Capitolo 23
Semifinale di sangue
Le gambe non le
tremavano così tanto da quando Hanamichi era finito in ospedale per
l’infortunio alla schiena.
Era terribile e
spaventoso ciò che stava provando per colpa di quell’idiota. Se avesse saputo
quanto doloroso sarebbe stato innamorarsi, si sarebbe data due sberle da sola
per rinsavire e non caderci come una pera troppo cotta dall’albero. Camminava
accanto al fratello, che le stringeva con forza una mano, diretti insieme alla
squadra verso gli spogliatoi del palazzetto in cui avrebbero disputato la
partita contro il Kainan. Riusciva a vedere la porta che, per qualche tempo,
l’avrebbe tenuta in salvo da scimmie saltanti col codino prima dell’entrata in
campo, ma la fortuna le sghignazzò in faccia nel momento in cui l’intera
squadra avversaria al completo li incrociò lungo il corridoio.
Hime fermò i suoi passi,
congelata nel vedere il numero 10 già bello che pronto con fascia viola e casacca.
Stinse la mano di Hanamichi con tutta la forza che aveva in corpo, per cercare
un minimo di sostegno che le gambe, ormai, non le assicuravano più.
L’indifferenza del ragazzo dai capelli neri le tagliò il fiato in gola e si
ritrovò a digrignare i denti pur di non reagire.
«Ragazzi, buongiorno», li salutò il
sempreverde cortese Shin’ichi Maki, che strinse la mano all’altro Capitano con
rispetto.
«Maki», accennò Ryota.
«Pronto per un po’ di movimento?».
Il numero 4 del Kainan
ghignò. «Lo sono sempre, Miyagi. Sarà un piacere marcarti ancora una volta.
Anche se sarà strano non vedere Akagi in campo».
«Tranquillo, Nonno-Maki,
sarò il suo degno sostituto!», esclamò Hanamichi, esuberante come sempre.
«Quante volte dovrò
dirtelo?!», attaccò Kiyota, muovendo qualche passo verso di lui e, di
conseguenza, lei. «Porta rispetto al Capitano, stupida Scimmia!».
Hime chiuse gli occhi
nel momento in cui il suo familiare profumo la fece vacillare, e dovette
reggersi a Kaede, al suo fianco, quando Hana lasciò la presa alla sua mano
sudata per afferrare la collottola del suo ormai ex-ragazzo.
«Chi sei tu per parlarmi
di rispetto? Non hai idea di cosa sia», gli sibilò Sakuragi, sovrastandolo dal
suo metro e ottantanove di statura. «Non provocarmi, oggi, o giuro che ti faccio
a pezzi».
«Hanamichi, datti una
calmata. Il Sensei Anzai sta arrivando», lo mise in allerta Mitsui, guardandosi
le spalle.
Kiyota non parve affatto
intimidito e ghignò. «Fai pure. Non sarà un occhio nero a fermarmi, oggi».
«No, infatti. Sarò io», replicò il rossino. Poi gli si
accostò all’orecchio, sussurrando per non farsi sentire dall’allenatore. «E non
pensare che finisca qui. Io non ho dimenticato cosa ti dissi in ritiro riguardo
mia sorella: “non farla soffrire o te la
vedrai con me”».
Nobunaga lo spintonò via
e lanciò una breve e sprezzante occhiata alla seconda manager dello Shohoku,
appesa al braccio dell’odiato Volpino – chi altro, se no? «Ah, ma come vedi non
l’ho fatta soffrire; è in buona compagnia e sicuramente più felice di me».
Hime non resse oltre e
corse verso gli spogliatoi, maledicendo la sua infinita debolezza e
quell’idiota. Shin’ichi e Soichiro si scambiarono un’occhiata preoccupata. Sarebbe stata una partita pesante, quella.
«Ci si vede tra poco in
campo, ragazzi», disse Maki, per spezzare il silenzio. «Mi dispiace, Mitsui,
che non sarai presente. Dico davvero».
Hisashi scrollò le
spalle. «Sarò in forma per la finale, tranquillo».
Jin sorrise, affabile.
«Intendi dire per tifarci?».
«Come no», ghignò
Hisashi di rimando, stringendogli la mano.
Ripresero ognuno la
propria strada in silenzio, finché Rukawa, passando accanto a Kiyota, gli diede
una possente spallata che lo fece finire addosso al povero Miyamasu, tra
vergognose imprecazioni e un principio di rissa che, per fortuna, Kaede non
raccolse.
Trovarono Hime con gli
occhi arrossati ma, incredibilmente, sorridente. Batté le mani e saltò su una
panca. «Allora, ragazzi, pronti a prenderci la nostra doverosa rivincita?».
Hanamichi, dopo il primo
momento di stupore, scoppiò a ridere e l’abbracciò con entusiasmo, sollevandola
per aria come una bambola. «Questo è lo spirito dei Sakuragi! Ahahaha!».
Rukawa alzò gli occhi al
cielo, esasperato.
Tra chiacchiere leggere
e qualche battuta per smorzare la tensione, i ragazzi si prepararono all’imminente
fischio d’inizio. Non vedevano l’ora di dare una lezione al tanto stimato e
temuto Kainan. Avrebbero dimostrato loro quanto fossero diventati più bravi e,
se possibile, più combattivi di mesi fa, nonostante l’assenza di Akagi e quella
forzata di Mitsui. Hanamichi, con Hime in panchina che pareva aver ritrovato il
suo spirito, era convinto che sarebbe riuscito a fare qualsiasi cosa. Osservò
la sorella prendere posto accanto all’allenatore e ad Ayako, mentre
chiacchieravano fitto fitto su chissà quale cosa, e sorrise come un ebete.
La sua Hicchan.
Entrarono in campo tra
il boato del pubblico, eccitato all’idea di vedere quella partita che, come la
prima di qualche mese addietro, si prospettava eccitante come una finale. Dagli
spalti i Gundam, accompagnati dagli infiltrati Kiyo, Akagi e Kogure, stavano
scaldando le bottiglie riempite di pietre, sbattendole una contro l’altra e
facendo un casino infernale.
Hime ridacchiò a una
battuta di Ayako, ma il sorriso le morì in gola appena incrociò lo sguardo di
Kiyota, che palleggiava nella metà campo del Kainan. Gli restituì l’occhiata
astiosa con lo stesso entusiasmo e, grazie al cielo, riuscì a non scoppiare in
lacrime. Orgogliosa di se stessa per non aver calpestato ancora una volta la
poca dignità rimasta, ricordò di quando, durante il ritiro precedente ai
Nazionali, lo stesso Kiyota l’aveva insultata per il medesimo motivo:
l’infondata gelosia nei confronti di Kaede. All’inizio aveva sofferto tanto,
soprattutto quando aveva creduto che tra loro potesse nascere qualcosa; ma una
volta rinsavita, grazie al supporto morale del suo adorato fratellone, aveva
messo da parte la tristezza e aveva tirato fuori gli artigli. Il disgraziato
era tornato con la coda tra le gambe a chiederle scusa.
Solo che questa volta
avrebbe dovuto fare molto di più per riconquistarla – se mai avesse avuto
intenzione di farlo. Era stata accusata ingiustamente, ancora una volta, quando
lei non aveva occhi che per lui. Che andasse al diavolo! Non aveva bisogno di rovinarsi
l’appetito per i suoi insensati momenti di gelosia.
Mitsui si mosse
irrequieto, accanto ad Ayako, mentre osservava Jin allenarsi dalla linea dei
tre punti con tutta la disinvoltura per cui era famoso. «Quanto vorrei essere
in campo per spaccargli il c–».
«Senpai!», lo rimbeccò
subito la manager, il temuto ventaglio in mano pronto a colpire.
«–il canestro. Per spaccargli il canestro a furia di triple», sviò il
tiro la guardia in un sorriso falso come Kobe Bryant nei Chicago Bulls. «Dico sul serio, se Kimi non si dà da fare oggi,
giuro che chiedo la sostituzione anche con un ginocchio sfasciato».
«A-ha».
«A proposito, Mitchi,
hai già iniziato la fisioterapia?», domandò Hime.
«Yep.
Ieri mattina. Ho anche saltato una pallosissima lezione di storia», aggiunse,
strizzandole un occhio.
«Non tutti i mali
vengono per nuocere, allora!», ridacchiò lei.
Nobunaga mancò in pieno
il libero che stava provando, quando sentì la sua risata, e strinse i pugni.
Rideva come se niente fosse, la traditrice! E lui che non riusciva a dormire la
notte da quasi una settimana! Continuava a rivivere il momento in cui era
comparsa a casa sua, fingendo di non sapere, senza neppure provare a montare
una scusa plausibile. Era stata così brava a mentirgli per tutto quel tempo.
Solo amici, un paio di palle.
Intravide il Volpino
avvicinarsi alla panchina insieme agli altri, richiamati dalla prima manager, e
digrignò i denti nel vederlo punzecchiare la Sakuragi lanciandole un
asciugamano in viso.
«Kiyota!», lo richiamò il
Capitano, per la terza volta. «Cerca di lasciare i tuoi problemi fuori dal
campo, se non vuoi rimanere con loro in panchina».
«Sì, signore», borbottò
lui, raggiungendo la sua squadra in silenzio. Non era esattamente il tipo di
partita che aveva avuto in mente, qualche settimana prima. Credeva che sarebbe
stato divertente, nonostante i rispettivi spiriti di competitività di entrambe
le squadre; voleva mettersi in mostra davanti alla sua ragazza, provare a
rubarle qualche urlo di incitamento, nonostante fosse un avversario; avrebbe
voluto vedere Sakuragi incazzarsi per questo, battibeccare e ridere della cosa,
perché la sua Hicchan lo amava così tanto da dimenticarsi persino della loro
rivalità.
Ingoiando una colorita
imprecazione, si diede due forti pizzicotti sulle guance, per ritornare con i
piedi per terra e ascoltare le istruzioni dell’allenatore Takato. Doveva
impegnarsi, doveva segnare più punti di Rukawa, umiliare il dannato Volpino,
rubargli il titolo di migliore rookie della Prefettura e dimostrare a quella
maledetta traditrice cosa avesse perso scegliendo un perdente come quello. Era
un ottimo piano, il suo. Doveva solo trovare la giusta concentrazione per
metterlo in atto. Del resto era Nobunaga Kiyota, il pianificatore numero uno di Kanag–
«Ca-capitano!»,
piagnucolò, accarezzandosi la testa dolorante per lo scappellotto appena
ricevuto.
«Cosa ha appena detto
l’allenatore?», domandò Maki, incrociando le braccia al petto.
Nobunaga arrossì fino
alla punta delle orecchie e si grattò la nuca, in imbarazzo. «Che dobbiamo
schiacciare quelle schiappe?». Il numero quattro gli riservò un’occhiata
micidiale e si sentì piccolo piccolo.
Dannazione, concentrati Nobunaga, concentrati!
L’arbitro fischiò la
fine del riscaldamento e le squadre si posizionarono in campo. Questa volta lo
Shohoku schierava anche il Capitano e la sua ala piccola dal primo minuto,
segno che non aveva alcuna intenzione di risparmiare le energie. Kimi, come
contro il Miuradai, sostituiva Mitsui, e Eichiro ricopriva il ruolo di ala
grande. Maki, che a differenza di altre squadre non aveva avuto grossi
cambiamenti in fatto di giocatori, dato che tutti loro avevano ricevuto una
borsa di studio per l’università e non dovevano prepararsi per superare le
selezioni, non aveva idea di come giocassero i due gemelli, la più grande
incognita dello Shohoku – sebbene avesse le sue fonti, che gli avevano
descritto schemi folli e micidiali; d’altra parte, Mitsui era ancora
impossibilitato a giocare, il ché era un’ottima carta a loro favore,
soprattutto per Jin. La prima volta che il Kainan aveva giocato contro lo
Shohoku, aveva commesso il grande errore di sottovalutarli, considerandoli
meteore, inesperti, egoisti e giocatori che non avevano più resistenza fisica;
la seconda volta, durante il ritiro, aveva imparato a capire e memorizzare il
loro stile di gioco; durante i Nazionali, quando erano andati a vederli
giocare, si erano resi conto della grande squadra che quei ragazzi formavano, e
in così poco tempo. Quel giorno Maki sapeva che sarebbe stata una partita dura,
durissima. Ma lui amava le sfide e non vedeva l’ora di iniziare.
Sperava solo che la
Scimmietta, che ora stava sistemandosi la fascia viola sulla fronte, non fosse
troppo occupata ad arrovellarsi le cervella sulla bella seconda manager in
rosso, seduta poco più in là.
Hanamichi e Takasago si
posizionarono a centro campo, pronti per la palla a due. Il pubblico trattenne
il fiato, finché fu il numero 10 dello Shohoku a guadagnare il primo possesso
della partita e il boato fu assordante.
Hime si mordicchiò le
labbra, in tensione. Sarebbero stati i 40 minuti di gioco più lunghi di sempre.
Ryota palleggiava con
calma, mentre i ragazzi formavano lo schema d’attacco. A serrargli la strada un
determinato Shin’ichi Maki, che cercò il corpo a corpo quando Miyagi fece per
scartarlo. Con un ghignò di sfida, il Capitano dello Shohoku fece scivolare la
palla dietro la schiena e servì Eichiro, pronto a ricevere. Questo, come un
fulmine, passò al fratello che, smarcatosi da Soichiro, si posizionò dietro la
linea dei tre e tirò.
L’intera panchina dello
Shohoku si alzò in piedi, esultante, come se avesse appena vinto l’incontro.
Sapevano che ogni punto fosse fondamentale, contro il Kainan, meglio ancora una
tripla come quella.
I Diavoli Rossi corsero
in difesa, mentre Maki riorganizzava l’attacco. Vide Kiyota agitarsi per
chiedergli palla e, sperando di non pentirsene, lo accontentò. Nobunaga era,
difatti, indemoniato e voleva assolutamente spegnere tanto entusiasmo con una
delle sue spettacolari schiacciate. Rukawa, che gli bloccava la via, lo fissò
gelido, in una tacita sfida a smarcarsi. Kiyota non aspettava altro.
Si mosse contro il
numero undici con prepotenza, che ovviamente non cedette un passo, facendolo
spazientire; il suo secondo attacco fu decisamente più duro, tanto da far
perdere l’equilibrio all’ala piccola dello Shohoku e guadagnandosi fallo in
attacco.
«Merda», sibilò,
lasciando cadere il pallone con stizza.
«Datti una calmata», lo
ammonì Rukawa.
«Che cosa hai detto?!»,
s’inalberò Nobunaga, subito ripreso dal suo Capitano.
«Ehi, Nonno Maki! Cerca
di tenere al guinzaglio quella scimmia, se non vuoi che si faccia male»,
esclamò Hanamichi, con strafottenza.
Hime strinse le labbra,
assistendo alla scena. Se quello era solo l’inizio, era più che sicura che
sarebbero arrivati alle mani entro la fine del primo tempo. «Hana!», lo sgridò.
«Pensa a giocare!».
Il fratello le scoccò
un’occhiata imbronciata, ma seguì il consiglio. La partita era lunga, avrebbe
avuto modo di fargliela pagare bene, al caro Kiyota.
La seconda manager si
lasciò cadere sulla sedia e Ayako le batté una mano sul braccio.
«Cerca di stare
tranquilla, sei un fascio di nervi», le disse la senpai.
Hime sospirò, guardando
Nobunaga e Kaede spintonarsi sotto canestro. «Non gliela faranno passare
liscia, sono preoccupata».
«Non lo farei neppure
io», fu il commento di Mitsui, i gomiti poggiati sulle cosce e gli occhi blu
fissi in campo. «Nessuno di noi sopporta quello che ti ha fatto. Il minimo che
possano fare quei due è umiliarlo in campo». “I cazzotti arriveranno a porte chiuse”, terminò mentalmente, dato
che Anzai aveva le orecchie tese, pronte a cogliere qualsivoglia intenzione
manesca nella sua voce.
In campo, nel frattempo,
Hanamichi aveva sbagliato un tiro, deviato proprio da Kiyota, grazie alla sua
elevazione notevole che gli aveva permesso di sfiorare la palla quel tanto che
bastava per deviarne la traiettoria. Il contropiede di Maki fu energico come
un’onda contro lo scoglio e il Kainan segnò i suoi primi due punti.
Il ghigno soddisfatto
che Nobunaga lanciò a Sakuragi lo mandò su tutte le furie e fu quella la goccia
che fece traboccare il vaso. Da quel momento, infatti, fu guerra aperta e i
corpo a corpo si fecero più intensi e fallosi. Persino Kaede, incacchiato
com’era contro la Scimmia del Kainan e deciso a vincere la partita, aveva
iniziato a calcare la mano, sia in difesa che in attacco, e l’arbitro dovette
fermare il gioco parecchie volte per richiamarli all’ordine. Al decimo minuti
di gioco, su passaggio di Ryota, chiuse una splendida azione con una
schiacciata micidiale, che mandò su tutte le furie sia Hanamichi che Kiyota e
portando lo Shohoku in vantaggio di ben otto punti.
Takato, in panchina, era
furibondo e chiamò subito un time-out per cantarne quattro ai suoi giocatori.
Aveva capito che qualcosa non andasse, soprattutto nel suo numero dieci, e che
lo Shohoku fosse diventato una squadra temibile, nonostante assenze importanti:
ma non avrebbe permesso a quei cinque pivelli di sbatterli fuori ad un passo
dalla finale.
Nobunaga si sedette sbuffando, nascondendo il
viso sudato sotto un asciugamano e lasciandosi scivolare addosso le parole
irate dell’allenatore. Non erano neppure a metà partita e aveva già il fiatone.
Lui, un giocatore del Kainan King sottoposto a estenuanti allenamenti ogni
santo giorno, aveva il fiato corto!
Strinse i pugni,
pensando agli sguardi astiosi di Sakuragi, Miyagi e Rukawa. Era palese quello
che stavano facendo: volevano a tutti i costi la rivincita del campionato scolastico
estivo e, come se non bastasse, erano evidentemente incacchiati neri. Maledetti
teppisti. Se solo avessero saputo la verità – chissà quale balla colossale
aveva raccontato la traditrice! – probabilmente ora non avrebbero preso in modo
così personale la sua rottura con quella stupida hippie.
«Nobunaga, cerca di
reagire», fece la bonaria voce di Soichiro, al suo fianco. «Tutto si può
sistemare, ne sono sicuro. Ma i problemi esterni rimangono tali. Concentrati, o
rischi sul serio la panchina. E non solo per questa partita, lo sai bene».
Kiyota strinse
ulteriormente i pugni, tremante di rabbia. Quando il match riprese si sentiva
così incazzato che, se avesse morsicato qualcuno, era più che sicuro l’avrebbe
avvelenato a morte. Intercettò un passaggio diretto a Kimi, tra le grida di
incitamento di Shin’ichi e Jin, e scartò con decisione Rukawa. Davanti a sé,
però, Hanamichi gli chiuse la strada e, si sa, col Rosso non si passa. Tentò, infatti, un terzo tempo, ma il
centro dello Shohoku spazzò via la palla prima che iniziasse la sua parabola
discendente verso il canestro. Akagi, sugli spalti, fu orgoglioso di lui.
«Vai così, Hana!», gridò
Hime, in piedi sulla sua sedia le mani a imbuto sulle labbra.
Il rossino scoppiò a
ridere, alzando il pugno al cielo. «Lo Schiacciamosche del Gorilla colpisce
ancora! Ahahaha!».
«Zitto e corri in
difesa!», esclamò Ryota. «L’azione non è ancora terminata!».
La palla, infatti, era
finita nuovamente nelle mani del Kainan e Muto, che comandava il possesso, passò
subito a Maki per impostare l’azione di gioco. Jin era marcato stretto dai
Gemelli Siamesi, che non avevano alcuna intenzione di permettergli di tirare da
tre, Hanamichi teneva sotto scacco il loro Centro e Kiyota non riusciva a
levarsi dalle scatole il Volpino. L’unico libero era proprio Muto, ma non era
in una buona posizione per provare un attacco. Sorrise allo sguardo
strafottente di Ryota, che non lo mollava un attimo, e lo sorpasso con una
decisa ma non fallosa azione, facendosi spazio con una spalla e rompendo il
muro della difesa.
«Capitano!», gridò
Kiyota, che ricevette un passaggio preciso e pulito una volta trovato un
piccolo spiraglio nella marcatura di Rukawa.
«Avanti, mezza sega», lo
provocò Kaede. «Mi sto annoiando».
Nobunaga divenne verde
dall’ira. «Oh, mi dispiace tanto. Sono sicuro che la tua nuova ragazza saprà
come soddisfarti».
Mai l’avesse detto.
La difesa di Rukawa si
fece così aggressiva che Kiyota perse possesso quasi senza accorgersene. Di
riflesso cercò di riprendersi il pallone, più per la stizza contro quella Volpe
– che non solo gli rubava l’azione in modo così imbarazzante, ma persino la
ragazza di cui era innamorato –, che per la reale voglia di rimediare al suo
errore; il risultato fu che strattonò la palla forza e si beccò una gomitata
accidentale sull’occhio, proprio dal suo acerrimo nemico. Non si rese conto di
sanguinare finché i suoi compagni non lo osservarono con allarmismo e persino
quella traditrice si alzò dal suo posto, con le mani sulle labbra e l’aria preoccupata.
«Kiyota!», esclamò Maki,
avvicinandosi al ragazzo e controllando la ferita al sopracciglio. Fu lesto a
trattenerlo per la maglia, prima che saltasse addosso al numero 11 dello
Shohoku per menare le mani.
«Che diavolo di problemi
hai?!», sbraitò Nobunaga, mentre l’arbitro fischiava l’interruzione momentanea
della partita.
«Hn,
non ti ho visto».
«Come hai fatto a non
vedermi?! E cosa hai al posto del gomito? Un cazzo di rasoio?».
«Piagnone. Per un
taglietto», borbottò Kaede, scrollando le spalle e dandogli la schiena.
L’occhiata d’intesa tra lui e Hanamichi passò per fortuna inosservata, dato che
la loro seconda manager era stata chiamata in campo per controllare le
condizioni del giocatore del Kainan, in veste di infermiera provvisoria per la
consueta mancanza di un medico nello stabile.
Appena Nobunaga si
accorse di lei, che stringeva la cassetta del primo soccorso come se fosse
l’unico appiglio a cui reggersi, sbraitò di non aver bisogno di una balia e che
si trattava di un taglietto – appunto.
«Kiyota, non sei un
bello spettacolo, credimi», gli disse Miyagi.
«E quando mai lo è!», fu
l’intervento di Sakuragi.
«Quello che intendo
dire», alzò la voce il Capitano dello Shohoku, «è che stai perdendo molto
sangue e ti si vede la carne viva. Per me ci vuole qualche punto».
Hime annuì, mordendosi
il labbro con forza.
«E dovrebbe essere
questa qui a medicarmi? È la volta buona che ci lascio le penne, allora»,
sbottò Kiyota, regalandole una smorfia. «Col cavolo che mi tocchi di nuovo».
«Allora puoi benissimo
beccarti un’infezione, almeno finalmente ci liberi dalla tua inesauribile
stupidità!», esclamò Hime, che ormai aveva oltrepassato il limite della
sopportazione.
«Ben detto, Hicchan!»,
esclamò Hanamichi. «E nemmeno io voglio che ti avvicini a quella scimmia, sciò sciò, stalle lontano, maledetto idiota».
Nobunaga fece per
rispondere a tono, ma Maki lo zittì con una tirata d'orecchie e lo trascinò
verso la panchina. «Vai in infermeria, prima che ti ci spedisca a calci».
Ingoiando tante di quelle
imprecazioni da fargli venire una congestione, Nobunaga si strascicò verso lo
stanzino, seguito a debita distanza dall’ormai odiata ex ragazza, mentre il
fratello le gridava dietro di fermarsi e di lasciarlo morire dissanguato. E,
sebbene fosse proprio quello che avrebbe voluto fare, Hime proseguì in
silenzio, seguendolo dentro l’infermeria. Lo osservò con la coda dell’occhio
fermarsi davanti a un armadietto, le mani strette a pugno lungo i fianchi e le
spalle larghe tese dalla rabbia.
Per tutti gli dei,
quanto avrebbe voluto abbracciarlo. Le mancavano infinitamente quelle braccia
confortanti, il ritmo calmo del suo cuore contro la guancia, il profumo della
sua pelle misto a quello del bagnoschiuma. Voleva odiarlo con tutta se stessa,
eppure continuava ad amarlo. Povera, stupida sciocca.
«Sdraiati».
«Non darmi ordini»,
sbottò il ragazzo. «Lascia la cassetta qui, mi disinfetto da solo».
«E ti ricuci il
sopracciglio con le tue mani?».
«Di certo non lo faccio
fare a te!», replicò, voltandosi a guardarla con occhi sbarrati. Il blu delle
sue iridi era ancora più accentuato dal sangue che gli bagnava la fronte e gli
zigomi. «E non sei neppure un medico, chissà che razza di cicatrice mi lasci».
«Mia madre è infermiera,
chi credi abbia medicato mio fratello dopo ogni rissa, quando lei era a lavoro?
Chi ha ricucito Hisashi e gli altri dopo che Tetsuo e i suoi amichetti ci hanno
fatto la festa in palestra? Io».
«Non mi interessa»,
sibilò Nobunaga, avvicinandosi di un passo. Lei, come l’ultima volta,
indietreggiò, trovando però l’ostacolo del lettino alle sue spalle.
«Qualcuno deve chiuderti
quella ferita, Kiyota», parlò Hime, ritornando con freddezza al cognome. «Ora
come ora non c’è nessuno che possa farlo, tranne me. E se vuoi tornare in campo
a giocare, anziché dover andare in ospedale per la tua maledetta testardaggine,
ti consiglio di sdraiarti e di farmi lavorare. E cerca di stare zitto, almeno
questo strazio riusciamo a finirlo in fretta».
Borbottando come una
teiera, Nobunaga si ritrovò suo malgrado costretto a seguire il suo consiglio e
si sdraiò, puntando gli occhi al soffitto pur di non guardare lei. Così bella,
così determinata... e così bugiarda.
La sentì armeggiare tra
gli attrezzi della cassetta di emergenza, tra guanti in lattice e bottigliette
di disinfettanti, e, pur di non pensare alla sua vicinanza, preferì
concentrarsi sul bruciore pulsante in fronte. Quel maledetto Rukawa, l’aveva
fatto apposta, ne era sicuro! Oh, l’avrebbe–
«Ma porca zozza! Sei
matta?!», ululò dal dolore, quando Hime con la sua grazia di un elefante
dentro un negozio di cristalli iniziò a pulirgli la ferita. In realtà lei
sapeva come non fargli troppo male, ma la sua parte sadica aveva preso il
sopravvento e voleva fargliela pagare, a modo suo.
«Hai uno squarcio in
fronte. Cosa ti aspettavi? Solletico?», sbottò lei, rispedendolo bello che
sdraiato con una manata sul petto, i cui muscoli poteva chiaramente sentirli
irrigidirsi dal dolore. Riprese a disinfettarlo ora con più delicatezza e lo
sentì sospirare a lungo – forse per il sollievo, forse per la stizza. Ripulito
il brutto taglio sul sopracciglio, gli spruzzò sopra un anestetico, poiché
sapeva che non sarebbe stato fermo al primo accenno di dolore tra ago e filo.
Non voleva rischiare di cavargli un occhio, anche se lo meritava.
Uomini.
Aprì la busta
sterilizzata del porta aghi, sistemò il filo nella cruna e gli si avvicinò al
viso, per controllare che tipo di sutura fare e contare ad occhio e croce
quanti punti avrebbe dovuto mettergli. Ricordava ancora quando la madre aveva ceduto
alle sue continue richieste su come rattoppare le ferite del fratello e glielo
aveva mostrato su dei pezzi di gommapiuma – prima di usare Hanamichi come
cavia, la settimana successiva.
Se non fosse stato per la
pericolosa vicinanza del suo viso al proprio e di ago e filo che si muovevano
davanti ai suoi occhi, Nobunaga neppure si sarebbe accorto che Hime avesse
iniziato a suturarlo, seria e capace come una vera infermiera. Da quanto ne
sapeva, aveva sempre mostrato un certo interesse per la medicina, proprio come
la madre... proprio come il padre del Volpino.
Strinse i pugni fino a
tremare, tanto che lei dovette bloccarsi un attimo per non rischiare di ferirlo
sul serio.
«Ti sto facendo male?»,
si ritrovò a chiedergli, prima che potesse morsicarsi la lingua.
Kiyota mugugnò un
diniego. Se solo avesse saputo quanto male gli stesse facendo, invece; ma non
certo per due miseri punti di sutura. La sua sola vicinanza era una tortura.
Che lo volesse o meno, era ancora attratto da lei, terribilmente. Aveva sempre
adorato quella ruga di concentrazione che le compariva in fronte, quando
l’aggrottava come in quel momento; o le labbra strette in una smorfia
involontaria, con la punta della lingua che faceva capolino da un lato. Dei,
era adorabile. Perché doveva essere anche una maledetta falsa?
Con soddisfazione per il
lavoro svolto, Hime chiuse l’ultimo nodo e tagliò il filo. Da un’altra bustina
tirò fuori una garza sterile e gli coprì la ferita, per tenerla al riparo dai
batteri. Senza una parola, riprese a pulirgli il viso dal sangue rappreso e fu
solo allora che le mani iniziarono a tremare, mentre cercava di trattenere
l’impulso di accarezzargli gli zigomi e chinarsi per baciarlo.
Stupida di una Sakuragi!
Doveva odiarlo, non innamorarsi ancora di più di lui!
Ricordando il motivo di
tanto casino, gli diede le spalle, gettando il cotone sporco e i guanti in
lattice nel cestino accanto al letto e, in completo silenzio, richiuse la
cassetta di prima emergenza e lasciò la stanza di gran fretta. Non aveva
intenzione di commettere qualche idiozia, né avrebbe sopportato la sua scomoda
presenza oltre il dovuto necessario. Aveva fatto quello che le avevano chiesto,
non aveva ulteriori motivi di attardarsi in sua compagnia. Per fare cosa, poi?
Insultarsi e scoppiare nuovamente a piangere? No, era stanca di versare lacrime
per lui. Che credesse pure ciò che voleva. Aveva la coscienza a posto, lei.
*
Non era che passato un quarto
d’ora da quando aveva lasciato la partita alle spalle e il risultato era
leggermente cambiato: lo Shohoku, che mai come quel momento, dall’inizio del
match, era così agguerrito e deciso a vincere il primo tempo, ormai agli
sgoccioli, non poté comunque fermare la furia del Kainan che, dopo l’infortunio
di Kiyota, voleva prendersi la sua rivincita.
Hanamichi, che non aveva
alcuna intenzione di perdere contro quei palloni gonfiati, prese con decisione
il pallone che Eichiro gli passò e si fece avanti con fermezza per un dunk
all’ultimo secondo. Hime sorrise di fronte a tanto coraggio e gli gridò dietro
urla di incoraggiamento. Del resto, era lì per quello.
Il sorriso le morì sulle
labbra quando sia Takasago che Maki, che non doveva certo trovarsi lì, saltarono
insieme al numero 10, per impedirgli di segnare. Il risultato fu disastroso.
Hanamichi perse l’equilibrio in aria, sbilanciato dalla forza con cui i due lo
bloccarono, e cadde all’indietro sul parquet, urtando la schiena con forza.
L’arbitro fischiò fallo alla difesa, ma quando Hanamichi non diede segni di
rialzarsi e, anzi, pareva dolorante, Hime lasciò cadere la cassetta del pronto
soccorso dalle mani, sentendosi improvvisamente debole.
«Hanamichi!», gridò
angosciata. Fece per correre dal fratello, ma Mitsui la bloccò giusto in tempo
prima che invadesse il campo senza essere stata ammessa. L’arbitro le diede il
permesso subito dopo e si precipitò da lui, inginocchiandosi al suo fianco e
accarezzandogli il viso contratto da una smorfia di dolore. «Hana, dimmi dove
senti dolore».
«La s-schiena».
Hime trattenne il fiato
e, come lei, anche i compagni di squadra. Hanamichi aveva sofferto di un
brutto, bruttissimo infortunio alla schiena, solo pochi mesi prima, che aveva
rischiato di far concludere la sua breve carriera da cestista prematuramente;
per fortuna, dopo la lunga riabilitazione sembrava tornato come nuovo. La sola
idea di un nuovo infortunio, che avrebbe vanificato tutti quei mesi di cure e
allenamenti, e che con molta probabilità avrebbe davvero compromesso il suo
gioco, la fece sprofondare dalla paura. E non voleva pensare a come si potesse
sentire il suo adorato fratellone.
«Riesci ad alzarti?»,
gli mormorò, senza riuscire a tenere una voce ferma e tranquilla per non
spaventarlo.
Hanamichi provò a
mettersi seduto, ma una fitta lancinante gli strappò un gemito di dolore e
qualche lacrima.
Shin’ichi, che in parte
era responsabile della caduta, si chinò su di lui. «Ti do una mano io,
Sakuragi. Forza, avanti». E, afferrato con decisione con l’aiuto – udite! udite! – del Volpino, lo
portarono a bordo campo, dove Ayako aveva fatto stendere un materassino di
gomma. Lo fecero sdraiare pancia in giù e Hime gli massaggiò delicatamente i
muscoli della schiena, chiedendogli di fermarla appena avesse sentito dolore.
Quando fu il momento di controllare la spina dorsale, Hanamichi dovette
cacciarsi un pugno in bocca pur di non gridare.
«Dobbiamo portarlo in
ospedale per un controllo», disse Ayako, preoccupata. «Vado a chiamare un’ambul–».
«No!», esclamò Hanamichi,
facendo perno sui gomiti per mettersi in piedi. Si lasciò ricadere, senza
forze. «Io voglio giocare ancora... voglio, devo
giocare un altro tempo», aggiunse
debolmente, tremante di rabbia. Diamine, non poteva farsi fermare nuovamente
dalla schiena! Il ricordo di cosa era successo quando aveva dovuto saltare la
partita contro l’Aiwa gli bruciava ancora in mente e non aveva intenzione di
ripetere la cosa. Lui era una pedina fondamentale nell’equilibrio della
squadra, il Nonno Anzai glielo diceva sempre. E senza di lui, Mitchi e il
Gorilla, avrebbero perso sicuramente – e chissà di quanto.
E poi... e poi c’era
Hicchan. La sua piccola, adorata Hicchan. L’aveva praticamente costretta ad
assistere a quella dannata partita contro la sua volontà, non poteva deluderla
così. Che razza di fratello era?
«Ho bisogno di– di
qualche minuto di riposo», disse a denti stretti il numero dieci. «Il tempo
della pausa e sarò– sarò di nuovo pronto».
«Questo non posso
permetterlo, Sakuragi», fece la placida voce dell’allenatore Anzai. «E lo sai
bene».
«Ma, Nonno! Perderemo!».
«Può darsi, sì», annuì
l’uomo, sistemandosi gli occhiali sul naso. «Può darsi di no. Comunque vada,
pensa a riprenderti. Non sappiamo la gravità della situazione, non voglio che
la cosa peggiori».
«Ma, Nonn–».
«Taci, Do’aho».
Hime sollevò lo sguardo
su Kaede, in piedi accanto a lei, ancora accucciata sul fratello.
«Non voglio di sentirti
blaterare nuovamente stronzate sul tuo fondamentale ruolo in squadra che in tua
assenza perde», sbottò il ragazzo.
«Nessuno di noi lo
vuole», aggiunse Ryota. «Quindi porta quel tuo culone in ospedale e vedi di
essere in forma per la finale, insieme a quest’altro scansafatiche».
«Che cosa ca–». Ogni improperio sulla punta della lingua di Mitsui
venne sedato da uno scappellotto di Akagi, giunto in quel momento con Kogure a
bordo campo.
«Ho appena chiamato
un’ambulanza, arriverà tra poco», fu il suo saluto. Si chinò sul rossino, che
ormai non riusciva più a fermare le lacrime di dolore e frustrazione, miste al
sudore freddo che ormai lo inzuppava come un pulcino. Gli scompigliò
affettuosamente i capelli rossi, ormai più lunghi rispetto all’ultima partita
disputata insieme, e ghignò. «Che c’è, Sakuragi? Non ti farai abbattere così?
Un ragazzotto grande e grosso come te?».
Hanamichi ringhiò il suo
disappunto, scansando la sua mano come se fosse una fastidiosa mosca.
«Vedete di vincere, o
davvero chi lo sente questo qui».
«Ohi, Gori!».
La partita riprese e
Masuhiro Araki occupò il posto libero di Hanamichi. Non era massiccio come il
numero 10, né il Centro era il suo ruolo, ma aveva una buona elevazione e
l’area sotto canestro sarebbe stata di sua competenza, per il momento. Nessuno
di loro, però, era fiducioso sulla sua buona riuscita.
Kiyota, che aveva
assistito alla scena dalla sua panchina, represse un sorriso di soddisfazione. Tiè, Rosso-Scimma!
Volevate battermi, oggi, ma vi è andata male! Uh uh uh!
«Hicchan», mormorava nel
frattempo Hanamichi. «Potresti spruzzarmi un po’ di quel coso freddo che fa
passare il dolore?».
La sorella scosse il
capo, ma la mano grande e tremante del fratello la fece desistere dal
ribattere.
«Ti prego, Hicchan.
Voglio tornare in campo. Devo tornare
in campo», continuò lui, con le lacrime agli occhi. «L’ultima volta contro
questi bastardi ho fatto un casino e... voglio rimediare. Poi– poi andrò in
ospedale, come volete, ma ti prego... fammi passare il dolore per un’altra
mezzora».
Hime sollevò lo sguardo
su Akagi, poi lo spostò sull’allenatore, imperturbabile come sempre.
«Potresti peggiorare la
situazione, Sakuragi», disse Ayako.
«A costo di non poter
giocare più, voglio battere il Kainan!», gridò il numero 10.
La panchina avversaria e
i giocatori in campo si voltarono verso di lui, ancora steso a terra e col viso
nascosto tra le braccia. Persino Nobunaga, che fino a poco prima se la rideva
sotto i baffi, si stupì di tanta determinazione – o stupidità, più
probabilmente.
«Hanamichi», disse
Mitsui, accarezzandosi il ginocchio sinistro. «So cosa provi e credimi, fossi
in te anche io vorrei gettarmi in campo e fregarmene di tutto. Ma non puoi
rischiare. Lo Shohoku ha bisogno del grande Genio, no?».
In altre circostanze, il
rossino sarebbe scoppiato a ridere, gli avrebbe dato poderose pacche sulle
spalle e osannato il suo talento ai quattro venti. Fu preoccupante il fatto che
neppure si mosse.
Hime strinse le labbra,
si alzò e corse verso la prima cabina telefonica, sotto lo sguardo attonito di
tutti, compreso Kiyota. Cosa diavolo aveva intenzione di fare?
Digitò il numero di
telefono in fretta e furia e, dopo qualche squillo, per fortuna la voce
familiare le rispose. «Dott. Rukawa Kanbe, con chi parlo?»
«Kanbe-san! Sono Hime,
ho urgente bisogno del suo consiglio – si tratta di Hanamichi».
Continua...
* * *
Uh-oh.
D’oh, ultimamente è
tutto un uh-oh.
Grazie a tutti voi,
lettori silenziosi! E a chi l’ha aggiunta alle seguite (ho visto che il numero
è aumentato, ma non so con esattezza chi sia!). E un grazie a speciale a chi mi
sopporta su facebook. Vi adoooro.
A presto!
Un abbraccio,
la vostra Marta.