10. I'll take you away
Cercare di stare zitta durante il viaggio in macchina con Patterson fu
per me un autentico supplizio. Mi venne spontaneo aprire la bocca per
dire qualcosa almeno una dozzina di volte, anche perché non
sapevo dove eravamo diretti e non conoscevo la strada che avevamo
imboccato quando eravamo usciti dal centro di Winthrop. Ma sentivo lo
sguardo divertito di Matt su di me ogni volta che sospiravo per lo
sforzo di non dire nulla, quindi, per orgoglio, mi morsi la lingua e
riuscii a restare più o meno in silenzio per quasi tutto il
tragitto.
Rassegnata e obbligata a tacere, quindi, mi misi a fare delle
considerazioni su ciò che era appena accaduto, dal momento
che ero ancora vagamente scossa.
Innanzitutto, quel coglione di Petrovic aveva messo in giro voci false
sul mio conto e ora mezza scuola credeva che fossi una poco di buono.
Se lui andava a letto con tutte le ragazze della scuola era da
considerarsi un eroe, ma io, che tra l’altro non avevo fatto
nulla di ciò andava in giro a raccontare, ero stata fatta
passare per la sgualdrina della situazione. Robe da pazzi.
Non ero una persona vendicativa, non lo ero mai stata, perlomeno, ma se
Petrovic pensava che gliel’avrei fatta passare liscia si
sbagliava di grosso. Aveva pestato i piedi alla ragazza sbagliata,
decisi in quel momento, e alla prima occasione se ne sarebbe pentito.
E poi c’era l’altra
questione, la questione con due
occhi grigi e una spiccata tendenza a irritarmi di proposito. La
questione che mi sedeva di fianco in quel momento. Guardai Patterson
con la coda dell’occhio e mi domandai per
l’ennesima volta cosa diavolo ci facessi seduta nella sua
macchina.
Era vero, negli ultimi mesi, da quando lui aveva cominciato a uscire
col mio gruppetto di amici, avevamo iniziato ad avvicinarci anche noi
due, seppur a
modo nostro, ma non potevo ancora considerare Matt un amico,
né era una persona che mi ispirava particolare
fiducia. Nonostante i passi in avanti compiuti da entrambi durante il
precedente anno scolastico, l’estate ci aveva allontanati di
nuovo e subito dopo mi era sembrato di dover ricominciare da zero, con
lui. Poi però quella mattina era venuto a cercarmi
– o forse no, forse mi aveva trovata per caso, non
gliel’avevo nemmeno chiesto – e mi aveva
quasi consolata per la storia del mio armadietto. Diamine, mi aveva
addirittura detto che con l’alcol cominciavo a piacergli di
più.
Cosa accidenti significava quella frase, poi? Lì per
lì non ci avevo dato peso, ero troppo presa dalla situazione
per soffermarmi su quel particolare, ma ora che ci
riflettevo… Beh, non sapevo davvero cosa pensare.
Lanciai una seconda occhiata a Matt, che guidava in silenzio.
Probabilmente intendeva solamente dire che quando beveva un paio di
birre riusciva poi a trovare la mia compagnia più
tollerabile. Era una cosa che accadeva anche a me: tutto sommato, a
partire da quella volta alla festa di Ramirez, ogni volta che bevevamo
qualcosa insieme Patterson sembrava diventare più umano e
meno insopportabile.
Ma si trattava davvero solo di questo? Aveva detto che con
l’alcol cominciavo a piacergli di più e che la
cosa non andava bene. Che intendesse che gli piacevo da un punto di
vista… Romantico? Fisico? Naah, era
impossibile, non
l’avrebbe mai spifferato con tutta quella
tranquillità.
Sbuffai, frustrata da quell’enigma. La verità era
che in genere ero brava in queste cose, capivo al volo quando un
ragazzo stava flirtando con me e che cosa volesse ottenere. Ero sveglia
e maliziosa al punto giusto, non ero un riccio come Jude né
ero ingenua come Audrey; ci sapevo fare, a detta di tutti. Eppure
quando si trattava di Patterson diventavo insicura e mi riempivo di
dubbi, mi sembrava che lui cambiasse atteggiamento nei miei confronti
ogni due per tre e non capivo il suo gioco. Non credevo che ci avesse
mai provato davvero con me e, anche se ogni tanto mi aveva dato
l’impressione di flirtare, era sempre talmente enigmatico che
era impossibile dirlo con certezza, pure per me.
Tornai a guardarlo, concentrata nei miei pensieri. Era un po’
corrucciato, aveva una leggera rughetta tra le sopracciglia e, forse,
delle occhiaie appena più marcate del solito, ma era
comunque carino da far schifo. Teneva gli occhi fissi sulla strada, ma
sembrava sciolto alla guida, sicuro come io non sarei mai stata, anche
perché mio padre mi permetteva di usare la macchina solo
per brevi tratti.
Quando Matt parlò, ovviamente, la sua voce mi colse di
sorpresa e tornai subito a fissare un punto davanti a me.
“L’hai presa piuttosto seriamente la faccenda del
non dire più una parola,” disse, con un tono
vagamente ironico.
“Potresti ricambiarmi il favore con la stessa
moneta.”
“Avanti, Gray, ho notato come mi fissi. So che ti stai
facendo violenza psicologica per non chiedermi dove stiamo
andando.”
Era da un po’ che non stavo pensando a quello, in
realtà, ma era meglio che lui continuasse a crederlo. Sperai
di non essere arrossita e puntai gli occhi fuori dal finestrino,
notando che in effetti non avevo idea della nostra ubicazione in quel
momento. Di sicuro eravamo usciti da Winthrop, ma non mi pareva ci
stessimo dirigendo verso Boston, la città più
vicina, perché conoscevo la strada per arrivarci.
“Non mi interessa,” mentii spudoratamente.
Lui mi fissò la nuca per un paio di secondi, ma non
commentò ulteriormente.
Qualche minuto più tardi eravamo in aperta campagna e Matt
imboccò una strada sulla destra, alla fine della quale
c’era un grande spiazzo in ghiaia con qualche macchina e un
camion parcheggiati. Ci fermammo lì anche noi, Patterson
parcheggiò in un posto a caso, si slacciò la
cintura di sicurezza e mi guardò, indeciso se dire qualcosa,
prima di scendere dall’auto.
Lo imitai e mi guardai attorno, stranita. Dal parcheggio partiva una
stradina, sempre in ghiaia, che portava a una serie di edifici bassi ed
estesi in lunghezza, dietro i quali vedevo solo campagna, prati,
qualche recinto e degli animali non meglio identificabili da quella
distanza.
Patterson non disse niente, si limitò a chiudere la macchina
e incamminarsi con sicurezza verso gli edifici, io lo seguii con
qualche titubanza, non sapendo che altro fare. Eppure a quel punto ero
decisamente troppo curiosa per riuscire ancora a tacere, quindi,
nonostante le mie intenzioni, alla fine cedetti.
“Dove siamo?” gli domandai, cercando di stagli
dietro.
“Appena fuori Beachmont,” rispose lui senza nemmeno
girarsi.
“Questo l’avevo intuito, dato che non siamo andati
verso Boston. Ti domandavo cos’è quel posto dove
siamo diretti, genio.”
“Sei cieca o cosa?”
“Senti, Patterson, posso anche capire che
tu…” iniziai mentre acceleravo il passo per
raggiungerlo, ma bloccai da sola il fiume di parole che stava per
uscirmi dalle labbra quando riconobbi l’edificio davanti a
noi. “Mi hai portato in un maneggio?”
C’era il tipico odore delle stalle, che di sicuro non era il
massimo ma che avevo imparato a riconoscere come familiare quando avevo
fatto equitazione per qualche tempo, anni prima, e ora che ci eravamo
avvicinati potevo anche notare i recinti e diversi cavalli che
trottavano allegri al loro interno.
Matt nemmeno mi rispose, ma io ricordavo bene il prom
dell’anno precedente, quando gli avevo confessato che tra la
miriade di attività che avevo provato da bambina
l’equitazione era l’unica che mi aveva appassionata
davvero. Non credevo fosse un caso che mi avesse portata proprio in un
maneggio.
“Io non ho soldi con me,” mi ricordai
all’improvviso.
“Non è un problema,” rispose lui con
distacco.
“È un problema, sì! Non voglio che mi
paghi qualcosa tu, poi ti rifiuti di accettare che ti torni i soldi e
non va bene. E comunque…”
“Placati, Gray. Non ti pagherò assolutamente
niente, ma non è un problema se non hai soldi.”
Sbuffai e continuai a seguirlo, decisa a rifiutare altri regali da
parte sua. Ma, già quando superammo la hall del maneggio
e ci incamminammo verso le stalle con i cavalli, capii che in quel
posto Patterson conosceva chiunque e che con ogni
probabilità era per quel motivo che aveva assicurato che non
avrebbe pagato per me.
“Sono tutti tuoi amici qui?” chiesi a Matt mentre
lui prendeva con sicurezza la strada per un box davanti al quale ci
fermammo.
“Più o meno,” rispose, senza spiegarsi
ulteriormente.
Poi entrò nel box lasciando la porticina semi aperta, e io
cominciai ad agitarmi di nuovo.
“Ma puoi entrare?” domandai guardandomi intorno
nervosa.
“Direi proprio di sì.”
“Perché? Conosci il proprietario del cavallo?
Nessun dipendente del maneggio ci ha detto che potevamo venire fin qui,
non è che magari…”
“Rilassati, Gray, non stiamo facendo niente di
illegale,” mi interruppe lui.
“A parte bigiare la scuola,” mormorai io a bassa
voce. “Allora, chi è
quell’incanto?” feci poi, indicando il cavallo che
Matt aveva preso a carezzare amorevolmente sul muso mentre,
addirittura, gli sussurrava qualche parola dolce a mo’ di
saluto.
“Lei è Amber,” spiegò lui
sottolineando il sesso dell’animale. “Ed
è mia.”
Rimasi a bocca aperta per qualche istante prima di trovare le parole
per rispondere. “Tua nel senso che… Vieni spesso
qui? A trovarla?”
“No, mia nel senso che i miei genitori me l’hanno
comprata e,” fece una smorfia, come se gli costasse ammettere
ciò che stava per dire, “la mantengono in questo
maneggio da cinque anni.”
“Ah,” asserii solamente, senza sapere
cos’altro aggiungere.
Stetti qualche minuto in silenzio, fuori dal box, solo a osservarlo
mentre dava qualcosa da mangiare ad Amber e recuperava una spazzola per
strigliarla. Dopo un po’ Matt alzò gli occhi e mi
guardò serio.
“Non entri?”
“Posso?” chiesi, già elettrizzata
all’idea.
“Da quando ti fai così tanti problemi,
novellina?”
Alzai gli occhi al cielo mentre aprivo la porticina ed entravo nel box.
“Non conosco il suo carattere, magari è buona solo
con te.”
Lui mi passò la spazzola e, prima di cominciare a usarla,
carezzai dolcemente il muso dell’animale, attenta a non fare
gesti bruschi che la spaventassero.
“È un test,” disse Patterson divertito.
“So già che è buona, ma se sopporta la
tua presenza significa che è davvero una santa.”
Lo fulminai con gli occhi prima di contrattaccare. “E
comunque non volevo disturbarti. Eri così carino mentre
parlavi con lei, sembravi quasi umano.”
Lo stavo prendendo in giro, ma sapevo che c’era un fondo di
verità nelle mie parole: non avevo mai visto Matt
così dolce e remissivo.
Lui fece un mezzo sorriso e mi distolse dai miei pensieri aprendo la
porticina del box. “Visto che fai tanto la spiritosa, vediamo
come te la cavi
fuori di qui.”
Passammo la mattinata così, a prenderci cura di Amber e a
farla passeggiare fuori dal suo box. Matt chiamò uno dei
dipendenti del maneggio e fece in modo che io avessi dei pantaloni
adatti a cavalcare, così quando uscii dagli spogliatoi vidi
che avevano già sellato e preparato la puledra.
Erano diversi anni che avevo smesso con l’equitazione,
perciò mi sentivo un po’ in ansia, ma cercai di
non darlo troppo a vedere mentre mi avvicinavo al recinto. Patterson,
non so come, lo intuì comunque.
“Sei nervosa?” mi domandò non appena fui
abbastanza vicina.
Decisi di non mentire. “Un pochino.”
Charlie, il ragazzo di nemmeno trent’anni che lavorava
lì al maneggio e che ci stava dando una mano, mi fece un
sorriso incoraggiante. “Puoi stare tranquilla,” mi
rassicurò. “Amber è davvero buonissima,
e comunque starò qui con voi.”
Dopo appena pochi minuti, ad ogni modo, mi ricordai il motivo per cui
avevo amato così tanto andare a cavallo quand’ero
più piccola. Amber era intelligente e molto sensibile,
nonostante fosse Charlie a seguirla e dirle cosa fare, lei percepiva
ogni mio movimento e lo assecondava. All’inizio ero
preoccupata, avevo paura di non ricordarmi e di non essere in grado di
stare in sella, ma dopo i primi istanti mi resi conto di essere
perfettamente a mio agio. Se ne accorse anche Charlie e, forte della
sicurezza di Amber, ci spinse ad accelerare il passo e a muoverci al
trotto: corsi più veloce per qualche tempo, il vento sulla
faccia, la sensazione di libertà che finalmente ritrovavo
dopo anni.
Finita la corsa, mio malgrado, dovemmo riportare Amber nel suo box e
sistemarla, prima di dirigerci al piccolo bar del maneggio: ormai era
ora di pranzo e noi non avevamo minimamente pensato
all’eventualità di dover mangiare fuori dalla
mensa scolastica, quindi prendemmo due panini e dell’acqua
lì. Poi, mentre io mi cambiavo per rimettere i miei vestiti,
Matt andò a recuperare un asciugamano da mare che aveva
ancora in macchina, lo stendemmo su un prato che si trovava non lontano
da dove avevamo parcheggiato e ne usammo un pezzetto a testa.
Alla fine, dopo aver mangiato, ci ritrovammo stesi per metà
sull’asciugamano e per metà fuori, entrambi con le
gambe poggiate sull’erba tagliata di recente. Chiusi gli
occhi e forse sonnecchiai anche un po’, non lo ricordo.
Quello che ricordo bene, invece, è che quando riaprii gli
occhi Matt aveva tirato fuori un libro dal proprio zaino e lo leggeva
completamente risucchiato da esso.
Non avevamo parlato molto fino a quel momento, prima la mia attenzione
era stata assorbita da Amber e dalla cavalcata, poi avevo chiacchierato
con Charlie di cavalli e del suo lavoro lì, infine ci
eravamo messi a mangiare e Patterson mi era sembrato poco propenso a
spiccicare parola. D’altro canto io restavo una chiacchierona
di natura, perciò non potevo trattenermi a lungo e,
quando riuscii a vedere la copertina del libro, gli domandai
spiegazioni.
“Madame Bovary?”
Lui alzò gli occhi dal testo e mi guardò stupito.
“Lo dobbiamo leggere per Francese,”
spiegò celere, senza però chiudere il libro.
“Quindi è la versione originale?”
“No, è tradotto. È per Letteratura. La
Chastain vuole farci leggere un libro a semestre.”
Annuii piano e Matt tornò a posare gli occhi sulle pagine
del libro, ma io non avevo ancora finito.
“In effetti ti facevo più tipo da Hemingway o cose
così,” dissi in uno sbadiglio, mentre mi mettevo
più comoda, stesa a pancia in su con la testa appoggiata
alla mia borsa.
“Faccio un po’ fatica con Hemingway, a dire il
vero,” rispose lui senza spostare l’attenzione dal
libro.
“Davvero?”
Lui sentì il mio stupore e si affrettò a
spiegarsi. “Non intendo che faccio fatica a leggerlo, solo
che trovo le sue tematiche lontane dalla mia visione. Ma è
soggettivo, immagino.”
Ci riflettei un attimo prima di replicare. “In quel senso,
allora, faccio anch’io un po’ fatica con Hemingway.
È stato un grande scrittore e so che dovrei leggere tutto
quello che ha prodotto, ma devo essere dell’umore giusto per
mettermici.”
Patterson annuì senza dire niente e restammo in silenzio per
qualche minuto. Per sua sfortuna io non avevo niente da leggere, mi
annoiavo e, quand’era così, non riuscivo proprio a
trattenermi dal parlare per troppo tempo di fila.
“Immagino che la tua famiglia paghi un sacco per tenere Amber
in un posto come questo,” buttai lì senza malizia,
solo con l’intento di chiacchierare.
“Immagino di sì,” confermò
lui senza sbilanciarsi.
“Non lo sai? Io so solo che comprare e mantenere un cavallo
sarebbe stato proibitivo per la mia famiglia. Sei fortunato.”
Matt mi guardò per la prima volta da qualche minuto, poi
dovette decidere che era inutile intestardirsi a leggere quando io
volevo così caparbiamente rovinargli i piani,
così chiuse il libro e lo ripose nello zaino alle sue
spalle, prima di stendersi nella mia stessa posizione e rispondermi.
“È quasi l’unica cosa che mi faccio
ancora pagare dai miei, con il solo stipendio estivo non potrei mai
permettermela.”
Stavo per domandargli il perché, curiosa di sapere che tipo
di rapporto avesse coi suoi genitori per arrivare a dire cose del
genere, ma mi trattenni all’ultimo per non risultare troppo
invadente e Patterson ne approfittò per cambiare argomento,
evidentemente ansioso di non parlare più di se stesso.
“Non ti manca la California?” mi chiese quindi, dal
nulla. “Qui dev’essere tutto così piatto
rispetto a una città come Oakland.”
Feci una smorfia seguendo i movimenti di una nuvola sopra di me.
“Non tanto. Tutto sommato viviamo non troppo lontano da
Boston, ho sempre pensato che fosse un buon compromesso il trasferirsi
qui.”
Lui sbuffò piano e io ridacchiai, decidendo quindi di essere
sincera.
“No, non è del tutto vero. All’inizio
l’ho odiato, il trasferimento, ho odiato tutto di Winthrop:
la scuola, le persone, persino il mare, l’oceano, che mi
ricordava tanto il mio
oceano, il Pacifico della West Coast. Poi
Oakland è attaccata a San Francisco, ti puoi immaginare il
tipo di vita che c’è lì.”
Presi fiato, ma non mi fermai. “Alla fine mi sono adattata.
Sono piuttosto brava, sai, ad adattarmi. Col tempo Winthrop ha finito
per piacermi.”
“Perché un compromesso?” mi
domandò Matt.
Non capii subito quello di cosa stesse parlando. “In che
senso?”
Lui ne approfittò per prendermi in giro, ovviamente.
“Parli talmente tanto che non ti ricordi neanche tu quello
che dici,” ridacchiò divertito.
Gli tirai un pugno fiacco sul fianco e lui continuò.
“Hai detto che è stato un buon compromesso
trasferirsi qui.”
“La vita non ci andava troppo bene a Oakland. Alla mia
famiglia, intendo.” Sospirai, incerta se continuare o meno,
ma alla fine non riuscii a trattenermi. “Mia madre
è stata fortemente depressa per degli anni, prima che ci
trasferissimo a Winthrop. Ebbe un brutto aborto quando io avevo
all’incirca otto o nove anni, e da quel momento
alternò momenti di umore stabile a periodi di depressione
nera, in cui non si alzava nemmeno dal letto per giorni interi.
Sembrava una situazione senza via d’uscita e inoltre mio
padre aveva problemi sul posto di lavoro. Così, mentre mia
madre sembrava pian piano riprendersi, papà decise di
licenziarsi e trasferirsi. Qui c’è mia nonna
materna, ci ha aiutati tantissimo. Credo sia stata la scelta
più giusta e, anche se avrei preferito per mille motivi
restare in California, non rimpiango quei bruttissimi momenti. Fu un
incubo anche per me vedere mamma stare così, ed ero solo una
ragazzina. Per questo non ho mai contestato la scelta di
papà, né ho dato a vedere come la pensavo, in una
situazione del genere mi sembrava stupido mettermi a fare i
capricci.”
Mi ero decisamente lasciata andare: non sapevo perché gli
avevo raccontato tutte quelle cose, lui non mi aveva chiesto niente di
specifico e comunque non aveva insistito perché entrassi nei
particolari. Evitai di spostare lo sguardo su di lui e mi zittii per
diversi minuti di fila, convinta di averlo messo in imbarazzo e di
avergli dato un ulteriore motivo per starmi alla larga: la pena. Non
volevo che le persone provassero compassione per me e per la mia
storia, stavo bene ora.
Stavo quasi per alzarmi e cercare una scusa per chiedergli di tornare
verso casa – ormai non mancava molto all’orario in
cui saremmo dovuti rientrare, ad ogni modo – quando Matt mi
stupì parlando per primo.
“Conosco Thomas Petrovic da quando eravamo
piccoli,” confessò all’improvviso, come
se gli avessi chiesto spiegazioni sulla faccenda.
Non me l’aspettavo e per qualche secondo non seppi come
reagire, era un cambio d’argomento talmente repentino che
rasentava la follia. Ma alla fine, come sempre, la curiosità
ebbe la meglio.
“Siete amici d’infanzia?” domandai, senza
muovermi di un millimetro.
“Per niente. Non ci siamo mai stati molto simpatici, ma i
nostri genitori si frequentavano. Si frequentano ancora, in
realtà, fanno parte della stessa cerchia di ricconi
snob.”
Parlava senza usare un’intonazione particolare, come se fosse
una storia da niente che raccontava tutti i giorni, col suo solito modo
di fare un po’ annoiato e casuale; eppure era impossibile non
notare l’amarezza – la malinconia?
– che
traspariva dalle sue parole. Ormai mi aveva interessata, quindi lo
incitai a continuare.
“Perché non frequentate la scuola privata? La
Saint James, si chiama così, no? Come gli altri ricconi
snob, dico.”
“La frequentavamo entrambi. Io ho scelto di cambiare scuola
per fare il liceo pubblico, lui è stato espulso per dei
motivi che non ho mai saputo bene. Non si comportava granché
bene, adesso sembra essere migliorato, ma non con le ragazze, a quanto
pare.”
“È per questo che… Beh, che mi hai
consigliato di non uscire con lui?” chiesi, un po’
indecisa su come porre la domanda.
Sentii Matt sistemarsi lo zaino sotto la testa prima di rispondere.
“Anche, sì. Ho presente il personaggio,
diciamo.”
“Perché hai lasciato la scuola privata?”
Ormai ci avevo preso gusto con le domande e anche se Matt non era un
fiume di parole come la sottoscritta avevo notato che stava cominciando
a rispondere. A modo proprio, usando meno sillabe possibile, ma
rispondeva.
“Non mi piaceva più quell’ambiente.
All’inizio ero anch’io il tipico rampollo snob
dell’alta società, ero un principino.”
Ridacchiai quando, con il sorriso nella voce, usò di
proposito il termine che io avevo coniato per prenderlo in giro neanche
troppo amichevolmente.
“Io l’ho sempre detto,” commentai
infatti. “E poi?”
“Più vivevo in quella bolla, più mi
rendevo conto che non era il posto per me. Forse con un po’
di pelo sullo stomaco avrei potuto finire le scuole lì e
uscire pronto per qualsiasi college del paese, ma non ho
retto.”
“Perché eri troppo snob anche per gli
snob,” lo presi in giro, sapendo di poter scherzare con lui,
a quel punto.
“Esatto,” rispose Patterson con tono fintamente
altezzoso. “Almeno alla Winthrop High posso trattare tutti
per ciò che sono: plebaglia.”
Ridacchiai appena, poi tornai seria per fargli un’altra
domanda, una ancora più personale, a cui non sapevo nemmeno
se
avrebbe voluto rispondere: si basava su di un’ipotesi che
avevo costruito in base a ciò che mi aveva detto in
precedenza, magari stavo per fare un buco nell’acqua. Non mi
tirai comunque indietro.
“È stato il trasferimento il motivo della rottura
coi tuoi genitori? Insomma, il fatto che vuoi mantenerti e tutto il
resto…” blaterai, gesticolando senza rendermene
conto.
Matt rifletté qualche istante sulla possibilità
di darmi o meno una risposta, poi sospirò. “No, i
problemi c’erano da prima. Mio padre era sempre assente per
lavoro, mia madre era anaffettiva. Sono ancora così,
entrambi. Mi ci sono staccato per necessità, non voglio
diventare come loro.”
Trattenni quasi il fiato, colpita dalla durezza delle sue parole.
“È una decisione… coraggiosa. Insomma,
a nemmeno diciotto anni.”
Lui rispose come se fosse una cosa da nulla. “Cerco solo di
mantenermi per quello che posso, con lavoretti part-time ed estivi. E
da qualche mese sono andato a vivere nella dependance della nostra
villa. Non è molto. Sono sempre a casa loro.”
Era da qualche tempo, ormai, che immaginavo degli strani equilibri
nella famiglia Patterson: mi ero ritrovata a fantasticare sulle poche
informazioni racimolate in giro e sulle pochissime parole dette da Matt
in proposito, pensando che ci dovesse essere qualcosa di non troppo
chiaro. Eppure mai avrei pensato a una situazione simile. Matt era
ricco, poteva avere tutto ciò che voleva, ma aveva deciso di
allontanarsi da quell’agiatezza e dai propri genitori
perché, probabilmente, non si sentiva abbastanza amato da
loro.
Improvvisamente, senza sapere come fosse successo, mi ritrovai a
essergli grata. Mi ero sbilanciata troppo raccontandogli la storia di
mia mamma, gli avevo parlato di cose che non avevo mai confessato a
nessuno, mi ero mostrata a lui per la prima volta senza quella corazza
che ero solita mettere di fronte a quasi tutti. Matt doveva averlo
capito e, anche se con qualche difficoltà, aveva deciso di
raccontarmi a sua volta qualcosa, per togliermi
dall’imbarazzo. Era come se non volesse mantenere quella
posizione di vantaggio che io gli avevo consegnato rivelandogli la mia
situazione familiare: senza rendersene conto mi aveva restituito quel
vantaggio e, così facendo, mi aveva dato una fiducia che non
sapevo nemmeno se era meritata.
Perciò sì, gli fui grata, sentii il mio cuore
riempirsi di una strana sensazione di leggerezza che interpretai come
riconoscenza. Ma non riuscii comunque a ringraziarlo.
“Mi dispiace,” dissi invece, girando appena la
testa per guardarlo.
Durante quella conversazione eravamo rimasti stesi sul prato, con le
teste appoggiate ai rispettivi zaini, guardando il cielo pur di non far
incontrare i nostri sguardi. Quando mi girai verso Matt anche lui si
voltò, si mise su un fianco puntellandosi su di un gomito e
mi guardò dall’alto.
Fece una smorfia e poi un sorriso stiracchiato. “Ci sono cose
peggiori,” commentò pragmatico.
“Già,” risposi io, stranamente a corto
di parole.
Aveva ragione, c’erano cose decisamente peggiori al mondo, e
anche se a nessuno di noi due la vita stava riservando un trattamento
facile, non potevamo certo dirci sfortunati nel vero senso della
parola. Anzi, forse Matt era messo pure peggio di me: io avevo avuto i
miei problemi in famiglia, ma almeno avevo dei genitori che mi volevano
bene e che me lo dimostravano ogni giorno.
Fu di nuovo lui a rompere il silenzio, facendo un’espressione
pensierosa. “Siamo un bel duo di sfigati.”
Drizzai la schiena per sembrare più altezzosa e mi alzai
appena appoggiandomi a
mia volta all’indietro sui gomiti, avvicinandomi
inevitabilmente a lui che continuava a guardarmi dall’alto.
“Pensa per te, principino, io sto benissimo,” gli
risposi, fingendomi offesa. “E poi oggi sarei io quella
lagnosa,” aggiunsi a voce più bassa, per
sottolineare che mi ricordavo ciò che mi aveva detto appena
qualche ora prima.
Matt scoppiò a ridere alla mia espressione oltraggiata ed
io, non so perché, rimasi totalmente incantata
dall’immagine di quella risata, dai suoi occhi per una volta
così luminosi, dalla piccola fossetta che gli si formava
sulla guancia mentre sorrideva in quel modo. Così, quando
notai quanto fossimo vicini, di riflesso mi sporsi verso di lui e
socchiusi le labbra, ancora confusa per tutto ciò che stava
accadendo. Lui smise immediatamente di ridere e mi guardò
perplesso, ma fu solo quando vidi i suoi occhi diventare da stupiti a
esitanti che mi resi conto di quello che stavo facendo e mi allontanai
di scatto, mettendomi seduta.
Mi ero avvicinata a Matt Patterson aspettandomi che si sporgesse per
baciarmi. Come se fosse una cosa naturale, che succedeva tutti i santi
giorni. Come se non mi ricordassi che lo odiavo, che mi odiava, che un
bacio tra noi due probabilmente avrebbe causato la distruzione del
mondo e lo sgretolamento dell’intero universo. Merda.
Il cuore mi batteva talmente forte nel petto che pensavo sarebbe uscito
per fuggire – almeno lui – da un momento
all’altro, ma finsi indifferenza, mi schiarii la gola e
parlai per prima.
“Andiamo? Si è fatto un po’ tardi, non
vorrei che i miei si insospettissero. Anche se in realtà
devo andare da mia nonna oggi pomeriggio, forse lei non sa nemmeno a
che ora finisco scuola. O magari sì, non saprei. Non mi
ricordo se gliel’ho detto.”
Mentre blateravo mi alzai in piedi e mi lisciai la gonna per pulirla
dall’erba, ma non guardai mai nella direzione di Patterson,
anche se sentivo il suo sguardo su di me. Alla fine decise di non
rispondere, si alzò a sua volta e raccolse
l’asciugamano da terra, poi lo sbatté e lo
piegò, si caricò lo zaino sulle spalle e mi
lanciò un’altra occhiata.
Annuii, piuttosto stupidamente visto che non mi aveva posto alcuna
domanda, e mi incamminai verso la macchina.
“Immagino che valga di nuovo la regola del non
parlare,” biascicai una volta entrata, mentre mi allacciavo
la cintura.
L’idea di fare un altro viaggio silenzioso con lui di fianco
che controllava ogni mio movimento con la coda dell’occhio mi
metteva addosso un’agitazione incredibile, a maggior ragione
visto ciò che era appena accaduto, ma non potevo fare
altrimenti. Anche volendo non avrei saputo cosa dire e avevo paura che
iniziando a parlare mi sarei messa a sparare cazzate a raffica come al
mio solito.
“Veramente la regola dice solo di non usare frasi troppo
lunghe,” puntualizzò Matt, mettendo in moto
l’auto.
Non riuscii a trattenermi. “Per te non
c’è pericolo, mi sa,” borbottai a bassa
voce, quasi indignata dalla sua non-reazione fino a quel momento.
Lui prese fiato per rispondermi, ma alla fine si limitò a
sospirare piano senza dire niente, per non smentirsi. Non aveva
intenzione di dire alcunché per provare a togliermi
– toglierci – dall’imbarazzo, sembrava
assolutamente impermeabile a ogni mio commento. Però notai
che teneva un’andatura più veloce
dell’andata, anche se non avevamo davvero fretta di arrivare,
dal momento che eravamo abbondantemente in anticipo sul suono della
campanella: forse anche lui voleva accorciare quel viaggio il
più possibile, dunque.
Eravamo ormai su un rettilineo nelle campagne fuori Winthrop ed eravamo
in silenzio da un buon quarto d’ora, quando Matt si fece
prendere da un’eccessiva smania di arrivare e
accelerò più del dovuto. Il secondo successivo
avevamo una volante della polizia alle spalle con i lampeggianti
accesi, a intimarci di fermare la macchina a bordo strada.
“Cazzo,” imprecò Patterson rallentando e
accostando sulla destra, le mani strette sul volante con tanta veemenza
da avere le nocche bianche.
“Non è una macchina rubata, vero?”
domandai con tono piatto, non sentendomi nemmeno in grado di fare
battute di spirito.
Lui mi lanciò un’occhiata furibonda, come se fosse
davvero, davvero
incazzato con me, ed era la prima vera reazione
emotiva che gli vedevo avere da quando avevamo lasciato il maneggio, da
quando mi aveva guardato le labbra con aria indecisa, per la
precisione. Il mio cuore accelerò in protesta: non aveva il
diritto di essere arrabbiato con me.
Non facemmo in tempo a dire nient’altro, perché
l’agente che era sceso dalla volante batté sul
finestrino di Matt, che si voltò sospirando e
abbassò il vetro.
“Documenti, prego,” fece serio il poliziotto dopo
aver guardato bene dentro l’auto.
Patterson si sfilò il portafogli dalla tasca posteriore dei
jeans e gli diede la patente, poi si sporse verso di me e io sussultai
appena prima di rendermi conto che voleva prendere le carte della
macchina dal vano portaoggetti davanti al mio sedile. Mi spiaccicai
allo schienale per non sfiorarlo nemmeno per sbaglio, ma sentivo
comunque il profumo dei suoi capelli e la cosa mi destabilizzava
vagamente. Per fortuna la ricerca finì in fretta e, trovati
quei dannati documenti, Matt si rimise dritto al proprio posto.
Chiusi brevemente gli occhi, sospirando, mentre l’agente
controllava ciò che gli aveva passato Patterson.
“E lei, signorina?”
Riaprii gli occhi di scatto e notai che, com’era prevedibile,
il poliziotto stava parlando con me.
“Cosa?” domandai sentendomi estremamente stupida
per la milionesima volta quel giorno.
“Posso vedere un documento?”
Sentii distintamente un brivido corrermi lento lungo la schiena
nell’istante in cui realizzai che, non avendo con me il
portafoglio, non avevo alcun documento da esibire.
“Io veramente… Cioè, vede, oggi non ho
con me il… E quindi… No-non pensavo che,
insomma…” balbettai senza ritegno.
Matt alzò gli occhi al cielo e provò a rispondere
al posto mio. “Sta cercando di dire che ha dimenticato il
portafogli a casa. Ma può vedere da lei che non è
molto pericolosa, agente, al massimo è pericolosamente
sbadata.”
Quindi il principino sapeva ancora bene come parlare: mi indignai, ma
non ero certo nelle condizioni di rispondergli per le rime.
Il poliziotto ci scrutò serio prima di iniziare la
ramanzina. “Non farei tanto lo spiritoso, se fossi in lei.
Stava correndo ben oltre il limite di velocità concesso in
questo tratto, è minorenne, immagino che lo siate entrambi,
e la sua amica è senza documenti. Potrei anche pensare che
siate fuori da scuola senza il permesso dei vostri genitori.”
Trattenni il fiato, nel panico più totale: eravamo
spacciati. Mio padre si fidava di me, me se avesse scoperto che avevo
saltato la scuola avrei fatto la muffa per sei mesi in camera mia prima
che mi concedesse nuovamente il permesso di uscire.
L’agente, infatti, non aveva ancora finito. “Non ho
intenzione di perdere tempo portandovi in centrale, ma se poteste darmi
un recapito telefonico cada uno per verificare se…”
“Foreman?”
La voce maschile che aveva interrotto il predicozzo proveniva dalla
spalle del poliziotto, che si voltò per rispondere. Mi
attaccai istintivamente al braccio di Matt, in ansia, e lui
fissò perplesso, senza commentare, le mie mani aggrappate al
suo bicipite. Lo mollai e mi misi a stritolarmi le dita; Patterson
scosse la testa e guardò fuori dal finestrino. Non potevamo
vedere chi aveva parlato, ma intuimmo che si trattava di un altro
agente che era uscito dalla macchina dallo scambio di battute
successivo.
“Tutto okay?”
“Sì.”
“Ci stai mettendo più del previsto,
c’è qualche problema?”
“Sono due minorenni, volevo verificare che avessero le carte
in regola per essere fuori da scuola a quest’ora.”
“Ah.”
Il poliziotto numero due, di cui vedevo solo il busto, si
piegò per lanciare un’occhiata dentro la macchina,
si rialzò e poi si riabbassò strabuzzando gli
occhi mentre mi guardava meglio.
“Porca troia,” imprecai a bassa voce,
riconoscendolo all’istante.
Era Chris, il ragazzo che avevo conosciuto qualche mese prima al
Platinum.
Notai che la sua divisa era leggermente diversa da quella del
suo collega e pensai che magari non aveva ancora finito
l’Accademia di Polizia. In realtà non sapevo se
fosse un bene o un male il fatto di aver trovato proprio lui, ma
cominciai in cuor mio a sperare di non finire in carcere o,
più verosimilmente, in punizione per il resto della mia vita.
“Conosco la ragazzina, Foreman,” disse infatti
Chris all’altro, e io sbuffai per quel
‘ragazzina’.
Quando Patterson mi guardò interrogativo, mi limitai a
scrollare le spalle, ascoltando il resto della conversazione.
“Bene,” fece Foreman. “È senza
documenti, almeno adesso potremmo identificarla.”
“Conosco anche i suoi genitori,” mentì
Chris, con un tono talmente deciso da risultare più che
credibile. “È una brava ragazza, sono sicuro che
non sta facendo niente di male. Se la cosa ti fa sentire più
tranquillo stasera faccio una chiamata a sua madre per verificare che
sia tutto a posto.”
L’altro tentennò, era un vero osso duro.
“Sei sicuro?”
“So che tecnicamente non sono ancora un agente,
ma… Lascia fare a me, va bene? Gli do una bella strigliata
per
l’eccesso di velocità e li rimando a casa. Credo
ci fosse qualcosa di più importante alla radio, poco fa,
prova ad andare a controllare.”
Alla fine l’aveva convinto: il poliziotto annuì e
si diresse verso la volante, mentre Chris si abbassò sul
finestrino e mi
lanciò un’occhiataccia.
“Graziegraziegraziegraziegrazie,”
lo investii non
appena fui certa che ci fossimo liberati del collega rompipalle,
sporgendomi persino su Patterson per la foga senza rendermene conto.
“Non ti ringrazierò mai abbastanza.”
“Il che mi fa pensare che stavate facendo davvero qualcosa di
poco lecito,” rispose lui, ma la sua intonazione non era
dura, era quasi scherzosa.
A quel punto intervenne Matt, silenzioso fino a quel momento.
“Io ti ho già visto,”
commentò, indeciso, guardando Chris. Poi si girò
verso di me ed ebbe l’illuminazione.
“Mi ricordo! Ci hai provato con lui al pub, vero?”
Gli mollai un pugno sul braccio, stavolta non molto scherzosamente.
“Sei un idiota.”
“Beh, mica ti sto giudicando. Anzi, vista la situazione
attuale hai fatto bene a provarci,” ribatté lui
abbassando la voce e facendomi un sorriso gelido.
Evitai di mandarlo a quel paese solo perché Chris ci stava
ancora osservando, perciò mi voltai verso di lui e lo
ringraziai di nuovo.
“Figurati, il mio collega è sempre troppo pesante
in questo genere di cose,” rispose lui. “Ma
è la prima e l’ultima volta che ti paro
il culo, Delia, ricordatelo.”
Abbassai la testa e annuii contrita. “Va bene,”
mormorai.
Chris puntò un dito verso Matt. “E tu, ragazzino,
stavi correndo un po’ troppo. Datti una regolata, non
è una cosa su cui scherzare.”
Patterson fece un cenno col capo, ma mantenne la proprio espressione
altezzosa e annoiata che, ormai, avevo imparato e riconoscere come una
maschera.
“Dico sul serio,” lo redarguì infatti
l’altro.
Mi premurai di intervenire per evitare altri problemi: era evidente che
a Matt non andasse troppo a genio Chris, forse perché aveva
chiamato anche lui “ragazzino”.
“Sì, ha capito. Scusalo, è che questa
è proprio la sua solita faccia da schiaffi,”
improvvisai, togliendomi la soddisfazione di prenderlo in giro a mio
volta.
Chris sospirò e poi mi sorrise. “Okay, ragazzi,
potete andare. Stammi bene, Delia.”
“Ci vediamo in giro?” gli chiesi prima che se ne
andasse.
Matt sbuffò quasi impercettibilmente, mi ero sporta di nuovo
su di lui.
“Tu cerca di non metterti nei guai,”
ribatté lui allontanandosi.
Quando ripartimmo mi accorsi che, nonostante tutto,
l’atmosfera nell’abitacolo non era migliorata di
molto: entrambi eravamo silenziosi e poco propensi a scherzare
l’uno con l’altra. Pigiai qualche tasto a caso
sulla radio finché non trovai una stazione decente, alzai il
volume e mi misi più comoda sul sedile. Patterson non
commentò e quasi mi dispiacque di non averlo infastidito con
quel gesto. Un quarto d’ora dopo, grazie a qualche
indicazione data da me a mezza voce, eravamo davanti a casa di mia
nonna.
Mi slacciai la cintura di sicurezza e mi allungai sui sedili posteriori
per recuperare la mia borsa.
“Vado,” dissi quindi, aprendo la portiera.
“Grazie per… Beh, per avermi fatto conoscere
Amber.”
Matt fece il solito cenno con la testa e io, che nonostante tutto avevo
fatto una fatica incredibile per riuscire a ringraziarlo, mi
indispettii di nuovo per la sua totale mancanza di uno sforzo di
gentilezza.
“Ci vediamo a scuola,” ringhiai mentre uscivo
dall’auto.
“Ciao,” si degnò di rispondere lui.
Per tutto il pomeriggio mia nonna fu costretta a subirsi il mio
malumore ingiustificato, ma sopportò con uno stoicismo
tipico della sua età.
Alla fine mi chiusi in camera e parlai un’ora al telefono con
Audrey, mentendole spudoratamente su tutta la parte che riguardava la
presenza di Patterson nella mia gita al maneggio. Se la mia amica
si insospettì non lo diede a vedere, forse anche
perché era ancora preoccupata per la faccenda
dell’armadietto, cosa che io avevo completamente dimenticato;
infatti parlammo soprattutto di quello e dei mille e uno modi per
vendicarmi su Petrovic.
Riuscì comunque a distrarmi e quando andai a dormire,
decidendo per quella notte di restare a casa di mia nonna, ero un
pelino più tranquilla, almeno finché non
realizzai, un attimo prima di addormentarmi, che avevo lasciato il
motorino a scuola e che il giorno dopo mi sarei dovuta alzare
prestissimo per prendere l’autobus. L'ultimo pensiero di
quella giornata costellata di alti e bassi fu quindi una nuova e poco
fantasiosa maledizione nei confronti di Patterson.
Eccomi! Solo poche righe, perché vorrei riuscire a
pubblicare subito e non ho molto tempo.
Il capitolo non mi convince molto. È una parte
importantissima e ho paura di non averla resa al meglio. Commenti,
please. <3
So che alcune speravano in un bacio, per lungo tempo sono stata
indecisa se inserilo o no, ma ho già ben chiari nella mia
testa i tempi della storia e non sono riuscita a modificarli. Spero di
non avervi fatto imprecare troppo!
Non sono un esperta di cavalli, ho cercato (sigh) di stare sul vago, ma
se ci fossero castronerie da correggere fatemelo pure sapere.
Il titolo del capitolo l'ho preso da questa canzone (click per il
link): Take you away
Okay, chiudo qui! Un bacio grande grandissimo a tutte, grazie a chi
commenta, a chi ha aggiunto la storia nelle varie liste e a chi mi
segue. Alla prossima.
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