Capitolo
2. Family
Portrait [Pink]
10
Giugno 2016
È incredibile come il tempo sembri scorrere lento e
sfrecciare
veloce insieme quando si è felici. Sorridere è
quasi una costante,
affrontare le giornate è considerata una benedizione e tutti
i
problemi rimangono lontani dalla propria coscienza.
Ci sono pace e serenità, senza complicazioni.
Ma basta un solo istante perché il cielo crolli come un
soffitto
senza travi. Basta un evento insignificante per turbare la
beatitudine del paradiso. Un attimo, e tutto diventa confuso, i
tormenti tornano a pervadere la mente, e si comincia a fingere di
stare bene davanti alle persone da cui si è circondati.
Eppure né Noora né William avrebbero potuto
prendere in giro se
stessi abbastanza a lungo da dimenticare i carichi pendenti sulle
loro teste. Li ignoravano, ma erano proprio lì, come
fantasmi, ad
infestare le loro vite nel momento in cui queste erano più
luminose
che mai.
Quel giorno però, gli spettri avrebbero preteso nuovamente
una parte
della loro attenzione.
Per ogni minuto di felicità, bisogna pagare con una scheggia
piantata nella propria anima.
* * *
William aveva chiesto a Noora di andare con lui al pub in cui si
sarebbe visto con i ragazzi, ma non lo aveva detto a Chris, e sapeva
che presto l'avrebbe pagata cara per questo.
Il suo migliore amico non era ancora riuscito ad entrare nell'ottica
del fatto che adesso avesse una ragazza, e la sera prima si era
presentato all'appartamento con una loro compagna di scuola senza
avvisare, chiedendogli se potessero passare la notte lì, dal
momento
che entrambi avevano i genitori a casa. Succedeva spesso che Chris
portasse le sue ragazze da William.
Quando ancora i due erano sulla porta e William stava spiegando a
Chris che non era più il caso che facesse quelle
improvvisate, Noora
era comparsa dietro di lui e li aveva salutati perplessa.
L'espressione di Chris si era inasprita, come se avesse mangiato un
limone, e William aveva capito che finché non gli fosse
passata
quell'invidia infantile nei confronti della sua ragazza, sarebbe
stato difficile passare del tempo con lui.
Perciò non gli aveva detto di aver deciso di portare Noora a
quella
serata. Voleva che lei conoscesse meglio i suoi amici, dal momento
che si erano sempre incontrati alle feste, e una sera più o
meno
tranquilla a bere una birra gli sembrava la soluzione migliore. Se
avessero voluto far funzionare quella relazione, avrebbero dovuto
condividere ogni aspetto delle proprie vite, e gli amici per lui
erano sempre stata la parte più importante.
Quando Noora uscì dal bagno, vestita e truccata in modo
semplice
come sempre, i capelli lisci ad incorniciarle il viso, lo
trovò
seduto sul divano ad aspettarla, con maglietta e pantaloni neri che
creavano un contrasto delizioso con la sua pelle nivea.
Inclinò
leggermente il capo a destra e gli sorrise.
“Pronta”, annunciò.
Lui si alzò dal divano e le tese una mano, ricambiando il
sorriso.
“Andiamo”.
* * *
Scendendo dalla Porsche di William, improvvisamente Noora fu colta
dall'agitazione. Non era da lei essere in ansia al pensiero di cosa
pensassero altre persone sul suo conto, solitamente non le importava.
Ma quei ragazzi erano quasi una famiglia per lui, ed era fondamentale
che si creassero dei rapporti almeno civili.
Passandole un braccio intorno alle spalle, William le diede un bacio
tra i capelli e la rassicurò.
“Li hai già visti: non mordono. Abbaiano
soltanto”.
“Ah-ah. Il solito spiritoso”, replicò
lei cercando di spingerlo
via, ma con scarsi risultati, perché lui la strinse ancora
di più.
Il locale in cui entrarono era il tipico pub di stampo irlandese.
Bancone in legno scuro, segnato dal tempo e dagli avventori, tavoli
ricavati da grossi barili e sgabelli alti. Gli amici di William, che
lei riconobbe tutti come membri del Riot Club, erano disposti intorno
a tre tavoli ed avevano già tutti un boccale tra le mani.
Notò con
piacere che c'erano anche altre due ragazze, una delle quali era
Mari, seduta accanto ad una mora che Noora aveva visto qualche volta
a scuola. Almeno non sarebbe stata un'imbucata ad una serata tra
ragazzi.
Quando li videro entrare dalla massiccia porta del pub, iniziarono
tutti a salutare William con urla e cori da stadio, tra cui Noora
distinse un motivetto che faceva: “Magnusson del nostro
cuor”,
cantato a gran voce da un ragazzo che ricordava chiamarsi Alexander,
e non poté fare a meno di ridere.
William scoppiò a ridere a sua volta e, tenendola per mano,
si
avvicinò a quel gruppo di scalmanati, iniziando a salutarli
con
strette di mano e pacche sulle spalle. Tutti tranne Chris rivolsero
un saluto anche a Noora.
Né a lei né a William sfuggì questo
dettaglio.
Noora salutò Mari, che le presentò anche l'altra
ragazza, Liv.
“Ehi, vanno bene le cose adesso, a quanto pare”, le
disse Mari
con un sorriso, accennando a William che stava prendendo posto sullo
sgabello accanto a Chris, proprio di fronte alle ragazze.
“Sì, non mi lamento”, le rispose, la
gioia evidente nel suo
tono. Poi raggiunse William e si sedette accanto a lui, Alexander
alla propria destra.
Scoprì che le piaceva la compagnia degli amici di William.
La
divertivano, e in un certo senso loro la consideravano una sorta di
eroina per essere riuscita ad incastrare in una relazione l'unico fra
loro che in genere faceva in modo di non frequentare per più
di due
settimane la stessa ragazza. Le raccontarono diversi aneddoti
interessanti, uno più compromettente dell'altro, mentre i
boccali di
birra continuavano a svuotarsi e ad essere riempiti nuovamente.
William li lasciò fare, dal momento che non aveva scheletri
nell'armadio in quell'ambito, ma dovette ricredersi quando Chris, che
fino a quel momento era stato stranamente in silenzio,
disseppellì
un ricordo legato all'estate precedente che lui aveva completamente
rimosso.
“Ricordi quella scommessa che abbiamo fatto con tuo
fratello?”.
“Chris!”, lo ammonì William,
irrigidendosi e stringendo la mano
di Noora, ma lui continuò lo stesso.
“Che saremmo riusciti a scoparci tutte quelle della sua
classe
delle superiori entro la fine dell'estate? E cazzo se ci siamo
riusciti”, concluse con soddisfazione.
Noora inorridì e si voltò di scatto a guardare
William, con la
speranza che smentisse quella storia assurda. Una cosa era usare il
sesso come passatempo, ben altro renderlo una sorta di gioco
d'azzardo.
Lui prese a fare dei movimenti circolari col pollice sul dorso della
mano che le stringeva, per tranquillizzarla, e incenerì
Chris con lo
sguardo. Aggrottò la fronte e scosse il capo come a
chiedergli che
cosa gli fosse preso, e l'amico gli restituì uno sguardo
innocente.
“Ah, Magnusson, sei sempre stato un pezzo di
merda”, intervenne
Alexander in tono drammatico, per stemperare la tensione palpabile.
Tutti risero e la conversazione si spostò su argomenti meno
spinosi,
ma Noora rimase in silenzio, sulle sue. Smise di interagire anche con
le ragazze e si chiuse in se stessa, la mano abbandonata mollemente
in quella di William. Lui tentò un paio di volte di
includerla nel
discorso, ma lei si limitò ad annuire.
“Noi andiamo un attimo fuori, mi fumo una
sigaretta”, annunciò
allora William al resto del gruppo, facendo alzare Noora e
trascinandola verso la porta.
Lei lo seguì senza protestare, ma quando furono all'aria
aperta
ritrasse la mano bruscamente e prese le distanze.
Senza scomporsi fece un lungo respiro, lo guardò negli occhi
e gli
chiese: “Perché l'hai fatto? È una cosa
assurda quella che ho
sentito là dentro. Scommesse sul sesso?”.
William scosse il capo e si guardò intorno, mentre cercava
le parole
giuste da dire.
“Noora, è come per la bottiglia, non
c'è niente che possiamo
farci adesso. Per la maggior parte della mia vita ho fatto lo stronzo
con tutti tranne i miei amici. E adesso non lo sto più
facendo con
nessuno. Perché non riesci a fartelo bastare?”,
chiese. Sapeva che
Noora non avrebbe mai accettato le scelte che aveva fatto in passato,
ma pensava che ormai fossero andati oltre la fase delle
recriminazioni, che apprezzasse quanto si stesse impegnando per lei.
“Lo so, William... ma...”, non riuscì a
terminare. Non sapeva
che cosa dire, perché lui aveva ragione. William non era
cambiato,
nessuno cambia all'improvviso, però si stava sforzando per
riuscire
a controllarsi, e lei avrebbe dovuto stargli vicino e spronarlo a far
uscire la sua parte migliore. Ma era difficile sapere che la persona
che amava era stata capace di certe azioni e non esserne in qualche
modo spaventata.
Lui si avvicinò con cautela e le mise le mani intorno alla
vita.
Ritrovandosi premuta contro di lui, Noora dovette alzare la testa per
riuscire a guardarlo ancora negli occhi. Scrutarono a lungo l'uno lo
sguardo dell'altra, tentando di trasmettersi tutto ciò che
non
potevano dire a parole e cercando le risposte di cui necessitavano
per superare anche quel momento.
Ad un certo punto, il cellulare di William iniziò a
squillare nella
sua tasca, ma lui lo ignorò e strinse finalmente Noora in un
abbraccio riparatore, a cui lei si arrese immediatamente.
Dopo diversi squilli andati a vuoto, il telefono smise di suonare,
per poi riprendere con insistenza qualche istante più tardi.
“Dovresti rispondere”, disse Noora contro il suo
orecchio.
Lui si scostò per estrarre l'iPhone dalla tasca e
controllare chi
fosse a quell'ora. Quando vide il mittente della telefonata la sua
espressione si fece scura, come se all'improvviso qualcuno avesse
spento un interruttore.
“È mio padre”, le spiegò,
prima di allontanarsi da lei per
rispondere.
“Pronto?”.
“Ciao, William”. La voce di Havard Magnusson
riusciva stillare
contrarietà anche pronunciando un semplice saluto.
“Ciao, papà”, gli fece eco il figlio,
immaginando il motivo
della telefonata. La stava aspettando dal giorno della dichiarazione
fatta alla polizia. Non sapendo bene come muoversi in quella
situazione, aveva chiamato lo studio legale a cui si rivolgeva suo
padre ad Oslo, ed era consapevole che lo avrebbero avvisato, dal
momento che quella mansione sarebbe stata addebitata sul suo conto.
“Non mi piace quello che mi hanno detto oggi, ragazzo
mio”.
Havard non si preoccupò minimamente di informarsi su come
stesse suo
figlio. Nessuna traccia di affetto nel suo tono, nemmeno il minimo
accenno di sentimento.
Noora notò la tensione nelle spalle di William e si
accostò a lui,
prendendogli la mano libera e intrecciando le dita alle sue. Si
voltò
verso di lei e le rivolse un breve sorriso che non raggiunse gli
occhi.
“Che cosa ti hanno detto oggi?”, chiese, dopo un
attimo di
esitazione. Adesso la rabbia cominciava a farsi strada dentro di lui,
come ogni volta che si trovava a fronteggiare la totale assenza di
interesse dei suoi genitori.
“Mi ha chiamato l'avvocato di Oslo per dirmi che hai chiesto
di
essere difeso da lei ad un'udienza per una rissa. A quanto pare hai
pensato bene di spaccare una bottiglia in testa ad un ragazzo mentre
qualcuno ti riprendeva”.
“Sì, è vero. Quindi?”, chiese
William, tentando di mostrarsi
indifferente al disprezzo che trasudavano le parole del padre.
“Non mi serve un figlio che va in giro a farsi accusare di
lesioni.
Se qualcuno qua venisse a saperlo, diventerei lo zimbello della
società, e sai che sono ad un passo dal diventare
presidente.
Qualunque tipo di pubblicità negativa potrebbe costarmi quel
posto”.
Ed ecco che tutto si riduceva sempre al suo lavoro.
“Che cosa c'entra quello che faccio io ad Oslo con il tuo
lavoro a
Londra?”.
Vedendo che William stava iniziando a perdere la calma, Noora gli
accarezzò una guancia, facendolo abbassare per appoggiare la
fronte
contro la sua.
“Non tentare di usare la tua logica da quattro soldi con me,
William. Sai che cosa voglio dire. Stai superando il limite in questo
periodo, a partire da quella tua idea mai andata in porto di
trasferirti qua. Non mi hai neanche voluto dire che cosa sia
successo, ma immagino nulla di buono”. Havard fu quasi
derisorio
nel fare quell'insinuazione, come se fosse ovvio che da suo figlio
non potesse aspettarsi niente di positivo. Come se fosse ovvio che
non sarebbe mai stato in grado di combinare niente che fosse degno di
nota nella sua vita.
“Non è un tuo problema”,
ribatté William lapidario.
“Lo è, visto che sono io a mandarti tutti i soldi
che spendi. Ora
che sei diplomato, dovresti iniziare a pensare a quello che devi fare
della tua vita”.
“Va bene, non dobbiamo parlarne adesso. Volevi
altro?”, tentò di
tagliare corto.
“L'avvocato ha detto che ti arriverà una
comunicazione a casa, ma
che le hanno già fatto sapere che l'udienza si
terrà il trenta
giugno. Stai attento, William, sto perdendo la pazienza con te. Ti
comporti sempre più come tuo fratello”. Di tutte
le parole che
avrebbe potuto usare, suo padre scelse quelle che sapeva avrebbero
fatto breccia nella mente del figlio. Essere paragonato a Nikolai era
l'incubo a cui William tentava di sfuggire da anni.
“Buonanotte, papà”, tagliò
corto, e chiuse la telefonata senza
dargli la possibilità di rispondere.
Sospirò di sollievo e lasciò che per qualche
minuto Noora spazzasse
via il suo nervosismo con le sue carezze. Immerse il viso nell'incavo
del suo collo e inspirò il suo profumo, pensando che a fine
serata
l'avrebbe portata a casa e avrebbero fatto l'amore, e tutto sarebbe
ricominciato a girare per il verso giusto.
Si scostò e la baciò in maniera profonda,
lasciandola andare
soltanto quando ebbero entrambi bisogno di prendere aria.
“Torniamo dentro?”, gli chiese lei, con un sorriso
di
incoraggiamento.
William annuì e insieme tornarono dai suoi amici.
* * *
10
Gennaio 2007
Era
il suo decimo compleanno, ma alle otto di sera ancora nessuno in casa
gli aveva fatto gli auguri.
Sua
madre se ne andava in giro con un bicchiere sempre pieno di vino
rosso in mano, suo padre non era rientrato dal lavoro e Nikolai era
ancora chiuso in camera sua dopo la scenata che aveva fatto appena
tornato da scuola. Aveva smesso da poco di piangere e urlare, ma
nessuno ormai ci faceva più caso.
Era
passato poco più di un anno dall'incidente in cui avevano
perso
Amalie, e se prima Nikolai era invisibile agli occhi dei genitori,
adesso era diventato meno di un'ombra nelle loro vite.
William
era un caso a parte. Lui era il gemello fortunato, quello che era
rimasto illeso, e sua madre non perdeva occasione per ricordarglielo
e farlo sentire in colpa per questo. Se fosse stato per lei, avrebbe
barattato entrambi i suoi figli maschi per riavere la sua
principessa.
William
prese dallo zaino il bigliettino di auguri che gli aveva dato Mari
quella mattina a scuola, poi scavò più a fondo e
tirò fuori il
videogioco che gli aveva regalato Chris. Fu tentato di provarlo in
quel momento, ma non voleva attirare l'attenzione della madre ubriaca
accendendo la televisione, così rimise tutto nello zaino e
si
preparò per andare a letto, sebbene ancora non avesse
cenato. Sapeva
che sua madre si era dimenticata anche quella sera di preparare
qualcosa, e aveva paura di incontrarla quando lei beveva,
così
mettersi a dormire gli sembrò la soluzione migliore.
Mentre
spegneva la luce e chiudeva gli occhi su quella giornata orribile,
pensò a quando lui e Amalie sgattaiolavano fuori di casa
mentre
mamma e papà litigavano per colpa di Niko.
Gli
mancava sua sorella, la sua metà. Adesso era rimasto da solo.
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