La storia mi
giustificherà.
(Gerolamo Ramorino, Genova 1792- Torino 1849, generale
dell'Armata sarda)
La testa bassa e le mani infilate nelle tasche della giacca verdone,
Federico procedeva di filato verso le Regie Carceri Mandamentali.
Il sole di mezzogiorno lo stava facendo sudare, mentre il gusto acidulo
del vino appena bevuto ristagnava come un avvertimento alla bocca dello
stomaco: senza diminuire la velocità, recuperò un
fazzoletto di seta con cui si tamponò la fronte e le tempie,
quindi ripercorse con la mente la conversazione che aveva sostenuto con
Maffucci.
“Quell’avvocatuccio
da quattro soldi crede di intimorirmi, ma non ha nemmeno lontanamente
idea della pericolosità delle persone che frequento! Se non
trovo una maniera per uscire da questa situazione, chi ci
rimetterà sarà soltanto il sottoscritto, non di
certo lui e neppure quella gatta morta di Costanza!”
Sospirò nervoso, ripensando con stizza ai due energumeni che
era stato costretto ad abbandonare nel cortile di palazzo Orelli, dopo
che lo avevano minacciato di fargliela pagare, nel caso gli fosse
scappata anche solo mezza parola, per poi subito dileguarsi celermente
come la brezza estiva in un giornata afosa.
Una manciata di minuti più tardi, il giovane si
ritrovò davanti all’entrata sobria e militare
delle Carceri, il cotto lombardo che riluceva sotto i raggi caldi della
mattinata ormai agli sgoccioli.
Si guardò intorno, controllando che nessuno lo avesse
seguito e che non ci fosse nemmeno l’ombra di un conoscente a
rovinargli i piani, quindi fece qualche passo in avanti.
Non si era mai trovato in difficoltà come in quei momenti,
quando la vita di suo fratello Pietro dipendeva esclusivamente da lui:
un altro centinaio di metri e avrebbe compiuto il suo dovere, ritirando
tutte le false accuse che aveva mosso contro il primogenito dei Caccia,
ma era davvero questo ciò che voleva? Era sicuro di volergli
salvare la vita, di fare marcia indietro?
Per un istante, rivide i volti dei loro genitori, i capelli rossastri e
radi del conte Aldo, gli occhi azzurri buoni ed aperti verso il mondo,
in contrapposizione alla folta chioma della madre e al suo sguardo
nocciola.
Strizzò le palpebre, in un gesto che voleva scacciare
all’istante quei fantasmi dalla sua testa, e
ritornò a concentrarsi sulla struttura tardo medievale che
si stagliava di fronte a lui.
Gli altri che cosa si aspettavano che facesse? Che cosa doveva fare?
Abbassò la vista su un mucchietto di sassolini che
precedevano l’entrata argillosa e in parte erbosa che
conduceva al cortile del Castello Sforzesco.
Erano così simili, così bianchi, eppure alcuni
dovevano essere più piccoli, altri dovevano avere gli angoli
smussati, altri ancora più appuntiti… Federico si
sentiva un po’ come loro, che all’esterno
apparivano uguali a chi li osservava, ma che all’interno
erano pieni di una miriade di imperfezioni, caratteristiche che li
rendevano unici e diversi.
“Sì,
Pietro ed io non siamo gli stessi, non lo siamo mai stati, ed io non
voglio sacrificarmi per lui, anche se per tutti siamo fratelli, ed il
legame di sangue che ci unisce è importante sopra ogni cosa”.
Trasse un profondo respiro e lanciò un’ultima
occhiata verso la facciata delle Carceri, ora così lontane,
così sconosciute.
Ricacciò le mani nelle tasche della giacca di lino e si
allontanò, la schiena che gli faceva da scudo contro
qualsiasi ripensamento.
Il 7 maggio 1849, Vittorio Emanuele II nominò Primo Ministro
del Regno di Sardegna lo scrittore e artista Massimo
d’Azeglio, un politico liberale e moderato, che andava a
sostituire Vincenzo Gioberti.
Il nuovo Presidente del Consiglio è profondamente convinto
dell’importanza di redigere una pace sicura e duratura con
l’Impero Asburgico, sia per il bene del Piemonte che per
poter riprendere un giorno la lotta per l’indipendenza
italiana.
Le trattative di pace si svolgono nella capitale del Lombardo Veneto:
per parte sabauda la mediazione è affidata al diplomatico
Carlo Beraudo di Pralormo, mentre per parte austriaca a von Bruck,
rigido ministro del Commercio.
Inaspettatamente, è l’intervento di Radetzky a
chetare gli animi e a spezzare una lancia in favore dei Savoia, in
quanto il Piemonte viene considerato dall'anziano feldmaresciallo come
perno di un nuovo equilibrio moderato e antirivoluzionario per l'intera
penisola italiana.
Il 6 agosto dello stesso anno viene dunque siglato il trattato di pace,
le cui condizioni non sono affatto controproducenti: in cambio del
parziale disarmo e di un indennizzo in denaro in favore del nemico, il
Piemonte ottiene l’amnistia per i patrioti del Lombardo
Veneto, la restituzione dei territori occupati e l’abolizione
di dazi e convenzioni economiche sfavorevoli.
Alle evidenti resistenze messe in atto dalla Camera del Parlamento
subalpino, il re e il nuovo Presidente decidono di scioglierla e di
indire nuove elezioni, che si svolgeranno il 9 dicembre 1849, ma
bisognerà aspettare esattamente un mese dopo per
l’approvazione dei negoziati di pace.
Nel frattempo, il 22 maggio viene fucilato a Torino il
generale Ramorino, a monito della sua disobbedienza che era costata
assai cara al Regno di Sardegna e alle sorti della guerra contro gli
Asburgo, dopo che gli è stata negata la grazia da Vittorio Emanuele
II. La sentenza viene eseguita nella piazza d'Armi, dove si svolgono
le parate militari dell'Esercito: a comandare il plotone di soldati è lo stesso generale.
Sabato 30 maggio 1849
La carrozza correva veloce lungo la strada argillosa e bollente,
costeggiata da file interminabili di campi coltivati e da zone dedicate
al maggese, che avevano preso il posto degli specchi d’acqua
delle risaie e di qualche disinteressato airone che ne sondava gli
argini; il tepore che filtrava dal finestrino assomigliava ad
un’audace quanto prepotente carezza di un amante, che si
insinua risoluta sotto le vesti, consapevole di non doversi conquistare
alcun permesso.
Il capo ciondoloni sul petto, il corpo di Nicolò sobbalzava
al ritmo di quel piacevole dondolio: gli occhi ancora chiusi, si
scostò meccanicamente un ciuffo di capelli ricci che gli
ricadeva sfacciatamente sulla fronte di porcellana, ormai quasi scevra
di cicatrici visibili.
Il ragazzo si sistemò meglio contro lo schienale di pelle,
il gomito del braccio destro, quello sano, appoggiato mollemente contro
la parete interna della Landau nera: improvvisamente,
avvertì una profonda stanchezza impossessarsi delle sue
membra, una spossatezza atavica e senza una ragione precisa, che lo
induceva ad abbandonarsi ad un sonno lungo e profondo.
Un lieve scossone non preannunciato, e il galoppo dei cavalli
lasciò il posto al passo cadenzato dei loro zoccoli ferrati,
mentre un’altra carrozza passava loro di fianco.
Il giovane Granieri riaprì contrariato gli occhi, quindi
tastò un ginocchio del suo accompagnatore.
“Sono emozionato. Sai, non vedo l’ora di poter
riabbracciare Stefano e di sapere come sta... Spero solo che si ricordi
ancora di me, e che gli faccia piacere ricevere la mia visita”
Il fruscio appena accennato delle pagine di giornale testimoniavano che
l’interlocutore stava lasciando da parte la lettura per
dedicarsi alle parole di Nicolò.
“Sono convinto che anche il tuo amico sarà molto
felice di rivederti, ne sono certo” e così dicendo
gli regalò una pacca affettuosa su una spalla, sorridendogli.
“Abbiamo fatto bene a mandare un telegramma
all’ospedale, almeno avrà potuto prepararsi a
dovere e non trovarsi in imbarazzo per un’ eventuale sorpresa
che inizialmente avrei voluto fargli”
La voce del ragazzo trapelava l’impazienza e la gioia che
avevano accompagnato l’idea di quel viaggio, organizzato fin
nei minimi particolari da settimane ormai, da quando aveva trovato il
coraggio di riallacciare i fili di quel passato bellicoso che non lo
avrebbe più lasciato.
Si strofinò con ansia i palmi delle mani sui pantaloni
chiari, ben consapevole di ciò che lo spontaneo Stefano
aveva dovuto subire durante quei mesi di convalescenza, dopo il
ferimento che lo aveva visto coinvolto alla Bicocca, il 23 marzo.
Per un attimo, Nicolò ripercorse suo malgrado la lunga
marcia sul Ticino, l'attraversamento di Magenta, la
moltitudine di accampamenti spartani a cui si era dovuto abituare; e
poi, la mente, subdola e malvagia, lo accompagnò nei meandri
rappresentati dalle battaglie di Borgo San Siro, di Gambolò
e della Sforzesca, dove era stato colpito al braccio sinistro, lo
portò a rammentare l’avanzata stanca verso
Vigevano, e da lì il ripiegamento in direzione della brumal Novara, la bestia nera, come scrisse anni dopo Carducci nell'ode "Piemonte", fino
al tragico epilogo nelle campagne circostanti.
Al solo rievocare quei ricordi dolorosi, il giovane
rabbrividì e si agitò sul sedile, mentre rivoli
di sudore freddo gli accarezzavano languidi la schiena.
“Devo dirti una cosa, una cosa che ancora non ho detto a
nessuno, nemmeno a Costanza…”
Nicolò si fermò un istante, deciso a calibrare
con cura le parole che stava per pronunciare, e anche timoroso di non
essere realmente compreso.
“Dimmi, ti ascolto…”
L’altro lasciò andare la tendina di velluto che
aveva scostato per ammirare il paesaggio al di fuori, in maniera da
concentrarsi esclusivamente sul volto dubbioso
dell’interlocutore.
“Ecco, il fatto è che credo di…
sì, insomma, credo di star recuperando la vista.
Cioè, non ne sono del tutto convinto, ma da qualche giorno
non vedo più solo ombre, riesco a riconoscere i colori degli
oggetti che mi circondano, persino i contorni una volta sfumati delle
persone sono quasi nitidi… Tu credi sia possibile una cosa
del genere?”
L’uomo si mordicchiò un labbro e alzò
le spalle, indeciso su quale risposta il ragazzo si aspettasse di
sentire, quindi si sedette vicino al giovane Granieri e gli sorrise
fiducioso.
“Beh, non lo so se sia possibile, però sono molto
contento di quello che mi hai appena detto, davvero molto! Se
è vero –e non ho alcun dubbio per credere il
contrario- tutti noi saremmo pronti a supportarti e a portarti dai
migliori specialisti, in modo che tu possa riacquistare completamente
la vista e riappropriarti della tua vita! Te lo posso giurare, caro
cugino! E ora, fatti abbracciare, te lo sei meritato!”
I due si strinsero affettuosamente, fino a quando i loro corpi si
fusero in uno solo, e gli occhi di Nicolò si abbandonarono
alle lacrime, timide e salate.
“Grazie, Pietro, grazie per esserci sempre stato. E grazie
per avermi accompagnato, te ne sarò grato per
l'eternità”
Arrivarono a Torino che era pomeriggio: si fecero indicare da una
coppia di passanti piazza Emanuele Filiberto, dove era ubicato il Regio
Ospedale Militare.
La presenza del conte Caccia indusse il ragazzo a farsi coraggio,
poiché un’improvvisa ansia gli stava attanagliando
come un mostro la bocca dello stomaco: forse aveva sbagliato a
presentarsi dopo tutto quel tempo, forse a Stefano non importava nulla
di rivederlo, forse il suo amico desiderava semplicemente dimenticare e
lasciarsi parte del passato alle spalle.
D’altronde, il telegramma di risposta che aveva ricevuto
circa una settimana prima non lo informava delle condizioni specifiche
in cui versava il soldato ferito, ma il medico che glielo aveva inviato
scriveva solo che il ragazzo si trovava ancora lì, per
ultimare gli ultimi giorni di riabilitazione che ancora gli spettavano.
“Che c’è?” gli
domandò Pietro, aiutandolo a scendere dalla vettura.
“Nulla…”
“Non è che ci stai ripensando, vero? Ora che sei
ad un passo dal traguardo, non puoi abbandonare!”
“No, certo che no. Scusa, andiamo pure”
Si incamminarono quindi verso un mastodontico stabile rettangolare, che
si ergeva immacolato a qualche centinaio di metri da loro: lasciarono
detto al cocchiere che si sarebbero ritrovati dopo un paio di ore
all’angolo della piazza, poi schivarono qualche altra
carrozza e, finalmente, si ritrovarono davanti all’ospedale.
Pietro si guardò intorno, notando le fila di porticati che
ospitavano una dozzina di negozi e un paio di palazzi alto borghesi: a
quell’ora, non vi era quasi nessuno in giro, solo una
manciata di Landau che andavano in direzioni opposte rispetto alla loro.
Nicolò si sentiva una pedina degli scacchi attorno a cui
vorticavano figure e mosse a lui sconosciute, la confezione di
cioccolatini in una mano, il regalo che Costanza gli aveva suggerito di
scegliere.
Si aggrappava al cugino come fosse un’àncora di
salvezza, il cuore che accelerava i battiti e una voragine che si
apriva in prossimità dello stomaco, come se lo stesse per
risucchiare.
E fu allora che si sentì stupido, impreparato, codardo:
aveva tanto blaterato contro la sorella, contro Eugenio e chi lo voleva
aiutare a dimenticare tutta quella brutta storia, quando invece era lui
il primo a comportarsi da vigliacco e a non voler prestare aiuto al suo
amico.
Attraversarono l’entrata di marmo a sesto acuto che conduceva
nell’ampio parco all’italiana, e si ritrovarono in
un mondo a parte, un universo popolato da suore, camici bianchi e
pazienti pallidi e smagriti.
La mente del giovane Granieri tornò ai giorni lontani eppure
così vicini della degenza, all’odore aspro e
pungente del disinfettante che accompagnava le visite del personale, al
calore malsano emanato dai corpi degli altri malati e dei moribondi.
Istintivamente, si ritrovò a stringere ancora più
forte il braccio di Pietro, che lo guardò e gli disse che
sarebbe andato tutto bene.
Abbandonato il giardino, domandarono in portineria dove poter trovare
il reparto di riabilitazione in cui Stefano era degente, quindi si
addentrarono lungo un corridoio dalle pareti grigiastre e dal soffitto
macchiato di umidità agli angoli.
Salirono con lentezza i gradini di pietra, Nicolò
appoggiandosi al corrimano di legno, fino al secondo piano indicato
dall'uomo di mezza età a cui avevano chiesto all'ingresso.
Da una delle tre finestre che si aprivano sull'unica parete libera di
porte, i raggi solari di fine maggio si insinuavano energici in
quell'ala della costruzione, donandole un briciolo di
umanità che sembrava mancare al resto dell'austera struttura.
"Aspettami qui, vado a cercare qualcuno..."
Pietro aiutò il cugino a sedersi sull'unica panchina
disponibile, e cominciò ad ispezionare la fila omologata di
porte bianche alla sua sinistra; alla sesta occhiata, si
fermò e bussò in prossimità della
stanza che recava il nome del medico che aveva inviato il telegramma la
settimana precedente.
Il conte attese il permesso per poter entrare, quindi
sgusciò all'interno e vi uscì un minuto
più tardi.
Andò a recuperare Nicolò, fermo ed imbarazzato
dove lo aveva lasciato poco prima, e gli disse di seguirlo dal dottor
Damiani, che li ricevette nel suo studio asettico, colmo di volumi
enciclopedici e di una caterva di documenti mezzi ingialliti.
“Mi dispiace molto avervi fatto venire fino a qui, ma il
signor Gardina non desidera ricevere visite"
"Ma come?! Eravamo d'accordo che ci saremo visti proprio oggi, che lo
avrei incontrato! Perchè adesso mi state dicendo questo, non
capisco!"
Il giovane Granieri, infatti, non riusciva a capacitarsi delle parole
che stava udendo: quell'uomo di media statura e l'aspetto aristocratico
gli stava facendo sgretolare la poca forza di
volontà e di sicurezza che aveva faticosamente racimolato
durante le ultime settimane in cui aveva ripreso in mano le redini
della sua precaria esistenza.
"Possiamo sapere se questo improvviso cambiamento ha a che fare con le
sue condizioni di salute?" s'intromise il conte Caccia, appoggiando una
mano sul ginocchio di Nicolò, inducendolo a calmarsi.
"No, vi posso assicurare che il vostro amico si è ripreso in
modo assai stupefacente, anche se il percorso è di certo
ancora lungo e tortuoso. Tuttavia, non posso obbligarlo a vedervi, se
ciò va contro la sua volontà. Mi capite, vero?"
Il cinquantenne, la stilografica che aveva recuperato davanti a
sé, li guardava con gli occhi chiari ed empatici, ma il tono
della voce appariva irremovibile.
"Certo, vi capiamo e comprendiamo il gesto del signor Gardina.
Permettete un attimo..."
Pietro si abbassò per sussurrare all'orecchio del vicino se
aveva intenzione di lasciare comunque la scatola di cioccolatini
acquistata per Stefano: l'altro lo guardò appena, la
mascella contratta e le dita irrigidite sulla confezione regalo, poi
annuì senza troppa convinzione e appoggiò il
pacchetto tra lui e il dottor Damiani.
"Bene, allora se non abbiamo più niente da dirci, noi
toglieremmo il disturbo: sapete, la strada per Novara è
piuttosto lunga..."
Le parole del conte Caccia trasudavano una certa dose di irrequietezza,
sebbene continuasse a rimanere perfettamente calmo: si alzò
dalla sedia di mogano, prendendo per un gomito il cugino,
già pronto ad accomiatarsi.
"Aspettate..." ribatté il medico.
Recuperò da una tasca del camice un foglio spiegazzato e
piegato in quattro, quindi lo porse a Nicolò.
"Il vostro amico mi ha personalmente incaricato di darvi questa
lettera, tenete"
Il giovane allungò il braccio sano e tastò appena
il misterioso scritto, indeciso se replicare o magari insistere per
rivedere l'ex soldato.
Alla fine, optò per un semplice quanto poco convincente
grazie ed una stretta di mano, mentre Pietro si limitava a fare lo
stesso, e finalmente lasciarono la stanza.
Una volta districatisi da quel labirinto, i cugini si fermarono quasi
all'unisono, dirigendosi verso l'uscita del complesso ospedaliero.
Il più grande indirizzava affettuosamente i passi
strascicati dell'altro lungo il vialetto di ghiaia e terra battuta,
pronto a ricongiungersi con il cocchiere nella piazza antistante.
Non si scambiarono mezza parola, ognuno assorto nei propri pensieri:
avevano compiuto un viaggio a vuoto, avevano percorso chilometri
inutilmente, solo per ottenere un rifiuto e una lettera che nessuno
aveva il coraggio di leggere.
A quella riflessione, Nicolò sorrise dentro di sé
amaramente, pensando a quanto fosse sciocca quella strana coincidenza:
sebbene stesse lentamente ed incredibilmente recuperando la vista,
ancora non poteva definirsi autonomo nelle incombenze quotidiane, ed
una di queste era per l'appunto leggere quelle parole che il suo amico
aveva deciso di scrivergli, non sapendo quanto questo gli costasse
un'enorme fatica.
O forse no, forse quello era una sorta di segnale che lo induceva a
mettersi alla prova, a tentare di interpretare le file di parole una
dietro l'altra che componevano il messaggio dell'amico;
perciò, strappò delicatamente il foglio dalle
mani di Pietro, e lo spinse a seguirlo sulla prima panchina
disponibile, vicino ad un laghetto artificiale.
"Che ti succede? Non ti senti bene?"
domandò allarmato il conte, sedendosi a
sua volta.
Il cugino scosse la testa, tranquillizzandolo con un mezzo sorriso.
"Voglio provare a leggerla da solo" cominciò a spiegare,
riferendosi alla lettera che gli scottava tra le dita, e che
accarezzava come fosse il più prezioso dei tesori.
"Va bene, però se vuoi ti aiuto volentieri: non mi costa
nulla, lo sai, vero?"
"Sì, ma è una cosa che devo fare io, o quanto
meno che devo tentare di fare... Se ho bisogno di te, non
esiterò a chiedertelo, davvero"
Il trentenne annuì comprensivo, stringendogli
affettuosamente una spalla ed allontanandosi di qualche passo dal
cugino, in direzione di una delle magnifiche sequoie, in modo da
lasciarlo a concentrarsi.
Nicolò attese che l'altro si fu allontanato, quindi si
decise ad aprire il foglio e ad avvicinarlo il più possibile
agli occhi: le parole gli apparivano come microscopici ballerini dalle
forme sgraziate, una troppo alta, una troppo bassa, una sghemba, una
sbavata per l'eccesso d'inchiostro... insomma, un mare di confusione in
cui avrebbe dovuto nuotare per riuscire a salvarsi dal buio che lo
stava abbandonando ogni giorno che passava.
"Basta provarci,
ricordare la forma delle lettere e metterle insieme una dopo l'altra...".
Trasse un sospiro di incoraggiamento, la testa che gli girava, e
riprovò per la seconda volta: lentamente, le dita appena
tremolanti, riuscì a decifrare qualche frase, fino a
completare l'intera lettura.
Torino, 29 maggio 1849
Caro Nicolò,
non sono bravo con le parole, credo che tu lo hai capito quando ci
siamo incontrati e conosciuti.
Appena il dottor Damiani mi ha deto che volevi venire a trovarmi, sono
stato felice, molto felice, come non lo ero da tanto tempo.
Però, rifletendoci, ho capito di non essere ancora pronto
per questo passo, per ricongiungermi con il mio passato: ho paura di
soffrire tropo, di non acettare di rivederti, perché non
sono in quela che si definisce una ottima forma.
Mi sposto ancora con le grucce, e speso mi sento debole, ma sto bene
nel complesso, credimi.
Spero tanto di trovare presto la forza per farlo, per poterti
riabbracciare e parlare del piu e del meno con la stessa legerezza del
prima.
Ti lascio il mio indirizzo: tra una settimana farò ritorno a
casa, a Novara, e chissa che li non riprendo ad essere normale e sereno
come sono sempre stato.
Ti ricordo sempre con affeto e riconoscienza, ma domani, quando verai, non insistere per parlarmi, te ne prego.
Il tuo grande amico Stefano
Dimenticavo, scusa per gli errori!
Nicolò si ritrovò a sorridere e a
ridere al contempo, incurante degli sguardi lanciati di sfuggita da
qualche capannello di persone che passava di lì: ci aveva
impiegato cinque, forse addirittura dieci minuti per riuscire a capire
cosa ci fosse scritto, ma solo così aveva avuto la certezza che
stava davvero riacquistando la vista.
Strinse al petto la lettera, cominciando a singhiozzare in silenzio e a
piangere, sfogando il risentimento, la rabbia, la delusione e la
frustrazione che l'avevano accompagnato in tutto quel tempo: lui si
rispecchiava in quello che gli aveva scritto Stefano, lo comprendeva
alla perfezione, e si rese conto che quasi non gli importava di non
averlo visto, perché ci era passato anche lui,
perché non era necessario affrettare i tempi e rovinare i
progressi fatti.
Divenne consapevole che la guerra, in fondo, rendeva uguali chi l'aveva
vissuta: vinti e perdenti in realtà erano tutti dei
perdenti, che per ritornare ad essere dei vincitori avrebbero dovuto
attraversare nuovi orizzonti di vita e, prima che con il nemico, fare
pace con se stessi.
Dopo essersi sfogato, fece un cenno in direzione di Pietro, e lo
abbracciò con slancio fraterno.
"Ora sono pronto, possiamo andare".
NOTA
DELL'AUTRICE
Buonasera,
cari lettori!
Tranquilli,
avete letto bene, non ho saltato nulla: Federico sembrava che avesse
deciso di andare dritto per la sua strada, di non aiutare il fratello,
invece, quasi quattro settimane dopo, ritroviamo il nostro primogenito
conte Caccia vivo e vegeto, pronto a fare compagnia a Nicolò
in quel di Torino, dove purtroppo non hanno potuto incontrare il
commilitone del ragazzo, anche lui profondamente turbato dai ricordi di
guerra.
Questo,
come anticipato, è l'ultimo capitolo, ma nell'epilogo
spiegherò che fine hanno fatto i vari personaggi, compiendo
un salto temporale di trent'anni, raccontandovi brevemente anche come
ha fatto Pietro a salvarsi e, soprattutto, se alla fine Federico ha
deciso di fare marcia indietro, ritirando le accuse.
In
attesa di tutto ciò, vi ringrazio per il supporto, e vi
saluto!
A
presto
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