11. Don't ask questions you don't
want to know the answer to
Il giorno successivo a quello in cui avevo avuto la malsana idea di
saltare la scuola per fare una gita con Patterson entrai a scuola con
due occhiaie che mi arrivavano fino ai piedi: avevo dormito male e mi
ero dovuta alzare molto presto per prendere l’autobus.
Perciò quando Dave mi accolse, festante e incuriosito dalla
mia sparizione del lunedì, io non avevo molta voglia di
scherzare. Rimasi sul vago, come avevo fatto la sera prima con Audrey,
gli dissi che avevo sentito il bisogno di stare per conto mio e che ero
stata in un maneggio.
“Come ci sei andata, dato che il tuo motorino era qui fuori
stamattina?”
Dave era dannatamente attento ai dettagli, lo sapevo che mentire a lui
sarebbe stato più difficile. Che poi tecnicamente non stavo
mentendo, stavo giusto omettendo
dei particolari non molto rilevanti.
“In autobus,” borbottai senza troppa convinzione.
Il mio amico mi guardò sospettoso, ma decise di non
infierire oltre. Sapeva che non gli mentivo spesso, ma sapeva anche che
quando lo facevo era per un buon motivo e che, in quel caso, avevo
bisogno di tempo per decidere di dire tutta la verità.
“Stai meglio oggi, Deels?”
Annuii, sollevata dal cambio d’argomento. Ed era vero: tolti
i problemi che mi ero creata con Patterson il
giorno precedente, per il resto non mi sentivo più
appesantita come quando avevo scoperto la scritta sul mio armadietto.
Il quale, lo vidi poco dopo, era stato coperto con un pezzo di cartone
nell’attesa che venisse sostituito lo sportello.
Il passaggio successivo fu mettere in atto il piano di vendetta nei
confronti di Thomas Petrovic. Era molto semplice: lui aveva messo in
giro delle voci false e volgari su di me e io avrei messo in giro delle
voci false e imbarazzanti su di lui. Era una cosa talmente stupida e
infantile che quasi mi vergognavo, ma per com’ero fatta non
potevo permettere che quell’idiota continuasse a fare il
bello e il cattivo tempo a scuola.
Nel giro di una mattinata, grazie soprattutto all’aiuto di
Audrey e alle conoscenze di Dave, mezza scuola sapeva che tra me e
Petrovic non era successo niente sotto alle gradinate, ma solo
perché lui aveva dei problemi meccanici lì sotto.
In poche parole, che non riusciva ad avere un’erezione.
Un’idea cretina, sì, ma ci facemmo tante di quelle
risate a mettere in giro quella voce che valse la pena di farlo solo
per il nostro divertimento.
Dopo pranzo, quando pensavo di potermi finalmente mettere
l’anima in pace, venni fermata in corridoio da Nathan Wilde,
l’amico e compagno di squadra di Petrovic con cui ero uscita
un paio di volte l’anno precedente. In quel momento ero sola
e non riuscii a evitarlo, per quanto ci provai.
“Gray,” mi chiamò Wilde mentre mi
muovevo dalla mensa alla biblioteca, dove dovevo restituire un libro
che avevo preso in prestito.
Lo guardai di striscio e, appena lo riconobbi, lo ignorai e accelerai
il passo.
“Ehi, Delia, aspettami.”
Non mi fermai, ma lui riuscì ovviamente a raggiungermi lo
stesso e a mettersi al mio fianco.
“Che vuoi, Wilde?” gli domandai poco gentile.
Forse non avevo motivi per avercela anche con lui, ma era
pappa-e-ciccia con Petrovic e questo mi bastava a considerarlo, nella
mia
testa, colpevole quasi quanto questo. Inoltre le falsità
messe
in giro sul mio conto comprendevano anche Wilde, che era conteggiato
tra le innumerevoli persone con cui, in teoria, ero andata a letto,
eppure non era successo nulla di simile tra di noi in quel breve
periodo in cui eravamo usciti.
Nathan continuò a seguirmi. “Volevo…
vorrei parlarti di quello che è successo.”
“Detta così è un po’ vaga la
questione, non credi?”
Lui mi toccò un braccio con delicatezza, nel tentativo di
non farmi proseguire. “Delia, ti prego, ascolta.”
Sospirai, fermandomi appena fuori dalla porta della biblioteca,
poiché sapevo che se fossimo entrati non avremmo
più potuto dire una parola: il signor Bellamy, il
bibliotecario, non transigeva al riguardo.
“Ti ha mandato Petrovic?” domandai a Nathan, che
sembrava essere vagamente sulle spine.
Lui fece una faccia stupita, come se non si aspettasse quella domanda.
“No, perché?”
“Non so, avete delle usanze particolari qui,”
bofonchiai, ripensando alle due volte in cui ero stata minacciata da
ragazze che difendevano l’amichetta del cuore.
Wilde scosse la testa. “Non avrebbe senso.”
“Dimmi che c’è, allora,”
cercai di tagliare corto, senza adoperare un briciolo di cortesia in
più rispetto a prima.
“Mi dispiace per… Beh, per quello che è
successo,” mormorò lui, guardandosi la punta delle
scarpe.
“Ti stai scusando per Petrovic?” chiesi di nuovo,
dal momento che non riuscivo a capire il punto.
“Ancora? No, io e Petey siamo due entità separate,
credimi.”
“Da come ve ne andate in giro sempre insieme non si
direbbe,” commentai sprezzante.
Non era del tutto vero, ma non avevo intenzione di rendere a Wilde le
cose più semplici: lui e Petrovic erano compagni di squadra
e, sì, erano anche amici, ma non erano sempre assieme e mi
sembrava che fuori da scuola frequentassero compagnie diverse.
“Tom è stato un coglione e so che le cattiverie
che ha messo in giro su di te non sono vere. Ma non verrà
mai a chiederti scusa.”
Alzai le sopracciglia, colpita. “Immagino di no.”
Nate aveva finalmente alzato la testa, cominciando a guardarmi.
“Ma io sono qui per la parte che riguarda me. Non
è giusto che girino quelle voci,
perché… Insomma, non è successo niente
di che tra di noi, l’anno scorso.”
“Ah, meno male che me lo dici tu. Stavo cominciando a pensare
di avere l’Alzheimer,” borbottai, stavolta usando
un tono più ironico e divertito che cattivo.
Wilde sorrise, prima di ricominciare con le spiegazioni.
“Quando frequenti uno spogliatoio come il nostro, certe
notizie girano. A volte sono vere, a volte sono pompate. Non ho messo
in giro io le voci su di te e non le ho alimentate, ma non ho fatto
niente per smentirle, e in questo ho sbagliato.”
Lo guardai seria. “Sì, hai sbagliato.”
“Mi dispiace,” continuò lui.
“Farò quello che posso per aiutarti a far sparire
quelle dicerie, io…”
Lo interruppi, vedendolo in difficoltà. “Nate, non
fa niente. Hai fatto errori ben più gravi. Tipo essere amico
di Petrovic.”
Lui sorrise di nuovo e si grattò la nuca. “Ci ho
appena litigato, sai. Credo che abbia esagerato stavolta.”
Mio malgrado, fui colpita dal suo parlarmi in modo così
sincero e diretto, così mi ritrovai senza parole per qualche
secondo. Nate alzò le spalle e approfittò del mio
mutismo per cominciare a congedarsi.
“Ecco, quello che dovevo dire te l’ho detto. Se
posso fare qualcosa per…”
Non riuscì a terminare la frase che la porta davanti alla
quale eravamo si aprì e ci trovammo davanti il volto serio
del bibliotecario.
“Vi sembra forse il posto dove mettersi a chiacchierare del
più e del meno?” domandò con voce bassa
ma rabbiosa, indicando il cartello che, già fuori dalla
porta, intimava a fare silenzio.
“Scusi, professore,” mi uscì detto prima
di riuscire a trattenermi, e Nathan tossì per camuffare una
mezza risata.
Bellamy mi squadrò severo, cercando di capire se lo stessi
prendendo in giro. “Non sono un professore. E ora entrate in
silenzio o spostatevi da qui.”
Feci un cenno con la mano a Wilde per dirgli che entravo in biblioteca,
lui sembrava intenzionato ad aggiungere qualcosa al discorso, ma
l’occhiataccia di Bellamy lo bloccò, quindi mi
salutò con un sorriso e si allontanò.
Per le successive due settimane le voci su me e Petrovic continuarono a
rincorrersi per i corridoi della scuola, finché non vennero
sostituite da qualcosa di più succoso e più
nuovo, nella fattispecie la liaison tra Melanie Frayer,
un’ochetta del nostro anno, e un ragazzo ultratrentenne, il
fratello della sua migliore amica. Avevo smesso di ascoltare i
pettegolezzi a scuola da quando avevo capito che spesso non avevano
alcun fondamento di verità, ma in quel caso ne approfittai
per calcare la mano, un po’ scherzosamente un po’
no, con Jude. Quando Audrey tirò fuori l’argomento
a tavola mi ritrovai a sorridere soddisfatta.
“Hai sentito, Judes?” trillai, guardando la mia
amica, che sembrava non aver capito dove volessi andare a parare.
“Non sono troppo piccola per Kerr, puoi ancora mettere una
buona parola per me.”
Lei roteò gli occhi. “Oddio, Delia, non
ricominciare.”
La cotta per suo fratello, anche se superficiale e poco seria, non mi
era mai passata del tutto.
“Beh, se la Frayer se la fa col fratello trentaduenne della
Jerkins, cosa vuoi che sia la differenza d’età tra
me e Kerr? Ha solo… Quanti anni ha? Ventidue?”
“Ventitré,” specificò lei.
“E non è quello il problema, mi rifiuto di vedervi
insieme, è mio fratello! Non credo che la Jerkins sia
contenta del casino che è scoppiato tra la sua migliore
amica e suo fratello.”
Sospirai, affranta. “Il nostro è un amore
impossibile, tu ci metterai sempre i bastoni tra le ruote.”
“Il vostro non
è un amore. Kerr sa a malapena che
esisti,” mi corresse Jude senza cattiveria. “E ti
ho già detto che sta con una ragazza, adesso.”
“Sottigliezze,” sbuffai, sventolando una mano.
In quel momento arrivò Patterson e mi resi conto, con un
piccolo sobbalzo del mio stomaco, che l’unico posto rimasto
libero al nostro tavolo era di fronte a me. Anche lui se ne accorse, ma
non sembrò preoccuparsene e appoggiò
lì il proprio vassoio salutando tutti. Per fortuna avevo
quasi finito, reggere tutto il pranzo costretta a guardare Patterson e
magari a parlare con lui era impensabile. Finii in due bocconi la mia
verdura, mi infilai la mela in borsa intenzionata a mangiarla dopo e mi
alzai in tutta fretta, con la scusa di dover andare in bagno. Gli altri
non dissero niente, ma vidi David radiografarmi con un lungo sguardo
indagatore che non lasciava presagire nulla di buono.
Mentre mi allontanavo dalla mensa lanciai una maledizione a Patterson e
alla giornata al maneggio che avevamo condiviso, compreso quel momento
imbarazzante in cui avevo pensato che mi baciasse, che era il vero
motivo per cui ultimamente mi ritrovavo a evitare la sua presenza con
più tenacia del solito, a volte anche in modo inconscio.
Quando mi ero trovata obbligata a parlare con lui, d’altro
canto, le cose non erano andate meglio e tutti, amici e non, si erano
accorti di quanto il mio odio nei suoi confronti fosse, se possibile,
aumentato: gli rispondevo in maniera tagliente e quasi sempre
monosillabica, sbuffavo alle sue battute, anche quelle che in
un’altra situazione mi avrebbero fatto ridere, e trovavo
qualsiasi suo atteggiamento insopportabile.
Sapevo che David se n’era accorto, tanto che una volta aveva
anche tentato di chiedermi spiegazioni, ma io avevo liquidato il tutto
rispondendo che avevo sempre odiato Patterson e dicendo che le sue
erano solo paranoie. Proprio a causa di Dave e del suo occhio lungo,
comunque, avevo deciso di provare a essere meno esplicita nelle mie
manifestazioni d’odio e mi ero ritrovata a cercare di evitare
Matt il più possibile: perciò si spiegavano le
varie fughe che intraprendevo nel momento in cui mi trovavo nelle sue
vicinanze, compresa quella appena avvenuta.
Alla fine andai davvero in bagno e poi mi ritrovai da sola senza sapere
cosa fare. Decisi quindi di andare in giardino: era appena iniziato
ottobre e fuori c’era il sole, a quell’ora potevo
permettermi un po’ di relax all’esterno. Mi tolsi
il giubbino in jeans e lo appoggiai per terra per sedermici sopra,
estrassi dalla tracolla un libro e la mela che cominciai a
sgranocchiare mentre sfogliavo senza troppa attenzione le pagine.
“Ehi.”
Era ovvio che non potevo pretendere di stare in pace per sempre, ma
speravo di avere almeno cinque minuti prima di venire raggiunta da uno
dei miei amici. Alzai gli occhi sulla persona in piedi di fronte a me
e, a causa del sole che batteva proprio alle sue spalle, ci misi
qualche secondo a riconoscerne la figura: Nathan Wilde.
Lo salutai con un sorriso e lui prese posto sull’erba accanto
a me, incoraggiato dall’aria rilassata che avevo assunto
quando avevo capito che si trattava di lui.
“Come va?” mi chiese mentre io appoggiavo il libro
e incrociavo le gambe voltandomi per guardarlo.
“Tutto okay,” risposi, senza perdermi in dettagli.
“Tu? Hai fatto pace con il tuo amichetto?”
Lui scosse la testa, fingendo di non cogliere la mia frecciatina su
Petrovic. “Ci limitiamo a dei rapporti piuttosto freddini
ultimamente.”
Lo sapevo, l’avevo già notato: vedere Nathan Wilde
e Tom Petrovic che si ignoravano in maniera palese non era una cosa che
capitava spesso, tanto che a scuola le ipotesi al riguardo si
sprecavano. C’era chi diceva che avessero litigato
perché erano innamorati della stessa ragazza e chi giurava
che fosse un problema riguardante il football, ma forse io ero uno
delle pochissime persone che sapevano come fossero andate davvero le
cose.
“Mi spiace che abbiate litigato a causa mia,” gli
dissi quindi, spinta da un improvviso senso di colpa che, in
realtà, non aveva motivo di esistere.
Nate sorrise. “Non è colpa tua, è stato
lui ad aver sbagliato per primo. E comunque prima o poi avremmo rotto
comunque, il suo atteggiamento stava iniziando a darmi seriamente sui
nervi.”
“Che atteggiamento?” chiesi, anche se non mi
risultava difficile capire che cosa intendesse.
“Il suo modo di fare con le ragazze, con gli altri della
squadra, in generale con le persone. Petey è convinto che
tutto gli sia dovuto e di poter fare sempre quello che gli pare, senza
curarsi di niente e nessuno. Ha già litigato con diversi
nostri amici per questo, anche se la maggior parte della squadra lo
vede come un semidio e non gli si rivolterebbe mai contro.”
Udito ciò, incuriosita, non riuscii a trattenermi dal fargli
un’ulteriore domanda. “Se la pensavi
così su di lui, perché eri ancora suo
amico?”
Nathan alzò le spalle. “Tom non è male
come compagnia. È viziato ed egocentrico, è vero,
ma è spiritoso e in squadra riesce sempre a tenere alto il
morale. Non era il mio migliore amico, ma mi sono sempre divertito in
sua compagnia. L’ho visto fare diverse scorrettezze ad altre
persone, ma non pensavo potesse essere così meschino anche
nei miei confronti.”
A quel punto ero davvero confusa. “In che senso?”
Lui aggrottò le sopracciglia, tornando a guardarmi come se
fino a quel momento fosse stato quasi sovrappensiero. “In che
senso cosa?”
“Hai detto che è stato meschino nei tuoi
confronti, ma mi pare che la scorrettezza l’abbia fatta
più che altro a me,” spiegai indicandomi con un
pollice. “Non per essere megalomane,” specificai
poi con un sorriso.
“Sì, certo che la scorrettezza l’ha
fatta a te ma… Intendevo prima che… Mi sono
trovato anch’io lì mentre… Beh,
insomma, hai capito, no?”
“In realtà no.”
Nathan sembrava vagamente nel panico. “Non… non
è che avessi previsto di dirtelo, ma… Dio, che
idiota che sono,” sbuffò, passandosi una mano tra
i capelli scuri.
“Posso sapere pure io di cosa stai parlando o devo continuare
a rimanere ignara?”
Lui mi fissò indeciso, prima di distogliere lo sguardo, in
evidente imbarazzo. “Ho litigato con Petey per come si era
comportato con te, ma ero già offeso con lui da
prima.” Fece una pausa. “Da quando ti ha
chiesto di uscire. Con me lì presente.”
Aprii la bocca e la richiusi a vuoto prima di decidermi a parlare.
“Perché?”
Nate mi fissò come se fossi tonta.
“Perché io e te eravamo usciti e… era
rimasto qualcosa in sospeso.”
Non sapevo come rispondere. Non avevo mai pensato che tra noi fosse
rimasto qualcosa in sospeso, eravamo usciti giusto un paio di volte
l’anno precedente, in un periodo in cui mi ero trovata a
frequentare diversi ragazzi, anche se mai in contemporanea. Dopo averlo
baciato mi ero resa conto che non era scattato niente tra di noi,
almeno così credevo, e avevamo smesso di vederci. Ero stata
piuttosto scostante coi ragazzi in quel periodo, anche più
di quanto lo fossi di solito, ma non mi pareva di aver ferito nessuno.
Forse mi sbagliavo.
Wilde notò il mio mutismo e intervenne per togliermi
dall’impiccio. “Non capivo cosa non fosse andato,
io mi ero trovato bene con te. Avrei voluto chiederti un altro
appuntamento, magari organizzare qualcosa di più carino, ma
poco dopo uscivi con Todd e ho lasciato perdere.”
“Mi dispiace, io…”
Lui mi bloccò subito. “Non ti preoccupare. Quello
che intendevo dire è che Petey sapeva tutto e non si
è comunque trattenuto dal provarci con te. Non era niente di
che, ma ci sono rimasto un po’ così.”
Di nuovo mi ritrovai senza parole e di nuovo fu Nate a parlare per
primo.
“Se non dici niente mi preoccupi,”
borbottò, e percepii una nota di inquietudine nella sua voce.
“Scusa, è che… io queste cose non le
noto mai. Sono stata una cretina.”
Lui mi sorrise, rassicurante. “Non ti devi scusare, tu non
hai fatto niente di male.”
Presi aria a pieni polmoni, accorgendomi di avere il battito
leggermente accelerato, per la sorpresa e per l’agitazione.
“Mi dispiace comunque se ho fatto qualcosa che ti ha
ferito.”
Il sorriso di Wilde si fece amaro, mi parve, e poco dopo lui era in
piedi pronto ad andarsene. “Non volevo dirti queste cose.
Lasciamo perdere, va bene? Fa’ come se non ti avessi
raccontato nulla, preferivo quando mi prendevi in giro.”
“Nathan, non…”
“Ci si vede in giro,” mormorò appena
prima di voltarsi per dirigersi verso la scuola.
Sentii un misto di tenerezza e urgenza premermi alla bocca dello
stomaco e, spinta da non so quale istinto primordiale, mi alzai per
raggiungere Nate, che si dirigeva a passi svelti verso
l’ingresso della scuola.
“Ehi, fermati!” esclamai, notando che non riuscivo
a raggiungerlo così facilmente.
Certo, è un
giocatore di football e tu sei una nanetta, Dee,
cosa ti aspettavi? disse la mia voce interiore con una
sfumatura
fastidiosamente sarcastica.
“Nate!” lo chiamai di nuovo, e stavolta si
voltò.
Per lo stupore mi fermai sul posto pure io, ancora distante qualche
passo da lui, e mi ammutolii.
“Senti, non importa. Stavolta sono io che ho parlato troppo,
okay?”
“Cosa vorresti insinuare?” replicai, e nel dirlo mi
scappò un sorriso che, poco dopo, contagiò anche
le labbra di lui.
Alzò le mani, come per giustificarsi.
“Assolutamente niente.”
“Come no. Farò finta di non aver
sentito,” affermai allora.
Dalla sua espressione e dal sorriso che continuava a dipingergli il
volto, capii che aveva compreso cosa intendevo, così mi
buttai.
“Ti va se usciamo uno dei prossimi giorni?” chiesi
tutto d’un fiato.
Lo colsi di sorpresa. “Non devi, io… Non credevo
ti sentissi in dovere di…”
“Non è che devo, mi va. Non ci vedo niente di
male.”
Nate si morse l’interno della guancia, indeciso.
“Penso che si possa fare.”
“Okay,” feci io.
“Okay,” ripeté stupidamente lui.
Ci fermammo, restando in silenzio per qualche secondo. Alla fine,
almeno quella volta, fui io a rompere la situazione di stallo.
“Vado a recuperare la mia roba,” dissi, indicando
la borsa ancora appoggiata in mezzo al cortile.
Lui annuì. “Io devo ancora pranzare, dovrei andare
in mensa. Tu hai già…?”
“Sì.”
“Certo, allora…”
“Ci mettiamo d’accordo nei prossimi giorni, va
bene? Magari per il weekend.”
Nate annuì di nuovo, sorrise e si congedò con un
cenno della mano prima di voltarsi ed entrare nell’edificio.
Rimasi ferma ancora qualche secondo, poi tornai a leggere il libro che
avevo abbandonato per fare quella strana chiacchierata con Wilde.
Trovavo assurdo ciò che era appena successo e, come al
solito, ci rimuginai parecchio su, ma una cosa molto più
assurda mi accadde poco dopo. Quando mancavano una ventina di minuti
all’inizio delle lezioni, decisi di alzarmi e raggiungere
l’aula di Letteratura per vedere se qualcuno dei miei amici
era già lì; una volta in corridoio vidi, in
lontananza, la figura di Matt Patterson che camminava nella mia
direzione. Senza pensarci due volte mi infilai nella prima porta che
trovai alla mia sinistra, quella dell’aula “delle
punizioni”, dove non c’era quasi mai nessuno. Ero
sicura che Patterson non mi avesse visto e che avesse tirato dritto per
la sua strada, perciò ebbi un sussulto ancora più
grosso nel momento in cui, pochi secondi dopo, la porta si
aprì ed entrò proprio lui. Dallo spavento mi
cadde per terra la borsa che stavo appoggiando su di un banco in quel
preciso istante.
“Nervosetta?” mi domandò infatti Matt
con un tono irriverente nella voce.
Raccolsi la borsa e tentai di fuggire. “No, ma devo aver
sbagliato aula, mi sa. Avrei il corso supplementare di Letteratura
adesso, credo che dovrei andare.”
Patterson fece un passo di lato per posizionarsi esattamente tra me e
la porta, lanciandomi al contempo un’occhiata eloquente.
“Manca almeno un quarto d’ora all’inizio
della lezione.”
“Volevo prendere posto,” biascicai tentando
un’ultima scusa.
“È un corso facoltativo, non credo ci sia il
pienone.”
“Ma Audrey mi ha chiesto se potevo…”
Lui mi interruppe con secchezza. “Gray, è
ridicolo. Quanto vuoi andare avanti?”
Non mi aspettavo che andasse dritto al punto, non era da lui, ma
indietreggiare in quel momento avrebbe significato dargliela vinta e
non ero pronta a farlo.
Tentennai solo per un secondo. “A fare cosa?”
domandai infine, con la mia solita faccia tosta.
Matt non si lasciò ingannare. “Non è
mia abitudine chiedere spiegazioni e normalmente non ti avrei teso
un’imboscata in un’aula vuota,” ammise,
senza distogliere neanche per un attimo gli occhi dai miei.
“Allora lasciami in pace,” borbottai, la voce
già meno sicura di prima.
Lui mi ignorò. “Ma mi stai trattando di merda da
quando…” Si interruppe, forse indeciso su come
continuare la frase senza farla diventare compromettente. “Da
quando siamo stati al maneggio,” decise infine. “E
voglio sapere se è per qualcosa che ho fatto.”
O per qualcosa che non hai fatto, lo
corresse in automatico il mio
cervello.
Mi maledissi mentalmente, ma mi impedii con veemenza di pensare al vero
significato che avevano quelle parole. Invece, cercai di mettere su
un’espressione neutra per rispondere a Patterson, che
continuava a guardarmi in attesa.
“Non è per qualcosa che hai fatto, mi stavi sulle
palle già da prima,” dissi, con troppa acredine
per risultare del tutto credibile.
“Mi sembrava avessimo fatto pace da tempo.”
Sbuffai. “Un po’ meno di così,
principino.”
Lui sorrise saputo e mi si avvicinò di un paio di passi,
come per mettermi alla prova. “Quindi non è
successo niente di strano tra di noi?”
“Quando?”
“Al maneggio.”
“No, niente.”
“Bene.”
“Perché lo chiedi?” domandai fingendo
noncuranza, mentre il cuore mi martellava insistentemente in gola.
Fece spallucce e si avvicinò di un altro passo,
costringendomi ad alzare ancora il viso per continuare a guardarlo
negli occhi.
“Così, per essere sicuro,” rispose con
il mio stesso finto disinteresse.
Era diventata una gara a chi avrebbe ceduto prima e sapevo di non avere
dei nervi perfettamente saldi come quelli di lui. Così, dal
nulla, sparai la prima cosa che mi passò per la testa, o
almeno la cosa che pensavo potesse allontanarlo da me in quel momento e
togliergli quell’atteggiamento sicuro e spavaldo che mi
innervosiva da morire.
“Sto uscendo con Nate. Nathan Wilde.”
Matt mi guardò inarcando le sopracciglia, sorpreso, ma non
si spostò di un millimetro. “Okay.”
“Da oggi. Cioè, ci esco stasera per la prima
volta. Anche se tecnicamente non è la prima volta, ci ero
già uscita l’anno scorso, in
realtà,” specificai, inventandomi un paio di
dettagli solo per risultare più credibile.
“Non ti ho chiesto niente, Gray.”
Si era allontanato di un paio di passi ed il suo tono era diventato
improvvisamente freddo: ero riuscita nel mio intento, anche se evitai
di analizzare il modo in cui l’avevo fatto, sennò
avrei dovuto pormi troppe domande scomode.
Mi sistemai la tracolla sulla spalla e mi schiarii la voce prima di
parlare di nuovo. “Posso andare ora?”
Matt si spostò di lato senza dire nulla e io lo superai, per
niente alleggerita, dirigendomi vero la porta dell’aula. Una
volta fuori tirai un sospiro di sollievo e continuai a camminare
finché, in corridoio, non notai Nathan che parlava con un
suo amico. Poiché non volevo ancora fermarmi, ma avevo anche
bisogno di scambiare due parole con lui, lo presi per una manica della
felpa e lo costrinsi a seguirmi in modo piuttosto rude.
“Ciao Robbie, te lo rubo un attimo,” mi premurai di
avvisare l’amico, che ghignò sotto i baffi e fece
un cenno di saluto con la mano.
“Mi accompagni in aula?” chiesi a Nate, lasciando
andare il suo braccio; continuai senza aspettare che mi rispondesse.
“Ti va bene se ci vediamo stasera? Sono libera.”
“Non avevi detto di aspettare il weekend?”
domandò lui confuso.
“Sì, ma ho cambiato idea.”
Nel giro di cinque minuti,
aggiunsi mentalmente, pensando che mi
avrebbe preso, a ragione, per pazza.
Nathan sembrava confuso, ma non mi contraddisse. “Va
bene,” decise infine, ancora poco convinto.
Eravamo giunti davanti alla porta dell’aula dove avrei dovuto
seguire la mia lezione di Letteratura, perciò mi fermai e
lui fece lo stesso, piazzandosi di fronte a me.
“Ti ricordi dove abito?” mi informai, nel tentativo
di riguadagnare una parvenza di sanità mentale ai suoi occhi.
Nate annuì, poi mi sorrise e piegò leggermente la
testa di lato, come se stesse pensando a qualcosa. “Andiamo
al cinema, ti va?”
Sorrisi di rimando anch’io, finalmente rilassata dalla sua
espressione tranquillizzante. “Basta che non mi porti a
vedere uno di quei film romanticoni e strappalacrime solo per fare
colpo su di me, non funzionerebbe.”
Lui ridacchiò, infine si avvicinò e mi diede un
bacio sulla guancia per salutarmi. “Come vuoi,”
mormorò prima di allontanarsi. “Passo a prenderti
alle sette e mezza. A stasera.”
Lo guardai allontanarsi e sospirai, infilandomi nell’aula
ancora semi vuota per paura di fare altri brutti incontri in corridoio.
Quella sera, mentre mi preparavo per uscire con Nathan, ero
più agitata del previsto. Forse era dovuto al fatto che il
mio ultimo vero appuntamento era stato quello disastroso con Petrovic,
o forse era perché, anche se ci ero già uscita,
Wilde mi piaceva davvero. Sembrava cresciuto dall’anno
precedente: fisicamente, certo, era più alto e
più carino, aveva di sicuro fatto palestra in quei mesi,
anche se continuava a sembrarmi troppo smilzo per giocare a football.
Ma, soprattutto, lo trovavo cresciuto in quanto a maturità,
ed era quello ciò che mi interessava davvero: già
il fatto di aver capito che Petey fosse un mentecatto superficiale e
borioso era una cosa che di per sé gli faceva onore. E poi
quando mi aveva confessato – circa – di avere una
mezza cotta per me era stato estremamente dolce e mi aveva sciolto
qualcosa dentro che non sentivo da molto tempo, per la precisione da
quando avevo iniziato a lasciarmi andare con Steve Teller.
Indossai una gonna in jeans e un maglioncino color lampone, mi truccai
e valutai di mettere le zeppe per diminuire il divario di altezza che
c’era tra me e Nate, ma alla fine optai per le sneakers nere:
meglio evitare troppi colori o accessori bizzarri, il ragazzo
già credeva che fossi mezza matta, e aveva le sue ragioni.
Mi guardai allo specchio per cinque minuti buoni prima di muovermi,
pensando che era dal prom che non cambiavo colore di capelli, che
quindi erano ancora neri e lunghi fin sotto le spalle, e che era giunto
il momento di farlo. Quasi mi innervosii per non essere andata dalla
parrucchiera la settimana prima, perché in realtà
era da qualche tempo che mi sentivo sulle spine, quasi agitata, e di
solito trasformavo la mia irrequietezza in un taglio e un colore nuovi.
Scossi la testa e mi smossi i capelli con le mani per movimentare le
onde che avevo creato con la piastra, poi presi la borsa, mi infilai la
giacca in pelle e uscii di casa per aspettare Nate seduta sui gradini
del portico.
“Pulcina, tutto bene?”
Mi girai e vidi la testa di mio padre spuntare dalla porta di casa, sul
volto un’espressione leggermente preoccupata.
“Sì, papà, perché?”
Avevo avvisato mia madre del fatto che sarei uscita, dando a lei il
compito di istruire papà. Per quanto si fosse pian piano
abituato e avesse dovuto capire che ormai ero cresciuta e che,
sì, frequentavo dei ragazzi, mio padre rimaneva sempre
abbastanza protettivo nei miei confronti.
“Che fai qui fuori a quest’ora?” chiese
infatti, facendosi più sospettoso.
“Ho un appuntamento, ho già detto tutto a
mamma.”
“Beh, cos’è questa storia?
Perché io non so niente? Adesso non mi racconti
più le cose? È un ragazzo nuovo o lo conosciamo
già?”
Sospirai, per niente stupita, e mi alzai per spingere mio padre in casa
e cercare di chiudergli la porta in faccia.
“Ci vediamo dopo, papi. Non faccio tardi. Ciao.”
Lui cercò di protestare, ma venne richiamato
all’ordine da mia madre che arrivò dal salotto in
quel momento e lo trascinò con sé in cucina.
Tornai sui miei passi, scesi i gradini della veranda e mi misi ad
aspettare in piedi sotto le scale, immaginando che Nate sarebbe
arrivato da un momento all’altro.
Avevo ragione: dopo un paio di minuti vidi un’auto blu in
fondo alla strada che rallentava, indecisa su dove fermarsi. Alzai un
braccio per farmi notare e la macchina mi giunse di fronte, accostando
sul ciglio della strada. Salii prima che Nate potesse uscire, convinta
che mio padre ci stesse osservando dalla finestra per carpire qualche
informazione sul mio appuntamento.
“Meno male che ti ricordavi dove abitavo,” esordii,
lanciando un sorriso a Nate, che rispose con una piccola smorfia.
“Mi pareva di ricordarmelo,” borbottò, e
sembrava essere in imbarazzo, cosa che me lo fece piacere ancora un
po’ di più.
“Non dovevamo andare al cinema?” gli domandai
quindi, notando che non stava prendendo la strada per il centro,
bensì quella per uscire da Winthrop.
“Sì, ma al Venice davano solo PS. I love you. A
occhio, a giudicare dal titolo, sembrava una melensaggine romantica.
Per trovare un multisala dovremmo andare fino a Boston, ma temo che
faremmo troppo tardi, quindi andiamo a Beachmont.”
“A fare cosa?”
“Al cinema, no?”
Mi resi conto che si era dovuto impegnare davvero per organizzare
quella piccola gita fuori porta, solo per non risultare banale nella
scelta del film.
“Non serviva andare fino a Beachmont, mi accontentavo di
qualsiasi cosa,” pigolai, sentendomi quasi in colpa.
“Tranquilla, lo faccio anche perché mi interessa
il film che andremo a vedere.”
“Qual è?”
“Lo scoprirai,” rispose, criptico.
“Basta che non sia Transformers,”
dissi, ricordando di
aver visto il trailer in televisione negli ultimi giorni.
Nate mise su una faccia allarmata. “Mi hai beccato.”
“Oddio, davvero? No, perché l’ho detto
così per dire, non è che…
Cioè, alla fine a me piace andare al cinema, guarderei
qualsiasi cosa, poi Transformers
avrà dei bellissimi effetti
speciali, vederlo al cinema dev’essere bello, ci sono un
milione di altri film che invece…” balbettai in
preda al panico, prima di accorgermi che Nathan al mio fianco stava
ridacchiando di gusto. “Mi stavi prendendo in giro?”
“Solo un poco.”
“Sei un maledetto,” bofonchiai, incrociando le
braccia al petto.
“Mi farò perdonare. Zodiac. A Beachmont
fanno
Zodiac.”
“Mmmh,” mugolai cogitabonda, prima di saltare sul
sedile emozionata, capendo di che film stesse parlando. “Oh!
È quello con quel figo fotonico di Jake
Gyllenhaal?”
“Esatto.”
“Mio dio, io lo amo alla follia! In Brokeback Mountain,
poi,
con Heath Ledger… Quei due sono uno più
meraviglioso dell’altro. Ma poi ho visto quasi tutti i suoi
film, me ne mancheranno uno o due che non sono riuscita a trovare in
videoteca e…”
“Sapevo che era un errore.”
“Cosa?” domandai, interrotta nel mio delirio da
innamoramento platonico.
“Portarti a vedere un film con Gullenhal.”
“Gyllenhaal.”
Nate scosse la testa, ridacchiando. “Sei l’unica al
mondo che sa pronunciarlo.”
“Diventerà mio marito, è ovvio che so
pronunciarlo.”
Continuammo a scherzare e prenderci in giro a vicenda per tutto il
resto del viaggio fino al cinema, dove Nathan insistette per pagarmi
biglietto e popcorn. Fu una serata talmente piacevole che mi dimenticai
di essere già uscita in passato con lui, tanto sembrava una
persona diversa. Dopo il film facemmo una passeggiata sul lungomare di
Beachmont e prendemmo un gelato, sempre continuando a chiacchierare con
leggerezza di qualsiasi cosa.
Nate non era il tipico belloccio, ma mi resi conto che comunque stava
cominciando a piacermi, anche fisicamente. Era alto, con occhi e
capelli scuri, aveva un fisico asciutto che a prima vista non sembrava
troppo atletico, il suo viso era un po’ affilato e, quando lo
prendevo in giro, faceva un sorriso timido e distoglieva lo sguardo in
un modo che trovavo adorabile. Intuii di piacergli a mia volta dal modo
in cui mi guardava, dal fatto che durante il film ogni tanto si girava
per sbirciare il mio viso, o anche le mie gambe, per la
verità. Capii di piacergli davvero quando vidi che non aveva
quasi paura di avvicinarsi troppo a me, come se temesse di essere
respinto.
Arrivammo a casa mia che ancora non aveva avuto il coraggio di provare
un approccio diretto, anche se ci eravamo già baciati
l’anno precedente. Perciò, quando
accostò la macchina al marciapiedi e alzò su di
me uno sguardo esitante, decisi di farmi avanti io, prima di perdere
tutta l’audacia che sentivo in quel momento. Mi avvicinai
lentamente a lui e lasciai che le mie labbra toccassero le sue, per poi
approfondire il bacio e sporgermi di più verso di lui, per
quanto l’abitacolo dell’auto me lo permettesse. Il
cuore mi martellava forte in gola quando mi allontanai di poco e gli
sorrisi, notando la stessa espressione stupefatta e felice sul volto di
Nate, che si riabbassò per darmi un altro veloce bacio sulle
labbra prima di scostarsi del tutto.
“È meglio se vai,” disse quindi, senza
smettere di sorridere.
Rimasi stupita dalle sue parole, mi pareva stesse andando tutto
più che bene, e boccheggiai appena senza sapere come
replicare, un po’ ferita. Nathan capì che avevo
frainteso e mi indicò la casa alle mie spalle con il mento,
spiegandosi meglio.
“Si è appena accesa una luce sul
portico.”
Risi. “Ah, cavolo, sarà papà.
Sì, vuol dire che devo andare.”
Lui tornò verso di me e mi lasciò un ultimo bacio
sulla guancia. “A domani.”
“Grazie per la bella serata.” Erano parole che mi
uscivano quasi in automatico, ma quella volta le intendevo davvero.
“Buonanotte.”
“Notte Delia.”
La mattina seguente entrai a scuola con il sorriso ancora stampato
sulle labbra, sorriso che però si gelò dopo
appena pochi passi in corridoio, quando mi si parò davanti
agli occhi una scena inaspettata e che trovai, in tutta
sincerità, anche un po’ deprimente. Passando
davanti all’armadietto di Matt, infatti, non potei fare a
meno di voltare gli occhi nella direzione in cui immaginavo ci sarebbe
stato lui, indecisa se avrei voluto vederlo o meno. Lui, in barba alla
mia indecisione, era ovviamente lì, ma non era solo.
Appoggiata a un armadietto lì di fianco, Hillary Kane
sbatteva le lunghe ciglia e rideva compiaciuta a una battuta che
probabilmente lui aveva appena fatto, ma stavolta Patterson non
sembrava infastidito dalla sua presenza, né aveva
un’aria indifferente come da sua abitudine. Al contrario, se
ne stava appiccicato a lei, tanto vicino che all’inizio
faticai a credere che fosse davvero lui, che di solito stava per conto
proprio. Ma non c’erano dubbi, era Matt Patterson quello che
ora flirtava così apertamente con la Kane, che si lasciava
spostare da lei un ciuffo di capelli dalla fronte, che le si avvicinava
per dirle qualcosa all’orecchio, che le sorrideva con
quell’angolo della bocca piegato
all’insù, divertito e un po’ malizioso.
Poi Matt voltò appena la testa e per un secondo i suoi occhi
incrociarono i miei. Mi vide, non si scompose, tornò a
girarsi verso la Kane – ma
non la odiava? – e si
abbassò per lasciarle un bacio sulla guancia prima di
sistemarsi lo zaino sulla spalla e incamminarsi dandomi la schiena.
Solo a quel punto mi accorsi di essermi fermata in mezzo al corridoio
e, ripensandoci, mi resi conto che Patterson non mi aveva nemmeno
rivolto un saluto, cosa che un anno prima sarebbe stata normale, ma che
non era più accaduta negli ultimi mesi.
Era normale che avessi percepito quella specie di stretta allo stomaco
nel vedere la scena? E che ci rimanessi male perché Matt non
mi aveva salutato? Il mio inconscio decise che era meglio non farsi
certe domande, decise che la stretta allo stomaco non era altro che
nausea, decise che non me ne importava nulla.
Anche ora che sono passati anni da quel giorno, faccio ancora fatica ad
accettare la verità. So che la mia reazione
dell’epoca diceva più cose di quelle che ero (e
sono) disposta ad ammettere, ma ho passato tanti di quegli anni nella
convinzione più totale di aver sempre odiato Patterson con
tutto il cuore, che rendermi conto ora di una cosa di tale portata non
è facile.
Avevo una cotta per Matt.
È difficile persino da pensare, figurarsi da mettere nero su
bianco. A diciassette anni avevo una cotta per Matt, sfociata
probabilmente dal fatto che in quel periodo ci eravamo avvicinati
parecchio. Era di sicuro una cosa immatura e irrazionale e di poca
importanza, tanto che è svanita subito. Non ho
più nessun tipo di cotta, di sbandata o di debolezza per lui
da diversi anni, ne sono convinta. Lo so. Sto solo cercando di
dimostrarlo.
Boom! Lo so, non è una gran rivelazione, noi lo sapevamo
già da un po', ma per la povera Delia è uno choc,
cercate di capire. ^^ Come al solito vorrei evitare di perdermi in
chiacchiere, ma siccome (anche) stavolta il risultato finale del
capitolo non mi piace per niente, vorrei dare due spiegazioni.
Mi dispiace che dobbiate sorbirvi dei pezzi, come questo, che sono di
passaggio, ma, come credo di aver già specificato in
precedenza, non so scrivere in altro modo se non così. Ho
bisogno di dare spiegazioni, lavorare sulla coerenza dei comportamenti,
e in particolare in una storia come CA, che si svolge
in un periodo di
anni, in cui c'è una crescita dei personaggi e alcuni
inevitabili salti temporali, non riesco a fare a meno di scrivere anche
queste parti. Se il capitolo vi ha fatto schifo, oltre che pregarvi di
farmelo sapere (recensioni, please, mi servono davvero tento tanto!),
forse
vi può consolare il fatto che nel prossimo si
andrà un po' più svelti.
Raccontare questi momenti mi serviva appunto ad arrivare al finale,
dove la Delia del presente (a cui sono successe nel frattempo delle
cose
che vedremo anche più avanti) capisce che la Delia del
passato aveva (già)
una cotta per quel piccolo scemo di
Matt. Il perché credo sia chiaro, come credo sia chiaro il
fatto che Delia, all'epoca, ha "ripiegato" su Nate pur di evitare di
affrontare la cosa (cliché, lo so, avevo detto che la storia
ne sarebbe stata piena). Nate, nonostante tutto, avrà
comunque un ruolo importante nella sua vita e nella sua crescita
personale, ma mi fermo qui con gli spoiler.
A proposito del dialogo in giardino con Nate, invece, volevo scusarmi
se suona forzato e un po' troppo "telefonato", ma per una volta avevo
bisogno di far dare delle spiegazioni ai personaggi senza troppi giri
di parole, senza che ogni atteggiamento risultasse criptico.
C'è già Matt che mi dà del filo da
torcere in quel senso, maledetto lui. Voi che ne pensate? Avete trovato
alcuni dialoghi troppo inverosimili? Quello con Matt? Con Nate?
Ultime precisazioni sul capitolo prima di salutarci.
- I film nominati durante il capitolo sono usciti tutti nel 2007.
Finora non ho dato una collocazione temporale precisa alla narrazione,
ma può benissimo essere, per ora, quel periodo. In
realtà mi piaceva l'idea di inserire Zodiac
perché è un film che ho nominato anche in Of
all
the people in the world, la storia da cui prende
il via questa, tutto
qui. Ah, essendo il 2007, Heath Ledger, pace all'anima sua, non era
ancora morto, quindi non ne ho fatto menzione.
- Anche Melanie Frayer, la ragazza di cui parlano nella scena in mensa,
era già nominata in Of
all, per la precisione nelle
primissime righe, e la nomina proprio Dee, sconvolta del fatto che (nel
futuro rispetto a questa storia) esca con George Peterson, la sua cotta
del liceo.
- Hillary Kane, invece, è la ragazza che aveva
già chiesto a Matt di andare al ballo con lei l'anno
precedente. Faccio passare un sacco di tempo tra un capitolo e l'altro,
quindi trovo ovvio che qualcuno possa non ricordare queste cose!
- Il titolo del capitolo l'ho copiato da una frase di Men in Black, mi
pare. In realtà cercavo qualcosa che avesse quel
significato, ho trovato quella citazione e, anche se un po' lunga, mi
pareva adatta. Letteralmente: Non
fare domande di cui non vuoi sapere
la risposta. Delia docet.
Credo di aver finalmente detto tutto! Grazie mille dell'attenzione e
dell'amore con cui seguite la storia, soprattutto a Evelyn 98 che ha
recensito lo scorso capitolo e i precedenti: <3
Aspetto con ansia i vostri commenti. Un bacione grande!
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