disperazione, mentre anche il
sangue incominciò a uscirgli dalla cavità e gli
dissi d’andare in
ospedale; dei forti rumori incominciarono a proliferare da appena il
“bestione” qui fuori emise l’urlo di
dolore, forse di gente che
s’era accorta che qualcosa lì fuori non stava
andando come
programmato, ma ero e sarei stato il loro problema da
risolvere… se
ne fossero stati capaci.
Entrai,
sfondando il portone di
ciliegio con un pestone alla posizione dello spioncino per la chiave
e il portone s’andò a schiantare sulla parete al
lato opposto. Mi
sbagliai soltanto per il numero, perché erano superiore alla
ventina… di persone all’interno… e
quasi tutti si voltarono,
nel vedere la loro porta schiantarsi al muro, senza troppe
difficoltà, verso di me e non avevo ancora capito cosa
stesse
succedendo lì dentro, fino a che non vidi tre ragazze con i
vestiti
strappati e un signore che aveva le mani sulla schiena di una delle
tre. Il tutto era di un piano del palazzo, come se la base di questi
“novelli” criminali fosse quasi un ripiego o fosse
ancora in
allestimento; non mi feci problemi nel mostrarmi per quello che ero,
mentre loro incominciarono a venirmi incontro con qualunque cosa
avessero per le mani: coltelli, spade, mitra e anche semplicemente a
mani nude. M’accerchiarono, mentre le tre ragazze riuscirono
a
scappare perché anche il signore che cercava la loro
compagnia venne
verso di me mormorando qualcosa, ma rimasi schifato da quello che
trovai lì dentro. Armi, droga – lo scoprii dopo
quello che era –
e qualsiasi altra cosa potessero sia rendere un crimine e sia rendermi
ancora più schifosa quella notte che non sembrava non
finire mai. Intervenne il primo dei trenta presenti lì
dentro e che
m’aveva già accerchiato nonostante si tenesse a
distanza per
ragioni che non ero riuscito a comprendere, che con un coltello
cercò
di puntarmi all’altezza dello stomaco, ma una spinta da parte
mia
lo fece volare verso altri due che erano lì per supportarlo:
meno
tre. La mia non era violenza, ma non ci tenevo nemmeno a mettermi in
mostra: la mia missione era portare un po’ di giustizia nel
mondo,
ma anche nei momenti peggiori non mi passò mai nemmeno
l’idea di
voler uccidere. Come gli altri sgherri che avevo attorno, cui chiesi
di “venirmi addosso” nello stesso momento
– per fare prima –
e stranamente pensarono che il numero fosse una statistica rilevante
per farmi fuori, ma mentre erano già su di me e non riuscivo
più
nemmeno a percepire la luce perché era nascosta dalle ombre
dei loro
corpi, mi misi a riflettere; le loro armi nemmeno mi scalfivano e solo
la pressione m’indicava dove stavano cercando
d’inserire le
lame delle loro armi e dove stavano andando a finire i proiettili:
chiusi soltanto gli occhi. La solita fiamma s’accese dentro
di me,
ma quella volta vidi e compresi quanto l’uomo poteva essere
cattivo
quando sapeva d’essere era in una posizione di comando
– o “con
la mano dalla parte del manico”… del coltello
– riscaldando la
mia pelle e nonostante tutti i presenti tentavano di tenermi fermo
per picchiarmi, incominciai a sentire attorno a me sia le loro urla
di dolore e sia l’odore della carne del loro corpo bruciarsi;
non
volevo farlo: il volerli punire per qualcosa di cui fossero colpevoli
era la mia unca intenzione, soprattutto perché il vedere
qualcuno
approfittarsi di qualcuno più debole solo per la goduria di
poterlo
fare – senza alcuna distinzione – mi
rese… per il tempo che
bastò per farli soffrire e rendersi conto delle loro
colpe…
alquanto risoluto e privio di principii morali.
Pochi secondi
e vidi una ventina
di uomini, nudi e aventi escoriazioni da bruciatura di terzo grado su
tutto il corpo, crollare a terra ai piedi e contorcersi dal
dolore…
e altri dieci che lentamente cercavano d’allontanarsi da me,
mentre
uno era in piedi e mi fissava: un vecchio, sul metro e
sessanta…
anche lui aveva indosso un t-shirt senza maniche e un pantalone
–
di quelli usati sotto i kimoni – nero; mi fissava, ma notai
che non
aveva acuna escoriazione. Non era il tizio che stava palpando una
delle tre ragazzine, ma era qualcuno che non avevo mai visto fino ad
allora e i tizi rimasti in piedi si diressero tutti verso di lui, per
mettercisi dietro: potevo saggiare la loro paura, del tutto
motivata…
ma non ero io il mostro, in quel momento e lui sembrava averlo
capito.
«E
tu chi sei? Hai steso venti
dei miei uomini senza battere ciglio… e sei del tutto
illeso? Chi
ti ha mandato?» – Mi disse il vecchio,
avvicinandosi a me e non
temendomi, come invece facevano gli altri, arrivando quasi a
toccarmi. Trasmetteva quiete, stranamente. Avrei voluto spiegargli il
vero motivo per cui ero lì, ma qualcosa mi frenò:
riflessi soltanto
su quello che stava succedendo. Ero in una base di criminali e
qualcuno mi stava facendo delle domande, in quel momento e nonostante
la sua pacatezza, non mi sarei dovuto fidare.
«Non
mi ha mandato nessuno,
anche se sto bruciando vivo. Ho sentito una delle ragazzine che uno
dei tuoi ha rapito e sono entrato per liberarle: anche se cerco il
“Quartetto dell’Imperatore” e questa
volta sono più preparato
dell’ultima volta. Provate a prendermi!»
– Non mi stavo fidando
del tizio nonostante mi stava rilassare il cervello con qualche
strano trucchetto mentale, ma lo afferrai per il collo nel mentre
stavo continuando a bruciare e il mio corpo era sempre duro quanto
l’acciaio, tanto che fece fallire ogni tentativo di infilarmi
qualcosa nel corpo. L’avevo tra le mie mani, nel mentre mi
resi
conto di poterlo uccidere e chiusi di nuovo gli occhi, per cercare di
capire chi o cosa sarebbe venuto per impedirmi di potermi informare
meglio e per evitare chissà cosa, calcolai che il palazzo
sarebbe
potuto misurare sulla trentina di metri e decisi di portarmelo dove
avrei depistato chiunque mi cercasse. Flessi le gambe e feci
pressione sulle ginocchia fino a far arrivare il corpo alla massima
compressione, per poi schizzare in alto verso il soffitto del
palazzo, sfondando tutti i soffitti con la testa: tutto il poco
dolore che sentivo, era tutto meritato perché sentivo sempre
in
errore in ogni cosa che m’accingevo a fare… quella
sarebbe stata
la prima che avrei cercato di fare bene.
Riuscii ad
arrivare velocemente
sul soffitto del palazzo, ove non m’interessai nemmeno a
quello che
c’era negli altri piani e trattenni ancora il tizio per il
collo…
senza volerglielo spezzare… perché volevo che mi
dicesse quello
che sapeva… dopo
che
atterrai a pochi metri dal buco conducente al piano terra.
«Adesso
capisco: sei uno di quei
mostri, come lo sono anche io, ma molto più forte. Sei il
primo a
cui le mie parole non hanno effetto e ciò dovrebbe farti
onore; con
questo, voglio dirti che voglio aiutarti: vai al bar vicino al
palazzo imperiale, ma dovresti uccidermi perché io non avrei
dovuto
darti quest’informazione!» – Mi trovai
stranamente interdetto
sul cosa fare, ma solo in quel preciso momento, tra la foga del
combattimento e il blando tentativo d’avere delle
informazioni
senza che qualcuno si faccia male, non m’accorsi che
s’era
attivata la runa che Blank mi fece applicare sulla pancia e comparve
lo stesso Blank. Dietro il mio interlocutore, s’eresse
l’evanescente assassino, che aveva usato la sua ombra per
arrivare
direttamente da me. Non capivo tante cose, ma sapevo che non sarebbe
potuto rimanere in carcere, perché in qualche modo sarebbe
uscito da
lì e lui era come me: nel senso che non potevamo essere
incatenati
senza che non fosse la morte a fermarci; Blank mi diede soltanto uno
sguardo, ma da quello sguardo capii che non spettava a me porre fine
alla sua “esistenza” e che non mi sarei dovuto far
carico anche
della morte del capo dei criminali che avevo appena fermato.
«Ehi,
aspetta. Ci penso io a
lui: lo porterò in un luogo dove nessuno può
uscire. È un mio
problema e non è giusto che debba rovinarti per me. Io ti
rendo la
vita più facile e tu la rendi a me: quod sum eris. Vuol dire
“sono
ciò che sarai”, ma lo capirai a tempo debito. Lo
prendo io in
custodia, così da permettere a entrambi di fare quello che
sappiamo
fare meglio: ho già provveduto a dare l’ordine ai
miei sottoposti
di ripulire la base degli Yakuza… uno dei gruppi criminali
più
grossi dell’intero Stato… di cui hai ridotto
leggermente il
numero solamente stando fermo. Comunque qui ci penso io, vai
tranquillo!» – Blank… qualche secondo
dopo aver portato lo
sguardo verso di me, ebbe uno dei suoi flussi di pensiero ad alta
voce e la poca sorpresa nel sapere che qualcosa di giusto
l’avevo
fatta mi fece soltanto fare un cenno e lasciare il collo del tizio
della Yakuza, che ormai era soltanto di contorno al nostro dialogo,
mentre decisi di spostarlo “delicatamente” verso il
mio
interlocutore e di andarmene.
Corsi veloce,
tra il soffitto e
l’altro dei palazzi, per cercare di ritornare
all’appartamento di
Kaze, ma vagai per circa un’oretta: nel mentre la luna era
ancora
alta e non avevo più idea nemmeno di che ora fosse, anche i
pochi
schiamazzi degli ubriachi s’erano affievoliti e si stava
incominciando a definire uno strano e inquietante silenzio. Mi
guardai attorno, ma non vidi nessuno e neanche nel percepire con
tutti i sensi, nessun segnale: se mai ci fosse stata una presenza,
s’era resa del tutto impercettibile… come tutti i
cultisti della
morte che pare mi stiano pedinando, ma che non riuscivo mai a
percepire. Nel frattempo, vidi che anche Blank e il tizio che gli
avevo dato in consegna se ne erano andati chissà dove,
mentre io
rimasi lì per capire chi mi stesse seguendo. Continuai a
correre,
sfidando i miei probabili inseguitori nel raggiungermi e feci qualche
chilometro prima di percepire uno spostamento d’aria
provenire
verso di me. Mi spostai in avanti, rotolando e rimettendomi in piedi
in pochi secondi. Ero sul tetto di uno dei tanti palazzi della
città,
mentre percepii una strana aura, pacata e letale allo stesso tempo,
accrescersi in lontananza, ma nella mia stessa linea d’aria:
il
battito cardiaco intonante un assolo di tamburi. Capii che qualcuno
m’aveva raggunto e aveva una spada… dal suo
successivo rumore
prodotto per rinfoderarsi nel fodero.
«Ho
sentito che mi cercavi,
strano straniero. Io non so chi tu sia, ma se vai in giro a dire che
mi stai cercando, qualcuno ti ha detto chi io sia!»
– Disse lo
sconosciuto – fino a quel momento – preso da una
voglia di
combattere, tanto che con un balzo mi si presentò davanti.
«Se
fossi più chiaro, mi
potresti schiarire anche le idee: sempre che tu sappia chi mi ha
messo sulle tue tracce!» – Gli risposi senza fare
troppi problemi
e strinsi i pugni: mi preparai a combattere.
«Non
lo so, ma non mi sembri
nemmeno del posto. Mi chiedo come tu possa fare soltanto a sapere a
chi sono collegato oppure potresti essere solo un pazzo che
s’è
messo in testa di fare qualcosa fuori da ogni ragione. Io faccio
parte dei buoni, mentre tu chi saresti?» –
Cercò di
destabilizzarmi sia per il semplice gusto di farmi desistere e sia
per evitarsi la probabile rissa. Nel mentre, si diresse verso di me
solamente con una rincorsa dal centro del palazzo alla destra di
quello ove ero io e un balzo che lo fece piombare, leggermente e
leggiadramente, a circa dieci centimentri… e
davanti… a me.
Era di fronte
a me, il secondo
samurai – il primo era Kaze – perché non
conoscevo ancora il suo
nome. Era magro, anche lui con il fisico definito: si vedeva che era
un qualcuno che ha sul proprio corpo il sudore degli allenamenti e
della ricerca della perfezione. Capivo il perché fosse un
allievo di
Kaze e che fosse determinato a sconfiggermi. Tirò un sospiro
di
sollievo e poi estraè la spada dal fodero, puntandomela in
direzione
del collo.
«A
pensarci: come fai a parlare
giapponese e non sembrarlo nemmeno a pagarti a peso
d’oro?» – E
lo spadaccino arrivò a farsi quasi la domanda dal miliardo
di yen:
ancora non c’era arrivato che io ero lì per
sconfiggerli.
«Mi
ha mandato qui La Morte, ma
non credo che tu possa saperlo… “guardiano
dell’Imperatore”.
O mi sbaglio?» – Capii il suo gioco: il tono era
abbastanza
nervoso e smnuente, ma non ci casca e feci l’unica cosa che
potessi
fare in quei casi… rispondere a muso duro e ancora
più
strafottente, proprio per dimostrargli che non lo temevo affatto. Ero
del tutto sincero nel dire che ero stato mandato dalla morte stessa
per punirlo dei suoi “non so quali” crimini, ma il
fatto che
seguissero Parnassus non mi piaceva affatto.
«Se
ti ha mandato la morte da
me, ti ci rimanderò senza mezzi termini!»
– Si mise in posizione
e si diresse verso di me con uno scatto prodigioso. I suoi lunghi
capelli scarlatti erano l’unica cosa che erano del tutto
visibili e
mantenendo la spada con la mano destra, mollò un fendente
all’aria
davanti a se e nemmeno vidi la spada che mi toccò, ma sentii
il mio
braccio sinistro bruciare leggermente e vidi che un taglio era
comparso all’attaccatura tra la spalla e il braccio e il
sangue
uscirmi da lì.
«Hai
visto? La mia abilità di
manipolatore d’energia mistica mi permette di tagliare
qualsiasi
cosa, anche se avrebbe dovuto tagliartelo il braccio… e non
procurarti un semplice taglio. Chi saresti in
realtà?» – Era
sempre lui a parlare, tanto sembrava anche lui avere la parlantina
veloce e nel buio della notte era il solo a farsi sentire. Si
voltò
ancora verso di me e fece un altro taglio, ma quella volta riuscii a
evitarlo perché riuscii a percepire la direzione della spada
e
scattai anche io verso di lui.
Vidi i suoi
occhi sgranarsi e il
resto del volto contrarsi, quindi compresi che aveva capito che avevo
evitato il suo fendente. La spalla si stava rigenenerando, tra molti
pruriti, anche se credevo d’avere un corpo abbastanza
resistente,
ma si vedeva che il tipo d’energia era vagamente
più forte di
quanto immaginassi. Scattai senza troppi problemi, recandomi verso il
suo fianco sinistro e allungai il mio braccio sinistro per
afferrargli la spada e stringergliela.
«Che
diavolo… non riesco a
muovere la spada! Lasciala, ti ho detto!» –
S’accorse che
qualcosa non andava nel verso giusto, perché con quella
presa
vagamente non direzionata verso di lui, afferrai la spada e cercai di
dimostrargli che ero molto più forte di lui e
così fosse… se non
v’avesse sferrato un pugno avvolto d’energia
mistica sotto lo
sterno e m’avesse fatto sputare un po’ di sangue.
Un sospiro
affannato, feci. Un
altro a seguire e l’ultimo a finire. M’alzai da
quel mezzo
stordimento e mi poggiai la mano sinistra sul punto dolorante,
mostrando anche a lui che mi sarei potuto curare
all’infinito…
senza che lui avrebbe potuto farci niente. A quel punto, si
fermò e
sbalordito mi chiese chi fossi… perché non aveva
mai visto
un’abilità del genere e gli risposi con queste
parole esatte: io
sono il figlio della morte. E l’intero “Quartetto
dell’Imperatore” è colpevole di reati
gravi contro l’umanità.
Arretrò
di qualche passo, il
samurai energetico. Forse l’avevo smascherato o
più semplicemente
era sorpreso della risposta fornitagli: sicuramente non ci credeva,
alle mie parole. Nemmeno io credevo d’aver avuto il fegato di
dire
certe cose con così tanta schiettezza e però sto
dimenticando di
dire che non lasciai la spada: nel sputare sangue, riuscii a non
lasciare la presa e a continuare a fissarlo per alimentare la sua
frustazione nei miei confronti.
«Perché
non muori, bastardo!»
– La disperazione era pronta per risaltare sul suo volto,
mentre
non ero incline nemmeno a voler cedere di un passo al mio avversario.
Non volevo farlo e non l’avrei fatto per nessun motivo al
mondo:
nel frattempo, stavo ancora mantenendo la sua spada per la lama e lui
incominciò a scattare, dopo avermi inveito contro senza
sortire
alcun cffetto. Me lo chiedevo anche io perché non potevo
morire, ma
avere come madre La Morte era probabilmente il motivo più
gettonato,
tra le molte possibilità e nello scagliarsi contro di me, io
feci
l’unica cosa che mi sarebbe riuscita meglio.
«Perché
non posso, ma tu
finirai tra poco di mietere vittime innocenti!» –
Dai discorsi di
Kaze, mi sembrava troppo strano che quello che era a tutti gli
effetti un sensei si fosse allontanato dalla sua squadra per ragioni
di “comportamenti etici e morali”: quindi prenunsi
che s’erano
resi colpevoli di qualche reato grave e andai avanti nel sentenziare.
Nel frattempo, lui stava cercando di calmarsi, nel mentre percorreva
i pochi passi che gli mancavano da me, ma strinsi la mano e ne
spezzai la lama in due soli pezzi, facendolo fermare
all’istante.
La disperazione era uscita finalmente sul suo volto e
farfugliò
qualcosa d’incomprensibile, ma quello che capii fu che non
avrebbe
voluto la rottura della spada e che per lui era importante.
«Perché
l’hai fatto? Era la
spada del mio maestro e tu l’hai rotta: ora la pagherai cara,
fosse
l’ultima cosa che faccio… bastardo!»
– Gli volsi le spalle,
perché non ritenevo più giusto combattere
perché l’avevo
spezzato. Non avevo fatto i calcoli con l’onore dei samurai:
ero
ormai a una ventina di passi da lui, per dirigermi verso casa di Kaze
che era dalla parte opposta a dove stavo andando… per non
essere
seguito decisi d’evitare di seguire lo stesso percorso:
fortuna
volle che il mio avversario non sapesse di tutte le mie
abilità e mi
corse dietro. Mi fermai, appena seppi che mi stava letteralmente
rincorrendo e allargai completamente le braccia… le tesi dal
loro
lato opposto… le roteai, fino a far confluire i pugni vicino
al
petto: pugno destro vicino al cuore e il sinistro vicino alla bocca
dello stomaco… aspettai che fosse troppo vicino per non
poter
evitare il mio colpo… a un solo passo da lui, mi voltai e
colpii.
Una solo sospiro, accompagnato dal sangue sputato sul mio petto. I
suoi occhi non dicevano niente che non fosse “come hai
fatto?” e
ormai la disperazione era diventata sua cliente abituale. Gli lasciai
anche un’ustione di terzo grado sul petto, proprio per
evitare che
si potesse dimenticare della mia lezione. Poteva avere la mia
età,
se non anche più piccolo di qualche anno, ma decisi comunque
di
rispondergli.
«Questo
colpo me l’ha
insegnato “La Tigre del Vento”. Lo dovresti
conoscere anche tu, o
sbaglio? O l’hai dimenticato in così pochi anni di
lontananza? Mai
attaccare il tuo avversario se non hai modo di conoscere i suoi punti
deboli e il tuo era la tua spada. Era anche il tuo sensei e ha
percorso molti, se non migliaia di chilometri per sfuggire alle
truppe di Parnassus e mi ha trovato quasi per caso e mi ha raccontato
di voi: la mia missione è stata soltanto quella di
fermarvi…
qualsiasi cosa avreste in mente!» – Era
già disperato, gli occhi
sgranati e credo che avesse sviluppato una specie di trauma nei miei
confronti. Non credeva ai suoi occhi, mentre la ferita al braccio
s’era rigenerata e l’altro taglio era sulla strada
giusta per
farlo, ma la sua espressione era stata più esplicativa e
steso per
terra, dalla caduta dopo aver subito il mio colpo, si
posizionò con
le ginocchia a terra e mi volse lo sguardo. Era pieno di rimorso e
quasi si mise a piangere, ma riuscì a contenersi e a
mantenere il
“carattere” del nome che portava, però
quello che provava era
soltanto frustrazione.
«Non
l’ho dimenticato, “La
tigre del Vento”! Kaze, il mio maestro, è sparito
senza darmi
nemmeno una spiegazione. Dopo quel maledetto funerale, il capo del
nostro plotone Kojiko, decise di deporre le armi a quello che tu
chiami Parnassus. Quello che ti ha raccontato Kaze, il mio sensei,
è
vero, ma non ti ha detto che non ha nemmeno provato a far ragionare
Kojiko: se ne andò a cercare da solo a cercare una
soluzione. Sono
cresciuto, in questi anni senza una guida leale e mi sono macchiato
di reati che non avrei voluto commettere, ma che sono stato costretto
a fare. Dovresti cercare un certo Nojishi: lo chiamano “Il
Gatto
della Nebbia” ed è il secondo del quartetto a
doverti incontrare,
se è questa la tua missione. Da questo momento, verrai
conosciuto
come il “Demone di Fuoco” del Giappone e ora ti
chiedo di
lasciarmi in vita. Prometto sul credo dei samurai che non
prenderò
in esame nessuna rappresaglia su di te, se non mi sentirò in
grado
di sfidarti in uno scontro leale. Ti ringrazio per il combattimento,
demone!» – Rimase inginocchiato, come per rispetto,
ma non alzò
lo sguardo da per terra e sempre da per terra… e con la
schiena
piegata con il sedere sui talloni… si diresse verso la spada
spezzata e poi riprese a chiedermi di dargli un’occasione per
redimersi. Non avevo motivi per non accettare: non avrei voluto
ucciderlo, ma l’ustione gliela lasciai soltanto come un
“metodo
efficace di memoria”.
«Sono
io a ringraziarti, ma il
motivo per cui sei finito in questa situazione non è per la
mancanza
di Kaze… anche se riconosco essere solitario: avresti potuto
seguire la via del Bushido e fregartene degli altri. Ti verranno a
prendere le ombre, per nasconderti da Parnassus: lui e i suoi non
morti non ti troveranno mai se le ombre non decideranno di farlo.
Addio “Samurai di Giada”!» –
Appena il samurai sentì
chiamarsi con quell’appellativo, ebbe un leggero sussulto, ma
dal
nulla arrivò Blank, nella sua uniforme delle ombre, pronto a
prelevare il mio avversario che decise di non protestare
all’isolazionismo a cui lo stavamo portando; tutti e tre in
estremo
silenzio… anche Blank… che semplicemente
toccò la schiena del
samurai e se ne andò via con lui.
Rimasi solo,
come ero arrivato su
questo palazzo. Nessuno avrebbe sospettato che ci fosse stata una
battaglia furenta e fulminea, ma credo che lo stesso samurai volesse
smetterla del tutto con questa storia e che il colpo insegnatami da
Kaze fu soltanto la ragione per cui ha deciso la sua resa. Decisi di
percepire di nuovo la strana aura della spada di Kaze, di cui
percepii la presenza solamente dalla fine dei miei strani allenamenti
con il sensei: m’era di fondamentale aiuto per sapere sempre
dove
fosse e mi diressi celeremente a casa sua.
Vi arrivai ed
entrai dalla stessa
finestra ove ero entrato, e m’accorsi che era trascorso solo
il
tempo per permettere al sensei di riposare nel suo letto e avere un
piccolo senso di tranquillità anche nell’inferno
dell’ignoranza,
che iniziò a piovere e mi rilassai anche io.
Fino a dormire.
In una notte,
avevo superato
qualunque difficoltà che mi si era posta davanti e sarebbe
stato
soltanto un probabile inizio… o tappa… del mio
viaggio senza
fine. Tanto che spuntò il sole e per me giunse il solitario
sonno:
tra i rumori delle persone e la pioggia che silenzia tutto il resto.
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