Note
iniziali:
Avvertimenti:
menzione di sangue e minori mutilazioni
[5800
parole]
Capitolo
I
Quasi
sedici inverni erano trascorsi da quella sera in cui conobbe la storia
della
Regina di ghiaccio e col passare del tempo, il timore verso quella
figura
misteriosa era diminuito. Nessuno era più entrato nella
foresta e la Regina
continuava a non manifestare la propria presenza, cosa di cui i locali
erano
più che felici, nonostante vigesse ancora il divieto di
uscire durante le notti
d’inverno.
Anche
quell’anno la stagione fredda era alle porte e Otabek si
apprestava a compiere
il suo primo viaggio da solo; qualche giorno prima era arrivato un uomo
a
cercare qualcuno che potesse lavorare alla fucina del paese vicino e
Otabek,
incoraggiato dalla sua famiglia, aveva deciso di cogliere
quell’occasione,
dopotutto la sua abilità nel maneggiare incudine e martello
lo precedeva e
l’uomo ne era rimasto molto impressionato.
Era
partito appena due giorni prima, insieme ad Astra, la sua cavalcatura
dal manto
nero, e adesso solo un giorno di cammino lo separava dalla sua nuova
vita.
Aveva salutato sua madre e suo padre, entrambi addolorati di doverlo
lasciar
andare lontano, ma consapevoli che fosse la cosa più giusta
per lui; sua
sorella Ayzere invece gli si era appesa al collo, come se non dovesse
rivederlo
mai più e aveva pianto. Lui l’aveva stretta e le
aveva promesso che avrebbe trovato
qualcuno che scrivesse per lui quante più lettere possibili,
eppure singhiozzi della
ragazza lo seguirono fino a quando non ebbe lasciato la stradina
sterrata e
piena di ciottoli del suo villaggio, immettendosi in quella principale
che
costeggiava il bosco.
Sebbene
non fosse un viaggio troppo impegnativo, già dopo il primo
giorno Otabek aveva
cominciato a risentire della posizione seduta sulla sella, con la
schiena che
gli si bloccava nelle posizioni più strane e le gambe piene
di lividi a causa
del continuo sbattere dei polpacci contro il ventre di Astra. Alla sera
del
secondo giorno, anche le sue cosce non erano ridotte meglio: lo
sfregare del
cuoio attraverso la stoffa dei pantaloni era la cosa più
fastidiosa dell’andare
a cavallo, e anche se ormai era diventato un dolore sopportabile, il
lieve
bruciore incessante lo rendeva irritabile ed insofferente.
Fu
un sollievo scendere da cavallo quella sera; aveva programmato il
viaggio in
modo da essere in paese prima del solstizio d’inverno, quando
la magia della
Regina sarebbe stata più forte, così da poter
rimanere dentro casa durante le
notti in cui il freddo avrebbe fatto da ambasciatore di quella
stregoneria.
Si
preparò ad accamparsi per la notte, mentre la temperatura si
abbassava ancora
di più. Per quanto non gli piacesse l’idea di
ripararsi al limite del bosco,
era una cosa che doveva fare per forza, se non voleva essere attaccato
da
qualche brigante rimanendo sulla strada maestra, e poi così
avrebbe anche
potuto legare Astra agli alberi sul confine. Stando alle parole di
Yakov,
l’importante era non entrare nel bosco.
Il
suo tascapane di stoffa gli serviva solo per il cibo e
l’unico cambio di
vestiti che possedeva, mentre la coperta di spesa lana pesante stava
appesa in
un fagotto sul fianco di Astra. Adesso Otabek ringraziava mentalmente
sua madre
per aver insistito affinché la portasse con sé,
perché il freddo si faceva
sempre più rigido ogni minuto che passava. Aveva preparato
un piccolo fuoco, in
modo da poter riscaldare un po’ d’acqua e
prepararsi qualcosa di caldo da bere,
così avrebbe potuto distendersi accanto alle braci e
ricevere un po’ di calore
durante la notte.
Il
buio calò gradualmente, il fuoco si spense, lasciando solo
qualche legnetto
ardente che brillava d’una rassicurante luce arancione
nell’oscurità illuminata
solo dal bagliore delle poche stelle che si intravedevano attraverso le
nuvole.
Otabek
era sicuro che avrebbe piovuto, o forse nevicato, ma sapeva di poter
passare la
notte tranquillo, fintanto che l’odore inconfondibile
dell’umidità non aveva
ancora impregnato l’aria; scoprì che dormire,
quella sera, era un’impresa più
ardua del previsto, visto che Astra continuava a scalpitare. Dopo
l’ennesima
volta che provava a chiudere gli occhi e veniva puntualmente riportato
alla
realtà da quel rumore scostante ed irrequieto, Otabek decise
di alzarsi e
cercare di capire cosa le prendesse.
«Ssh,
bella, cosa c’è?» le chiese dolcemente,
accarezzandole il muso. La cavalla
scosse la criniera, ricercando il contatto con la sua mano e Otabek la
conosceva ormai abbastanza bene da sapere che c’era qualcosa
che non andava.
Astra era sempre stata la più docile e tranquilla
cavalcatura del suo villaggio
e non era da lei comportarsi in quel modo, ma in quel momento Otabek
non la
riconosceva: Astra scuoteva il muso, senza star ferma un attimo e fu
proprio a
causa di quei movimenti che Otabek, spostandosi per evitare uno zoccolo
sul
piede, catturò un’ombra con la coda
dell’occhio, un’ombra sottile ed
inconfondibilmente umana.
«Ehi!»
gridò. «Fermati!» scattò
lontano da Astra, per seguire quel luccichio che aveva
notato. Una sagoma si stagliava contro l’oscurità
della foresta, longilinea e
tremula come se emanasse luce propria, fino a quando Otabek non si
accorse che
ciò che aveva scambiato per un brillio intrinseco non era
che la pelle diafana
di chiunque fosse quell’individuo. Non era nemmeno sicuro che
si trattasse di
un uomo o di una donna, però accelerò il passo,
continuando a gridare di
fermarsi. Non fece in tempo a raggiungerla però, che la
sagoma non scartò di
lato e scomparve tra la fitta boscaglia. «Dove stai andando!?
Torna indietro,
il bosco è stregato!» urlò, sperando
che quella persona potesse sentirlo.
Otabek avvertì il cuore salirgli in gola, mentre il rombo
sordo di un tuono in
lontananza squarciava la notte, e lui posava un piede oltre la prima
fila di
alberi; il nitrito di Astra fu l’unica cosa che lo
risvegliò da
quell’inseguimento e in quel momento si rese conto di aver
appena oltrepassato
il confine che sin da piccolo gli era stato raccomandato di non violare
mai,
per nessuna ragione al mondo.
Il
sangue gli fischiava nelle orecchie, mentre faceva un passo indietro e
ritornava all’esterno. Si guardò intorno, sperando
di vedere qualcuno e capire
che, chiunque fosse, non fosse ormai perduto nel bosco stregato, ma non
c’era
nessuno, era tutto tranquillo, se non per il lieve alone arancione
delle braci
che illuminava la sagoma scalpitante e spaventata di Astra.
Tornò
dalla propria cavalcatura, accarezzandola piano e mormorandole parole
dolci per
rassicurarla e sospirò di sollievo quando finalmente Astra
sbuffò dalle narici
e smise di fremere. Otabek non chiuse occhio quella notte e
riuscì a prendere
sonno appena qualche ora precedente alle prime luci
dell’alba, vinto dalla
stanchezza.
Il
suo sonno fu inquieto e Otabek sognò qualcosa che non gli
era più capitato di
sognare da anni: una figura bianca e senza volto in una foresta scura;
correva
dandogli le spalle e lui la inseguiva a passi veloci, scartando gli
alberi che
gli ostruivano la via. Quando si risvegliò, però,
non ricordava niente.
L’ultimo
giorno di viaggio passò senza avvenimenti degni di nota,
anche se Otabek non
faceva che ripensare a ciò che era accaduto la sera prima,
chiedendosi che fine
avesse fatto quella persona, senza osare pensare al peggio.
Raggiunse
il paese all’ora del tramonto; il sole rosso faceva brillare
le punte aguzze
della grande roccia che proiettava la propria ombra sulle case. Non gli
ci
volle molto per capire che quel paese era molto diverso dal suo piccolo
villaggio: era più grande, con strade e stradine che si
incrociavano come un
formicaio, più frenetico e più rumoroso, perfino
a quell’orario.
Sorpassò
diverse taverne illuminate, dove già cominciavano a
radunarsi uomini di ogni
tipo, da coloro che sembravano soldati, a giudicare dalle cotte di
maglia che
indossavano, dalle pesanti spade che pendevano ai loro fianchi e dagli
elmi che
alcuni di loro tenevano sottobraccio, a semplici contadini dai vestiti
usurati.
C’erano anche alcune donne, anche se Otabek sapeva bene che
non erano lì per
divertirsi, ma per divertire. Quell’usanza non gli era mai
piaciuta molto,
soprattutto dopo che suo padre gli aveva spiegato in cosa
effettivamente
consistesse e sua madre gli aveva intimato di tenersene alla larga, se
non
voleva diventare centro delle voci che circolavano e rischiare di non
trovar
moglie.
L’odore
di cibo, alcool e sudore che emanava da quei locali era quasi
asfissiante, e si
mischiava con quello del terriccio sotto i suoi piedi, in un misto
nauseabondo
che Otabek non aveva mai sentito prima d’ora in vita sua,
complici anche i
rigagnoli d’acqua e chissà cos’altro che
scorrevano ai lati della strada.
Otabek
passò le taverne senza dare una seconda occhiata,
limitandosi a cercare
l’insegna della fucina; era sceso dalla groppa di Astra, e
per quanto si
sentisse a disagio a camminare in mezzo a tutta quella gente, sapeva
che non
avrebbe fatto buona impressione se avesse continuato a camminare a
cavallo
anche dentro le stradine del paese.
Dovette
chiedere ad un paio di persone, ma alla fine trovò
ciò che stava cercando. La
fucina era una palazzina a due piani, il primo era l’officina
vera e propria,
dove venivano svolti tutti i lavori, dalla forgiatura alla rifinitura,
mentre
il secondo ospitava la casa del proprietario e le stanze per gli
impiegati
forestieri. Otabek legò Astra all’apposita
staccionata lì vicino, prima di
bussare sul portone di legno; non sapeva cosa aspettarsi;
l’uomo che era venuto
a reclutarlo al suo villaggio non era il proprietario
dell’attività, Otabek al
momento non ne ricordava il nome, ma quel tipo aveva incantato sua
madre con i
suoi modi molto drammatici, facendo ridacchiare sua sorella nel mentre,
e
adesso Otabek si ritrovava a chiedersi come sarebbe stato il vero
proprietario,
se fosse un bonaccione, come aveva detto quel tipo o se fosse
tutt’altra
persona.
I
suoi pensieri furono interrotti dal rumore dei cardini che stridevano,
mentre
la porta veniva aperta e l’odore del fumo e del ferro
surclassava qualunque
altro. Un uomo sulla quarantina, imponente come un armadio e spesso
almeno
tanto quanto, riempiva la cornice dell’uscio. «Che
vuoi ragazzino?» sbottò.
Aveva una voce sorprendentemente calda e non troppo profonda che
contrastava
con il suo aspetto minaccioso.
«Sono
qui per il posto alla fucina. Un vostro dipendente è venuto
a richiedere la mia
presenza qualche settimana fa, al villaggio più a
nord.» rispose Otabek, senza
perdere il contatto visivo con l’uomo.
«Oh,
sei tu allora! Georgji mi ha parlato di te!» lo
squadrò da capo a piedi e si
grattò il mento, per poi schioccare la lingua. «Mi
aspettavo fossi più alto, ma
sei bello robusto! Andrai bene!» gli diede una manata sulla
spalla, facendo
spazio per lasciarlo entrare. Otabek non disse niente a proposito del
commento
sulla sua altezza, dopotutto c’era abituato.
Si
prese qualche momento per osservare l’ambiente.
C’era il fuoco vivo e caldo, i
mattoni bianchi ed incandescenti illuminavano tutte le pareti e Otabek
sapeva
bene che tutta l’attività di quella fucina
dipendeva da quel fuoco, come un
cuore pulsante, che non avrebbe dovuto spegnersi mai. Sulla sua destra
stava la
postazione per la lavorazione e la temprata, mentre sulla sinistra vi
era un
tavolo ricoperto da pezzi di armatura ancora grezzi e lame non
affilate,
proprio accanto la mola, oltre ad una moltitudine di attrezzi per la
lavorazione a freddo.
Nuovamente,
fu la voce dell’uomo ad interrompere la sua esplorazione.
«La tua stanza è di
sopra, insieme alle altre – indicò le scale
– il turno inizia domani mattina
alle cinque, non un minuto più tardi, ma fino ad allora sei
libero, quindi se
vuoi andare in giro per il paese a divertirti un po’, fa
pure. E a proposito,
io sono Feliks, come devo chiamarti, ragazzino?»
«Otabek
Altin, signore.» gli rispose, raddrizzando la schiena.
«Grazie
dell’ospitalità.»
Feliks
scosse la testa e mosse la mano davanti a sé, come per
dirgli di non essere
così formale. «Ve bene, Otabek. Domani vedremo se
ne sarà valsa la pena,
altrimenti dovrò rimproverare Georgij per avermi portato un
incapace.»
Otabek
si costrinse a mantenere un’espressione neutra ed annuire in
silenzio. Non
voleva che l’uomo lo rimandasse a casa, non dopo aver
affrontato quel viaggio e
non con l’inverno alle porte. E poi cosa avrebbe detto ai
suoi genitori?
«Signore,
ho anche un cavallo, non vorrei che restasse fuori tutta la
notte.» disse; di
certo non sarebbe stato contento di sapere che Astra avrebbe dovuto
passare
l’intera nottata esposta al gelo e chissà
cos’altro, ma per fortuna Feliks
agitò una mano verso il retro del locale.
«Sì, sì, c’è una
stalla lì dietro, è
sempre vuota, ma sono sicura che la tua cavalcatura la
troverà comoda. C’è
anche del foraggio, lo teniamo per ogni evenienza, e quella povera
bestia dovrà
essere stanca, dopo averti portato in groppa fino a qui.»
«Grazie
mille, signore.» Feliks gli rivolse un cenno del capo e
tornò a fare ciò che
aveva interrotto, lo stridio della mola che riprendeva a riempire
l’aria.
Otabek
uscì di nuovo, stupendosi di come in pochi minuti il cielo
si fosse fatto molto
più scuro. Astra scalpitava di nuovo, ma stavolta era certo
che fosse per
l’ambiente nuovo e tutte quelle persone che la circondavano.
Sussultò, quando
le posò una mano sul fianco, prima di riconoscerlo e nitrire
felice.
«Sì,
bellezza, siamo arrivati, ti mostro la tua nuova casa,
andiamo.» slegò le
redini dall’anello e con una pacca convinse Astra a muoversi;
la stalla era
davvero come aveva descritto Feliks, pulita, asciutta e rifornita e
Otabek si
prese il suo tempo per togliere la sella ad Astra e spazzolarle la
criniera
chiara, riempiendole poi la mangiatoia e il secchio
dell’acqua. Astra vi si
avventò e Otabek le sorrise. «Grazie per ieri
sera, se non mi avessi svegliato
non so cosa sarebbe successo.» le sussurrò. Sapeva
che parlarle non aveva molto
senso, ma era anche convinto che Astra fosse molto più
intelligente degli altri
cavalli che conosceva. «Credi che stia bene, quella persona
intendo?» Astra
scrollò la criniera, ma non diede segni di nervosismo.
«Non so perché me ne
preoccupo, non so neanche se fosse un uomo o una donna, o un nemico.
Però quel
bosco… è pericoloso, e Yakov ha detto che non
augurerebbe quella sorte neanche
al suo peggior nemico.»
Astra
lo guardò, mentre lui appoggiava la fronte sul suo muso.
«Forse mi sto solo
preoccupando troppo, che ne pensi?» Astra nitrì e
Otabek rise. «Lo so, lo so.
Sono stanco anch’io, buonanotte, bella.» le
carezzò un’ultima volta il muso e
uscì dalla stalla per andare ai piani superiori.
La
sua stanza era piccola, con un modesto materasso di paglia, un
cassapanca, una
sedia e un piccolo camino, per cui Otabek ringraziò il
cielo. C’era anche uno
specchio graffiato e una bacinella per l’acqua, utili per
farsi la barba; aprì
il proprio involto, gettando la coperta di lana sul materasso e
l’unico cambio
di vestiti sulla sedia. Avrebbe dovuto accendere il fuoco, ma non era
molto
sicuro di voler restare in camera, dopotutto, come aveva detto Feliks,
poteva
andare a divertirsi un po’ come non aveva mai potuto fare a
casa. Non sarebbe tornato
tardi, si era detto, giusto in tempo per dormire abbastanza da non
essere
stanco il primo giorno di lavoro. Voleva proprio vedere se le taverne
di questo
paese erano poi tanto differenti da quello del suo villaggio.
Dopo
il terzo bicchiere di alcool, Otabek cominciava a sentire la testa
più leggera
e sperava di riuscire a ritrovare la strada per la fucina, senza
incappare in
qualche guaio come la sera prima. Al ricordo, un brivido gli percorse
la
schiena, ma lo attribuì al tocco che gli solleticava la
coscia.
Aveva
scoperto che non solo le taverne erano diverse, erano anche diverse le
donne.
Non era mai stato un tipo a cui piaceva quel genere di cose, ma era
interessante come un po’ di alcool riuscisse a cambiare la
sua visione delle
cose, e quella rossa che gli accarezzava languidamente la gamba
sembrava
all’improvviso tutto ciò di cui aveva bisogno,
eccetto che non poteva proprio
farlo, non avrebbe mai mancato di rispetto ad una donna in quel modo,
non con
l’educazione che gli era stata impartita.
Non
aveva però messo in conto che la ragazza potesse offendersi.
Appoggiato contro
il muro, fuori dalla locanda, con l’aria fredda che gli
soffiava sulle guance
arrossate, Otabek si ritrovò con il collo marchiato di rosso
dalle labbra di lei.
L’aveva spinta via, non troppo forte, ma abbastanza da farle
capire che, anche
se il suo corpo poteva sembrare d’accordo, la parte ancora
razionale della sua
mente non lo era.
«Scusami.»
sussurrò, mentre lei si sistemava la gonna, indignata.
«Cos’è, non sono
abbastanza bella?» sputò la ragazza.
Otabek
la guardò bene in viso: aveva un bel paio di occhi azzurri e
capelli rossi
corti che le incorniciavano il viso minuto e dai lineamenti fieri. No,
non
avrebbe mai detto che non era bella, era forse una delle più
belle donne che
avesse mai visto.
«N-no,
tu sei molto bella – lei alzò gli occhi al cielo,
ma Otabek non si fermò – è
solo che… non sono abituato a queste cose e non voglio
costringerti a fare
qualcosa contro la tua volontà. Mia… mia madre
non me lo perdonerebbe mai, se
lo sapesse.»
Contro
ogni sua previsione (che comprendeva almeno uno schiaffo), lei
scoppiò a
ridere, con una mano sulla pancia. Si passò le dita sugli
occhi spazzando via
le lacrime. «Ma di cosa parli? Contro la mia
volontà? Ti prego, dimmi che non
mi hai preso per una puttana?»
Il
rossore sul viso di Otabek dovette essere una risposta abbastanza
chiara,
perché le sue risate si intensificarono, prima che lei
ritrovasse un po’ di
contengo e riuscisse a parlare di nuovo. «Tanto per essere
chiari, se avessimo
fatto sesso sarebbe stato del tutto consensuale, almeno da parte mia.
Però
grazie, eh, sei un vero gentiluomo… Come hai detto che ti
chiami?» gesticolò a
suo indirizzo, gli occhi luminosi ed incuriositi.
«Io
non l’ho det-» cominciò a dire, poi
però si accorse che lei stava per alzare
una seconda volta gli occhi al cielo. «Otabek.»
«Piacere
di conoscerti, Otabek, ci vorrebbero altri uomini come te in questa
stupida
cittadina. Comunque io sono Mila.» gli porse la mano e a
Otabek parve tutto
molto strano, considerato che fino a pochi minuti prima erano
avviluppati l’uno
all’altra come una coppia di fatto. Ciò non gli
impedì di afferrare quella
mano, però, sentendola piccola e fragile tra le proprie.
«Piacere mio, Mila.»
Mila
sorrise. «Appurato che non faremo sesso questa sera, e forse
mai, c’è
qualcos’altro che ti va di fare, Otabek?»
***
Passarono
alcune settimane, durante le quali Otabek fece del suo meglio per
guadagnarsi
il rispetto di Feliks ed abituarsi a quei nuovi ritmi.
Il
suo capo era rimasto contento del suo modo di lavorare, cominciando
anche ad
affidargli lavori singoli e non solo ruoli da aiutante. La prima cosa a
cui gli
aveva permesso di lavorare da solo era stata una spada e Otabek aveva
sgobbato
per giorni, nel tentativo di creare una buona arma, un’arma
che non avrebbe
tradito il suo proprietario in battaglia. Aveva usato tutti i trucchi
imparati
in quegli ultimi tempi, con particolare attenzione al bilanciamento
della lama
e dell’elsa, aveva studiato la forma della lama,
appiattendola e modellandola
con precisi colpi di martello ed infine l’aveva affilata e
lucidata, senza
riuscire a trattenere un sorrisetto soddisfatto quando Feliks, dopo
averla
osservata per bene, gli aveva fatto i complimenti e gli aveva detto che
poteva
anche tenerla per sé; da quel momento, la spada stava nella
stalla di Astra.
Per
il resto, il tempo che non passava all’officina lo passava
con Mila. Da quella
sera alla taverna, che avevano passato a ballare, si erano visti quasi
tutti i
giorni e quell’assidua frequentazione aveva reso palese che
non ci sarebbe
stato niente tra loro, perché Mila era davvero troppo
rumorosa e aveva una
concezione della vita di coppia diametralmente opposta alla sua,
così avevano
deciso che sarebbero rimasti amici, perché dopotutto si
godevano la compagnia
l’uno dell’altra.
Quel
giorno Feliks l’aveva mandato a prendere dei materiali appena
fuori paese e
Mila aveva insistito per andare con lui, perché non le
andava di rimanere a
casa con sua madre. La donna, si lamentava Mila, non faceva altro che
annoiarla
con i suoi discorsi sul prendersi cura della casa e della famiglia e
Otabek, il
quale sapeva benissimo che tipo fosse Mila, non era affatto stupito
dalla
reazione della ragazza.
Di
certo non avrebbe mai potuto aspettarsi che quella piacevole gita
avrebbe preso
una piega del tutto inaspettata, e Otabek fu colto totalmente di
sorpresa,
quando successe.
Stavano
tornando verso la cittadina, sempre costeggiando il bosco a cavallo di
Astra, e
Otabek era grato che il sole fosse ancora abbastanza alto nel cielo.
Non
l’aveva detto a Mila, perché la prima volta che le
aveva parlato di quella sua
credenza, lei aveva riso e gli aveva assicurato che era solo
un’antica
superstizione ormai troppo vecchia per essere ancora verosimile.
Tuttavia,
la sua mente si chiedeva ancora che fine avesse fatto quella persona
che
l’aveva svegliato settimane prima, se fosse stata fortunata
come Yakov e si
fosse salvata o se invece fosse diventata un corpo senza vita, sepolto
dalla
neve.
Aggrappata
al suo busto, con il mento appoggiato alla sua spalla, Mila gli stava
raccontando della sua ultima conquista – se la madre di
Otabek l’avesse sentita
parlare in quel modo, probabilmente ci sarebbe rimasta secca sul colpo,
ma Otabek
si era abituato a quel lato poco convenzionale (e anche piuttosto
inadeguato)
del carattere di Mila e doveva ammettere che lo divertiva ascoltarla e
gli
piaceva sapere che lei riuscisse a godersi appieno la propria vita, in
barba
alle tradizioni e ciò che gli altri ritenevano inappropriato.
Ed
anche in quel momento l’avrebbe ascoltata volentieri, se le
sue orecchie non
avessero captato un suono anomalo, diverso dalla sua voce chiara e
squillante.
Era
iniziato come un gemito, poi si era fatto più alto,
diventando quasi un urlo.
«Ssh.»
Intimò a Mila, con una mano alzata ad enfatizzare.
«
“Ssh” a me?» Lei gli allungò
una gomitata dalla propria posizione con le
braccia attorno al suo busto.
«Zitta,
non senti?» Otabek le afferrò un polso,
perché Mila non voleva saperne di
starsene ferma.
Proprio
quando finalmente Mila chiuse la bocca e smise di lamentarsi, la voce
si sentì
di nuovo. Lei gli diede un’altra gomitata, stavolta con
urgenza, muovendosi
nervosa dietro di lui. «Cosa stai aspettando, Otabek? Andiamo
a vedere cosa sta
succedendo!»
Otabek
diede un colpo sul fianco di Astra con il tallone, spronandola verso la
fonte
del rumore; sembrava provenire dalla radura accanto la strada che
Otabek aveva
visto settimane prima. Girò l’angolo e
tirò le redini.
Di
fronte a lui, in mezzo alla piccola mezzaluna di alberi, nella luce
morente del
tardo pomeriggio, un gruppo di banditi, probabilmente gli stessi che
stavano seminando
il panico da qualche giorno a quella parte, aveva circondato quello che
sembrava essere un ragazzo poco più giovane di lui.
Non
ebbe tempo di guardarlo bene, distratto dai banditi che continuavano a
stringersi attorno a lui, ma notò il suo vestiario, troppo
elegante per essere
un semplice paesano come loro, inoltre la sua pelle chiara era segno di
una
vita vissuta lontano dal sole.
Mila
scese da Astra con un balzo e Otabek le fu subito dietro, sguainando la
sua spada
che Feliks gli aveva consigliato di portare sempre con sé.
Nonostante non gli
fosse mai servito fino a quel momento, Otabek si era allenato un
po’ con il
proprio capo e sapeva come maneggiare un’arma, quindi era
sicuro che se la
sarebbe cavata, il problema principale era il numero dei banditi; non
finì nemmeno
di pensarlo, che due di loro caddero a terra senza essere stati
apparentemente
toccati da nulla, inerti nella neve, lasciando gli altri due in piedi e
furiosi, ma non ebbe tempo di rifletterci su, perché uno dei
due rimasti lanciò
un grido di rabbia e caricò verso il ragazzo, la sua spada
macchiata di ruggine
che roteava con potenza e velocità, anche se la collera
rendeva la traiettoria
del colpo scomposta.
«Spostati
da lì, quello ti uccide!» Si ritrovò a
gridare in direzione del giovane. Questi
voltò la testa di scatto verso di lui: fu un secondo, ma al
suo volto dai
lineamenti fini si sovrappose un viso sfocato e bianco; quando Otabek
sbatté le
palpebre l’immagine era già scomparsa e il ragazzo
aveva fatto un balzo di
lato, evitando un fendente che se l’avesse colpito gli
avrebbe aperto lo
stomaco, la lama che sibilò proprio ad un soffio dal suo
addome. Fece altri due
passi indietro, si abbassò in posizione accovacciata e
tirò fuori da uno dei
suoi stivali uno stiletto argentato. Tornò in piedi
nell’arco di un battito di
ciglia, sollevando il proprio pugnale in posizione di difesa di fronte
al viso.
Lanciò uno sguardo verso Otabek e solo in quel momento egli
si accorse degli
occhi affilati e fieri del ragazzo. Non avevano nulla che invidiare a
quelli
dei soldati che vedeva alla taverna, e anzi brillavano con ancora
più ferocia.
Distratto
com’era, riuscì a parare un fendente del secondo
uomo solo perché Mila gli
gridò di stare attento. Alzò il braccio, con la
lama di taglio, che stridette e
provocò una pioggia di scintille mentre scivolava sul filo
dell’altra. L’uomo
grugnì, spingendo la propria arma contro la sua.
«Ce l’avevamo in pugno, quel
moccioso! Hai visto com’è vestito, di sicuro i
suoi genitori pagheranno una
bella somma per riaverlo. Possiamo dividere la ricompensa, che ne dici,
eh? A
te e a tua moglie farebbero comodo un po’ di soldi, si vede
da lontano un
miglio.» il fiato caldo dell’uomo soffiò
sulla faccia di Otabek. Un urlo
disumano risuonò nell’aria, e l’uomo
dovette riconoscere la voce del suo
compagno, perché si distrasse, cercando con lo sguardo la
causa di quel grido;
la sua distrazione permise ad Otabek di piantargli un piede sullo
stomaco,
calciando per toglierselo di dosso. L’uomo si rese conto
troppo tardi
dell’errore che aveva commesso e non fece in tempo a
riacquistare l’equilibrio
che Otabek ruotò la propria spada che scivolò,
gemendo contro la lama nemica, e
si incastrò sotto l’elsa. Otabek
applicò pressione su di essa, tanto da
obbligare l’altro a lasciare la presa, se non voleva
ritrovarsi con una mano
mozzata. La spada cadde a terra nella neve calpestata e dura e Otabek
la calciò
via verso Mila che la bloccò con la scarpa.
«Non
proporre mai più qualcosa del genere ad un
brav’uomo, bastardo.» sputò, prima
di colpirgli la testa con il tacco del proprio stivale in modo da
fargli
perdere i sensi.
Si
voltò verso dove aveva lasciato il ragazzo a vedersela con
l’altro bandito, e
li trovò ancora lì, solo che l’uomo
aveva l’intero corpo coperto di tagli più o
meno profondi e si teneva una mano stretta sull’addome. Il
suo sangue era schizzato
sul vestito impeccabile del suo avversario e Otabek avrebbe potuto
giurare che
quelle strane protuberanze mischiate alla neve ed al sangue fossero
dita umane.
Il
ragazzo non sembrava più aver bisogno di aiuto: si muoveva
tanto velocemente da
rendere impossibile prevedere i suoi movimenti e l’altro uomo
non aveva possibilità
di scampare a quei fendenti sottili e sempre più
ravvicinati. Otabek però
riuscì a vederlo, il modo in cui il suo giovane avversario
mosse il pugnale
d’argento tra le dita, stringendolo come un vero e proprio
coltello, e capì
stava preparando il colpo successivo, capì che sarebbe stato
per uccidere. Scattò
in avanti, colpendo l’uomo alla tempia con l’elsa
della propria spada e lo
osservò mentre crollava a terra, tra la neve ridotta a
fanghiglia, come i suoi
compari. L’odore acre e metallico del sangue gli fece salire
un conato di
vomito e Otabek si affrettò ad alzare lo sguardo sul
ragazzo; i loro occhi si
incrociarono per un secondo e gli parve che il tempo si fosse
rallentato, prima
che questi si inginocchiasse a ringuainare il pugnale e cominciasse a
correre
verso il bosco.
Otabek
si bloccò nei suoi passi, ma ciò non
fermò Mila, che urlando un “torna qui, non
siamo pericolosi!” si era lanciata
all’inseguimento, oltrepassando i primi
alberi e scomparendo in un fruscio di stoffa.
«Mila!»
Gridò allora. Non ci pensò neanche per un momento
prima di correrle dietro, con
un ultimo sguardo sconsolato ad Astra, che nitriva spaventata.
Il
bosco era fitto, ed il suolo era coperto di arbusti secchi che si
impigliavano
ai suoi pantaloni, strappandoli, graffiandogli la pelle, gli
artigliavano le
membra, come avide mani. Tutt’intorno gli pareva sempre
uguale, le scarpe
scivolavano sulla terra congelata, mentre Otabek ricercava la luce tra
i rami
mezzi spogli che si innalzavano verso il cielo, dita scheletriche ed
ingioiellate
di stalattiti e brina, in cerca di qualche segno distintivo che gli
facesse
capire se fosse già passato da un certo punto o meno.
Continuava a urlare il
nome di Mila fino a sentire il sapore del sangue nella gola e a volte
sentiva
la voce di lei chiamarlo a sua volta, ma non riusciva a capire da dove
provenisse, era come se stesse girando su se stesso, anche se non aveva
fatto
altro che andare avanti.
«MILA!»
provò un’altra volta. Un senso
d’impotenza si faceva strada in lui, unito alla
paura e alla consapevolezza che non ci sarebbe stata via
d’uscita, alla rabbia
perché non solo non era riuscito a salvare il ragazzo, ma
anche perché aveva
trascinato la sua amica in quel suicidio.
Presto
il sole era scomparse dietro le montagne ed il buio ricoprì
ogni cosa, il cielo
scuro e macchiato di stelle sembrava crepato dai lunghi rami degli
alberi che
vi si stagliavano contro.
«Cazzo…
CAZZO!» imprecò, tirando un pugno
all’albero più vicino, e scoprendo che il
dolore lo aiutava a pensare più lucidamente, anche se
continuava a non avere
uno straccio di idea su come fare a uscire da lì.
Continuò
a vagare senza meta, le gambe che cedevano sotto il suo peso, le sue
grida
ridotte a semplici sussurri senza forza, fino a quando non si
lasciò andare in
ginocchio sul terreno duro e freddo. Ringhiò, prese a pugni
la terra, mentre i
rami secchi gli si conficcavano nelle nocche, ormai scorticate, poi
alzò lo
sguardo di fronte a sé, sperando di trovare qualcosa, qualunque
cosa che
potesse aiutarlo.
Fu
allora che si accorse di una sagoma che si muoveva
nell’ombra. Scattò in piedi,
portando una mano sull’elsa. «Mila?»
provò, nessuna risposta. «Chi sei?»
provò
ancora, ma nemmeno questa volta ottenne niente. La sagoma si mosse,
correndo di
lato e lui scattò dietro di lei. «Chi sei? Fatti
vedere!» e continuò a chiamare
e gridare, perché seguire quella sagoma era
l’unica cosa che poteva fare in
quel momento.
«Otabek!?»
Sentì urlare da qualche parte nel bosco. La sua mente
formulò una sola parola: Mila!
E gridò ancora più forte; questa volta
però, la voce non girava intorno,
non cambiava direzione, così Otabek decise di provare.
«Mila!
Se mi senti, continua a chiamarmi e sta ferma!» Le
intimò, sperando che lei
l’avesse sentito.
Quando
avvertì il cambiamento nelle urla della ragazza, seppe che
aveva capito: se
prima erano distrutte dalla consapevolezza di star gridando invano,
adesso
invece erano speranzose, più forti, più potenti,
e soprattutto sempre più
vicine.
Quando
la vide, voltata di spalle, con le braccia strette al corpo e il busto
piegato
in avanti gli venne quasi da piangere per il sollievo. «Mila!
Mila, sono qui!»
Esclamò, senza riuscire a far nient’altro che
aprire le proprie braccia per
accoglierla quando gli corse incontro.
«Otabek.»
singhiozzò lei, strofinando la guancia contro il suo collo.
«Otabek.»
Le
accarezzò i capelli, stringendola più che poteva.
«Dobbiamo uscire di qui.» le
sussurrò e la sentì annuire, prima di esalare un
debole. «Ma come?»
Stava
per scuotere la testa, perché il fatto di essersi ritrovati
non significava che
fossero in salvo, quando tra i tronchi degli alberi intravide di nuovo
la
sagoma. Trattenne il respiro, per non spaventare Mila, ma le strinse
una mano,
alzandole la testa con l’altra, il palmo che le stringeva la
guancia. «Mila,
Mila ascoltami, adesso devi fidarti di me, va bene? Non lasciare mai la
mia
mano, tieniti con tutte e due se vuoi, aggrappati al mio braccio, ma
non
lasciarmi andare per nessun motivo, capito? Per nessun
motivo.» lei cacciò
indietro le lacrime e annuì, muovendo la mano nella sua, in
modo da stringerla
forte, gli sorrise stanca, ma determinata.
Otabek
prese un profondo sospiro e alzò di nuovo lo sguardo di
fronte a sé, la figura
era ancora lì, nascosta nell’ombra, ma non gli
sembrava più minacciosa come
prima. Se non l’avesse aiutato a trovare Mila non si sarebbe
fidato, però era
la sua unica speranza e non importava nient’altro.
Cominciò
a camminare piano, stando attento a che Mila non rimanesse indietro;
gli parve
di camminare per miglia e miglia, non pensava di essersi addentrato
così tanto
nel bosco, ma quando alla fine le sue orecchie captarono il nitrito di
un
cavallo e i suoi occhi distinsero la lieve luminosità del
cielo stellato, seppe
che erano finalmente arrivati.
Accelerò
il passo, esortando Mila a fare lo stesso, e non appena
superò il confine del
bosco e i suoi polmoni si riempirono dell’aria fresca
notturna e una risata
incontrollata gli proruppe dalla labbra. Si lasciò andare,
cadendo per terra e
trascinando Mila con sé.
Rimasero
distesi l’uno accanto all’altra per un tempo
indefinito, mentre Astra nitriva e
scalpitava, in preda alla loro stessa felicità.
L’adrenalina
gli scorse via dalle vene e venne rimpiazzata da
un’improvvisa e confortante
stanchezza.
Dopo
parecchi minuti, quando anche le lacrime di gioia si furono asciugate
sul suo
volto, Mila gli fece accorse che i corpi dei banditi non
c’erano più e che
anche i materiali per Feliks erano spariti. Otabek sentì una
nuova rabbia
montargli dentro: era tutta colpa di quegli individui se erano finiti
in quella
situazione e si sentì ancora peggio, quando capì
che non era riuscito a salvare
quel ragazzo dagli occhi fieri. Era già la seconda persona
che perdeva in
quella foresta e lo faceva sentire così… inetto.
«Possiamo
dire di essere stati aggrediti. Voglio dire, abbiamo
l’aspetto di due persone
scampate alla morte per puro caso.» Otabek non voleva dirle
che era proprio
così. «Non ci crederebbe nessuno, se raccontassimo
quello che è successo lì
dentro.» mormorò lei.
Otabek
la guardò, e Mila capì. «Scusa se ti ho
detto che non era vero. Non so cosa sia
successo nel bosco, ma di sicuro non è qualcosa di normale.
Non so ancora come
tu abbia fatto a farci uscire di lì.»
sospirò, montando in sella dietro di lui
e appoggiandosi alla sua
schiena.
«Non
lo so neanche io.» esalò gettando un ultimo
sguardo al fitto della selva, prima
di spronare Astra verso il paese.
Quando
arrivarono, a sera inoltrata, Feliks non ne fu contento, ma credette ad
entrambi quando gli raccontarono di essere stati attaccati e Otabek non
ebbe
ripercussioni sul proprio lavoro.
Scivolò
in un sonno inquieto non appena posò la testa sul cuscino,
sfiancato da tutte
le emozioni che aveva provato, sognando ombre e grida, sangue mischiato
al
fango e alla neve e due occhi affilati, verdi, fieri come quelli di un
soldato.
Note
finali:
Ed
ecco il primo capitolo!
In
realtà avrei dovuto pubblicarlo sabato pomeriggio, ma so
già che non ne avrei
avuto il tempo, quindi ve lo beccate all’una di notte! Evviva
i ritmi sani
Ne
approfitto anche per dire che, salvo imprevisti, gli aggiornamenti
dovrebbero
essere sempre durante il fine settimana, perché è
l’unico momento in cui mi
posso mettere seriamente a sistemare i capitoli T_T
Bene,
la storia sta cominciando a prendere forma! Vengono introdotti alcuni
dei nuovi
personaggi, tra cui Mila.
Parliamo
un attimo di Mila! Nonostante possa sembrare, ci
tengo a dire che non ci sarà alcun triangolo amoroso
perché, oltre a non sapere
davvero come gestirli, non sono elementi narrativi che mi entusiasmano
più di
tanto. Mila e Otabek (tolta la prima sera in cui si sono conosciuti)
non hanno
mai avuto e non avranno interazioni romantiche, sono semplici amici e
lo sono
perché io adoro tanto Mila e volevo
inserirla nella storia (quindi non
insultate la mia bambina, ok? Ok). Avrà anche un ruolo
importante più avanti!
Per
quanto riguarda il resto dei personaggi, abbiamo un
cameo di Georgij, perché anche lui riceve poco amore, e
Feliks, proprietario
della fucina e capo di Otabek. E penso si capisca benissimo chi sia la
figura
che Otabek vede nei pressi del bosco entrambe le volte ;)
Mi
sono divertita tanto a descrivere le ambientazioni di
questo capitolo, perché dopo tutti i libri con ambientazione
medievale che ho
letto, ho finalmente avuto la possibilità di utilizzare le
cose che ho imparato
u.u e spero di essere riuscita nell’intento di rendere al
meglio l’atmosfera
del paese e della fucina dove lavora Otabek!
Concludo
con il ringraziare chiunque abbia letto, e spero
mi vorrete lasciare un commento su cosa ne pensate della storia fino ad
ora,
magari sui personaggi (se sono o meno IC, ad esempio) o su cosa pensate
succederà nei prossimi capitoli!
Un
grazie speciale va a Silvar
Tales che
ha recensito il prologo, e come sempre alla mia
beta _Lady
di
inchiostro_
LysL
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