I
patti vanno rispettati fino a quando una delle controparti non si
stanca e tradisce l'altra.
(Anonimo,
XX secolo)
Costanza era tornata a palazzo che erano le nove passate: lei e il
maestro Rossini erano passati sotto casa di Maffucci per vedere se
avesse già fatto rientro a casa, ma le luci del suo elegante
appartamento in corso Genova erano spente e alla porta non aveva
risposto nessuno.
Lasciarono
la carrozza dell'avvocato sotto la responsabilità del
cocchiere tuttofare, quindi si diressero fino in corso Carlo Emanuele
per noleggiare una vettura che li portasse a destinazione.
I Granieri stavano aspettando la figlia in salotto, preoccupati per la
sua improvvisa sparizione di qualche ora prima: il maestro di musica
l’aveva accompagnata fin dentro e si era preso
l’intera responsabilità di quel ritardo, adducendo
come scusa una serata trascorsa in compagnia di una baronessa sua amica.
La
ragazza gli era stata riconoscente per quella prontezza di spirito,
sebbene si scorgesse tutta la preoccupazione che la opprimeva
riversarsi sul bel volto, pallido e dallo sguardo corrucciato.
Donna
Luisa aveva sorriso come richiedevano le circostanze, tentando un
debolissimo rimprovero, poi aveva abbracciato la figlia e aveva
invitato Rossini a fermarsi a cena, ma egli aveva declinato
l’invito con il solito sorriso enigmatico e il baciamano a
cui la contessa non sapeva resistere.
Nonna
Maria, seduta su una delle poltroncine di velluto verde, era
l’unica che aveva intuito che ci fosse qualche cosa di grave
ad impensierire la nipote, tuttavia non aveva insistito.
Costanza
si scusò con i genitori e la marchesa, poi salì
in camera sua per riposarsi: aveva lo stomaco chiuso e non le andava di
piluccare nemmeno un tozzo di pane.
Sentiva
però la necessità di confessare
l’enorme segreto dell’arresto di Pietro a qualcuno,
in modo da dividere quel peso, quel macigno opprimente che la
angosciava, ma a chi avrebbe potuto dirlo senza temere che la zia Rosa
e lo zio Aldo venissero a saperlo? Era sicura che la marchesa Mellerio
avrebbe senz’altro saputo mantenere il silenzio, tuttavia non
voleva caricarla di preoccupazioni, né tantomeno poteva
rivelarle la verità sulla doppia vita di Pietro e
sull'esistenza nascosta del gruppo di rivoluzionari.
La
verità era che avrebbe tanto voluto confrontarsi con
Nicolò, da giorni visibilmente più sereno, ma si
convinse che non poteva turbarlo senza sapere ancora il destino che
attendeva l’adorato cugino, per cui decise di lasciar perdere.
Quando
incrociò il suo sguardo, sempre velato da ombre, gli sorrise
automaticamente e gli strinse una mano, come a voler infondersi
coraggio, poi si defilò in camera sua, dove dormì
un sonno infestato da incubi e visi che si sovrapponevano.
Pietro
aveva trascorso una notte incredibilmente tranquilla, senza pensieri:
si era lasciato scivolare sul pavimento di terra battuta, la schiena
che sfregava contro il sasso freddo ed inospitale, subito dopo che
Eugenio se n’era andato.
Aveva
fissato per qualche minuto il vuoto che lo circondava, quel vuoto
riempito dall’asse di legno che avrebbe dovuto rappresentare
il giaciglio pronto ad accoglierlo, da quel tavolaccio con le fette di
pane marmorizzate accompagnate da un pezzo di formaggio e da un
bicchiere di vino annacquato.
Si
sentiva calmo, rilassato, come se si trovasse in una realtà
parallela: alzò gli occhi azzurro ghiaccio al soffitto,
cercando di incrociare il ritaglio della finestrella che si affacciava
sul cielo macchiato di stelle, dove qualche uccello notturno si stava
cimentando in un canto d’amore, mentre le luci prodotte dalle
torce infuocate creavano disegni dai contorni sfocati sulle pareti.
Le
fitte alla spalla tornarono a presentargli il conto, ma il dolore al
ginocchio si era fortunatamente placato: si portò una mano
su entrambe le bende che gli aveva confezionato il dottor Terzani,
accarezzandole come se fosse il capo di un bambino.
Aveva
la mente svuotata, la bocca asciutta e il cuore arido di sentimenti:
dopo tutto il lottare che aveva fatto, le speranze che aveva riposto
nella causa di Liberazione e gli uomini che aveva incontrato negli
ultimi anni, da quando aveva deciso di abbracciare il movimento del
gruppo di giovani rivoluzionari, ora ogni cosa gli appariva svuotata di
significato.
Che
senso aveva avuto battersi nell’ombra e nel silenzio? Tremava
e cercava di infondersi un minimo di calore sfregandosi con vigore il
braccio funzionante e parte del corpo con la mano del lato sano.
Forse,
in fondo al suo cuore, neppure gli importava di morire, di essere
condannato, ma non trovava giusto che passasse alla storia come un
traditore ai danni della patria, perché lui amava
profondamente il Regno di Sardegna e l’Italia intera: avrebbe
voluto semplicemente che la sua nazione fosse libera di autogovernarsi,
libera di darsi delle leggi che non venissero imposte da una potenza
straniera, estranea alle abitudini e ai desideri del popolo che la
abitava.
Brividi
di freddo gli percorsero la schiena, facendogli battere i denti per
l'inospitale temperatura del tugurio che tendeva ad abbassarsi di
minuto in minuto.
Era
inutile rivangare il passato, doloroso e anche da sciocchi
sentimentali: non era in possesso di alcuna prova per dimostrare
l'assoluta innocenza dalle accuse che gli venivano mosse, non aveva
testimoni che potessero mettere una buona parola per scagionarlo, non
sapeva neppure quanto tempo avrebbe dovuto rimanere chiuso
lì dentro, tuttavia non si pentiva di nulla, avrebbe rifatto
qualsiasi azione che lo aveva spinto a ritrovarsi in quella situazione
incresciosa e surreale.
Lasciò perdere quei pensieri cupi e si alzò a
fatica, zoppicando verso il tavolo che ospitava la magra cena che
sarebbe stato meglio consumasse, prima che i topi godessero del
banchetto al posto
suo: si sedette sullo sgabello mangiato dalle tarme e prese un pezzo di
pane, sbocconcellandolo con aria indifferente, mentre i rumori degli
stivali dei soldati all’esterno della cella gli facevano
compagnia.
Ingoiò
il cibo e il vino senza reale interesse, poi si avvicinò
alle grate che lo dividevano dal corridoio lungo e stretto: si
affacciò timidamente, spinto da una curiosità che
non gli apparteneva, fino a quando la guardia a pochi passi da lui non
lo guardò con aria torva, il fucile su una spalla e il viso
butterato dal vaiolo.
Alcune
risate sguaiate accompagnate da un paio di ululati umani interruppero
quello scambio per nulla amichevole: forse era scoppiata una rissa tra
i prigionieri dell’altra ala del sotterraneo, così
Pietro ritornò sui suoi passi e si stese sul tavolaccio,
raggomitolandosi in posizione fetale, e lasciandosi cullare dalle voci
brutali e sconosciute a pochi metri da lui.
Quando
si svegliò, erano ormai le prime luci dell’alba:
le ruote dei carri e delle vetture che si snodavano lungo piazza
Castello gli annunciarono il risveglio.
Un
riverbero di raggi solari gli illuminò il volto e lo indusse
a mettersi seduto, la schiena a pezzi e la spalla che aveva ripreso a
pulsargli.
Rabbrividì,
sebbene si sentisse il corpo in fiamme, come se avesse la febbre: si
guardò intorno, sospirando con aria stordita, avvertendo i
palmi delle mani sudati che sfregavano contro le schegge di legno
marcio.
Pochi
secondi dopo, la chiave nella serratura arrugginita annunciò
l’arrivo del soldato che veniva a portargli una scodella con
un miscuglio non meglio definito che avrebbe dovuto rappresentare la
colazione, assai simile a del pane innaffiato con del latte rancido.
Il
nuovo venuto gli lanciò un’occhiata di traverso,
continuando a rimanere in silenzio, quindi andò a recuperare
il vaso da notte e uscì per svuotarlo.
Pietro
deglutì, la bocca dalla salivazione azzerata, pronto a
domandargli l’orario, ma la guardia aveva già
richiuso la porta della cella e si era dileguata lungo il corridoio
illuminato dalle torce.
Ad
occhio e croce, dovevano essere le sei, forse le sette, quindi aveva
ancora un po’ di tempo per riposarsi prima che avesse inizio
l’interrogatorio con il magistrato e il tenente che lo aveva
arrestato il giorno prima.
Gli
pareva strano pensare a quel termine: di solito, infatti, si arrestano
i delinquenti, i malfattori che avevano agito contro la legge, non gli
innocenti.
Dopotutto,
chi poteva definire con assoluta certezza chi fossero i colpevoli e chi
gli innocenti? Dio? Gli uomini e la loro giustizia, fin troppo sovente
fallace? L’unica cosa che sapeva era che non voleva far
preoccupare i suoi genitori, soprattutto suo padre che cominciava ad
avere una certa età, e che era sempre stato così
buono con lui, inculcandogli l’amore per la cultura e per la
libertà politica.
Con
quel pensiero, l’uomo ripiombò in un sonno
profondo, fino a quando il rumore della serratura lo
risvegliò nuovamente.
Il
sole doveva ormai essere alto nel cielo, eppure lui avvertiva un gran
freddo penetrargli nelle ossa, scuoterlo fino al midollo.
“Pietro,
amico mio!”
Quella
voce gli era famigliare… dove l’aveva
già sentita? Ma certo, era Maffucci!
“Eugenio,
cosa ci fai qui?”
Il
conte si mise seduto, uno sforzo che gli costò
un’immane fatica, come se avesse dovuto spostare un enorme
ostacolo.
“Tra
meno di un’ora ci sarà il tuo interrogatorio, te
lo sei scordato?!”
Il
trentenne dai baffetti gli si avvicinò con un sorriso
d’incoraggiamento sulle labbra sottili, che subito si spense
quando si accorse del rossore che imporporava le guance
dell’altro.
Gli
passò una mano sul volto e sulla fronte, scuotendo la testa
contrariato.
“Ma
tu scotti! Hai la febbre! Perché non hai chiamato
nessuno?”
“Non
è niente… devo aver preso freddo questa notte.
Sto bene, davvero, non preoccuparti”
L’avvocato
arretrò di qualche passo e colpì energicamente le
sbarre della cella, chiamando a gran voce la guardia.
“Soldato,
chiamatemi immediatamente il medico del carcere! Non vedete che il
conte è febbricitante?!”
Un
ragazzetto sui vent’anni, ossuto e pallido, lanciò
un’occhiata distratta in direzione del prigioniero, quindi
annuì senza troppa convinzione, la voce incolore.
“Aspettate,
vado a chiamarlo” e si allontanò a passi cadenzati
e privi di fretta verso il lato opposto.
Maffucci
tornò a concentrarsi sull’amico, aiutandolo a
coprirsi con la sua giacca: se la tolse e gliela infilò,
abbottonandogliela con cura.
“Sta’
tranquillo, Pietro, questa sera al più tardi sarai fuori. La
tua posizione sociale e le conoscenze influenti che possiamo vantare
saranno sufficienti per far decadere l’accusa: ne uscirai
più pulito di quando sei entrato, credimi! Anzi, se
sarà necessario scriveremo al primo ministro, mi
farò ricevere da lui stesso, dal re in persona, ma io non ti
lascio qui dentro, te lo giuro!”
Pietro
lo afferrò per un polso e gli sorrise, mentre avvertiva
l’ennesimo brivido freddo accarezzargli la schiena.
“La
mia coscienza è a posto, Eugenio, ed è questa la
cosa più importante. Comunque vada, promettimi che
continuerete a lottare: sai, quasi me ne vergogno, ma stanotte sono
arrivato a chiedermi che senso avesse avuto tutto ciò che
abbiamo fatto, ma adesso l’ho capito”
“Che
cosa hai capito?” domandò con aria corrugata
l’avvocato, sedendosi di fianco al trentenne.
“Che
stiamo combattendo non solo per la nostra libertà, ma anche
per quella delle generazioni future, che qualsiasi
difficoltà incontreremo, ogni ostacolo apparentemente
insormontabile rappresenterà un ulteriore tassello per gli
anni migliori che attenderanno tutti noi…”
“Sì,
va bene, però tu continuerai a lottare insieme a noi! Te lo
ripeto, non ti lascerò marcire in questa cella,
intesi?!”
In
quel mentre, dei passi si fermarono davanti alla gattabuia, seguiti da
altri passi.
“Oh,
finalmente! Dottore…”
Eugenio
aveva alzato la testa nella direzione dei nuovi venuti, ma subito si
zittì, una rabbia crescente che si impadronì di
lui.
“Che
cosa ci fai qui?”
Un
ragazzo vestito elegantemente, un completo blu scuro di cotone e lino e
il cappello calato in testa, accennò ad un saluto con il
bastone da passeggio.
“Sono
venuto a trovare mio fratello, signor
Maffucci”
Federico
lanciò un cenno d’intesa alla guardia, il ventenne
ossuto di qualche minuto prima, che gli aprì la cella e si
mise da parte, in modo da lasciarlo entrare.
“Come
osi presentarti? L’unico responsabile di questa situazione
sei tu, eppure non hai un briciolo di umanità o di vergogna
che ti impedisca di trascinarti fino a qui e di mostrare la tua sordida
faccia da traditore!”
Il
giovane conte abbozzò un sorriso beffardo, gli occhi scuri
socchiusi a due fessure, che subito puntò contro
l’avvocato.
“Non
mi pare di essere in tale confidenza con voi da rivolgermi alla vostra
persona dandovi del tu. O sbaglio?”
L’altro
serrò la mascella, mordendosi il labbro interno e reprimendo
la voglia irrefrenabile di tirargli un cazzotto.
“Comunque
sia, non sono qui per parlare con voi, ma con mio fratello. Avete
dunque la compiacenza di lasciarci da soli per qualche
istante?”
Eugenio
inspirò, incenerendolo con lo sguardo, poi lanciò
un’occhiata indecisa in direzione dell’amico, che
annuì, e solo allora si decise ad abbandonare la cella.
“Allora,
hai trascorso una notte tranquilla?”
Federico
si avvicinò a Pietro, ancora seduto sul tavolaccio, e attese
che gli rispondesse, ma l’altro non disse nulla.
“Forse
ti hanno fatto mancare qualcosa?” continuò
imperterrito il secondogenito dei Caccia.
Non
ricevendo alcun segnale da parte del fratello, accartocciò
le labbra e si voltò, percorrendo con lo sguardo il
perimetro del tugurio in cui erano rinchiusi.
“Credi
che mi stia divertendo? Pensi che mi faccia piacere essere qui, vederti
in queste condizioni a dir poco pietose? Scommetto che non sei nemmeno
arrabbiato con me. Non è così?”
“So
che non volevi uccidermi, e questo mi basta. Non è
necessario che tu finga di avere un cuore
insensibile…” si decise finalmente a ribattere
Pietro, dopo un lungo sospiro.
L’altro
si girò e non riuscì a trattenere un sorriso, le
mani congiunte sul pomello del bastone.
“E
cosa te lo fa pensare?”
“Da
che mondo è mondo, i duelli si svolgono all’alba,
invece tu hai deciso di batterti di sera, in una zona facilmente
raggiungibile dal centro abitato; in secondo luogo, mi hai permesso di
scegliere l’arma, e sapendo che non sono capace di mirare con
la pistola, hai portato un’ampia scelta di spade e fioretti
tra cui scegliere. E poi, sebbene hai continuato a menare fendenti a
destra e a manca, hai sempre tirato di striscio, evitando di colpirmi a
morte"
Fece una piccola pausa, continuando a fissare lo sguardo in quello del
fratello, visibilmente in imbarazzo.
"Dopotutto, per un ex allievo della Regia Accademia Navale di Genova,
non dovrebbe essere così complicato distruggere la vita di
un uomo...”
Federico
evitò d’incrociare i suoi occhi, preferendo
camminare in lungo e in largo sul lato opposto della cella.
“No,
ti sbagli. Le ferite che ti ho inferto sono state calibrate con cura:
io volevo
farti del male, ho visto il tuo volto sofferente quando ti ho colpito
alla spalla… e vuoi sapere una cosa? Non provavo
pietà mentre lo facevo, non provavo nulla”
Un
ghigno appena abbozzato incurvò le labbra di entrambi gli
interlocutori, quasi come se fossero l'uno lo specchio dell'altro.
“Può darsi, ma rimango convinto della mia
idea”
Rabbrividì
ancora una volta, la temperatura che continuava a salire, e si
sistemò meglio la giacca dell’amico.
“Qualunque
cosa tu creda, sono qui per proporti un patto, una sorta di alleanza
che, se sei davvero intelligente come tutti hanno decantato in questi
anni, non potrai rifiutare”
Pietro
inspirò ed espirò per ritrovare la
lucidità che avvertiva svanirgli tra le dita, mentre le
tempie cominciavano a pulsargli.
“Di
che si tratta?”
Federico
fece dietrofront e si parò davanti al fratello:
guardò poco entusiasta lo sgabello di legno davanti al
tavolo su cui era abbandonata la scodella della colazione ancora
intatta, quindi scosse il capo e tornò a concentrarsi sul
suo interlocutore.
“Confessa, ed io ritratteró ogni accusa.
Semplicemente confessa i nomi dei damerini che ti hanno spinto ad
entrare nel gruppo di rivoluzionari: io lo so che ti sei lasciato
coinvolgere, che non hai agito di testa tua, quindi non ti
costerà nulla disfarti di qualche omuncolo e
denunciarli…”
Il
trentenne chinò la testa e chiuse gli occhi.
“Come
puoi anche solo lontanamente pensare che mi abbassi a compiere un gesto
tanto ignobile e falso?! Tutto ciò che ho fatto,
l’ho fatto di testa mia, nessuno mi ha mai obbligato! Tu,
piuttosto, perché hai lasciato che ti facessero il lavaggio
del cervello? Perché sei passato dall’altra parte,
tradendo tutti gli ideali che nostro padre ci ha sempre
insegnato?!”
“Che ti ha insegnato,
vorrai dire!” sbraitò il minore, battendo con
forza la punta del bastone sul pavimento argilloso.
“Io
non sono mai esistito per lui, a malapena la mamma si accorge di me! E
tu ti fai degli scrupoli per dei pidocchiosi di cui a malapena conosci
le facce?!”
“Non
offenderli, Federico, non se lo meritano, ti chiedo solo
questo…” cercò di controllarsi il
ragazzo, deglutendo a fatica per la gola arsa, simile alla cartavetrata.
“Va
bene, se servirà a convincerti ad aver salva la pelle, non
li offenderò. In cambio, però, dimmi i nomi, e
facciamola finita con questa storia: è già durata
troppo, per i miei gusti”
Il
giovane conte Caccia tirò fuori da una delle tasche della
giacca un pezzo di carta intonso, pronto a chiamare il soldato per
reclamare un calamaio e una penna d’oca.
“Se
mi conosci anche solo un po’, sai bene che non mi
macchierò di una tale infamia!”
“Non
fare l’eroe, dannazione! Per una volta, pensa a te
stesso!”
Pietro
tentò di alzarsi e di avvicinarsi, ma dopo qualche passo
vacillò, le orecchie che gli ronzavano, e si
accontentò di puntargli addosso un indice inquisitorio.
“Ma io sto pensando a me stesso, sei tu che non hai rispetto
per te, altrimenti non avresti acconsentito a questa farsa,
né tantomeno ad allearti con dei mercenari al soldo del
nemico!”
“Nemico?!”
gridò a voce più alta Federico “chi ti
dice che sono dei nemici? La tua coscienza o la gente che ti sei messo
a frequentare?! Siete responsabili della morte e del ferimento di
migliaia di soldati del glorioso
Esercito sabaudo, avete rischiato di distruggere un’intera
città, e per che cosa poi? Per creare l’ennesima
Repubblica che sta martoriando il nostro Paese? Per essere eletto a
capo di un triumvirato, esattamente come è accaduto a
Roma?!”
Pietro
stava per ribattere, esausto, quando un capogiro lo costrinse a
chiudere gli occhi e ad aggrottare la fronte: si portò una
mano sul viso, massaggiandosi le tempie, quindi puntò di
nuovo lo sguardo sul fratello.
“Io
almeno una coscienza ce l’ho, e qualsiasi cosa ho fatto o
deciderò di fare, dovrò rendere conto solamente a
me stesso, e non ad un branco di sgherri senza pietà e senza
coraggio…”
Il più piccolo disegnò una C sul pavimento
argilloso con la punta del bastone, ammirandola subdolamente.
“E
Costanza? A lei non pensi?”
“Costanza
non c’entra nulla in questa storia: non provare a
coinvolgerla, non farlo, lei non ha alcuna colpa né
responsabilità. E lo sai anche tu…”
sibilò Pietro, stanco di quel teatrino e delle sciocchezze
che era costretto a sentire.
Federico
annuì e si sciolse in un sorrisetto beffardo, riprendendo a
camminare.
“Costanza
adesso è sconvolta ed è convinta della tua
innocenza: ma quando verranno fornite delle prove a tuo carico, il
dubbio si insinuerà nella sua testolina, un dubbio che la
roderà e la farà vacillare… ma allora
sarà troppo tardi, forse la sentenza sarà
già stata eseguita, e tu non potrai fare più
nulla per consolarla o per farle cambiare idea” concluse con
tono viscido, facendo spallucce.
“Non
ci sono prove a mio carico!”
“Questo
lo dici tu…”
“Non
firmerò nulla, non tradirò nessuno, non mi
costringerai a fare qualcosa che non voglio!”
Pietro
era nuovamente scosso dalle fitte alla spalla, a cui si sommavano i
brividi per la febbre che, ormai doveva rendersene conto, lo stava
fiaccando.
“Guardati”
cercò di convincerlo, allargando le mani per mostrargli il
tugurio in cui era stato rinchiuso.
“Sei
ferito, febbricitante, senza abiti decenti addosso! E sono anche certo
che tu e il tuo amico avvocatuccio non avete nemmeno uno straccio di
linea di difesa degna di questo nome! Insomma, che cosa ti spinge a non
lasciarti andare, ad acconsentire ad accettare il patto che ti sto
proponendo?! Ragiona, ragiona, e dammi i nominativi che ti salveranno
la vita!”
Pietro
parve rifletterci per un istante, il capo reclinato in avanti e il
petto che si alzava e si abbassava al ritmo del respiro affannato per
le precarie condizioni di salute in cui versava.
Poi,
alzò la testa e lo guardò senza timore.
“Non
ti darò nulla, Federico, e non mi farò intimidire
dai tuoi ricatti su Costanza. Però, permettimi di farti una
supplica, di chiederti ancora una cosa, solo una: fino a quando
sarà possibile, tieni nascosta la mia prigionia ai nostri
genitori. Di’ loro che sono dovuto partire
all’improvviso, che dovrò assentarmi per qualche
tempo, inventati una scusa, ma non lasciare che soffrano per causa
nostra…”
Federico
sospirò e contrasse la mascella, giocherellando con
l’impugnatura del bastone da passeggio.
“Se
è per questo, non devi temere: ieri sera ho detto loro che
sei andato fuori città per alcune questioni riguardanti le
terre che nostro padre ti ha lasciato da amministrare”
Pietro
annuì, esausto ma soddisfatto, desiderando di rimanere da
solo per tornare a dormire e riposare le membra stanche.
“Venendo
a noi: è la tua ultima risposta? Sei deciso a non
collaborare?”
L’altro
lo guardò con gli occhi penetranti, il rossore soffuso sul
volto, mentre le tempie gli pulsavano.
“Sì,
è la mia ultima risposta. E non tornerò
indietro”
Il
fratello abbassò lo sguardo e aggrottò un
sopracciglio, quindi distorse la bocca in una smorfia di disappunto e
si preparò ad abbandonare la cella.
“Addio,
Pietro. Se dovessi cambiare idea, sai dove trovarmi”
Uscì
dalla gattabuia senza voltarsi indietro, il ritmare cadenzato degli
stivali e del bastone da passeggio ad accompagnarlo.
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